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Un museo e una donazione
cui Marinetti desiderava ora porre l’accento. Tra gli elementi basilari di estetica si menzionarono caratteri di «ordine, disciplina e metodo». Anche la selezione di tavole illustrate rispose a un criterio revisionista; si accolsero immagini addolcite nelle forme, ordinate, plasticamente salde, d’impianto decorativo, di facile e garbata lettura, facilmente convertibile in grafica pubblicitaria. I nomi erano ormai quelli di Enrico Prampolini, Gerardo Dottori, Fortunato Depero. La pretesa del primato artistico sfociava in confuse mitologie italiche di regime; l’eversione estetica asserviva la produzione industriale; l’internazionalismo modernista svaniva ormai in un lontano ricordo.
Poco per volta, quadri e sculture entrarono nello spazio del museo. Quello che accadde nel 1935 a Gorizia, quando venne istituita ex novo una raccolta d’arte per rendere omaggio a Sofronio Pocarini, fiduciario del futurismo giuliano, è una vicenda per molti aspetti secondaria, ma da questo punto di vista piuttosto istruttiva.
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Un museo e una donazione
Più che ai sommovimenti rivoluzionari o ai fenomeni di nazionalizzazione di patrimoni privati, all’origine di un museo d’arte vi è spesso il gesto d’un individuo. Si suole infatti definire «evergetico» quel collezionismo privato finalizzato a istituire ex novo una raccolta museale, ovvero a far confluire quanto posseduto nel novero di un museo esistente5 .
Il fenomeno ha conosciuto molte importanti congiunture, anche per l’arte contemporanea. Si potrebbe anzi dimostrare come all’origine del museo d’arte moderna e contemporanea vi sia anzitutto l’azione lungimirante di un privato cittadino. Per restare nel territorio del Triveneto, si possono menzionare i casi del lascito di Pasquale Revoltella a Trieste, quello di Antonio Marangoni per i Civici Musei di Udine e, a Venezia, la donazione con cui Alberto Giovanelli diede vita alle collezioni d’arte moderna ospitate a Ca’
5 Il termine è stato discusso da K. Pomian in Collezionisti, amatori e curiosi, Milano, Il Saggiatore, 1989; cfr. dello stesso autore Des saintes reliques à l’art moderne, Paris, Gallimard, 2003, pp. 301 sgg.
Pesaro. Il barone, il borghese, il principe: tre figure assai disuguali per censo, cultura e collocazione sociale, dietro cui agì l’eguale desiderio di emancipare le testimonianze di un gusto privato istituendolo come patrimonio pubblico.
Dietro simili gesti di generosità agivano motivazioni spesso assai diverse, talora inconfessabili, non di rado strumentali. È una ricchezza d’azioni e intenzioni intorno a cui la storia del collezionismo si è accresciuta come disciplina autonoma, che detiene una rispettabile mole di casi di studio.
Il nucleo d’opere confluite nel 1935 presso i Musei Provinciali di Gorizia per commemorare la figura dello scrittore e giornalista goriziano Sofronio Pocarini (1898-1934) non rientra a pieno titolo fra i casi summenzionati.
Non è infatti la collezione di un privato, governata dal gusto individuale e da un programma più o meno ordinato d’acquisti. Si tratta invece di un gruppo eterogeneo d’una quarantina d’opere conferite ai Musei pressoché in un’unica soluzione, nel corso del 1935, a seguito di un appello rivolto agli artisti della Venezia Giulia da alcuni amici dello scomparso. Le opere donate avrebbero contribuito ad avviare una sezione d’arte moderna in seno al Museo della Redenzione. Questi quadri e sculture si possono leggere oggi in vari modi, a partire naturalmente dal loro valore di primaria testimonianza dei risultati cui pervennero i singoli autori, e dalle varie articolazioni di stile che si possono così dedurre.
È lecito tuttavia tentare una lettura delle opere nel loro insieme, partendo dall’occasione specifica grazie alla quale esse giunsero a destinazione.
I dipinti e le sculture non furono oggetto di una selezione da parte di un collezionista privato, e nemmeno di un’autorità preposta allo scopo, come il direttore di un museo o un curatore. Le opere furono invece prescelte e donate dagli stessi autori, secondo una prassi per quell’epoca piuttosto inconsueta, e per noi di qualche interesse.
Il collezionismo del singolo appassionato, infatti, si forma in un decorso temporale di norma piuttosto esteso, anche se non mancano clamorosi episodi di raccolte messe insieme in pochi anni, se non mesi, come nel caso ormai scolastico dell’investimento in beni rifugio nei periodi di crisi economica. Inoltre, la raccolta
privata è ordinata secondo un criterio di coerenza, più o meno intelligibile, che chiamiamo per comodità «gusto». Ciò a cui si giunge è solitamente la conclusione di un percorso omogeneo che testimonia l’itinerario intellettuale – e talora anche economico – del possessore. Lo scambio così formalizzato si può studiare come rappresentazione simbolica dell’immagine sociale che il collezionista vuol offrire di sé.
Nei casi migliori, questa rappresentazione si offre anche come criterio privilegiato per la lettura dei fenomeni culturali secondo un’angolazione soggettiva che ambisce a divenire canonica, e a volte ci riesce. Il gusto d’un individuo diviene porzione del patrimonio comune; l’immagine simbolica dell’élite (almeno quella culturale) viene associata alla rappresentazione collettiva della società6 .
La donazione da parte di un variegato gruppo d’artisti risponde con ogni evidenza a ragioni differenti. Per prima cosa, essa si sottrae ai meccanismi di selezione del mercato e del gusto dei collezionisti, se e quando essi esistono, nel merito. Inoltre, collocandosi entro l’orizzonte assai limitato di pochi mesi, sostituisce al decorso della storia l’urgenza della cronaca. Il collezionismo privato si legge come un diagramma nel tempo, lungo uno svolgimento diacronico. La donazione in blocco offre una campionatura sincronica, non meno interessante, che seleziona nello spazio (quello degli artisti della Venezia Giulia) anziché nel tempo. Demandata la scelta agli autori stessi, svanisce ogni possibile omogeneità di criterio selettivo: discontinuità, episodicità e frammentazione divengono giocoforza i tratti costituitivi della raccolta. Che cosa sovrintende allora la scelta delle opere? È chiaro: la coscienza della loro collocazione istituzionale. Nel caso delle Sale Pocarini, l’identificazione del collezionista (o per meglio dire, del possessore) con l’artista stesso inverte il rapporto di forza con il museo. Il patrimonio raccolto in tutta una vita dal collezionista è offerta che si accetta in blocco, difficilmente si negozia. Per molti artisti, quello del 1935 era il primo ingresso in un museo; per alcuni, sarà anche l’unico. Ecco allora una prima questione di rilievo: quanti
6 Cfr. almeno R. Moulin, L’artiste, l’institution et le marché, Paris, Flammarion, 1992; P. Bourdieu, Les règles de l’art: genèse et structure du champ littéraire, Paris, Seuil, 1992; R. Jensen, Marketing Modernism in Fin-de-Siècle Europe, Princeton, Princeton University Press, 1994.