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Anarchia e nazionalismo
ne mostre a vocazione modernista62, bensì la flessione di moderna classicità che caratterizza il lavoro di Carrà e Soffici dopo il 1919 e che giunse fino alla rustica estetica del «Selvaggio».
Anarchia e nazionalismo
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Già con lo scoppio della questione libica, i toni e i proclami d’un tempo iniziarono ad apparire sempre più discordanti63 . Dopo aver accompagnato i futuristi a Parigi, Marinetti si recò a Tripoli per raccontare la guerra, in quelli che furono, come confessò a Palazzeschi, «i due mesi più belli della mia vita»64. I pittori restarono chiusi in studio a preparare la mostra del debutto parigino del febbraio 1912, cercando di adeguarsi il più in fretta – e il più mimeticamente possibile – allo stile cubista testé appreso nel viaggio d’istruzione.
Quella dell’ottobre 1911, con Il funerale anarchico ancora fresco di vernice, appare davvero come una divaricazione decisiva. Due argomenti possono essere invocati al riguardo. Il primo è un quadro storico che, naturalmente, qui si può dare solo in scorcio.
I mesi cruciali, che coincidono con la genesi e la prima circolazione dei Funerali, furono quelli tra primavera e autunno 1911. In marzo i socialisti votarono la fiducia al quarto gabinetto Giolitti. Ma nel mese di settembre si opposero alla guerra in Libia. Turati accolse la proposta di sciopero generale il 27 settembre, raccomandando «brevità d’azione».
Il riposizionamento delle forze politiche e dell’idea stessa di lotta sociale, all’indomani della guerra libica, colpì due soggetti cui il futurismo era assai sensibile: il proletariato e i giovani. Per la
62 Questa interpretazione, scaturita dalla fortunata mostra Futurismo e futurismi, a cura di P. Hulten (Venezia, Palazzo Grassi, 1986) è restata intatta fino alle recenti mostre del centenario, massime in Illuminazioni. Avanguardie a confronto. Italia, Germania, Russia, a cura di E. Coen, Rovereto, Museo d’Arte Contemporanea di Trento e Rovereto, 2009. 63 Seguo in questo il giudizio di W. Adamson, Modernism and Fascism: The Politics of Culture in Italy, 1903-1922, «American Review of History», April 1990, pp. 359-390, p. 384. 64 Carteggio Marinetti-Palazzeschi, a cura di P. Prestigiacomo, Milano, Mondadori, 1978, p. 61.
prima volta la classe lavoratrice, anziché essere respinta dalla vita della nazione, era intesa come pascoliana «grande proletaria» e resa solidale con le sue fortune. I giovani, dopo anni d’insofferenza per il grigio parlamentarismo e delusi dal socialismo, potevano abbracciare ideali imperiali di dominazione, attraverso i travestimenti dannunziani delle Canzoni delle gesta d’oltremare.
La prevalenza della ragionevolezza riformista alimentò le frange più estreme. Ripresero i moti popolari e le repressioni sanguinose (il 30 settembre, a Langhirano, vennero uccisi cinque contadini nel corso di una manifestazione contro l’intervento in Libia) e, quasi di pari passo, le dimostrazioni anarchiche. Il 14 marzo l’anarchico Antonio d’Alba attentò alla vita del re e della regina. La solidarietà ai sovrani, espressa dai riformisti Bonomi, Bissolati e Cabrini suscitò lo sdegno dei socialisti rivoluzionari. Il Congresso di Modena dell’ottobre 1911 confermò tuttavia la maggioranza riformista. A dicembre fu ritirata la fiducia al governo Giolitti e nel febbraio successivo ci fu il voto contrario all’annessione della Libia. Per molti spiriti progressisti, tuttavia, la lotta di classe pareva sciogliersi in un nazionalismo concorde: «lotta d’emulazione tra fratelli, ufficiali o soldati, a chi più ami la madre comune», scriveva dolciastramente Pascoli. Nella finzione del poeta, il popolo lottava con la nobiltà e la borghesia; «così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca».
Al Congresso di Reggio Emilia del luglio 1912 un socialista come Bissolati, desideroso di non lasciare alle frange dei nazionalisti il monopolio del sentimento patrio, giunse a compiacersi della «virtù di una disciplina nazionale, e soprattutto la forza di farsi ammazzare, per la disciplina di oggi, come domani per le proprie idee». Come è noto, s’imposero i rivoluzionari con l’ordine del giorno di Mussolini; i socialisti solidali col re furono espulsi; Turati pronunciò un’autocritica e ammise la deriva a destra del partito.
La convergenza tra il socialismo rivoluzionario e l’idealismo militante della «Voce» stava conducendo a una revisione dei vecchi concetti di palingenesi sociale, sempre più orientati in un senso che si volle continuare a chiamare «idealista» o utopico, ma che, nella sostanza, confermava la natura irrazionale, quan-
do non mistica, dell’insubordinazione popolare e l’attrazione per una prassi immediata e bruciante, senza più fiducia nelle capacità della cultura di organizzare la realtà riconducendola nella sfera dell’etica65. A farne le spese fu la componente «ragionevole» della tradizione socialista, fondata sulla conoscenza delle basi materiali della società come leva rivoluzionaria. Dinanzi al mito irrazionale dell’insubordinazione anarchica e rivoluzionaria non si esaurì soltanto la parabola del ragionevole socialismo riformista. Si compì, anche, la più classica eterogenesi dei fini.
