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Il vincolo dell’impaginazione
ormai non era su questi argomenti che si discriminavano autori e opere. La circolare di iscrizione alla seconda mostra del Novecento italiano – il tentativo sarfattiano più vasto e ambizioso di radunare ecumenicamente tutte le energie artistiche nazionali – era già nelle mani di Rosai, che auspicava una partecipazione del gruppo toscano compatto e ordinato. Alla mostra, poche settimane più tardi, furono presenti Carrà, Soffici, Lega, Rosai, Morandi. La rivista diede notizia dell’evento con un affettuoso corsivo, ravvisandovi segni di coerenza con lo spirito di rinascita nazionale58 .
Assai rilevante, per l’intreccio contraddittorio di vincoli ideologici e vani auspici di libera creatività, sarà infine lo schema d’ordinamento corporativo tracciato da Soffici. Egli affermò che l’arte era manifestazione dello spirito individuale sottratta a ogni controllo politico e sociale; per poi ammonire subito che una tale arte pura era in realtà formula decadente che avviliva il genio. Vera arte «classica» era invece quella che partecipava all’ordinamento sociale e pratico, alla vita collettiva. Arte per la quale era necessaria una organizzazione corporativa. Nell’atto insomma di separare l’intervento pubblico dal privilegio dell’arte pura, ancora una volta questa veniva da Soffici svuotata di ogni funzione e valore: sottintendendo che la libertà dal controllo statale era, anche, libertà di cedimento edonistico59 .
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Il vincolo dell’impaginazione
Ciascuno a loro modo, Soffici e Maccari conoscevano bene il proprio mestiere. Uno offriva il ragionamento del pittore e l’autorità carismatica dell’iniziatore; l’altro (sulla scorta di Longanesi, è bene non scordarlo) era detentore d’una tecnica altrettanto specifica, non meno utile: quella dell’impaginatore, che sul tavolo di redazione accostava le immagini ai testi, li scontornava, ci metteva i titoli sopra, le figure dentro, altri articoli intorno.
58 Rosai, Nient’altro che un artista, cit., n. 225, Rosai a Soffici, 24 ottobre 1928; Seconda mostra del Novecento Italiano, «Il Selvaggio», 28 febbraio 1929, p. 9. 59 A. Soffici, Per un ordinamento artistico. Schema, «Il Selvaggio», 30 novembre 1928, p. 77; sulla stessa linea M. Maccari, Arte e ordine artistico, ibid., 30 giugno 1929, p. 32.
Nel «Selvaggio» di questi anni Maccari pubblicò solo qualche xilografia; seguì la redazione del Gazzettino Ufficiale che apriva ogni numero; si celò dietro noms de plume pittoreschi; curò la micrologia della quarta pagina. Il resto sembrava passare per le mani di Soffici. Di sua proprietà i fogli di Spadini, autore restituito nell’immediatezza del disegno alla dimensione meno compromessa dalle clausole con cui Ojetti lo andava divulgando; suoi gli interventi racchiusi nella rubrica Periplo dell’arte, che qualificarono l’autore come «dittatore per l’ordine artistico»60 .
Identità tra cronaca e storia, tradizione e modernità, mito e realtà, quotidiano ed eterno; annullamento d’ogni nesso tra espressione artistica e spirito di modernità materialistica; un riconoscimento al «retaggio inalienabile» del futurismo seguito da una sentenza come la seguente: «Chi dice che l’arte è una cosa a sè perché non ha altro fine che se stessa, non è artista e non è fascista»; la «musicalità» accolta come stimolo allo spirito creativo, da connaturare a forme e modi concreti, rigorosi e chiari, ma rigettata come principio di subordinazione; la concordia tra la fantasia del pittore e il dato naturale della forma visibile e sensibile del fenomeno; l’identità di un impegno civile profuso come missione sovranazionale di un popolo che si identificava in un’Italia cattolica, monarchica e classica; la sapienza del puro artista a rivelarsi nell’ingenuità della rappresentazione e accostarsi a una rinnovata espressività primitiva, per una pienezza di visione religiosa del mondo e per la ricusazione di ogni dottrina di evoluzione formale, di metafisica astratta delle cose, di rimozione del reale fisico nella sua sostanza: questi, in sintesi, furono gli argomenti cadenzati con insistenza ossessiva da Soffici sulle pagine del «Selvaggio» e così posti in gioco tra disegni, silografie e acquaforti61 .
