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Impressionismo visivo
utile innanzitutto porre in rilievo la sua presenza, in qualità d’immagine simbolica e crittografata. Il paesaggio della regione, come figura condensata e immaginaria del teatro di guerra, si contrae ad una cartografia sommaria. Essa è partecipe all’artificio multiprospettico del «quadro nel quadro» e delle misteriose scatole degli interni carraiani (e dechirichiani) del tempo.
Questo escamotage è un tratto distintivo del Carrà di questo periodo, e solo di questo. Siamo abituati infatti a leggere i paesaggi degli anni Venti di Varallo, del Cinquale, della Valsesia, come motivi pittoreschi, disponibili all’elegia dei sentimenti. Precisamente quanto, insomma, l’esperienza della guerra dichiarava come impossibile. Su questo piano, la cartografia di Carrà offre una conferma a un dato emerso da tutti gli studi in materia: l’indisponibilità dell’esperienza di guerra a una qualsiasi traduzione pittorica.
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Impressionismo visivo
Soffici era stato mobilitato nel 1915. A differenza di Carrà e De Chirico il fronte friulano e giuliano lo conobbe direttamente. Partì da Udine verso il fronte nel maggio del 1916, non prima di aver dipinto un piccolo Paesaggio a Chiavris che resterà il suo unico quadro documentato negli anni di guerra13. La sua esperienza al fronte venne consegnata a due memorabili libri, Kobilek e La ritirata del Friuli.
Kobilek è il diario che Soffici tenne durante la battaglia per la conquista dell’omonimo colle sulla Bainsizza, nell’agosto del 1917. Rimasto ferito ad un occhio, Soffici approfittò del ricovero nell’ospedale di Cormons per mettere in ordine le note sparse. Il testo venne pubblicato dapprima in quattro puntate sulla «Nazione» nel settembre 1917, amputato dalla censura e col titolo Al fronte con la brigata «Firenze» (Giornale di guerra di Ardengo Soffici). Venne immediatamente composto nella tipografia di Val-
13 G. Raimondi, L. Cavallo, Ardengo Soffici, Firenze, Vallecchi, 1967, n. 229, con una scheda in Ardengo Soffici. Arte e storia, catalogo della mostra, a cura di O. Casazza e L. Cavallo, Milano, Mazzotta, 1994, n. 54; di altri quadri vi è solo notizia, cfr. A. Soffici, Lettere a Prezzolini, 1908-1920, Firenze, Vallecchi, 1988, p. 116, da Udine, 25 aprile 1917: «Ho ricominciato a lavorare: ho già fatto altri due quadri ed ho la testa piena di molti altri».
lecchi per la pubblicazione in dicembre, ma la stampa del volume slittò alla fine di marzo del 1918. La prima tiratura si esaurì in un mese. Soffici confermò a Papini che Kobilek era inteso come un vero libro di storia, più che un semplice memoriale.
Già nelle settimane successive alla disfatta di Caporetto Soffici maturò l’idea e il titolo della Ritirata del Friuli. Nell’inverno successivo iniziò il lavoro di riordino degli appunti, che si prolungò per tutto il 1918. Il memoriale venne pubblicato nel 1919.
Nel loro insieme, i volumi costituirono due fra le più notevoli testimonianze di letteratura prodotta al fronte, insieme al Porto sepolto di Ungaretti e a Nostro purgatorio di Antonio Baldini14 .
Un tratto caratteristico delle pagine di Soffici sulla Grande Guerra in Friuli è il conflitto con la realtà brutale del combattimento. Più che mettere in crisi il proverbiale impressionismo visivo dell’autore, l’esperienza di guerra costituiva una sfida da condurre sul piano di uno stilismo sublimato, che poteva rasentare l’ironia, come l’autore stesso confidò a Papini: «La terribilità di tutto quello che si può vedere è talmente grande che rasenta il comico. Volevo anzi scrivere qualcosa intitolato L’umorismo del Podgora»15 .
Ma ecco cosa restituirà la pagina scritta a seguito dell’esperienza, un anno dopo, con la battaglia sul Kobilek:16
Sopra un mucchio di membra maciullate, un uomo giaceva, scontorto, le cosce trebbiate, il petto squarciato e livido tra i brandelli della giubba arsa. Non aveva più faccia, ma, dalla gola alla fronte, una specie di piaga sanguinolenta, una poltiglia di carne nericcia e d’ossi infranti, dove non si riconosceva che il gorguzzole ritto, simile a un saltaleone rosso in quella fanghiglia, e l’arco biancheggiante delle orbite vuote.
È un catalogo lugubre, non dissimile a quello redatto dallo sguardo spietato d’uno Jünger, ma con una fedeltà impressionante, nel suo cinismo, a un compiaciuto registro pittoresco: si direbbe una macabra natura morta.
14 E. Bellini, Soffici, Ungaretti e la guerra, in Studi su Ardengo Soffici, Milano, Vita e Pensiero, 1987, pp. 123 sgg. 15 Papini, Soffici, Carteggio III, cit., p. 76, Soffici a Papini, 21 novembre 1916. 16 A. Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia (Firenze, Vallecchi, 1918); cito, con riscontro sugli originali, dall’edizione moderna congiunta a La ritirata in Friuli: A. Soffici, I diari della grande guerra, a cura di M. Bartoletti Poggi e M. Biondi, Firenze, Vallecchi, 1986, p. 142.
