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Interventismo lacerbiano
nevano essere le ragioni dei contendenti: «La presente guerra non è soltanto d’interessi e di razze ma di civiltà. C’è un tipo di civiltà contro un altro. O meglio alcuni tipi di civiltà contro un tipo solo che ha dominato per quaranta anni l’Europa; il tedesco»9 .
Era in atto qualcosa più di una vicenda politica: si trattava, confermò Soffici, dello scontro di due civiltà e due modelli di cultura: una dei «buoni europei», l’altra delle razze teutoniche. Semplificando, pose anch’egli da un lato la civilità «latina-britannicaslava», dall’altro quella tedesca. Questa distinzione per Soffici era valida per la pittura, la poesia, la letteratura in qualche termine riferibile alla civilizzazione «gotica» e tedesca10 .
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Già in precedenza, commentando i moti del giugno 1914, Papini aveva ammonito che quelle ormai non erano più «ore da letteratura». Era invece necessario porsi nuovamente a diretto contatto con un’Italia che il già sprezzante e aristocratico polemista fiorentino dichiarava, ora, di amare. Un engagement dai toni non nuovi, per il nazionalista redattore de «Il Regno»: ma si trattava anche, ora, di disinnescare la pericolosa equivalenza tra il formalismo della pura ricerca artistica lacerbiana e il deprecato disimpegno, come già aveva malignato «La Voce»11 .
L’invasione del Belgio neutrale colpì anche il fronte dei neutralisti, e fece parlare apertamente a tutti di «barbarie»12. Il conflitto
9 G. Papini, Il dovere dell’Italia, «Lacerba», II, n. 16, 15 agosto 1914, p. 243; sull’interventismo lacerbiano si veda A. D’Orsi, Il futurismo tra cultura e politica, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 87 sgg.; ma è opportuno il richiamo alle fondamentali pagine di E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 339. 10 Soffici a Papini, Poggio a Caiano, agosto 1914, cit. da Futurismo a Firenze (1910-1920), catalogo della mostra, a cura di G. Manghetti, Firenze, Sansoni, 1984, p. 119. 11 G. Papini, I fatti di giugno, «Lacerba», II, n. 12, 15 giugno 1914, p. 178; cfr. Partiti e gruppi italiani davanti alla guerra, «La Voce», VI, n. 17, 28 settembre 1914, pp. 4-10: «La civiltà e l’Italia sono degli ideali, ai quali un egoista che sia convinto delle predicazioni di “Lacerba” non può dare retta. Ma un paese che ha avuto il buon senso o la fortuna di non dar retta totalmente a quei pacifisti e a quei futuristi, e che perciò si ritrova un poco armato e organizzato, oggi che si tratta di affari seri e non di sogni sentimentali o di letteratura e di estetismo, va per la sua strada senza badar né a questi né a quelli». 12 R. Rolland, Protesta per la distruzione di Lovanio, «La Voce», VI, n. 17, 13 settembre 1914, pp. 1-4. Ben più delle parole del promulgatore dell’au-dessous de la mêlée valsero però i proclami d’un Charles Maurras: «Le Français se réconciliant, l’esprit français reprend de ses devoirs», «L’Action Française», 3 aôut 1914, p. 11 (poi in Id., Heures immortelles, 1914-1919, Paris, Nouvelle Librairie Française, 1932, p. 11).
aveva preso la forma di uno scontro tra civiltà irriducibilmente diverse. Si posero in risalto le differenze storiche, culturali e filosofiche, fino a far emergere una linea discriminatoria priva di compromessi e tesa a separare nettamente il campo della civiltà da quello dei suoi nemici. Questa rabbiosa antitesi rispecchiava gli schieramenti interni: la cultura germanica era infatti apertamente ammirata da quei settori politici, come la Destra, e da quegli orientamenti culturali, come la tradizione filologica-erudita o il pensiero crociano, contro cui il futurismo era naturalmente contrapposto. Le voci dissenzienti, come ad esempio quelle del Borgese della Nuova Germania, che auspicava una comprensione effettiva dell’eredità del Romanticismo tedesco contro la «nevrosi artistica francese», apparivano minoritarie; d’altra parte, i suoi moderati e piuttosto farraginosi articoli parevano fatti apposta per sobillare la risposta degli estremisti13 .
