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Tra arte pura e propaganda
esattamente un mese dopo, alla conversione del direttore de «L’Avanti», alla causa di guerra: il memorabile articolo dal titolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante notoriamente gli costò l’espulsione dal partito27 .
Sintesi futurista della guerra si può dunque leggere anche come riflesso di un’opposizione tutta interna allo schieramento politico italiano. Essa vedeva contrapporre l’interventismo dei socialisti rivoluzionari, non a caso assai prossimi alle tensioni politiche del futurismo, all’esasperato neutralismo tattico della frazione riformista del partito socialista. Gli aggettivi riservati nel manifesto ad Austria e Germania erano gli stessi impiegati nella pubblicistica futurista contro il governo borghese del «mestatore di Dronero» Giolitti, contro la tattica del «sacro egoismo» di Salandra, contro i timori dei leader socialisti come Turati e Treves.
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Tra arte pura e propaganda
Si può ben dire che con la pubblicazione della Sintesi futurista Marinetti aveva colmato il colpevole ritardo. Inoltre, grazie all’invenzione dello schema grafico, il poeta aveva tempestivamente scovato una formula comunicativa laconica quanto efficace, funzionale agli scopi immediati di propaganda. In una bella lettera a Severini, che stava vivendo la mobilitazione a Parigi, Marinetti spiegò che il futurismo doveva diventare «l’espressione plastica di questa ora futurista». Esso avrebbe spinto i pittori a una «semplificazione brutale di linee chiarissime»28 .
Partito in relativo ritardo, Marinetti aveva trovato, grazie al lavoro con i pittori, il modo per sostituire alla retorica dell’argomentazione in prosa la concisione grafica di una vera réclame ideologica. La contrapposizione manichea tra latinità e germanesimo e il tono apodittico della comunicazione politica favorivano, per loro stessa natura, soluzioni di sintesi grafica e di
27 R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 257 sgg. 28 Archivi del Futurismo, cit., vol. I, p. 349, Marinetti a Severini, 20 novembre 1914. Il pittore raccolse il suggerimento, e verosimilmente iniziò in quel momento l’importante serie di quadri di guerra presentati poi a Londra: cfr. Gino Severini, Ière Exposition Futuriste d’art plastique de la guerre et d’autres oeuvres anterieures, Paris, Galerie Boutet de Monvel, 15 gennaio-1 febbraio 1916.
massima economia di testo, parificandole al linguaggio pubblicitario. Da questo punto di vista, Sintesi futurista si distaccava da tutte le tradizionali forme argomentative29 .
Nel complicato mosaico dell’interventismo degli intellettuali, non erano infatti in questione soltanto le posizioni ideologiche, ma anche le formule retoriche attraverso cui esse potevano essere argomentate, difese e combattute. È importante sottolineare questo aspetto, perché dietro questa infaticabile attività di propaganda restava in gioco, come sempre, la definizione, la posizione e il ruolo degli intellettuali italiani dinanzi alla società moderna.
Insofferente a ogni retorica che non fosse la sua, Papini condannò infatti nelle pagine interventiste di d’Annunzio la «processione plagiaria delle litanie» e l’«afosità dei richiami storici, antichi e letterari», opponendovi il «grido del poeta convulso» nella «concretezza del momento presente»30. La natura trasversale del fronte interventista stava creando un clima eccitato e corale, dove era facile ritrovare al proprio fianco i bardi dell’Italia umbertina e giolittiana che si erano sempre combattuti. In effetti, una rivista assai cauta e tradizionale come il «Marzocco» stava avvertendo che tutto ormai sembrava parificarsi «in una emozione unica e indistinta soggiogante e livellante»31 .
