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Parlare di Giotto, dipingere come Giotto

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Indice dei nomi

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Parlare di Giotto, dipingere come Giotto

C’è qualcosa di fortemente simbolico, in questo scambio epistolare. Nel giro di poche settimane Carrà si affrancava da Marinetti e spediva in Toscana un saggio su Giotto e un dipinto apprezzato proprio per il suo voluto primitivismo.

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Se ne può trarre conferma da una lettura di questo periodo: in due missive Carrà richiese a De Robertis copia di Maschilità di Papini. Il volume, ventiseiesimo quaderno de «La Voce», era stato pubblicato nello scorcio del 1915. Si trattava di una silloge di quindici articoli editi tra il 1909 e il 1914, con un solo capitolo inedito conclusivo (Il genio inconoscibile), riordinati nell’intento di offrire un profilo morale alla figura dell’intellettuale contemporaneo29. In particolare, Papini riproponeva La tradizione italiana, un articolo del 1911 che ci sembra assai utile per valutare il ragionamento di Carrà30. Scriveva difatti in quell’occasione Papini:

Ci s’accorge di esserci troppo gettati nel presente straniero e d’esserci troppo scordati del passato paesano; si sente che l’intermezzo internazionale necessario non deve mutarsi in tradizione secolare e che un riaffondamento ingenuo e pacato nel suolo della patria potrebbe renderci non già la verginità […] ma una parte di quella forza nativa che fece più volte degli italiani «colla penna e colla spada» i reggitori e gl’ispiratori dell’occidente.

Il problema, come si vede, era quello di valutare l’esistenza stessa di una tradizione univoca: «prima di ricercare qual’è la tradizione nostra occorre esser certi che una tradizione nostra ci sia, una tradizione veramente italiana e inconfondibile con altre». L’intento di Papini era assai preciso: con il volumetto desiderava rilanciare un’agenda di lavoro orientata alla revisione dell’«intermezzo internazionale», che a quest’altezza cronologica altro non poteva essere che l’esperienza lacerbiana di confronto con le avan-

29 Cfr. G. Papini, Diario, Firenze, Vallecchi, 1962, p. 4, 11 giugno 1916: «Penso che si potrebbe far davvero quell’antologia completa – ma non scolastica – di quel che c’è di veramente vivo e resistente nella letteratura italiana (vista come arte, lirica soltanto). Si cominciò io e Soffici a farla nel 1908. Idea simile ha De Robertis. In questa estate ricomincio da solo. La intitolo Libro di Lettura dello Scrittore Italiano». 30 G. Papini, Maschilità, Firenze, Libreria della Voce, 1915, pp. 71-78.

guardie europee. Un impegno non privo d’aspetti problematici, se è vero che Papini scriveva: «Qual’è la tradizione italiana nell’arte? Il sintetismo sobrio e toscano di Giotto e Masaccio, la decorosa irregolarità di Michelangelo, l’equivoca mollezza di Leonardo, la sublimità nel mediocre di Raffaello?»31. Il nodo andava affrontato nell’analisi dei fatti, prima ancora che negli argomenti pregiudiziali; e così Papini si permetteva di stabilire, in maniera piuttosto rudimentale, due tradizioni letterarie, avocando per sé la «stirpe dantesca»: con «tutto quello che di rozzo, di pietroso, di duro, di atroce, di franco, di solido, di concreto, di plebeo c’è nella letteratura italiana», contro la linea petrarchesca e quanto essa aveva «di molle, di elegante, di musicale». Non sarà inutile ricordare che un’allusione «dantesca» alle asprezze del cubismo più rigoroso fu espressa due anni dopo da Soffici, con Cubismo e oltre, perseguendo (come si è visto nel secondo capitolo) una linea d’austero primitivismo che saldava l’esperienza del Quattrocento pittorico toscano con la lingua dei padri32 .

Certo, quella di Papini era un’argomentazione piuttosto avventata, che l’autore aveva fin troppo facile gioco nel concretare, seguendo il Weininger di Sesso e carattere, in tipologie maschili e femminili: «miele e pietra», nelle parole di una sua esemplare invettiva; da qui, le virili ragioni del titolo del volume.

L’adesione al programma di Soffici, attraverso la nuova fascicolazione de «La Voce» e i contatti con De Robertis e Papini, giungeva al suo compimento. Più che di abiura, però, è lecito parlare d’una continuità con le opere e, per quanto parzialmente, con le teorie svolte su «Lacerba». L’intera Parlata su Giotto sembra in effetti riverberare alcuni fra i più validi aspetti della dottrina futurista. Si prenda come esempio questo passo33:

Un murmure solenne e pacato passa dal centro alla periferia della terribilità serrata in legge cubica. Questo flusso centrifugo tramuta le sue origini musicali e diviene forma e architettura che di forme è tutto un insieme. Sotto le espansioni, dei dorsi delle figure, accovacciate o inclinate

31 Ivi, p. 76. 32 A. Soffici, Cubismo e oltre, cit.; cfr. quanto ho scritto in Un dialogo inedito di Ardengo Soffici e il dibattito di «Lacerba» sulla pittura pura, «Ricerche di Storia dell’Arte», 2001, n. 73, pp. 81-88. 33 C. Carrà, Parlata su Giotto, «La Voce», VIII, n. 3, 31 marzo 1916, p. 166.

in atto amoroso, e sotto quelle dei ventri e dei vasti pettorali, le masse circostanti urtano, si dilatano, e si estendono per far balzare il dramma plastico che si serra oltre le psicologie particolari.

