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IX. Stile nazionale e avanguardie di frontiera

IX. Stile nazionale e avanguardie di frontiera

Il proverbiale rifiuto del museo da parte dei futuristi rispose alla ragionevole necessità di privilegiare, nell’opera d’arte moderna, il flusso vitale e le costanti energie rinnovatrici d’uno stile sperimentale. L’iconografia futurista ambiva a un radicale mimetismo della società contemporanea; più che la composta stasi di forme prestabilite, contarono per essi le forme liberate della materia in incessante mutazione («Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale», così nel Manifesto tecnico del 1910).

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La critica al museo non rispose solo al più superficiale e vieto «passatismo»; era anche la forma allegorica più compiuta di questa attitudine. Ripudiare la tassonomia storica del museo e il suo implicito discorso di autorità fu il gesto più naturale per difendere l’autenticità espressiva e coltivare un’attitudine libertaria. Negare le possibilità della critica come forma di mediazione letteraria tra oggetto e pubblico divenne il necessario corollario. L’opera doveva comprendere in sé la propria storia, da intendersi come prodigioso rispecchiamento d’una clamorosa e inedita attualità poetica, e la propria critica, da prodursi come effetto integrativo previsto dell’autore stesso. La merce estetica era incoraggiata a fluire entro lo schema produttivo e distributivo, al pari delle altre merci. La legge della parola-come-réclame prevedeva infine il punto di vista esterno del giudicante solo in quanto figura di antagonista, da affrontare con l’agonismo verbale d’una prestazione apodittica. Non molto altro, altrimenti, si capirebbe dell’egocentrismo d’un Boccioni, o di Papini al netto delle esibizioni da poseur.

Giunse però il momento, nell’arco d’una generazione o anche meno, in cui opere e parole così amministrate vennero disposte al

vaglio della storia e della critica, con i loro strumenti. Venne anche per il futurismo il momento in cui il flusso espressivo spontaneo si trovò regolato da interventi pianificati; l’eteronomia ricondotta a norma; l’arbitrio delle logomachia riportato al vaglio della critica. Nell’arco di poco tempo, nel corso degli anni Venti, la normalizzazione del futurismo seguì quella del diciannovismo, in politica.

Unico personaggio di rilievo nazionale presente alla fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919, Marinetti se n’era presto allontanato, ravvisandovi tratti reazionari; i pamphlet Democrazia futurista (1919) e Al di là del comunismo (1920) portarono stravaganti argomenti al suo ragionamento «politico». L’incontro del futurismo con il fascismo non era destinato a durare a lungo, a causa del conflitto tra il realismo di Mussolini e la spinta utopica dei futuristi che, come è stato osservato, «sfociò, nelle ultime manifestazioni del futurismo politico, in una vera e propria professione di fede anarchica e di totale disprezzo per la politica»1. Per qualche anno Marinetti tornò a elucubrazioni liriche e teoriche, la cui portata rimane evidente sin dai titoli (il Tattilismo, il Teatro della sorpresa, L’Alcova elettrica). Mussolini saldo al potere, Marinetti nel 1925 prese casa a Roma, e qui s’industriò a promuovere il movimento futurista. In qualità di precursore ideologico della rinascita del genio italiano, il poeta non aveva avuto remore a pubblicare all’inizio del 1923 un Manifesto in difesa dell’italianità, dove richiedeva il riconoscimento e il finanziamento ai futuristi, in quanto garanti della rinascita e della supremazia culturale italiana. Infaticabile, cercò il consenso del nuovo governo; motivi per negarlo, al querulo e ormai inoffensivo poeta, non ve n’erano. Lo spazio dell’eversione diviene istituzionale; ai pittori futuristi vennero riservate le quote «d’avanguardia» negli spazi espositivi di Sindacali, Biennali e Quadriennali governative.

Con il Manifesto dell’Aeropittura Marinetti intuì le potenzialità insite nella mitologia dell’aviazione, che andava a sostituire quella, ormai obsoleta, dell’automobile. Nel 1932 comparve pure un Manifesto dell’arte sacra futurista; Marinetti chiarì che il suo movimento restava «nettamente antimassonico e anticlericale»,

1 E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna, Il Mulino, 1996, p. 187; un quadro generale della situazione postbellica del futurismo si legge ora in D’Orsi, Il futurismo, cit., pp. 145 sgg.

ma ai suoi accoliti non andava impedita la presenza all’interno delle chiese: per creare capolavori d’arte sacra, a suo dire, non era necessario praticare la religione cattolica. Quel che il manifesto sottaceva era, naturalmente, la ricca posta in gioco d’investimenti e appalti per l’edilizia e la decorazione sacra dopo il Concordato.

Il poeta giunse così a varcare le soglie dell’Accademia d’Italia, nel marzo 1929, accumulando dietro sé un panorama di macerie; man mano, se n’erano andate le pregiudiziali antimonarchiche, l’esplicito ribellismo anarcoide, la vocazione libertaria e l’antiborghesismo di facciata che, come sappiamo, aveva illuso anche uno spirito fino come Gramsci, convinto ancora nel 1921 d’avere a che fare con un rivoluzionario2 .

Bastarono i pochi studi d’una generazione un po’ meno sprovveduta della precedente per rettificare giudizi e collocare il tutto in una più sobria prospettiva, a partire naturalmente da quell’estraneità alle cose d’arte imputata dal Croce3. Il giovane Francesco Flora se n’era occupato con uno studio, uscito in sordina nel 1921 (ma segnalato prontamente su «La Critica»), quindi ristampato cinque anni dopo, dove si ravvisava nel movimento «l’esasperazione della crisi ultraromantica»4. Un prete modernista e di sentimenti carducciani, Vincenzo Schilirò, diede alle stampe nel 1932 un pamphlet singolarmente chiarificatore: Dall’anarchia all’accademia.

La parabola trovò il suo compimento nella voce che l’Enciclopedia Italiana dedicò nel 1933 al movimento. La redazione fu dello stesso Marinetti. Il futurismo venne definito «movimento artistico-politico svecchiatore, novatore, velocizzatore», ove «la propaganda artistica si alternava a quella politica». Poi l’autore ricordò il tributo di sangue nella Grande Guerra, la precoce presenza dei futuristi a fianco di Mussolini nei primi Fasci e alle elezioni del 1919, la partecipazione all’impresa di Fiume e alla marcia su Roma. Episodi non privi di rimozioni di comodo e di memorie selettive, certo; ma ancor più evidenti erano i punti su

2 A. Gramsci, Marinetti rivoluzionario?, «L’Ordine Nuovo», I, n. 5, 5 gennaio 1921, ora in Socialismo e fascismo. L’ordine nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1978, pp. 20-22. 3 B. Croce, Il futurismo come cosa estranea all’arte, «La Critica», XVI, 1918, pp. 383-384. 4 F. Flora, Dal Romanticismo al Futurismo, Piacenza, Porta, 1921 (poi Milano, Mondadori, 1925); cfr. la recensione di G. Catania, «La Critica», XX, 1922, p. 171.

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