Se fin qui si è insistito anche troppo su questa incessante liturgia, che di lì a qualche anno apparirà insopportabile per i più giovani62, è perchè credo che la sua presenza, per gli anni che stia-
60 Orco Bisorco, Gazzettino Ufficiale di Strapaese, «Il Selvaggio», 15 agosto 1927, p. 56. 61 A. Soffici, Semplicismi, «Il Selvaggio», 30 aprile 1927, p. 29; Periplo dell’arte, 15 giugno, 30 luglio e 30 novembre 1927; Intorno alla questione romana, 10 novembre 1927, p. 77. 62 Cfr. per questo l’esemplare critica all’«atteggiamento, cieco ed incerto di reazionario» di Periplo dell’arte, il libro che raccoglie i menzionati interventi di
mo seguendo – gli anni cruciali per l’organizzazione dello stato fascista, tra 1926 e 1928 – influisca in maniera determinante sulle condizioni di lettura delle immagini, di tutte quelle immagini: nonostante le intenzioni degli autori, certo meno fastidiosamente ossessionati dalla politica di quanto non lo fosse Soffici, e nonostante l’effettivo, straordinario sforzo di Maccari e del «Selvaggio» di configurare le pagine della rivista come sede per la più ricca e felice produzione artistica di disegno e incisione del periodo.
Ecco allora qualche esempio dell’orchestrazione tra cliché e colonne di testo che non mi sembra privo di interesse. Ancora Soffici, dunque, che in una puntata del Periplo così si chiedeva: 63
Che cosa è avvenuto verso il millenovecento di tanto catastrofico da far perdere al disegno la sua funzione di delineare le forme, al colore quella di accusarle e farle trionfare, al chiaroscuro quella di dar risalito ai corpi, agli oggetti, alle cose dell’universo osservato ed amato? Che cosa è accaduto perché la figura umana, gli animali, la piante, i cieli non potessero essere più considerati come elementi rappresentativi di un mondo interiore poetico ma tutt’al più come pretesti di schematizzazione astratta, di scomposizione meccanica, di ornamentazione coloristica e lineare, vuota, arbitraria, inumana; spesso comica o ridicola?
Certo, dal Soffici che aveva vissuto a Parigi tra 1900 e 1907 sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più; ma la laconica risposta sembrava essere affidata, lì a fianco, allo sguardo malinconico d’una anziana contadina ritratta in silografia da Quinto Martini: no, non era accaduto nulla.
Anche la proposta di incisioni e disegni di Giorgio Morandi appare ideologicamente ben orientata, come avremo modo di discutere nel capitolo successivo. Per tutto il 1926 le incisioni di Morandi vennero pubblicate, senza troppi favoritismi, nel modulo a una o due colonne. Il piccolo formato non permetteva più che una funzione meramente illustrativa; la qualità del segno incisorio implodeva a cagione dei limiti di impaginazione e, come per Carrà, fu il disperdersi di tali opere lungo tutte
Soffici (Firenze, Vallecchi, 1929), nella recensione del crociano Alberto Consiglio, «Solaria», IV, n. 2, febbraio 1929, pp. 112-116, e il perfido accostamento all’Ojetti di Cose viste dei suoi Ricordi di vita artistica e letteraria, da parte di R. Franchi («Solaria», VI, n. 3, marzo 1931, pp. 51-53). 63 A. Soffici, Periplo dell’arte, «Il Selvaggio», 30 giugno 1927, p. 45.
le pagine, senza troppe gerarchie né un risalto opportuno alla qualità dell’immagine nella sua autonomia, che si mescolò alle altre di qualità diseguale, tra riempitivi, finalini, stratagemmi per far quadrare le giustezze del foglio. Presto Maccari capì di dover estendere, per quanto possibile, lo spazio riservato alle tavole: nella grande dimensione del foglio l’opera guadagnava, al tempo stesso, pregnanza visiva e valore ideologicamente emblematico.
L’intera larghezza di pagina interna venne conquistata nel giugno del 1927 da un inchiostro di Spadini sopra il titolo «Mussolini tra i rurali», per una scelta che sarà unica fino all’anno successivo. Nei numeri seguenti, un’acquaforte di Achille Lega venne posta sotto il perentorio titolo Moralizzare l’Italia, nel citato fascicolo colpito dalla censura; poco oltre, una natura morta con bottiglie di Rosai si legò all’epigrafe Inferiorità anglosassone; dentro, paesaggi elegiaci di Lega, declivi rassicuranti, le strade di casa. In quarta pagina, come chiusura, si trovò sempre spazio per un omaccio di Maccari, una trecciaiola di Tintori, una spigolatrice di Gorni.
