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Contraddizioni dell’ideologia
Contraddizioni dell’ideologia
Per quanto ambiguamente espressa, l’indole anarchica e libertaria di Carrà appariva salda nei propositi; presto però si dovette misurare con l’attitudine, ben altrimenti orchestrata, di Marinetti.
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Prima ancora del lancio del futurismo, Gian Pietro Lucini aveva riconosciuto Marinetti tra gli «anarchici di pensiero e di forma», elogiandolo per essere fuoriuscito dalle consuetudini della borghesia e «di venire tra noi, tra gli artisti e i sovversivi»51 . L’anarchismo che si poteva riconoscere in Marinetti era, per prima cosa, la forma di un individualismo estetico, l’antipedagogia d’una pratica creativa diretta, capace di scatenare libere forze espressive, al di là delle gabbie degli stili.
Già nel manifesto di fondazione, lo sappiamo tutti, Marinetti aveva però disinvoltamente allineato i valori del militarismo e del patriottismo con quelli, ben diversamente eversivi, del «gesto distruttore dei libertarî». Marinetti provò a risolvere questa esplicita contraddizione ammettendo che lo sviluppo della collettività era un prodotto degli sforzi e delle iniziative individuali. Rispondendo alle obiezioni di un giornalista francese, il poeta si chiedeva, retoricamente: «Le geste destructeur de l’anarchiste n’est-il pas un rappel absurde et beau vers l’idéal d’impossible justice, une barrière à l’outrecuidance envahissante des classes dominatrices et victorieuses?»52 .
Ma è chiaro che questa «anarchia» era da intendersi in senso lato e metaforico, come attitudine al rovesciamento clamoroso di consuetudini, aspettative, conformismi. Nei pensieri e nelle parole di giovani non meno esasperati che frustrati, un linguaggio rorido e aggressivo era il minimo che ci si potesse attendere. «Io piglio
51 G. Lucini, Filippo Tommaso Marinetti, «La Ragione», 27 agosto 1908, cit. in Id., Marinetti Futurismo futurismi. Saggi e interventi, a cura di M. Artioli, Bologna, Boni Editore, 1975, pp. 72-79: G. Lista, Marinetti et les anarcho-syndacalistes, in Présence de Marinetti, a cura di J.C. Carcadé, Lausanne, L’Age d’homme, 1982, pp. 67-85; per una panoramica sul pensiero politico di Marinetti dal 1898 alla morte cfr. E. Gentile, La politica di Marinetti, in Id., Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 139-170 e cfr. G. Berghaus, Violence, War, Revolution: Marinetti’s Concept of a Futurist Cleanser for the World, «Annali d’Italianistica», 27, 2009, pp. 23-71. 52 F.T. Marinetti, intervista concessa a «Comedia», 26 mars 1909, e pubblicata poi su Poupées électriques, Paris, Sansot, 1909, p. 29.
certe rabbie quasi omicide – scriveva in quegli stessi giorni Ardengo Soffici a Giovanni Papini – e sento sempre più come questo nostro vigliacco e disgustoso paese abbia bisogno di una sacrosanta rivoluzione; ma rivoluzione sul serio: con fucilate, legnate, sgozzature, incendi e sangue a riganoli […] Veramente ho l’intenzione di mettermi a far l’anarchico almeno nel campo spirituale»53 .
Anche il tono, solitamente moderato, della cultura vociana non di rado poteva riconoscere nei disordini sociali non tanto un irresponsabile avventurismo, bensì una salutare insofferenza contro il malgoverno: «quante volte – ammise Prezzolini – una santa sassata, una veneranda rivolta, un divino colpo di fucile sono rivelazioni d’una volontà d’ordine!» Il caso più eloquente, confermò il direttore de «La Voce», era il Risorgimento italiano, sorto da un atto di ribellione contro Stati disordinati54 .
Ben altrimenti proclamate, invece, e con una ben più ampia screziatura antropologica, le prospettive «sociali» di Marinetti. Già egli aveva potuto dedicare la tragedia satirica del Re Baldoria «ai Grandi cuochi della Felicità Universale»: Filippo Turati, Enrico Ferri, Arturo Labriola. Una commistione un po’ troppo disinvolta di nomi, dietro la quale si poteva leggere una viscerale caricatura dell’intero arco delle politiche socialiste. Ciò non impedì allo stesso Labriola un’encomiastica recensione sull’«Avanti» che resta una delle pochissime pagine che il quotidiano volle riservare ai prodotti del futurismo55 .
