IX. Stile nazionale e avanguardie di frontiera
Il proverbiale rifiuto del museo da parte dei futuristi rispose alla ragionevole necessità di privilegiare, nell’opera d’arte moderna, il flusso vitale e le costanti energie rinnovatrici d’uno stile sperimentale. L’iconografia futurista ambiva a un radicale mimetismo della società contemporanea; più che la composta stasi di forme prestabilite, contarono per essi le forme liberate della materia in incessante mutazione («Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale», così nel Manifesto tecnico del 1910). La critica al museo non rispose solo al più superficiale e vieto «passatismo»; era anche la forma allegorica più compiuta di questa attitudine. Ripudiare la tassonomia storica del museo e il suo implicito discorso di autorità fu il gesto più naturale per difendere l’autenticità espressiva e coltivare un’attitudine libertaria. Negare le possibilità della critica come forma di mediazione letteraria tra oggetto e pubblico divenne il necessario corollario. L’opera doveva comprendere in sé la propria storia, da intendersi come prodigioso rispecchiamento d’una clamorosa e inedita attualità poetica, e la propria critica, da prodursi come effetto integrativo previsto dell’autore stesso. La merce estetica era incoraggiata a fluire entro lo schema produttivo e distributivo, al pari delle altre merci. La legge della parola-come-réclame prevedeva infine il punto di vista esterno del giudicante solo in quanto figura di antagonista, da affrontare con l’agonismo verbale d’una prestazione apodittica. Non molto altro, altrimenti, si capirebbe dell’egocentrismo d’un Boccioni, o di Papini al netto delle esibizioni da poseur. Giunse però il momento, nell’arco d’una generazione o anche meno, in cui opere e parole così amministrate vennero disposte al