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Un programma di restaurazione culturale

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Indice dei nomi

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Un programma di restaurazione culturale

Dal dicembre 1922 Soffici si trasferì a Roma, per curare la terza pagina del quotidiano romano «Il Nuovo Paese», rapidamente allineato al nuovo governo dopo una stagione di socialismo e antifascismo. Lo abbandonò poco dopo per collaborare al «Corriere Italiano» e dirigere l’allegata rivista mensile «Galleria»30. Solo cinque numeri, da gennaio a maggio 1924, ma con precise scelte. Il foglio si rivolgeva a un pubblico borghese e inurbato; aveva ricche illustrazioni, curiosità bibliografiche, divagazioni sulla moda e una rubrica sul cinematografo affidata a Alberto Savinio. Soffici dovette concedere spazio a un ufficioso côté romano, con le opere di Armando Spadini, Amerigo Bartoli, Cipriano Efisio Oppo; ma riuscì a offrire ospitalità anche ai toscani Rosai e Viani. Tra una sezione consacrata al «Bel mondo» e un’immagine edulcorata della campagna, percorsa in rassegna didascalica a uso del pubblico romano, Soffici propose un Lunario con ricette, almanacchi, arcani, motti, cure per i campi e per i corpi, enigmi e scongiuri. Il tutto, era chiuso da un finalino in xilografia. La linea eclettica della rivista poteva ammettere tale rubrica come divertita stravaganza. Una simile offerta appariva tuttavia come il tentativo d’infiltrare negli indolenti palazzi romani il gusto rustico e intransigente d’una poetica strapaesana.

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Oltre alla rinomanza personale, all’incarico di «triumviro» per gli erigendi Sindacati artistici, Soffici era detentore di uno dei più ampi indirizzari del periodo e proprietario di un discreto archivio di immagini (fogli, tele, collages) accumulati in vent’anni di militanza nelle riviste. L’influenza che egli mantenne lungo gli anni Venti fu assai profonda, ben più del suo effettivo potere (e, per dirla tutta, della sua qualità come pittore). Dopo «Rete mediterranea» Soffici non ebbe più una sua rivista, ma riversò per intero il suo programma e la sua pedagogia entro la rivista «Il Selvaggio» di Mino Maccari.

Valorizzare l’estremismo dell’intelligenza delle cose, accordare alla rivoluzione politica una stabilizzazione sul piano estetico: questo lo sforzo di quanti si proclamavano, come scrisse Soffici

30 Galleria. Una rivista di Soffici e Baldini sotto il fascismo, a cura di A. Paoletti, Firenze, Le Monnier, 1992.

stesso, «non indifferenti ai rapporti fatali che esistono tra fatti politico-sociali e fatti intellettuali ed estetici»31 .

Il senso dell’intera operazione di Soffici non era quindi soltanto quello dell’invenzione di una linea di rustico populismo. In gioco vi era ben di più: per Soffici, si trattava infatti di difendere l’eredità del programma vociano e lacerbiano, stingere la giovanile insofferenza anarcoide che ancora trapelava dai suoi Massacri, e confermare – operazione ben più difficile – una rassicurante continuità tra passato e presente. Se ne trae conferma da una polemica suscitata un paio d’anni dopo, quando comparve sul «Popolo d’Italia» del 19 novembre 1927 un articolo che indicò nella Firenze contemporanea una città incapace di un compito all’altezza del suo passato, priva di linfa vitale e sede di «sinedri partigiani» che tradivano più la faziosità che una «concezione originale e creativa». Che questo fosse un attacco alla vasta famiglia dei giovani sofficiani, o un semplice richiamo all’omologazione, è secondario rispetto all’autorità di chi mise la firma (era Arnaldo Mussolini). Maccari rispose che non vi erano mai stati sinedri; o almeno in essi non andavano contati «Il Regno» e «Lacerba». Il foglio di Soffici e Papini aveva provocato piuttosto «una vera e propria rivoluzione spirituale aprendo nuovi orizzonti artistici alla giovinezza italiana imborghesita e avvilita, e come se tutto questo non bastasse, integrò il movimento letterario e artistico col più bello e audace interventismo nel 1914». Non vi era in quei giorni a Firenze altro «movimento spirituale notevole» se non «Il Selvaggio», «squisitamente fascista», di cui, almeno indirettamente, rispondendo alle accuse, si era rivendicata continuità con «Lacerba»32 .

L’articolo con cui Soffici intervenne nella polemica appare come un riepilogo, cautamente emendato, della «stagione delle riviste»: le vicende dal «Regno» alla «Voce» erano depotenziate d’ogni esperienza che potesse risultare a quel punto sospetta. Pur non sapendo, o non volendo, render conto delle molte contraddizioni che così si aprivano, Soffici ambiva a essere accreditato come

31 A. Soffici, Spirito ed estetica del Fascismo, «Lo Spettatore Italiano», 1 maggio 1924, ora in Id., Estetica e politica, cit., pp. 156-161. 32 M. Maccari, L’omino di bronzo, «Il Selvaggio», IV, 23, 15 dicembre 1927, p. 90. Sulla sostanziale continuità fra determinate istanze lacerbiane e «selvagge» v. P. Jahier, Contromemorie vociane, «Paragone», V, n. 56, 1954, pp. 25-48.

garante di continuità tra l’azione del gruppo lacerbiano e quello del «Selvaggio»33 .

