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Sul Carso, col mandolino

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Indice dei nomi

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Sul Carso, col mandolino

Nella lettera di Soffici a Papini testé citata, la descrizione del Carso martoriato è seguita da un episodio che vale la pena di seguire: «In una di quelle doline di martirio glorioso trovai un mandolino sfasciato dal sole e dalle intemperie […] il mandolino dovrebbe essere nello stemma italiano. Avere il coraggio di suonare il mandolino sul Carso è un segno di grande civiltà imperitura»28 . Soffici serbò lo strumento e nel 1919 ci fece un quadro: Il mandolino del Carso.

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Alla luce di quanto detto, desidero leggere questa natura morta, che altrove si interpreta come esempio del risarcimento sofficiano di pienezze e volumetrie tradizionali, come «paesaggio simbolico» del Friuli e degli attori che vi hanno agito.

È necessario però richiamare un dato biografico: il matrimonio di Soffici con Maria Sdrigotti, celebrato il 28 giugno 1919. A Papini parlò della moglie come di una «simpatica ed eccellente figliola. Udinese, figlia di operai, sorella di un soldato morto e di uno mutilato. C’è qualcosa di sacro in lei per me per tutte queste ragioni. In essa io sposo la parte più pura e dolorosa della mia patria. Il Friuli che mi è tanto caro perché ci ho passato le più commoventi e gravi ore della mia vita d’Italiano»29 .

In quelle stesse settimane uscì la Ritirata del Friuli, che ebbe subito pari successo del Kobilek. Una volta smobilitato, con due raccolte accuratamente selezionate di scritti del decennio precedente, Scoperte e massacri e Statue e fantocci, Soffici completò il suo strategico riposizionamento postbellico30. La parte restante dell’anno la dedicò a preparare la prima mostra antologica della sua pittura.

Il mandolino del Carso (fig. 5.3) fu tra le opere più recenti ad essere esposte nella grande mostra personale che si aprì a Firenze tra maggio e giugno 1920. Raccogliendo opere dal 1903 fino al presente agiva nell’autore il desiderio di sancire un’indefessa continuità, certo non contraddetta dall’approdo episodico e per-

28 Papini, Soffici, Carteggio III, cit., p. 187. 29 G. Papini, A. Soffici, Carteggio, IV. 1919-1956. Dal primo al secondo dopoguerra, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 58, Soffici a Papini, 8 aprile 1919. 30 Cfr. A. Martini, Storia di un libro. «Scoperte e massacri» di Ardengo Soffici, Firenze, Le Lettere, 2000.

sonalissimo al futurismo, del quale peraltro tutti i recensori non faticarono a notare l’intenzionale oscuramento31 .

E così infatti Matteo Marangoni osservava, in catalogo (e in un testo rilanciato sul fascicolo contemporaneo di «Valori Plastici»): «Guardando queste nature morte ci vien fatto anche di pensare se certe immediatezze d’espressione pur contenute in uno schema di un rigore addirittura ortodosso, non possano essere frutto, piuttosto che di reazione, di vera libertà acquisita in quella prova del fuoco che fu per i migliori spiriti la ormai lontana discendenza futurista»32 .

Non è tuttavia come emblema del ritorno sofficiano a forme solide e semplici, all’amoroso studio del vero, alla rimozione delle aberrazioni moderniste – come sancì Ugo Ojetti in una nota sul «Corriere della Sera» del 12 maggio – che il dipinto va letto. Il significato di questo quadro poggia su tre elementi:

1. La bottiglia e bicchiere di vino. Con il loro implacabile e becero realismo si prestano al rovesciamento del topos della natura morta di sapore e d’impianto moderno – quelle di Picasso e Braque, ad esempio, di cui Soffici era stato come si è visto il primo indiscusso esegeta – dichiarando il compiuto mutamento stilistico dell’autore. 2. Il mandolino. È strumento popolare del Mezzogiorno d’Italia. Fu portato da un soldato meridionale fin sul Carso e lì ritrovato da Soffici, conservato e dipinto come segno tangibile e simbolo di un’Italia unificata nelle trincee.