Un simile esercizio di ekphrasis dedicato agli affreschi giotteschi tradisce la più netta fedeltà al campo lessicale futurista. Nel vortice delle similitudini emergono soluzioni riferibili, prima ancora che al «massiccio visionario trecentesco», allo stesso autore del collage Festa patriottica, poi noto col titolo di Manifestazione interventista.

Per Carrà fu un momento cruciale, che si rispecchiò con ogni evidenza sulla pagina scritta. Locuzioni quali «arabesco sensibilizzato», «insieme plastico», «moto trasversale» sono indubbiamente memori dei suoi articoli lacerbiani. In altri luoghi affiorano però soluzioni come la «costruzione di valori puri», l’«ossatura cubistica», la «austerità e semplicità di chiaroscuro», la «conchiusa terribilità plastica» derivate dalla didattica formalistica di Soffici. Allo stesso modo, gli accenni alla «virilità plebea e barbara» come alla «verginità plebea» sembravano ammettere alla configurazione dell’artista nuovo così ricercato gli argomenti già proposti da Soffici nei più lontani, e mai disattesi, articoli vociani su Henri Rousseau, nella Lettera al giovane pittore, come nella monografia su Arthur Rimbaud34. Nella ristrutturazione stilistica di Carrà pittore si andavano compiendo anche le sorti del Carrà prosatore.

A fine aprile uscì infine Le parentesi dell’io, mentre veniva intavolata con Papini una trattativa per il dipinto La carrozzella, che sarà però acquistato nello stesso mese d’aprile dal Penazzo. Riassumiamo i dati fin qui raccolti. A febbraio Carrà aveva pronti tre quadri nuovi. In aprile vendette Bambina e Carrozzella. Il terzo dipinto è il Gentiluomo briaco (fig. 4.4), che venne però rimaneggiato fino a maggio, quando fu spedito a De Robertis il manoscritto di Orientalismo. La lettera di accompagnamento non si è conservata; abbiamo però un sollecito alla pubblicazione datato a giugno35 .

34 Cfr. A. Soffici, Lettera a un giovane pittore, «La Voce», II, n. 7, 27 gennaio 1910, p. 251; Henri Rousseau, ibid., n. 40, 15 settembre 1910, p. 395; Arthur Rimbaud, Firenze, Casa Editrice Italiana Quattrini, 1911 («Quaderni della Voce», XIII). 35 FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 6 giugno 1916.

I tre dipinti, nell’ordine Bambina, Carrozzella e Gentiluomo briaco, corrispondono ad altrettante pubblicazioni: Le parentesi dell’io (scritto in gennaio e pubblicato in aprile), Parlata su Giotto (prime settimane di marzo, a stampa a fine mese) e Orientalismo (scritto all’inizio di maggio e pubblicato a giugno). Quest’ultimo testo, l’unico del periodo a menzionare esplicitamente il dipinto di riferimento, offriva una descrizione dell’opera ancora in itinere, illustrando alcune significative varianti poi oggetto di pentimento36:

Nelle magie delle agre porosità la maschia sembianza umana s’incide la bottiglia appesantita nella forma conica include sfumature sinuose e austerità insolcata nelle linee definitive della deformazione lirica. La mano femminile biancoguantata nelle reali convessità spicca sul fondo variorosato e col bianco del globo oculare del giovane ebbro raccorda il primo piano del parallelogrammo vivente con le profondità spaziali della costruzione.

Qui gli stilismi futuristi si riducono all’espunzione della punteggiatura e a un paio di costrutti come l’agglutinazione «biancoguantata» e la paronomasia di «variorosato». Nella versione definitiva del quadro scomparve il guanto, sostituito dal bicchiere bianco. Il fondo rosa venne infine a essere inquadrato entro una scatola posta in prospettiva, compiuta con maggiore probabilità nei mesi successivi, con la conoscenza diretta delle opere di De Chirico37 .

Madreperla primaverile è un componimento poetico steso da Carrà a maggio e pubblicato a luglio. La sintassi nominale lasciò il passo a un verso liberamente espresso, che trovava spazio su una pagina sgombra d’interpunzioni e fitta d’immagini vivide («trasparente fresca oziosità»; «Orti aromati»). La realtà caotica iniziava ad assumere forme chiare e saporose. La mediazione del linguaggio poetico e pittorico era un fatto di ragione intuitiva: «Se le giunture male assecondano il movimento del mio cuore in ombra lo spirito esperto conosce meglio il linguaggio mutolo delle piante e delle pietre il mutolo parlare»38 .

36 C. Carrà, Orientalismo, «La Voce», VIII, n. 6, 30 giugno 1916, pp. 269-271. 37 Cfr. D. Guzzi, I tempi lunghi della pittura carraiana, ovvero, analisi delle cronologie, in Carlo Carrà, a cura di A. Monferini (catalogo della mostra, Roma, 19941995), Milano, Electa, 1994, pp. 125-166, 156. 38 C. Carrà, Madreperla primaverile, «La Voce», VIII, n. 7, 31 luglio 1916, pp. 312-314.

Figura 4.4 Carlo Carrà, Il gentiluomo briaco, 1916.

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