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Introduzione
Introduzione
Nessuna generazione artistica del Novecento ha posseduto, al pari di quella protagonista di questo libro, i concetti e gli strumenti per avviare la sovversione delle tradizionali categorie artistiche di forma, tempo e spazio. E nessun’altra generazione ha dovuto subire circostanze storiche e politiche che hanno governato, rovesciato e talora stravolto quegli stessi usi e fini.
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I temi qui discussi abbracciano un arco cronologico di tre decenni, i primi del secolo, lungo una traiettoria che, dalle prime avanguardie artistiche promosse in Italia dalla cultura vociana e futurista, conduce al loro progressivo inverarsi entro le retoriche della tradizione nazionale.
Parlare di “ideologia visiva”, per questo periodo, significa affrontare un discorso sulla formazione delle idee a partire dalle impressioni sensibili offerte dalla pratica artistica. Per questa ragione, si è voluto valutare la consistenza dei rapporti tra produzione artistica e forme ideologiche partendo dallo scrutinio di alcuni casi concreti, intrecciando fonti disparate (dipinti, fotografie, illustrazioni popolari, manifesti di propaganda, nonché testi di poetica e di critica d’arte) riferibili ad autori e movimenti afferenti al futurismo, alla pittura metafisica, al «Novecento» e a «Strapaese»: evitando però accuratamente il gioco semplificatorio delle nomenclature.
Ciascuno dei casi prescelti presenta, infatti, un rapporto problematico tra l’autonomia della ricerca artistica e i condizionamenti storici e sociali: un rapporto che si è provato ad affrontare nella sua complessità. Si è dunque preferito ricostruire tali vicende cercando di far emergere le sfumature di continuità, anziché i netti chiaroscuri delle infrazioni e delle restaurazioni più o meno
“epocali”. Le poetiche della modernità, anche nella chiave di istituzione d’una lingua nazionale, non appaiono univoche: sono invece polimorfe, multiple, dispersive.
Il primo capitolo del libro parte dallo studio d’un fondamentale dipinto del futurismo italiano – I Funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà, oggi al MoMA di New York – provando a rispondere ad alcune domande molto semplici: cosa significò davvero dipingere un oscuro episodio della lotta anarchica nell’Italia del 1911? E cosa c’entra, tutto questo, con quello che sappiamo della genesi, prima, e del decorso, poi, del futurismo? In quale modo un pittore come Carrà dovette inventarsi una propria idea di modernità, che tenesse fede al tempo stesso ai principi ideologici confusamente enunciati da Marinetti e alle convinzioni del pittore, un piemontese di rude formazione socialista-rivoluzionaria? Il funerale dell’anarchico divenne così la raffigurazione d’uno spettacolo di massa: un potenziale mito condivisibile che le circostanze della cronaca politica resero, però, pericolosamente ambivalente. Questo episodio viene dunque letto nell’intreccio con la crisi del socialismo riformista, dinanzi alla recrudescenza delle frange rivoluzionarie, e con l’emergere del contradditorio, istrionico, ma ineludibile nazionalismo futurista.
Negli articoli e nei libri in cui Ardengo Soffici presentò, in quegli stessi anni, la pittura di Picasso e Braque (argomento del nostro secondo capitolo), si assiste a un fenomeno solo parzialmente diverso. La lettura di Soffici è di grande intelligenza e di altrettanta tendenziosità: merito del cubismo è per lui di porre in rilievo le forme visive quintessenziali – chiaroscuro, massa, linea, volume – che avevano costituito i tratti distintitivi della grande arte italiana, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Questa tradizione può dunque essere ripercorsa nei suoi tratti figurativi elementari, istruendo in tal modo la ricerca artistica del presente. Il modello della tradizione non è opposto a quello dell’avanguardia ma anzi la alimenta, offrendo le risorse per un’idea di modernità italiana1.