L’urgenza del momento dettò infatti al nucleo futurista e lacerbiano pagine istigatrici e certamente frettolose. In una lunga lettera a Papini, Prezzolini lamentò la confusione tra ciò che s’intendeva per «civiltà» e «i propri gusti contemporanei». Una rivista come «Lacerba» a suo giudizio stava dando prova d’un semplicismo ripugnante: invocando la difesa dell’Italia e dell’italianità, Papini cadeva in contraddizione con quanto aveva espresso per anni. Lo scambio epistolare che ne seguì costituisce, ancora oggi, uno dei migliori capi d’accusa all’irresponsabilità e alla mancanza di senso civico di quegli intellettuali che vollero scambiare la libertà di pensiero con l’arbitrio, l’individualismo con l’egocrazia, l’esercizio critico con un compiaciuto scetticismo immorale14 .
In effetti, nelle pagine della rivista la polemica artistica fu stravolta a oratoria tribunizia; la forma aforistica e il frammento, sin
13 G. A. Borgese, Nuova Germania, Torino, Bocca, 1909; Id., Civiltà latina e civiltà teutonica nella storia del mondo. Avversari, non odiatori della Germania, «Il Resto del Carlino», 28 agosto 1914; Id., Italia e Germania, Milano, Treves, 1915 e cfr. Id., La guerra delle idee, Milano, Treves, 1916, p. 208: «Diverrà ogni giorno più manifesto che la lunga nevrosi artistica francese e le nostre stracche imitazioni di essa erano sforzi cui noi assoggettavamo la nostra natura per applicare fino alle estreme conseguenze i principi della rivoluzione romantica tedesca, per renderci degni della nazione che in tutto primeggiava. Tornare alla nostra natura significherà in primo luogo tornare al desiderio di un’arte nettamente espressiva, ferma e chiara nei contorni, totalmente realizzata». 14 G. Papini, G. Prezzolini, Carteggio II, cit., pp. 476 sgg.
lì adoperati come esercizi di stile, generarono parole d’ordine e slogan apocalittici. Gli eroi della cultura tedesca furono ridicolizzati; l’intelligenza pareva sussistere solo nella raison illuminista; il pragmatismo di William James, impugnato come una clava, consentiva di liquidare le più complesse questioni della filosofia germanica semplicemente come indegne dell’attenzione di cui erano state oggetto15 .
La Francia, chiosò Papini convertendo i precetti di Soffici in schema politico, aveva insegnato allo spirito contemporaneo il «puro lirismo»16. Al risentimento per un Risorgimento incompiuto si sommarono i perenni motivi antiborghesi, il dichiarato odio per la barbarie tedesca, mozioni d’ordine e giustizia, discrimini estetici e comportamentali prima ancora che ideologici17 . «Una delle grandi nazioni civili – osserverà qualche tempo dopo Sigmund Freud – è diventata tanto odiosa agli altri popoli che si tenta di escluderla come ‘barbara’ dalla comunità civile, e ciò benché essa abbia da gran tempo dimostrato con contributi egregi, le sue prerogative di civiltà»18 .
La tradizione rivoluzionaria francese venne contrapposta al socialismo tedesco. Nella Francia s’identificava la patria del pensiero laico e delle libertà civili, laddove Austria e Germania incarnavano feudalesimo, militarismo e stato di repressione.
Si volle dimenticare che Gugliemo Ferrero, uno degli autori più letti e discussi dell’epoca, aveva invece saputo cogliere nella società tedesca i segni di un’effettiva riforma sociale, in grado di avviare la piena rappresentanza dei ceti produttivi. A suo giudizio, i popoli latini restavano piegati su tentativi astratti di riforme morali, scatenati dagli impulsi dell’anarchismo naturalista di Kropotkin, dal cristianesimo di Tolstoj e dall’individualismo di Nietzsche. Invece, il socialismo tedesco combatteva contro «l’agonia del cesarismo», opponendosi al governo parassitario e re-
15 G. Papini, L’eroe tedesco, «Lacerba», III, n. 3, 17 gennaio 1915, pp. 17-19; Id., L’intelligenza francese, ivi, n. 13, 27 marzo 1915, pp. 97-98. Su tale uso del pragmatismo di James, cfr. H. Stuart Hughes, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930, Torino, Einaudi, 1967, p. 115. 16 Ciò che dobbiamo alla Francia, «Lacerba», II, n. 17, 1 settembre 1914, p. 251. 17 A. Soffici, Sulla barbarie tedesca, «Lacerba», II, n. 22, 1 novembre 1914, p. 291. 18 S. Freud, Zeitgemässes über krieg und tod, «Imago», vol. 4, n. 1, pp. 1-21, 1915, cit. da Id., Opere, vol. VIII, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 123-148, 127.