L’eredità vociana, che era stata messa in discussione come esempio di liberismo democratico e rinunciatario, venne invece difesa da Alessandro Pavolini, che vi riconobbe un’anima letteraria e artistica che aveva dato vita a «Lacerba» e, in prospettiva, a elaborazioni e sviluppi fascisti; e un’anima politica, sostanziata soprattutto nella casa editrice, fra il cui ampio e variegato catalogo si andava a citare, con un eccesso di zelo, il Trentino veduto da un socialista di Mussolini e il protosquadrista Lemmonio Boreo di Soffici34 .

In quello stesso 1926 in cui iniziò la collaborazione con Maccari, Soffici ebbe una sala personale alla Biennale di Venezia. Le sue pitture, una sequenza di paesaggi toscani dai morbidi toni tardo-impressionisti, potevano accontentare tanto il gusto filofrancese di Lionello Venturi quanto quello classicheggiante di Antonio Maraini. Ungaretti lanciò dal «Mattino» di Napoli in data 22 agosto 1926 un forte messaggio: «Gli artisti chiedono un capo: Soffici», in cui auspicò un incarico diretto come organizzatore e garante della situazione artistica italiana. Su «La conquista dello Stato», la rivista di Curzio Malaparte, Maccari riconobbe in Soffici «il primo artista e il maestro del secolo fascista» e, in un crescendo di magnificazioni, «il nostro breviario, la rivelazione della modernità classica»35. Lo stesso Malaparte lo aveva collocato tra i rivoluzionari realmente moderni, «cioè barbari, eretici, settentrionali e occidentali, pochissimo italiani», stravolgendo in realtà, e non poco, i suoi stessi presupposti critici36. Ma il punto, in realtà,

33 A. Soffici, Firenze, «Il Selvaggio», 29 febbraio 1928, p. 15. Quando, due anni dopo, furono nuovamente mosse accuse al «mito fiorentino» delle riviste, costruito sul «regime dell’anarchia» e fiorito sugl’«inebrianti nichilismi», altri dovettero replicare rivendicando lo spirito interventista, speculando, piuttosto meschinamente, sui caduti in guerra e pregiandosi, infine, dell’attività squadrista come «titolo» esigibile: L. Giusso, Il mito fiorentino, «Epoca Nuova», 6, giugno 1929; A. Luchini, Il mito antifiorentino, «Il Selvaggio», 15 giugno 1929, p. 31; E. Settimelli, Precisare, «L’Impero», 27 giugno 1929; A. Luchini, Precisiamo, «Il Selvaggio», 30 giugno 1929, p. 33. 34 A. Pavolini, «La Voce» nuova, «La conquista dello Stato», III, n. 6, 15 aprile 1926. 35 M. Maccari, Il nostro Soffici, «La conquista dello Stato», III, n. 3, 1 marzo 1926. 36 C. Suckert, Ragguaglio sullo stato degli intellettuali rispetto al fascismo, in Soffici, Battaglia tra due vittorie, cit., p. XXVIII; cfr. L. Cavallo, Soffici e Malaparte. Vento d’Europa a Strapaese, Comune di Poggio a Caiano, 1999, p. 41.

era un altro. L’etica diveniva fondamento dell’estetica; nel pittore si apprezzava l’immediata forza descrittiva che estingueva ogni residuo allegorico: «non sono complicate fusioni di sensi; sono sempre sensazioni elementari elaborate alla maniera antica»37 .

Due testimonianze, a un decennio di distanza tra loro, valgono a stabilire i punti estremi di questa traiettoria. A Carrà nel novembre 1921 Soffici confidò di aver ammirato, nella pittura di Cézanne, Renoir e Degas quanto essi «avevano d’italiano» – senza avere il bisogno di specificare, ormai, di cosa potesse significare italiano, per lui, se non «toscano»: «Ho ritrovato in loro ciò che la buona scuola francese ha preso dall’Italia pittorica del passato […] Credo anch’io di essere sempre stato toscano. Toscanamente realista, realista secondo la tradizione nostra del 3-4-500. Oggi più che mai»38. A modo suo, era una rassicurante forma di coerenza: l’equivalenza tra toscanità e italianità era stata tracciata sin dal 190839 .

Si trattava, ora, di recidere e cauterizzare ogni legame con le più vive correnti europee, e inoculare un disciplinato spirito di militanza sociale: ora, scriveva nel 1932, «una letteratura che non ha un ufficio preciso, serio, trascendente la sua perfezione tecnica ed il suo valore espressivo dell’individuale, non rappresenta che un gioco dello spirito, una voluttà, un otium cum dignitate, un superiore sollazzo da buongustai dilettanti ed antisociali»40. Italianità dello stile e valore etico dell’espressione artistica: il percorso di Soffici critico d’arte si assestò, nel corso degli anni Venti, su questi due presidî.

37 F. Flora, Ardengo Soffici, «Costruire», n. 1, gennaio 1924, p. 7. 38 Soffici, Carrà, Lettere 1913-1929 cit., 24 novembre 1921, p. 148; cfr. Trione, Dentro le cose, cit., p. 332. 39 G. Papini, G. Prezzolini, Storia di un’amicizia 1900-1924, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 206-207; G. Papini, A. Soffici, Carteggio I. 1903-1908. Dal «Leonardo» a «La Voce», a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p. 225. 40 A. Soffici, Banalità, «La Gazzetta del Popolo», 29 gennaio 1932, in Id., Estetica e politica, cit., pp. 306-309.

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