In Kobilek Soffici aveva menzionato le serate e le veglie notturne in bivacco, allietate da canzoni ardite e stornelli volgari, quando i soldati accompagnavano canti e battute col suono d’una chitarra o d’un mandolino33 .

In una struggente lettera Giuseppe Ungaretti aveva così descritto la scena d’una tradotta: «sugli argini della strada c’erano accoccolate le due file di un reggimento che faceva il suo quarto

31 L. Dami, Il pittore Ardengo Soffici, «Dedalo», I, 1920, p. 214; G. Ballerini, Ardengo Soffici. La grande mostra del 1920, Prato, Pentalinea, 2007 («Quaderni Sofficiani», 13). 32 M. Marangoni, Mostra Ardengo Soffici, «Valori Plastici», II, n. V-VI, maggiogiugno 1920, pp. 64-67. 33 A. Soffici, Kobilek, cit., pp. 63 e 80.

Figura 5.3 Ardengo Soffici, Il mandolino del Carso, 1919.

d’ora di tappa prima di riproseguire verso lassù; uno cercava degli accordi su un mandolino, e delle voci a poco a poco s’erano levate in sordina, sotto a un gran cielo stellato; era una cosa che portava via il cuore di compassione e di fierezza»34. Nel quadro di Soffici, il mandolino è chiamato a rappresentare l’idillio came-

34 G. Ungaretti, Lettere a Giovanni Papini, 1915-1948, a cura di M. A. Tersoli, Milano, Mondadori, 1988, p. 143, 10 settembre 1917. Che però la convivialità fra le truppe e la popolazione fosse ben altra cosa rispetto all’idillio raccontato da Soffici, ne diede prova Mario Piccini, che ricordò come, per farsi capire, era necessario parlare staccando bene le sillabe: v. Come ho visto il Friuli, Firenze, Edizioni de «La Voce», 1919, p. 221.

ratesco, l’elegia della redenzione nazionale collettiva, l’etica della solidarietà interclassista, secondo quanto l’autore confidava a Prezzolini: «Qui si sta veramente formando l’Italia». (Gli rispose indirettamente con un sogghigno Gadda, qualche anno dopo: «L’umile fante, come il poverello d’Assisi e i marrons glacés, sono adattissimi per il boudoir di certe signore»)35 . 3. Il pugnale dell’ardito (e non, come è stato scritto, un coltello qualunque). È uno degli oggetti più cari all’immaginario postbellico della trincea. Derivò dalla riconversione di giacenze di vecchie baionette, opportunamente modificate e spesso personalizzate dagli arditi stessi, che godevano di una certa libertà nell’armamento. Il pugnale richiama la figura mitica del combattente per eccellenza, colui che sottratto alla rigida disciplina di truppa, aveva rovesciato l’esito del conflitto a favore della nazione, grazie all’intraprendenza e al coraggio.

Nel simbolo del pugnale si riconosce la figura del giovanissimo teppista, ormai convinto «diciannovista», di lì a poco fervente squadrista. È infatti appena il caso di ricordare che una parte degli arditi confluirono nel movimento dei Fasci di combattimento fondati da Mussolini nel marzo 1919 a Milano.

Pochi mesi dopo, il 10 d’agosto, Mussolini pubblicò sulla prima pagina de «Il Popolo d’Italia» una lettera in difesa dei generali Graziani, Cadorna e Capello, accusati dall’«Avanti!» per i fatti di Caporetto. Anche La ritirata del Friuli venne da Soffici dedicata a Capello.

Ne Il mandolino del Carso la geografia del Friuli s’intrecciò alla biografia del pittore. L’accuratezza dei dispositivi simbolici e l’austerità dei toni impiegati non costituirono un mero stratagemma pittorico. Uniformando bensì lo stile alle forme embrionali della nuova ideologia, il dipinto presagiva un cupo riallineamento verso un’estetica di tradizione nazionale e di risarcimento antimodernista dell’ordine pittorico.

35 A. Soffici, Lettere a Prezzolini, cit., p. 119, Povia di Cormons, 16 maggio 1917; Gadda, Il castello di Udine, cit., p. 42.

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