pressivo, sfidando un capitalismo ancora grossolano e imperfetto a contribuire all’equilibrio e alla giustizia attraverso il lavoro. La società dell’avvenire si sarebbe basata sull’etica del lavoro delle masse: «Nelle società germaniche va succedendo quella che è la più grande trasformazione del nostro secolo: l’intelligenza perde la sua antica dominazione assoluta del mondo e deve dividerla col senso morale; il valore sociale del genio scema innanzi alla crescente forza ceativa delle masse». Un’affermazione che l’egocrazia delle avanguardie italiane non poteva certo sottoscrivere, anche se Ferrero, correttamente, aveva compreso la natura collettiva della costruzione sociale: «La civiltà diventa sempre più un’opera collettiva; e questa opera cresce di grandiosità e perfezione, quanto più si affina non l’intelligenza, ma il senso morale degli individui che compongono la massa»19 .
È esattamente il significato da attribuire a questo invocato «senso morale» che distinse l’interventismo futurista e lacerbiano e, in prospettiva, i suoi sviluppi postbellici.
Con maggiore lucidità politica, la contrapposizione tra latinità e germanesimo era da tempo argomento prediletto dei nazionalisti20. Per Papini, tuttavia, le motivazioni particolaristiche del partito nazionalista erano ormai obsolete. Al centro della guerra stava un motivo «ideale» strenuamente antitedesco: «Secondo me l’Italia doveva entrare in guerra per motivi generali, quasi metafisici, di necessaria difesa contro una certa cultura, una certa civiltà, una certa grandezza ostile e ripugnante che s’è fatta carne e ferro nella Germania». Papini delineava una netta opposizione fra culture latine e «kultur» tedesca, questa identificabile nello «spirito conservatore, nello spirito di casta, nel clericalismo cattolico, luterano e filosofico». A esso andava opposta una «guerra ideale»
19 G. Ferrero, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Milano, Treves, 1897, pp. 417-422. 20 E. Corradini, Il nazionalismo italiano, Milano, Treves, 1914, p. 40: «Il cerchio delle nazioni conquistatrici, cerchio economico e cerchio morale, è stretto intorno a noi che ci nutrimmo di rinunzie per utopismo filosofico, per cecità popolare e per viltà borghese. Possiamo romperlo, questo cerchio?». Un altro leader nazionalista di spicco come Alfredo Rocco rilanciava: «la razza italiana si espande, rompe i freni, che la legano al territorio della patria, ed avanza»(A. Rocco, Che cosa è il nazionalismo e che cosa vogliono i nazionalisti, Roma, Associazione nazionalista, 1914, cit. da N. Tranfaglia, La Prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, Utet, 1990, p. 25).
che doveva vedere affiancata l’Italia alla Francia «geniale», all’Inghilterra «liberale», alla Russia «pazza», per dominare la Germania21. Questo radicale contrasto si dotava anche d’argomenti assai più concreti, paventando la penetrazione economica tedesca in Italia: la critica al pangermanesimo diveniva lotta all’indiscriminata espansione politico-affaristica22. Il processo d’elaborazione dell’immagine del nemico venne così a identificare il tedesco con il borghese, il capitalista e l’imperialista.
La stampa interventista attribuì al fronte dell’Intesa un’intera costellazione di valori stereotipati. L’immagine dei paesi alleati era composta da motivi di fratellanza e condivisione di valori ideali: la comune matrice latina, il retroterra storico, la tradizione culturale. Il più celebre sostenitore di questa posizione fu senz’altro Gabriele d’Annunzio, che dall’«esilio» parigino pubblicò su «Le Figaro» del 18 agosto 1914 una Ode pour la Résurrection latine. Fino alle cosiddette «radiose giornate di maggio» il poeta fu l’instancabile bardo della «civiltà latina», non senza una pesante vena retorica.