Se la Milano d’inizio secolo aveva offerto a sovversivi d’ogni estrazione (anarchici, futuristi, sindacalisti rivoluzionari) formi-
1 È questo il tema su cui mi ero soffermato in «Lacerba» 1913-1915. Arte e critica d’arte, Bergamo, Lubrina, 2000, di cui i saggi presenti in questo libro costituiscono la naturale prosecuzione.
dabili energie creative e una reversibile piattaforma ideologica, nella Toscana della «Voce» andava così prendendo forma il primo esperimento di rinnovamento morale della cultura italiana. È lungo questo asse che si avvia la prima vera esperienza di un’arte moderna e italiana a un tempo. Nei quattro-cinque anni a ridosso della Prima guerra mondiale prende così forma (ben al di là della distinzione scolastica fra futuristi e “passatisti”) un problema di stile unitario e moderno, che possa rappresentare il compimento di un’identità nazionale. Per questa generazione, si trattava di un passaggio obbligato per potersi misurare alla pari con la cultura europea.
Sia l’iconografia quanto lo stile ambiscono dunque a definire i tratti ideologici della moderna arte italiana: per la via di un’esplicita tensione politica (anarchica prima, nazionalista poi), e attraverso il recupero, parimenti in termini nazionali, della tradizione del Quattrocento. Il lavoro di Carrà intorno al 1916 diviene così un nodo cruciale: i testi da lui dedicati a Giotto e Paolo Uccello si leggono come una nitida metafora dell’artista moderno, mentre i suoi dipinti coevi – che abbiamo studiato nel quarto capitolo – si offrono come un’allegoria di una nuova concezione, saldamente costruttiva, del mestiere artistico.
Il problematico rapporto tra lingua poetica e rappresentazione della nazione acquista nuovi significati con la guerra. L’esperienza del conflitto da un lato convalida l’obbligo di tradurre le spinte nazionaliste entro il linguaggio, ben altrimenti persuasivo, della semplificazione grafica finalizzata alla propaganda bellica, come si prova a raccontare nel terzo capitolo, dedicato a due importanti lavori grafici di Mario Sironi. Dall’altro lato, il mito dell’esperienza di guerra (come magistralmente formulato da Eric Leed e John Fussel) obbliga alla ridefinizione di generi consolidati. Il paesaggio, come abbiamo ricostruito nel corso del quinto capitolo su esempi di dipinti e testi di De Chirico, Carrà e Soffici, si contrae in una sorta di crittografia, mentre la natura morta acquista il valore simbolico della coesione sociale d’una comunità di eletti: gli homines novi dell’avanguardia, ora riscattati dal lavacro di sangue.
Nel dopoguerra, lo stile unitario s’identifica per Soffici con la lingua del nuovo popolo italiano sorto dalle trincee, contro l’aberrazione del linguaggio modernista di cubismo, futurismo e
surrealismo. Soffici contrasta inoltre le moderne forme di persuasione di massa e i segni d’una nascente civiltà delle immagini che sembra travalicare, con il cinematografo e la stampa periodica, le componenti elettive della tradizione pittorica. I suoi numerosi interventi nei primi anni Venti (che abbiamo affrontato, nei suoi chiaroscuri, nel corso del sesto capitolo, in contrappunto con le opere di Margherita Sarfatti, Giovanni Papini, Curzio Malaparte), delineano così, con preoccupante perseveranza, le linee di quella poetica “strapaesana” che abbiamo quindi provato a sondare nel settimo capitolo, valutando l’impatto complessivo di questo fenomeno nell’Italia dei secondi anni Venti.
A un caso esemplare di questo cortocircuito tra modernismo e ruralismo, ovvero l’opera di Giorgio Morandi, è stato dedicato l’intero ottavo capitolo. Qui si è voluto contrapporre alla tradizione delle letture purovisibiliste proposte nei decenni fino ad oggi (un Morandi pittore puro, artefice di sofisticate indagini formali, del tutto distanti dalle contingenze storiche e sociali), l’immagine offerta sulle pagine della rivista «Il Selvaggio», dove il lavoro di Morandi perde le sue caratteristiche di rarefazione formale, subendo una pesante ridefinizione ideologica proprio per l’implicita etica “rurale” delle sue nature morte.
