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La propaganda e il suo destinatario
trincea – approdando a una mistica del conflitto, alla palingenesi dei «popoli-poeti».
La propaganda e il suo destinatario
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Fino a qui, si sono seguite le intenzioni implicite di Sintesi della Guerra mondiale; ma quale poteva essere l’impatto reale di questo testo? Cosa rimaneva del suo messaggio, una volta pervenuto ai suoi destinatari naturali? È opinione condivisa da tutti gli storici la scarsa o nulla ricezione dei giornali di trincea da parte del popolo e dei soldati semplici di truppa. La prima e più importante causa era l’analfabetismo: secondo i rilevamenti statistici, la classe del 1872 registrava il 39% di analfabeti, che scendevano al 23% per la classe del 1900, ultima a essere mobilitata. Aggiungendo i semianalfabeti, è verosimile supporre un 50% delle truppe pressoché aliene alla propaganda scritta: donde la necessità, e lo sviluppo di un’adeguata comunicazione orale e visiva di semplice e immediato impatto. Nella sua struttura argomentativa Sintesi della Guerra mondiale ricorda i cosiddetti «Spunti di conversazione ai soldati», ossia quegli schemi di ragionamento e di argomentazione predisposti dall’Ufficio Propaganda per le conversazioni informali44 .
Una seconda ragione che può spiegare queste difficoltà è la forte ostilità che le truppe nutrivano verso i giornalisti e i redattori delle riviste di guerra, considerati degli imboscati nelle retrovie. Per queste ragioni, i giornali andavano a disciplinare i ceti intermedi senza risaldare i legami tra i superiori e i subordinati. Alcuni fogli si orientarono esplicitamente non verso le truppe, ma verso gli ufficiali di origini borghese. I giornali di trincea non erano d’altra parte semplici strumenti di propaganda immediata, ma avevano il compito di raccordare il presente al futuro, convertendo l’esperienza di guerra in criteri e modelli per un rinnovamento della vita civile e dei rapporti di classe45 .
Al di fuori di queste élites consapevoli, buona parte degli italiani rimanevano estranei ai valori nazionali, né possedevano gli
44 P. Melograni, Storia politica della grande Guerra 1915-1918, Bari, Laterza, 1969, p. 505. 45 Isnenghi, Giornali, cit., pp. 79-81 e 250.
strumenti elementari per conoscere chi erano, cosa facevano e dove abitavano i tedeschi o i francesi; per non parlare poi delle varie etnie e religioni dell’Impero Austro-Ungarico o dei popoli extra-europei.
Il dato che emerge dalla memorialistica di guerra è quello di un sostanziale disincanto nei confronti di questo tipo di propaganda, a tutti i livelli: dal fante analfabeta all’intellettuale interventista46 . Nel diario dello scrittore triestino Giani Stuparich si avverte con chiarezza l’estraneità di ogni forma di letteratura dinanzi all’esperienza di guerra47 .
Le due varianti del manifesto sembrano così rispecchiare due momenti della propaganda. Quello del 1914 è il segno d’una prima adesione, che riflette il chiassoso e spontaneo entusiasmo dei futuristi e individua il manifesto come strumento per l’agitazione politica di piazza. Quello del 1918 dimostra una più cosciente elaborazione, in ragione d’una possibile nazionalizzazione della masse. La campagna dell’ultimo anno di guerra restituì agli intellettuali interventisti quella centralità d’azione che, dopo la fase interventista del 191415, era stata posta a margine dalla sopravvenienza di una guerra di massa. L’impegno nella redazione di giornali, testi e manifesti ripristinò i privilegi del ruolo, conferendo un nuovo mandato sociale e una presenza organica. Al tempo stesso, l’intellettuale borghese si sentì responsabile di valori storici collettivi, istituendosi a coscienza collettiva, e operando come organizzatore ideologico.