Il puntuale risentimento papiniano verso d’Annunzio manife-
29 Per un panorama sul rapporto tra interventismo e arti visive, si v. almeno J. M. Winter, Nationalism, the visual arts, and the myth of war enthusiasm in 1914, «History of European Ideas», 1992, n. 15, pp. 357-362; M. Hanna, The Mobilization of Intellect. French Scholars and Writers during the Great War, Cambridge, Harvard University Press, 1996; più nello specifico, perlomeno per la Francia, gli studi ormai classici di K. Silver, Esprit de corps. The Art of Parisian Avant-Garde and the First World War, 1914-1925, London, Thames and Hudson, 1989 e R. Cork, A Bitter Truth. Avant-garde Art and the Great War, New Haven-London, Yale University Press, 1994. 30 G. Papini, I Mille e lo Zero, «Lacerba»; III, n. 19, 8 maggio 1915, p. 146. Sul «Mercure de France» Papini fu ancora più esplicito, due anni dopo: «On est convaincu, à l’étranger, qu’on lui doit l’entrée en guerre de l’Italie […] Son rôle a été à fait semblable à celui de la mouche du coche. Mais d’Annunzio était déjà connu à l’étranger et ne s’est plu à imaginer le Barde qui revenait exprès de l’exil pour conduire son peuple à la victoire. Hélas! Si tout n’avait pas été fait, ses discours seraient tombé dans le vide. D’Annunzio avait beaucoup perdu de son ancienne popularité (qui n’a jamais été cordiale) et il a accompli son geste pour conquérir sa place de “poéte national” qu’il ambitionne depuis longtemps» (Lettres italiennes, 17 mars 1917, p. 328). 31 G. Rabizzani, Il pensiero dominante, «Il Marzocco», XIX, n. 36, 6 settembre 1914, p. 3.
stava con chiarezza l’insofferenza di chi assisteva alla cerimoniosa consegna, dalla parte più retorica e paludata della società borghese, di un mandato morale e politico al Vate che suonava doppiamente falso. L’oratoria a occhi sgranati e braccia distese non celava, a suo dire, l’incapacità di sentimento di patria; di per sé, quella poesia non poteva incardinare i valori della politica, né porsi come sua sussidiaria. Difficile dire quanto in questa doppia condanna della poesia e della retorica come funzione politica e civile ci fosse l’effettiva coscienza della sconsacrazione dell’arte, la sua riduzione al grado zero dell’incidenza nel sociale; e quanto, invece, fosse più semplicemente in Papini l’acrimonia verso colui che meglio di altri aveva saputo plasmare il proprio ruolo, adattandosi abilmente alla cronaca per innestarvi un mito di già logora scrittura32 .
L’ossessione per quel che sarebbe avvenuto dopo gli eventi era presente ancor prima della sua dichiarazione effettiva: il problema, ammise Papini nell’ultimo fascicolo di «Lacerba», pubblicato a ridosso della dichiarazione di guerra, sarebbe stato quello di non soccombere ai retori dell’ultim’ora. In quel momento era ben difficile distinguere le proprie posizioni da quella di un Ojetti o di un d’Annunzio. Il rischio era quello di investire nella guerra l’impegno degli uomini nuovi, e trovarsi alla fine delle ostilità divisi tra le legittime richieste dei ceti così emersi e le sopravvivenze dell’ancien régime glorificate dal bagno di sangue: un tema, come vedremo, che sarà l’asse portante delle rivendicazioni de «Il Selvaggio». Due autori vociani si comunicarono timori simili: «Il primo risultato ideale di questa guerra è una insopportabile miseria. Io non so più come torcermi. […] Il secondo sarà che per ventanni la patria empirà di sé tutte le rettoriche. Sono i soliti trabocchetti della storia e della società»33 .
Per Marinetti e i futuristi si doveva produrre una letteratura che fosse tutt’uno con la realtà, accettando il fine mimetico e pedagogico dell’arte e della poesia. Indisponibile a un simile esito, Soffici dovette comunque accettare il destino d’insularità dell’e-
32 Papini, I mille e lo Zero, cit., p. 145. 33 G. Papini, Abbiamo vinto!, «Lacerba», III, n. 22, 22 maggio 1915, p. 161; Carteggio Giovanni Boine-Emilio Cecchi (1911-1917), a cura di M. Marchione e S. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, p. 159 (Boine a Cecchi, 4 luglio 1915).