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La liquidazione dell’arte pura
In occasione del Congresso nazionale delle associazioni artistiche, nell’aprile del 1924, il capo del governo pronunciò infatti un discorso che, oggi, appare assai più interessante rispetto alle osservazioni, di sconcertante genericità, espresse nelle occasioni in cui fu persuaso a occuparsi delle mostre sarfattiane. Nel rinnovamento politico vi era, a suo dire, un riflesso estetico e artistico che mirava a restituire al popolo italiano, «non per infeconda brama di potere», il suo stile. «Stile» divenne presto la parola magica, il passepartout dell’epoca: lo scopo dell’arte, sottratta alle speculazioni mercantili e portata a contatto con le moltitudini, era quello di mettere in scena le fonti perenni di vita del popolo italiano, rappresentando i codici normativi d’una ritrovata concordanza e una legislazione pacificatoria: «lo stile, che è caratteristica eterna e luminosa della stirpe […] non soltanto darà agli uomini le norme per edificare la città futura, ma le savie e giuste leggi necessarie alla civile armonia»18 .
La liquidazione dell’arte pura
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Si capisce molto di questa fase di Soffici leggendo l’articolo pubblicato nel settembre 1922 sulla rivista mussoliniana «Gerarchia». Il valore strategico di questo testo venne confermato dalla sua triplice pubblicazione: lo si legge infatti anche in Battaglia fra due vittorie, il volumetto che raccolse gli interventi di politica culturale scritti tra la fine della guerra e la Marcia su Roma, e poi, pressoché immutato – come a voler confermare la tetragona certezza di queste sue conclusioni – in occasione dell’inchiesta di «Critica fascista» sull’arte ai tempi del regime19 .
Soffici affermava l’inscindibile unità dei valori artistici e letterari, nei loro differenti stili, con quelli etici e politici. Il fascismo, sorto per rigenerare la nazione, poneva tale problema come
18 B. Mussolini, Per le Associazioni artistiche, in Id., Scritti e discorsi, vol. IV, Il 1924, Milano, Hoepli, 1934, pp. 131-133. Fra i pochi interventi extra-politici di Mussolini, è opportuno segnalare l’elogio a A. Soffici, Elegia dell’ambra, ripreso dalla stampa italiana nel gennaio 1927: v. Cavallo, Soffici, cit., p. 343. 19 A. Soffici, Il fascismo e l’arte, «Gerarchia», n. 9, 25 settembre 1922, poi in Id., Battaglia tra due vittorie, Firenze, Vallecchi, 1923 e infine in «Critica Fascista», 15 ottobre 1926, pp. 169-177.
prioritario, e non poteva certo restare indifferente all’imposizione di un valore o l’altro. In nome della nazione, quindi, il fascismo doveva adoperarsi per stabilire un «paradigma». Ciò non significava imporre un controllo politico sulla «libera manifestazione del genio creatore di bellezza» e nemmeno un’arte di partito, o di Stato, assicurava Soffici («nessuna idea potrebbe farmi maggior orrore di questa»).
Questa sua posizione trovò una precisa eco nel primo intervento noto di Mussolini sulle arti, che cadde solo pochi mesi dopo, con il citato discorso di presentazione alla mostra del gruppo Novecento a Milano, nel marzo 1923. In quell’occasione il capo del Governo confermò che non si poteva governare ignorando l’arte e gli artisti, precisando però anche di non voler incoraggiare qualsiasi forma di arte di Stato; l’arte rientrava cioè nella sfera dell’individuo20 .
Lo scritto di Soffici anticipò non solo le prime enunciazioni mussoliniane (che, come noto, furono poi nella pratica ampiamente disattese), ma molti altri temi che troveremo ripetuti nei successivi vent’anni. Il concetto più importante era quello dell’ideale sovrano di un’arte fascista perché italiana. Il fascismo non doveva sostenere le forme artistiche filistee, lo «stato d’animo volgare e materialistico», il «sentimentalismo da piccolo borghesi e da socialisti», così come le forme di derivazione esotica e comunque straniera, senza che esse fossero state assimilate e ricondotte alla matrice dello stile nazionale. Diversamente, si conduceva lo spirito «verso la prosaicità, il sensualismo grossolano, o la vigliaccheria democratica». Il fascismo doveva così scegliere fra la reazione (che rifiutava il presente, risalendo mimeticamente alla glorie del passato) e la rivoluzione (che, tanto nell’estetica quanto nella politica bolscevica, rovesciava i valori per una libertà che sfociava nell’arbitrio e nell’anarchia).