L’antisocialismo di Marinetti, tuttavia, era connaturato al fervente patriottismo e al nazionalismo. Le masse erano certo riconosciute come le protagoniste della moderna civiltà metropolitana, ma era da lui avversato ogni principio egualitario. L’individualismo aristocratico s’accompagnava allo scetticismo per ogni modello d’emancipazione sociale e per gli ideali di progresso. Tale pessimismo antropologico sfociava nel culto estetizzante per il gesto poetico liberatorio e astratto, nell’artificio
53 G. Papini, A. Soffici, Carteggio II. 1908-1915, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1999, p. 84 (Poggio a Caiano, 9 aprile 1909). 54 g.pr., Gli anarchici nell’Argentina, «La Voce», 8 settembre 1910, p. 389. 55 L. De Maria, La chiave dei simboli in «Re Baldoria», in Id., La nascita dell’avanguardia, Saggi sul futurismo italiano, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 201-204; altra segnalazione positiva si legge in Il poeta Marinetti e Re Baldoria, «La battaglia proletaria», II, n. 59, 29 febbraio 1908, p. 3.
dell’allegoria meccanica. Dinanzi alle plastiche esibizioni di tale fideismo tecnologico, la folla non era vista come massa di manovra politica, e meno ancora come oggetto di persuasione o di manipolazione collettiva. Diveniva, invece, il prediletto fondale per una teatralità esagitata e scomposta.
Persa ogni fiducia nei confronti d’una sua possibile emancipazione sociale, al pubblico restava affidato il ruolo di astante attonito dinanzi al gesto esemplare del giocoliere dell’avanguardia. L’ambizione di estendere l’eccellente azione dimostrativa all’intero «proletariato dei geniali» restava una enunciazione velleitaria e illogica.
Lungi dal dichiararne la nullità in seno a una società rivoluzionata, si manteneva intatta l’opera d’arte come oggetto d’una simbologia sensazionale. Il mito della modernità come pervasiva infrazione stilistica aveva bisogno d’una cornice spettacolare di borghesi ammirati e stupiti; in questo esasperato dualismo si esauriva buona parte del residuo dannunziano di Marinetti.
Cosa rimase, poi, dei propositi bellicosi una volta deposta la maschera dell’agitatore, dinanzi al vuoto della pagina o della tela? Nel Manifesto dei pittori futuristi si tentò un elenco: le «figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache e dell’alcolizzato». Era un repertorio di nuovi luoghi (i cafés chantants e i bal tabarin che nella Parigi dell’epoca erano assimilati a sedi d’adunate sediziose)56 e di soggetti metropolitani, che nella sua eccitante stravaganza – e nella sua franca prevedibilità – non sembra ammettere ruoli meno disimpegnati. Inesistente, in questo testo, la tensione realmente «politica». Anche la clausola di voler «rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata nella scienza vittoriosa» restò un’affermazione ornamentale, tesa più ad una restituzione spettacolare e incondizionata dell’industria capitalista trionfante che alla sua negazione luddista57 .
Non meno frivole, da questo punto di vista – a parte forse il cenno alla «vivificante corrente di libertà spirituale» – le risolu-
56 G. Berghaus, Futurism and politics. Between Anarchist Rebellion and Fascist Reaction, 1909-1944, New York-Oxford, Berghahan Books, 1996, p. 34. 57 Da questo punto di vista, si conferma l’incontro tra il futurismo e lo sviluppo industriale, sullo sfondo del crescente nazionalismo imperialista: cfr. per questo R. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio del prefascismo 1908-1915, Torino, Einaudi, 1974.
zioni del Manifesto tecnico della pittura di un paio di mesi dopo, tutte orientate al disbrigo di questioni di forme e stili. I luoghi del futurismo (non solo pittorico) divennero tosto il cabaret e il cinematografo, le stazioni ferroviarie e il postribolo: non certo le sedi della politica, mediata o cospirativa che fosse.