Finalmente, emancipate le immagini dal ruolo illustrativo a cui erano fin lì confinate, gli spazi della rivista diedero respiro a grandi cliché: le marine a puntasecca di Soffici e Carrà, i paesaggi e le case di Morandi del ’27 che troviamo impaginati dopo l’estate del 1928. Come su «L’Italiano», la polifonia del montaggio tra testo e immagine costituì, in questi anni, la migliore elaborazione di un concreto vocabolario ideologico, venato dall’ambigua reversibilità della satira.
Dal 1929 il misurato eclettismo del «Frontespizio» accolse una parte delle proposte strapaesane mettendole a dimora nel solco di un cattolicesimo severo e disposto, in forza di Concordato, a un’effettiva partecipazione alla vita culturale del paese. Fra Torino e Milano, attraverso il lavoro di Edoardo Persico, stava emergendo una nuova generazione. Nutrita del cattolicesimo militante promosso dalla Primauté du spirituel di Jacques Maritain, essa era impegnata a far cadere l’inconciliabilità del cattolicesimo con la modernità, e a elaborare un programma di rivoluzione conservatrice con armi meno spuntate rispetto ai
grossolani slogan strapaesani64. I destinatari della polemica antieuropea – ed antifrancese – erano ora autori come Julien Benda e Henri Massis65. Da più parti, nelle lettere e nelle testimonianze dei giovani, il programma di restaurazione sofficiana era osservato come la palinodia d’una stagione d’avanguardia ormai lontana, di cui sfuggivano i presupposti.
Il «Selvaggio» si liberò progressivamente dalle regole di un’operazione ideologica: la linea fin qui impressa alla rivista venne ridefinendosi. Con il trasferimento del «Selvaggio» a Torino prima (1931-32, quando la rivista ospiterà una delle più lungimiranti analisi sulle condizioni morali dei giovani)66 e a Roma poi (dal 1931 al 1943) si frantumerà la dimensione rurale affermata dall’autorità di Soffici. A questo punto, esaurito l’impiego strumentale delle immagini come determinanti di una iconografia regionale e paesana, compariranno le opere di Luigi Bartolini, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi, e i gran disegni con cui Maccari aprirà i numeri dall’edizione romana67. Negli interstizi del grande foglio riuscirà a trovare spazio un autore come Filippo De Pisis, per il quale, giusto quanto scriveva Carrà presentando una sua mostra milanese nel 1926, «non è mai esistita la necessità di fare dell’arte regionalistica per essere sincero». Non ancora «l’incantatore di sergenti» – la corrosiva definizione sarà di Amerigo Bartoli – egli fu attivo sul «Selvaggio» a partire dal 1929 con fogli che consegnavano le fattezze efebiche di giovinetti semisvestiti, sorridenti e disarmanti. Rovesciando il motto di Cocteau, potremmo dire che l’itinerario del fiume iniziò a quel punto a disapprovare la sua sorgente.
64 Cfr. J. L. Loubet Del Bayle, Les non-conformistes des années 30. Un tentative de renouvellement de la pensée politique française, Paris, Seuil, 1969; La politica ne la «Primauté du spirituel» di Jacques Maritain, a cura di G. G. Curcio, Rubbettino 2009 e cfr. L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1989, pp. 82 sgg. 65 Gian Capo, Antieuropa letteraria e artistica, «Antieuropa», n. 8, 15 novembre 1929, p. 640. 66 Un’analisi delle quattro lettere di Camillo Pellizzi a Maccari che costituirono il cospicuo dossier sulle nuove generazioni è in R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 1996, pp. 239 sgg. 67 Cfr. M. Nezzo, 1932-1943: «Il Selvaggio» romano tra immagini e scritti d’artista, in Mino Maccari. L’avventura de «Il Selvaggio». Artisti da Colle a Roma, 19251943, catalogo della mostra, a cura di B. Cinelli, D. Capresi (Colle Val d’Elsa, 19981999), Siena, Musolino e Maschietto, 1998, pp. 169-204.