A un tale convincimento corrispose, nel complesso, un’idea d’arte che appariva di sconcertante approssimazione, provenendo dalla stessa penna che dieci anni prima aveva redatto Picasso e Braque. Soffici si limitò infatti a istituire una mera precettistica d’interdizioni, anziché di prescrizioni. Muovendo da una puntuale elencazione dei principi e caratteri del fascismo, desunti dalle
20 Mussolini, Discorso alla mostra del Novecento, cit.
«norme fondamentali del Duce» e dalla dottrina riposta nei suoi discorsi, Soffici considerò «del pari sufficiente tradurli in principi estetici per avere l’immagine chiarissima di quel che può e deve essere un’arte fascista». Si ottenne così una teoria che si sviluppava per via d’esclusione da quanto non assimilabile col fascismo genuino e operante. Arte non fascista era quella che s’ispirava a forme straniere, mancando delle peculiarità dello spirito nazionale; non fascista era l’arte che negava la tradizione, e che si sottraeva anche al presente e al futuro rifugiandosi in arcaismi e primitivismi; non fascista, insomma, era l’arte per intero discordante dalle linee portanti del regime e dallo Stato, le stesse che contenevano implicitamente i presupposti estetici e formali, o perlomeno ne stabilivano i divieti21 .
Se la storia e gli esempi del passato avevano consentito, ai tempi della «Voce», d’indicare la via per costruire una modernità italiana non epigonica, ora quella stessa tradizione veniva invocata come baluardo contro le insorgenze dell’internazionalismo antifascista. I nomi e le opere dell’arte e della letteratura, da Dante a Giotto, che avevano guidato alla comprensione della modernità europea non apparivano più dei modelli di composizione o di stile, da tradurre nel presente della viva creazione artistica: dal loro esempio era invece necessario trarre ora dei valori assoluti, da far valere entro uno scontro di civiltà.
Soffici aveva rinviato a lungo i conti con se stesso: come far convivere il parnassiano disimpegno della «pittura pura» proclamato nel 1911 con le fatali mozioni culturali del nascente regime, dieci anni dopo? Il solo modo possibile era quello di riconoscere i valori figurativi di chiarezza, solidità e plasticità non più come tratti di un ragionamento puramente visivo, o come l’erompere di una creativa spontaneità popolare, bensì come elementi ideologici di un primato nazionale. A modo suo, anche dinanzi alla critiche mossegli da molti suoi vecchi sodali, questa poteva sembragli come una decorosa forma di coerenza.
Creare delle ipostasi politiche a partire dalla critica figurativa pura apparve come lo stratagemma più comodo per riposizionarsi nel presente e, al tempo stesso, tracciare le linee di continuità con
21 A. Soffici, Arte Fascista, in Id., Periplo dell’arte, Firenze, Vallecchi, 1928, ora in Opere, V, Firenze, Vallecchi, 1963, pp. 137-141.
il proprio passato. Questo non significava infatti sostituire i generi prediletti della pittura pura – la natura morta e il paesaggio – con altri generi, descrittivi o narrativi, come peraltro poi si fece, con un goffo tentativo di riabilitare la pittura di storia22. Si trattava, invece, di difendere la specifica modernità di quegli stessi generi «puri», e attribuire allo stile della tradizione nazionale un valore ideologico assoluto.
La grande intuizione di Sironi, ciò che col tempo ne fece il più importante interprete della pittura nell’Italia fascista e il persuasivo regista delle grandi operazioni espositive degli anni Trenta, fu di portare a sintesi, in una scala monumentale che fino a quel punto era naturalmente estromessa dal decorso del modernismo, quello che Soffici volle sempre tenere ben distinto: lo stile austero della solida tradizione tre e quattrocentesca e la vocazione pedagogica della pittura narrativa.