Nel secondo manifesto politico, opportunamente intitolato Tripoli italiana e tempestivamente composto nell’ottobre 1911, Marinetti dichiarò: «Sia proclamato che la parola Italia deve dominare sulla parola libertà»66. Subito dopo, il poeta partì, come si è visto, per il fronte libico come corrispondente di guerra per «L’Intransigeant». La sua memoria, «veçue et chantée», fu prontamente raccolta nel volume La bataille de Tripoli, uscito dapprima in edizione francese e poi nella traduzione italiana di Decio Cinti nel 1912.
Ma veramente è in un altro testo, Le monoplane du Pape, che si assiste a una compiuta revisione politica del sindacalismo riformista e delle politiche di pacificazione sociale67. Definire «analisi» le pagine politiche del settimo capitolo, dedicato ai «Sindacati pacifisti», è ovviamente eccessivo. Tuttavia, la narrazione di Marinetti, pur se racchiusa in una delle sue consuete macchinose allegorie, è assai eloquente. Dapprima il poeta si figura di contestare un gruppo di operai riuniti ad ascoltare il comizio d’un anarchico «cieco» che invitava tutti a un pacifismo solidale di classe. Spalleggiato da un gruppo di studenti dai vigorosi intenti bellicosi, Marinetti incoraggia un’azione diretta e
65 G. Prezzolini, Sciopero giolittiano, «La Voce», VI, n. 12, 28 giugno 1914, p. 2. 66 Si cita dall’edizione in F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1968, p. 339. 67 Le Monoplane du pape, Roman politique en vers libres, Paris, Sansot, 1912. La traduzione italiana (L’aeroplano del Papa. Romanzo profetico in versi liberi, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano, 1914) sostituendo deliberatamente nel sottotitolo l’aggettivo «politique» con «profetico», mirava con ogni evidenza a mettere in luce la prefigurazione ideologica del movimento nel mutato panorama del 1914. Sul poema, v. anche lo studio di Z. Beke, Il poema L’aeroplano del papa di Marinetti come fonte dei motivi della visione dall’alto nell’Aeropittura futurista italiana, «Acta historiae artium Academiae scientiarum hungaricae», 1998, vol. 40, n. 1-2, pp. 55-98.
immediata, evitando ogni discussione («l’eloquenza, stasera, potrebbe solo mentire. Si deve soltanto agire!»). Solo un prepotente ideale bellicoso era capace di dare esito concreto alle rivendicazioni sociali: «Cessate di tremare. Sappiate che la guerra / è un modo qualunque di far sciopero!».
Nel suo dichiarato disprezzo per la folla cenciosa e distratta, Marinetti confondeva rovinosamente la glorificazione della guerra con la parificazione salariale: «La guerra è la rovina del padrone, / che mentre essa dura non può continuare / ad arricchirsi!… / Vittoria o sconfitta, il padrone sarà povero / come voi!». E avvertì gli agitatori del sindacato: «Non li seccate, dunque, con la stupida Pace! / A che serve offrir loro quel piatto immondo / che dà la nausea? / Non domandano di meglio che di saltare in aria! / I loro occhi attendono lo scoppio delle fortezze, / il barcollare delle corazzate briache fradicie, / e sverginate dagli obici».
A modo suo, attraverso metafore sguaiate, una sostanziale ignoranza delle leggi economiche e un’imbarazzante versificazione, Marinetti aggirava il clima di concordia nazionale ma non certo i sogni di gloria imperiale. Ed è inoltre assai probabile che l’orientamento sempre più apertamente politico in senso nazionalista e interventista dell’azione di Marinetti sia stato stabilito anche per compensare l’impasse della poesia futurista. Dinanzi insomma alle perplessità, quando non agli aperti dileggi, cui andavano incontro i temerari performer del paroliberismo e degli «intonarumori», la chiave del riscatto nazionalista era giocata con sempre maggiore enfasi e convinzione. Essa poteva apparire una dignitosa via di fuga dalle troppe debolezze e mediocrità di poesia e prosa futurista.
La maggior parte dei resoconti delle serate futuriste si possono leggere in questa dialettica tra sovversione e ordine. Per citare uno degli esempi più celebri, in occasione della grande serata futurista presso il teatro Verdi di Firenze, nel dicembre 1913, Marinetti declamò le opere di alcuni poeti futuristi e quindi passò a illustrare il programma politico. Dopo aver contestato violentemente i poemi paroliberi, il pubblico sembrò accettare il programma politico, compiacendosi di frasi a effetto come: «La parola libertà che aveva il suo valore assoluto di violenza e di rigenerazione nella bocca di Garibaldi e di Mazzini è diventata