In questo quadro si possono valutare appieno i tratti specifici dell’esperienza futurista e la sua parabola, riassumibile nella sparizione dell’aggettivo qualificativo nel secondo manifesto. Nel lavoro di Carrà, Balla e di molti altri pittori futuristi si era raggiunto fra 1914 e 1915 il più convincente e maturo esito comunicativo. Il loro linguaggio era adeguato a celebrare la volontà interventista e motivare un acceso nazionalismo. Il movimento futurista sembrò tuttavia soccombere dinanzi all’accelerazione improvvisa
46 Cfr. ad esempio G. Prezzolini, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Firenze, Bemporad, 1918. 47 G. Stuparich, Guerra del ’15, Torino, Einaudi, 1978, p. 113 (20 luglio 1915): «Mi sveglio all’arrivo della posta. Un nuovo numero de “La Voce”: un mese fa l’arrivo della “Voce” mi faceva ancora piacere, sentivo questa rivista come l’espressione di qualche cosa che m’era vicina, ora invece la sento estranea, una rivista letteraria d’una città lontana; tutto mi par troppo lontano e inutile».
della storia, dimostrandosi nei fatti incapace di seguirne il rapido processo, dopo essere stato, con la sua violenza verbale e visiva, una delle più efficaci levatrici. I pochi dipinti realizzati in diretta relazione con la guerra, come Carica di lancieri di Boccioni, apparivano obsoleti, oppure, come nel caso di Severini, piuttosto didascalici. Il declino di Boccioni come pittore e anche come teorico dopo il 1914 è perfino spettacolare. Sironi, pittore fin qui ai margini dell’esperienza futurista, s’incaricherà di imprimere un nuovo orientamento al modernismo italiano; orientamento al quale non fu estraneo il lessico visivo e l’economia del segno grafico che abbiamo sin qui seguito.
Rielaborando l’originario schema di Marinetti, Sironi rinnovò un simbolo collettivo fondato sul pregiudizio della diversità e di un antagonismo di natura, che si rispecchiava nel tono delle affermazioni propagandistiche della stessa rivista: «Quasi tutte le nazioni d’Europa, la Francia, la Spagna, il Belgio, L’Inghilterra, debbono alla penetrazione romana la loro civiltà e gentilezza, e soltanto quelle che i romani non poterono raggiungere, come Germania e i suoi alleati, soffrono ancora oggi dei resti dell’antica barbarie»48. L’apologia dell’imperialismo romano giustificava qui il primato della civiltà italiana nei modi di una formulazione che anticipa gli argomenti persuasivi della propaganda fascista.
Presi nel loro insieme, i due manifesti non costituirono un caso di liberazione psicologica nell’immaginario e nel fantastico, né favorirono una qualunque evasione dalla realtà: piuttosto la riformularono nei termini ideali di un dogma. L’elegia della cronaca e della memoria lasciava così spazio all’ideologia della storia.
Questa attitudine motiverà la successiva attività illustrativa di Sironi, determinando le soluzioni formali e ideologiche della sua pittura. Un’osservatrice come Margherita Sarfatti riconoscerà che in lui «la stilizzazione, rude e squadrata, procede per masse apodittiche, quasi tipografiche, di bianco e nero». Un altro commentatore dell’epoca parlerà di «linguaggio che assurge a declamazione epica», creando «una nuova via al disegno politico»49 .
Attraverso l’esperienza delle immagini di guerra, Sironi maturò
48 L’italiano, «Il Montello», n. 1, novembre 1918. 49 M. G. Sarfatti, Storia della pittura moderna, Roma, Cremonese, 1930; P. Sighinolfi, I disegni politici di Mario Sironi, «Augustea», 5 gennaio 1933.
la più chiara vocazione a una funzione di rinnovato adeguamento alla società mutata. Non più avanguardia antagonista delle strutture politiche e civili, bensì protagonista della riedificazione nazionale, attraverso la creazione dei miti visivi per l’ordine autoritario del nuovo governo50 .
A partire dal primo numero di «Gerarchia», la rivista politica di Mussolini, Sironi inizierà a impiegare un repertorio di classicità romana e di iconografia imperiale, contribuendo ad offrire al fascismo gli elementi simbolici per l’edificazione del proprio mito51 .
50 Cfr. per questo l’eccellente quadro d’insieme di C. Maier, Recasting Bourgeois Europe. Stabilization in French, Germany and Italy in the Decade After World War I, Princeton, Princeton University Press, 1975 e cfr. G. Mosse, Il fascismo e l’avanguardia, in L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 233-251. 51 Benzi, Sironi illustratore, cit., nn. 1267 sgg; E. Braun, Mario Sironi: arte e politica in Italia sotto il fascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 46 sgg.