Il grande limite di Soffici e, in prospettiva, come si vedrà nel capitolo successivo, dell’intera declinazione strapaesana del suo progetto, fu la mancata valutazione d’una nuova categoria di destinatari e delle più efficaci forme di comunicazione. Il suo programma di redenzione nazionale restava vincolato a una tormentata risoluzione individuale, non priva dei tratti eroici d’una resistenza ai moti progressisti, ma intollerante verso i processi collettivi di persuasione delle masse, attraverso cui il regime ambiva a identificare l’intera nazione: tanto dal punto di vista del generale consolidamento del consenso popolare (comprensivo, fatalmente, delle forme pedagogiche più didascaliche e banali), quanto da quello, opposto nella forma e complementare negli effetti, dell’innocua evasione prodotta da un’industria culturale accuratamente sorvegliata23 .
Non si poteva proporre un riscatto nazionale confinandosi entro le pagine livide d’un bollettino provinciale, credendo di parlare così all’intera nazione – o all’élite cui s’era desiderosi rivolgersi24 .
22 I principali interventi al Referendum sul «quadro storico» promosso dal periodico «Le Arti Plastiche» si legge ora in P. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, vol. III. 1, Torino, Einaudi, 1990, pp. 89-97. 23 P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981; A. Leone De Castris, Egemonia e fascismo, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 57-79. 24 I limiti della diffusione editoriale, e quindi anche dell’efficacia, del «Selvaggio» vennero messi in luce da Papini a Soffici: G. Papini, A. Soffici, Carteggio IV. 1919-
Né si poteva ambire a persuadere (o a combattere) la complessa e stratificata geografia culturale espressa dai fiancheggiatori del regime – che naturalmente era assai più ampia, ricca e coltivata rispetto a quanto credeva o diceva Soffici stesso – attraverso il becero richiamo alle origini, senza adeguate forme di trasmissione, abbarbicandosi a un ossimorico e sussiegoso populismo di élite. Allo stesso modo, nel quadro della normalizzazione del regime che si avviò dal 1925, le forme retoriche, le figure allegoriche e le immagini del mito non dovevano essere abolite come residui inattuali dell’Italia giolittiana: al pari delle risorse economiche, istituzionali e sociali ugualmente espresse dai fiancheggiatori, esse dovevano essere assimilate con scaltrezza, fatte proprie e aggiornate da parte dei fascisti «veri»25 .
Il governo di Mussolini si era assunto il compito d’inserire nello Stato il partito fascista, smorzando ogni tendenza autonoma ed eversiva; allo stesso modo, gli intellettuali rivoluzionari del 1914 dovevano deporre le tendenze individualiste e «orfiche», misurandosi con gusti, stili, istituzioni e linguaggi sopravvissuti all’ancien régime. In tutti i casi, era necessario trovare una forma di sviluppo entro il vecchio ordine costituito, senza stravolgerne i caratteri fondativi ma adeguandoli alle necessità d’una pedagogia popolare.
Se la pretesa di Marinetti di porre se stesso e il futurismo alla testa del «proletario dei geniali» poteva far sorridere, essa almeno aveva il pregio di identificare con chiarezza la necessità di convertire la pedagogia del modernismo in suggestione di massa26 . Quando Sironi, dimostrandosi ancora una volta il più lucido interprete delle esigenze di autorappresentazione del regime, presentò il suo programma di recupero della pittura murale, «sociale per eccellenza», riuscì a trovare una sintesi tra le diverse, e talora opposte, possibilità di un’arte fascista27 .
Egli non poteva che condividere, con Soffici, il superamento della concezione individualista dell’arte per l’arte. Ma nel mura-
1956: dal primo al secondo dopoguerra, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 129. 25 R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista (19251929), Torino, Einaudi, 1968, pp. 38 sgg. 26 F. T. Marinetti, Democrazia futurista. Dinamismo politico (1919), in Teoria e invenzione futurista, cit., p. 404. 27 Braun, Mario Sironi, cit., p. 155.
lismo Sironi indicava la possibilità di creare un’arte che fosse, al tempo stesso, nitida nella forma, lontana dal kitsch della propaganda di massa, e chiaramente allusiva all’austera tradizione «primitiva» dei trecenteschi lombardi e toscani.
È ovvio – scriveva Sironi – che l’ideale mediterraneo, solare, del risorgimento dell’affresco, del mosaico, della grande arte decorativa non possa raggiungersi sotto certi aspetti che in Italia […] E il ritorno alla pittura murale significa ritorno agli esempi italiani ed alla tradizione nostra, alla quale oggi è impossibile effettivamente collegarsi, nonostante che tanto spesso se ne senta la modernità affascinante e si intuisca la spinta possente che potrebbe venire all’arte moderna dal suo esempio e dalla sua disciplina28 .