Nell’estate del 1914 l’escalation dell’interventismo lacerbiano non conobbe soste. Nonostante il progressivo allontanamento tra il gruppo toscano e Marinetti, l’attività della rivista impose una radicale svolta all’agenda di tutti i futuristi. Anzi, fu proprio Papini a rimproverare a Marinetti l’imperdonabile silenzio, dinanzi ai primi moti, in una lettera assai esplicita: «Quest’inazione futurista fa cattivissima impressione. A Roma socialisti e nazionalisti hanno saputo fare un po’ di rumore – e voialtri a Milano niente […] Il futurismo ha in testa al suo programma l’adorazione della guerra e ora che la guerra c’è – e quale guerra! tu stai zitto e fermo?»23 .
Buona parte dell’immediata efficacia del manifesto fu nella sua tempestività. In quel momento, dopo il ritiro tedesco dalla Marna, era sfumata l’ipotesi di una rapida vittoria della Triplice alleanza. La guerra era entrata in stasi; all’opinione dei più accesi interventisti, il governo appariva smarrito, e al tempo stesso
21 G. Papini, La paga del soldato, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915; Id. L’Europa occidentale contro la Mittel-Europa, Firenze, Libreria della Voce, 1918. 22 G. Preziosi, La Germania alla conquista dell’Europa, Firenze, Libreria della Voce, 1915; sulle contraddizioni di questo modello interpretativo, cfr. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino, Einaudi, 1985. 23 Cfr. Papini a Marinetti, 17 settembre 1914, cit. da C. Salaris, Marinetti editore, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 151.
preoccupato per l’irresponsabilità di chi sobillava i moti di piazza; tra attendismo e contrasti, s’era intanto deciso il rinvio della decisione all’intervento, mentre la posizione ufficiale dei socialisti riformisti s’irrigidiva nella formula della neutralità assoluta24 .
È presumibile dunque che la divulgazione di Sintesi futurista della guerra sia stata un’operazione varata per agire su almeno tre fronti. Il primo era quello aperto da «La Voce», che con un articolo di Prezzolini comparso alla fine di agosto considerava chiusa la fase attendista della neutralità, e apriva alla doverosa necessità del conflitto, con argomenti non dissimili a un’idea di palingenesi sociale («La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie per rinvigorirsi»)25 .
Il secondo fronte era rivolto verso i nazionalisti, che stavano consolidando la campagna interventista a fianco dell’Intesa, promossa con particolare evidenza da l’«Idea nazionale» nelle prime settimane di settembre, con gli articoli di Luigi Federzoni e Francesco Coppola.
Il terzo fronte, infine, era destinato a dare una risposta alle sollecitazioni di Papini, per non trovarsi superati dal fronte interventista lacerbiano. D’altra parte, la stessa «Lacerba» proprio in occasione di quel simbolico 20 settembre, che è anche la data del volantino di Marinetti, uscì con un’edizione straordinaria aperta da un perentorio, per quanto ingenuo, ultimatum redazionale26 . Non è privo d’interesse il fatto che, a seguito dei fatti milanesi, Mussolini convocò il gruppo parlamentare socialista a Roma il 21 e il 22 settembre, avviando quelle manovre che porteranno,
24 B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla Prima guerra mondiale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, 2 voll.; per la specifica situazione milanese v. Milano in guerra 19141918. Opinione pubblica e immagini delle nazioni nel primo conflitto mondiale, a cura di A. Riosa, Milano, Unicopli, 1997; G. E. Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decise la sua guerra, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 103. 25 G. Prezzolini, Facciamo la guerra, «La Voce», VI, n. 16, 28 agosto 1914, p. 1. Prezzolini fu però tra coloro che rifiutarono i toni di guerra tra civiltà: «Noi non rinunceremo mai ad avvicinarci, con quello spirito d’indipendenza che anche prima avevamo, alla nutriente fonte di sapere e all’eccitamento suggestivo del pensiero classico tedesco […] noi dobbiamo invece contro i degeneri tedeschi d’oggi risollevare i valori umani della Germania di ieri, e non dare retta a un patriottismo cieco» (G. Prezzolini, La guerra e la coltura, «Nuova Antologia», CLXXX, 1 agosto 1916, pp. 305-313. Sulla posizione di Prezzolini dinanzi alla guerra v. R. De Felice, Prezzolini, la guerra e il fascismo, «Storia Contemporanea», XIII, n. 3, giugno 1982, pp. 363 sgg. 26 Dichiarazione, «Lacerba», II, n. 19, 20 settembre 1914, p. 265.