L’ultimo capitolo del libro riprende il tema dell’ideologia futurista, misurando il problema della sua estinzione nel conformismo e nell’ortodossia, a distanza di due decenni, nel contatto con un territorio cruciale per la costituzione dell’identità italiana. Nelle terre del Friuli Venezia Giulia, infatti, il programma di redenzione nazionale e la retorica modernista entrano forzatamente a confronto con le aspettative, i drammi e le speranze di un’area di frontiera dove il confine è mobile come pochi altri, e le distinzioni di lingue, territori e culture assai friabili e ben più complesse. Trieste e Gorizia sono città italiane in modo diverso dalle altre città italiane: qui l’alleanza tra la cultura visiva della modernità e l’ideologia della nazione non tarderà a manifestare i tratti dell’ambivalenza e del paradosso.
Questo libro ambisce a descrivere il processo attraverso cui nella pittura italiana del primo Novecento i tratti originariamente moderni di esaltazione romantica dell’io sono giunti, per tappe, fino a quel dominio del linguaggio nelle forme della storia
(gli exempla della grande tradizione) e della geografia (l’elettività di un genius loci ormai manifestamente incompatibile con i gerghi dell’avanguardia internazionale). Ma si trattava, in realtà, di un’idea che faceva della storia non più la depositaria della razionalità, quanto piuttosto la legiferatrice del dogmatismo nazionalista; e di una geografia che assai difficilmente poteva rintracciare, nelle sue molteplici pieghe locali, i segni linguisticamente percepibili di un idioma condiviso2 .
Ricerca della modernità e costruzione culturale dello Stato non vennero tuttavia intesi come termini opponibili, bensì complementari, corroborati da un effettivo «gergo dell’autenticità»3 . Soffici aveva insegnato a parlare di modernità e di tradizione storica a un pubblico (i giovani irrazionalisti lacerbiani e futuristi) che considerava questi termini come alternativi. Ciascuno a loro modo, i protagonisti dell’arte italiana del primo Novecento – Carrà, Sironi, Morandi, De Chirico – applicheranno questa lezione.
Ogni ragionamento su forma e stile dell’opera d’arte moderna è il riflesso di determinate condizioni storiche, sociali e politiche: esse stabiliscono, da un lato, una misura tra autore e tradizione – un collocarsi rispetto al passato – e, dall’altro, definiscono i tratti di mediazione tra autore e pubblico, divenendo così il punto di equilibrio – o di rottura – tra la ricerca d’una libera espressione poetica e le aspettative dei destinatari; oppure, non diversamente, tra la sperimentazione individuale e la necessità di pervenire a una lingua nazionale.
Quello che autori come Soffici, Carrà, Papini imputarono al «sublime industriale» (la definizione è di Sanguineti) del futurismo non era tanto la negazione del passato, quanto il mancato posizionamento rispetto a esso. Il ruralismo nazionalista del «Selvaggio» confermò un sostanziale anticapitalismo offrendo l’ordine imperturbato e pastorale d’una cultura visiva disponibile al vernacolo, a fronte del caos non più ricomponibile della tecnologia4 .
2 Cfr. A.-M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 63. 3 Alludo a T. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. 4 Sempre valide su questo piano le considerazioni di L. Namier, Nazionalità e libertà, in Id., La Rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull’Ottocento europeo, Torino, Einaudi, 1957, p. 173.
La modernità di cui qui si parla non è dunque quella, eroica e tutto sommato canonica, che accetta la sfida del dissidio tra io e mondo, risarcendolo nelle forme dell’allegoria. Essa cerca invece di resistere a quella frattura, inseguendo le ragioni d’una possibile ricomposizione nella storia e nella natura. È una posizione certo diametralmente opposta a quel «modernismo reazionario», che ha invece tentato di riconciliare – come ha dimostrato Jeffrey Herf – il pensiero antimoderno e irrazionale con il culto per lo sviluppo tecnologico5 .