Lo stile, ossessivamente invocato da Soffici, non era più per Sironi un momento di resa individualistica e soggettiva, bensì il frutto dell’oggettivazione della creatività in funzione educativa. L’azione pittorica permutava la logica della rappresentazione nella percezione collettiva di valori condivisi. Il rifiuto della pittura da cavalletto annullava l’intimismo borghese del «quadro» incoraggiando lo sviluppo, su vaste dimensioni, d’immagini chiare, ordinate, di rigorosa esemplarità. La fusione tra la pittura e l’architettura definiva nuovi valori, non comprimibili nella logica mercantile; l’attenzione al nuovo spazio di lettura conduceva a una scenografia monumentale che incarnava la funzione pedagogica ed educativa, a monito di valori assoluti.
La convergenza tra l’arte d’avanguardia e la destinazione sociale ambiva a ricomporre la separazione tra la ricerca artistica di élite e le masse popolari. E questo, credo, Sironi lo aveva imparato proprio dalla sua militanza come futurista: dalla necessità di scovare, come già nel 1918, efficaci forme di mediazione visiva tra un’ideologia e il suo naturale destinatario collettivo.
Chiudendosi in un orgoglioso distacco, Soffici confermò l’insofferenza dell’intellettuale tradizionale che fronteggiava con al-
28 M. Sironi, Pittura murale, «Il Popolo d’Italia», 1 gennaio 1932, in Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, Milano, Abscondita, 2000, pp. 21-22; cfr. G. Ginex, Il dibattito critico e istituzionale sul muralismo in Italia, in Muri ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950, catalogo della mostra, a cura di V. Fagone, G. Ginex, T. Sparagli, Milano, Mazzotta, 1999, pp. 25-43; un ampio repertorio di pitture murali è documentato in Sironi. La grande decorazione, a cura di A. Sironi, Milano, Electa, 2004.
terigia la società del suo tempo. Nella nuova situazione politica e sociale italiana non bastava avere (o credere di avere) delle buone idee; era ancor più necessario saperle tradurre in miti condivisibili. Incapace di accettare le nuove forme di mediazione sociale, incapace di subordinare il proprio egocentrismo all’opera collettiva per un’idea morale, Soffici rimase impaniato in un’aristocratica e tutto sommato compiaciuta reclusione, osservando con disprezzo quello che appariva ai suoi occhi, con colpevole semplificazione, null’altro che il volgare agitarsi degli arricchiti, degli approfittatori e degli arrivisti piccolo borghesi.
Lo spirito, sprezzante e superbamente individualista, dell’artista d’eccezione che dalle colonne della «Voce» aveva fustigato il gusto dei filistei, poteva certo essere mantenuto, nel panorama del dopoguerra; ma con il rischio di perdere, e per sempre, il reale contatto con una realtà mutevole. Soffici parlava e agiva con malcelato paternalismo, per conto di un popolo che in lui appariva, alla fine, come un’invenzione letteraria. Non più legislatore, egli si fece interprete di un’idiosincrasia che, al netto del rustico populismo e della retorica della toscanità, altro non era che una rabbiosa variante della frattura tra intellettuali e società.
Quello che esorbitava dallo schema di Soffici era racchiuso in una preoccupante elencazione, che il tempo trascorso non rende meno sinistra: non solo l’arte straniera, che pure era stato il faro del Soffici vociano, ma sic et simpliciter ogni forma espressiva «barbarica, antitaliana; liberale, giudaica, massonica, democratica, antifascista per eccellenza, in una parola». Le vituperate forme stilistiche delle avanguardie internazionali erano così equiparate alle forme della democrazia liberale. La mancanza d’una rigorosa guida culturale incoraggiava quindi non solo la tolleranza delle più viete espressioni artistiche della vecchia Italia, ma anche la compromissione del regime con le ambizioni e l’arrivismo di raggruppamenti annaspanti «tra la bassa volgarità accademica, il dilettantismo primitivistico o arcaicheggiante, l’avvenirismo romantico, anarchico, tedeschizzante o americanizzante»29 .
29 Soffici, Arte fascista, cit.