Toni analoghi si ritrovano nella Ritirata del Friuli. Ma il paesaggio, devastato dalle rovine od oltraggiato dal freddo e dalle intemperie, sembra riflettere l’umore nero e fiaccato della truppa. Porto come esempio lo spettacolo di pena e d’incuria offerto a Soffici da un reggimento di stanza a Ipplis:17
La pioggia era cessata e siamo dunque discesi a piedi per le stesse terribili viottole, divenute ormai come fossi di melma. Da un lato e dall’altro, nei campi a terrazza, vedo le file di tende piantate lungo i filari, e fra quelle molti soldati che si muovono scioperati e torvi affondando i piedi penosamente in un meticcio giallo, una broda che quell’andare e venire rende sempre più liquida e abbondante.
Non è dissimile l’immagine d’un acquartieramento lungo la strada di Prepotto. I soldati erano abbrutiti dalle ripetute corvée in una natura resa ostile dal maltempo incessante18:
Siamo entrati in un largo cortile allagato di meticcio nero, nel quale parecchi soldati del plotone del collega, vestiti di panni umidi e logori, stavano lavorando, chi a spaccar legna chi a mondar patate, chi a trasportar tronchi d’albero e bandoni da trincea per la riparazione delle cucine mezze distrutte dall’acquazzone. Consistono, quelle cucine, in una tettoia sbilenca formata di latta di bombole disfatte, di assicelle, di frasche e di cartone incatramato, e sotto la quale, in fornelli di sassi e di terra sono allineate in bilico le marmitte ammaccate e fuligginose. Il vento e la pioggia, che penetravano da ogni parte da fessure enormi, soffocavano il misero fuoco di legna bagnata, ricacciando per il cortile l’acre massa del fumo entro cui si movevano rabbiosamente i cucinieri scamiciati e luridi.
La parola scritta non rivaleggia più con la pittura: ne è, ora, l’unica possibile sostituta, il solo strumento in grado di fissare e restituire la dimensione visiva di una simile esperienza.
Tali, allora, le ragioni della singolare persistenza di sonorità stilistiche di sorprendente freschezza. Esse emergono come una sorta di misurato controcanto delle pagine più fosche e torve, alternando squarci radiosi e giungendo non di rado al paradosso dell’idillio. Come esempio, ecco la tersa descrizione di un’altura: «Mi rallegra invece la bellezza di questi siti, la frescura verdeggiante della valletta che traversiamo, rigata di acquitrini, di vivi
17 A. Soffici, La ritirata del Friuli (Firenze, Vallecchi 1919), ivi, pp. 222-223. 18 Ivi, p. 226.
ruscelli che corrono fra l’erba e i sassi lungo boschetti intricati di noccioli, di acacie, di pioppi palpitanti nella luce dorata»19 .
Oppure, come pausa nel delirio di folla e carri durante la rotta, si apre un brano di paesaggio appena fuori Spilimbergo:20
Pace di paese e d’uomini. Era presso al tramonto, e sulle facciate delle ultime case, sugli alberi e sulle viti in ghirlanda, che l’autunno imbiondiva, una languida luce di sole color di rosa si riposava, s’indugiava in trasparenze ariose e dolci, svariate d’ombre tenui che ne aumentavano lo splendore. Sulle erbe tenere, sulle zolle rossigne delle prode, larghe chiazze di sole si distendevano immote, con quel mesto abbandono che intenerisce soavemente l’anima nelle ore e nelle stagioni estreme.
In tutte le pagine de La ritirata del Friuli il paesaggio vive nella costante polarità tra elegia della natura e dramma umano, e sembra rispecchiare l’intera struttura della contrapposizione fra ambiente e tecnica, vita e morte. Essa raggiunge il suo apice nel disperato referto della rotta, tanto nella comunicazione epistolare quanto nella pagina stampata21:
Uno scoramento atroce, una specie d’ebetudine s’è impossessata di me. Non sento che il dolore quasi carnale di doverci staccare da quest’altro lembo di questo paese delizioso. Ho l’ossessione di tutto quello che abbiamo perso; vedo le città, i paesi, i monti, le campagne, le strade, di là, tutto il meraviglioso, diletto Friuli come immerso in una luce d’oro; il fiume, una lucente zona di sogno. Questi campi, poi, sono come una parte del mio corpo che stiamo dilaniando.
Nel brusco rovesciamento delle sorti di guerra, l’elegia del paesaggio perduto è contrapposta al senso della tragedia. Questo è quanto Soffici osserva nei dintorni del Castello di Domanins22:
Dolce e malinconica immagine di questo paese divino. La sua bellezza è tanta che fa pena. Il cielo e la terra splendono in una luce bionda, fresca, leggera che conferirebbe ai più felici pensieri, e contrasta invece crudelmente col buio e la tristezza dei fatti di quest’ora. I campi abbandonati si distendono alla carezza del sole, quasi voluttuosamente, le stoppie brillano,
19 Ivi, p. 228. 20 Ivi, p. 296. 21 Ivi, p. 328. 22 Ivi, p. 330.
i pampini, le foglie, le erbe, i fiori autunnali sfoggiano a gara i loro colori ardenti, vari, doviziosi.