Da parte del ceto intellettuale mancò un’adeguata saldatura tra le rivendicazioni sociali delle masse e le possibilità linguistiche ed espressive del moderno. La tensione antiborghese confluì nelle forme regressive e consolatorie di una poetica paesana, oppure venne neutralizzata dalle lusinghe d’una sofisticazione estetica di massa. Erano due forme di mantenimento d’un consenso prepolitico e di populismo pretelevisivo (oppure, per usare una metafora più attuale, pre-Web)6 .
È ben difficile, oggi, accettare per quella vicenda italiana la qualifica di antimoderna o reazionaria, come un tempo sembrava potesse bastare per definirla. Né per comprenderla adeguatamente – non si dice riscattarla – può considerarsi oggi sufficiente, come già la storiografia dagli anni Cinquanta in poi, una lettura strenuamente formale dei suoi apici: che sono offerti dalla pittura, tutt’altro che eccellente ma di rara eloquenza, del Carrà intorno al 1916, oppure da quella di Morandi nel suo grande decennio paesano.
Concentrandosi sulle apparenze visive dell’opera, questa lettura formalista ha in realtà compiuto due errori. Ha rimosso i vincoli ideologici, che qui invece si è provato a ricostruire; e si è
5 J. Harf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 27. 6 Cito a questo proposito P. Togliatti, Ai giovani, «Rinascita», 1944 (poi in Per la salvezza del nostro paese, Roma, Einaudi, 1946, pp. 203-206), che indicava come colpevoli della rovina del paese non certo i giovani, ma «quella generazione particolarmente di intellettuali, che ancor prima della precedente guerra mondiale, dopo aver strepitato attorno ad un rinnovamento della cultura e della vita italiana, capitolò di fronte alle correnti reazionarie e corruttrici che allora presero il sopravvento, e non seppe distinguere tra lo spirito nazionale e l’avidità brigantesca delle cricche plutocratiche imperialiste». Fatta la tara ai due ultimi aggettivi, il senso complessivo del discorso resta di grande attualità.
assestata su una ineffabile celebrazione delle autonome qualità visive dell’opera, che qui si è voluta evitare.
Quella raccontata in questo libro è dunque una storia che dimostra come non sia mai esistita un’istituzione artistica distinta dalla vita pratica, e quindi politica e sociale. Ed è una storia che, anziché confermare il modernismo nei suoi presupposti scolastici di autonomia e formalismo lo convalida, al contrario, come progetto inteso a ripristinare, nei modi paradossali che i decorsi ideologici del Novecento non di rado hanno crudelmente dimostrato, i valori sociali e politici dell’arte.
Nel preparare questi lavori ho potuto beneficiare dei consigli e dei suggerimenti di Mark Antliff, Paola Barocchi, Günter Berghaus, Tommaso Casini, Barbara Cinelli, Neil Cox, Giuseppina Dal Canton, Daniela De Angelis, Massimo De Sabbata, Claudio Griggio, Claudio Giunta, Maria Mimita Lamberti, Giovanni Lista, Maurizio Lorber, Maria Grazia Messina, Marta Nezzo, Andrea Pinotti, Christine Poggi, Federica Rovati. Esprimo a tutti loro la mia gratitudine. Un ringraziamento particolare lo devo a Flavio Fergonzi, con il quale ho condiviso questi anni di lavoro presso l’Università di Udine. La pubblicazione dei documenti inediti nel quarto capitolo è dovuta alla cortesia di Gabriella Belli e di Gloria Manghetti.
Mia moglie Caterina ha letto con scrupolo e attenzione ogni parte di questo libro, ed è stata una presenza costante e affettuosa. Per tutto questo, e per molto altro ancora, la dedica è a lei.