Da regesto visivo la descrizione del paesaggio diviene traccia di un’esperienza personale: «Ho errato per le viottole, lungo i filari smaglianti, vicino ai muri chiari e tepenti. Mi son disteso su una proda d’erba secca e profumata. Sopra di me il cielo si approfondiva e si allargava come un gurgite infinito di luce bianca. Vi ho fissato gli occhi per dimenticare il mio pensiero»23 .
E ancora, in un ultimo sguardo struggente dal Castello di Conegliano verso la pianura orientale, prima di riparare oltre il Piave24:
Sotto di noi, dalla parte opposta del paese, collinette, poggioli, piccole valli, fra altura e altura, coperte di viti, di olivi, di boschetti, popolate di case e ville bianche, splendenti, intersecate di strade e stradette apparenti e sparenti fra luci e ombre, svariate di terre lavorate, d’orti e di freschi prati si spiegavano nel sole, fino ai monti lontani tutte vestite nei più gloriosi colori della stagione estrema.
Falde scarlatte, porporine, vermiglie scendevano dalle cime giù per i fianchi delle pendici; cumuli d’oro si ammassavano nelle insenature, traboccavano da’ muri e dalle siepi; zone e chiazze di viola, più o meno chiare a seconda dell’ondulazione de’ terreni e il folto delle piantagioni, rigavano e maculavano il largo prospetto. E alternate con quelle nell’infinita armonia delle mille e mille sfumature che ne resultavano, gruppi cupi e immobili di lecci e di cipressi.
Se abbiamo citato a lungo queste pagine non è soltanto per allestire un repertorio di geografia letteraria, né per voler insistere più del dovuto sulle evidenze di una polarità tra idillio e tragedia, esperienza della morte (Kobilek) e poesia della memoria (Ritirata del Friuli).
La scrittura di Soffici adempie qui a una funzione sostitutiva. Il codice descrittivo della realtà vissuta, come esperienza vitale nel paesaggio, sembra intraducibile nelle forme della pittura e vive soltanto nell’annotazione del diario.
Questa polarità non è tratto tipico soltanto dell’elaborazione letteraria, ma appare ugualmente nella scrittura epistolare,
23 Ibid. 24 Ivi, p. 338; Papini, Soffici, Carteggio III, cit., p. 133, Soffici a Papini, 7 novembre 1917.
quando ad esempio Soffici, ritornato nella Udine liberata, tratteggia a Papini la più netta contrapposizione tra il pittoresco mercato di San Giacomo, brulicante di folla che ha ripreso a vivere, e il «cafarnaum impressionante lugubre ed eroico» del vallone di Doberdò25:
Figurati una gola tetra fra montagne di sasso […] nelle quali sono incastonate capanne di legno, di sassi, di stipa, di ferro simili ad abitazioni trogloditiche in ruina e piene di oscuri misteri. Il fondo del vallone è pieno di cimiteri con migliaia di croci in fila fra i quali qualche contadino rimasto ha già ricominciato a tracciare i suoi solchi nella terra rossa e grassa. Poveri e neri campicelli più tristi ancora dei cimiteri.
Una traduzione nella stilistica letteraria era ancora possibile, nella misura in cui la descrizione nitida e oggettiva emendava, come si è visto, i tratti dell’ormai consunta retorica interventista, ricomponendo il dissidio tra arte e realtà. Per questa via, che è poi quella d’una composta sofisticazione iperletteraria, Soffici sfidò l’impraticabilità pittorica del paesaggio friulano come topos visivo. Nel caso del dipinto di Carrà, l’immagine riconoscibile si riduceva a crittografia e simbolo, sfidando al tempo stesso la visibilità dei luoghi e la nominabilità dei toponimi. È noto che la corrispondenza personale prevedeva l’obbligo di indicare, semplicemente, «zona di guerra». Per poter comunicare a Papini la città da cui inviava le sue missive, aggirando i divieti del regolamento, Soffici escogitò il trucco d’inserire nel poscritto di alcune lettere un acronimo. «Uno degli imbecilli non esiste» indicava Udine, per l’appunto26 .
Indisponibile a una traduzione visiva, incapace di istituire simbologie pittoriche condivisibili, l’esperienza di guerra abbandonava le indicazioni «fatali» della retorica nazionalista (Gorizia, Trieste, il Carso, l’Isonzo). La geografia del teatro bellico venne tradotta in crittografia, e così anche, quando fu il momento, l’esperienza di guerra: «il mio diario di guerra è una cosa impossibile», annotò Gadda27 .
25 Ivi, p. 187, Soffici a Papini, 2 dicembre 1918. 26 Ivi, p. 47, Soffici a Papini, 9 maggio 1916. 27 C.E. Gadda, Il Castello di Udine (1934), Milano, Garzanti, 1999, p. 41.