Che il movimento si dibattesse in un simbolismo arbitrario e futile, era opinione di molti; che restassero solari contraddizioni tra gli orgogliosi proclami di supremazia nazionale e le forme atte a perseguirla, era evidente agli occhi di tutti. In un lungo resoconto tempestivamente consegnato all’insospettabile «Oxford and Cambridge Review» nel luglio 191258, un osservatore assai tendenzioso come Anthony Ludovici – custode di sprezzanti ideali superomistici, bardo del wagnerismo, e traduttore inglese di Nietzsche – riservò ai dipinti d’un movimento «too catholic» appena osservati a Londra, un aspro giudizio. A suo dire, infatti, nonostante i promettenti quanto facondi proclami, il futurismo non raggiungeva quello «higher realism» tipico di un’arte aristocratica, guidata da un’idea suprema capace di controllare e dominare la realtà. I dipinti agitavano caotici ideali democratici e restavano volgarmente mimetici: «Every abuse of the proletariat of art was elevated by them to the dignity of a supreme law. It was the aspiration to arrive at greater truth to nature, rather than at greater art». Se il giudizio di Ludovici appare oggi davvero dissonante e ingeneroso, nelle intenzioni pateticamente vitaliste («they are the last offspring of a senile race of artists who are utterly bankrupt and devoid of all love, ideas, vigour or promise of life»), nondimeno l’allusione alla questione dei generi pittorici, come vedremo, è di sicuro interesse. Resta però un fatto. La sovversione del futurismo pittorico dopo il 1911 era del tutto metaforica, traslata in attitudini di stile, quando non in forme decorative: un’infatuazione superficiale che non tarderà a prendere i colori del disimpegno, o a rovesciarsi in retorica nazionalista.
Non si compirà un grosso errore di valutazione, insomma, nel
58 A. Ludovici, The Italian Futurists and their Traditionalism, «Oxford and Cambridge Review», luglio 1912, pp. 94-122; si cita dai «Libroni» (gli album con le raccolte della rassegna stampa) di Marinetti nell’edizione digitale: Filippo Tommaso Marinetti Papers, General Collection, Beinecke Rare Book and Manuscript Library (beinecke.library.yale.edu/digitallibrary/libroni.html).
ridimensionare le immagini dei tumulti nei quadri e nei poemi. Si prenda l’Enrico Cardile dell’Ode alla violenza, scritta in occasione dell’assassinio dell’anarchico Francisco Ferrer in Spagna e pubblicata nell’antologia marinettiana Poeti futuristi. Qui la pur ostentata quanto frusta fraseologia ribellistica («Violenza vendicatrice, / tu, chiamata dal cuore / di tutta l’umanità, / sorgi tu, Violenza, dall’abisso ove t’incatena il sonno, / ove t’incatena la servitù e la vecchiezza […]»)59 non cela l’allegoria liberty, quando non la restituzione simbolista e occulta. Il proclama liberatorio assumeva tratti sanguinosamente insurrezionali e truculenti nel momento stesso in cui si annullava nella costruzione poetica o visiva. Chi poteva davvero intendere la Rivoluzione di Enrico Cavacchioli, come qualcosa di più d’una metafora, tanto truce quanto scombinata? («Oceano di popolo, / marea disordinata del terrore, / Maelstorm d’ogni libidine»; «poltiglia liquida di sangue / che prende forma fuori dal frantoio dello sciopero»)60 .
Certo, ci fu un momento in cui sembrò possibile una ricomposizione del rapporto tra cultura e politica. Il gruppo dei vociani, in effetti, stava lavorando a un’ipotesi di rigenerazione della cultura come religione secolare, incardinata sul pieno riconoscimento del valore creativo dell’arte e della cultura come fondamento etico di un nuovo Risorgimento nazionale, oltre che sulle virtù programmatiche di abnegazione e studio. Proprio per questo (si pensi al Soffici del 1909-11) il futurismo appariva loro come una gesticolazione chiassosa, una costruzione letteraria e pretestuosa di miti artificiali e di logore allegorie: dalla meccanizzazione del mondo all’annullamento della mediazione politica nell’anarchia61 .
Una sintesi di questi contrapposti motivi fu possibile, quanto fragile; e fu la stagione, assai breve (i diciotto mesi che vanno dal gennaio 1913 al giugno 1914), della rivista «Lacerba». Il cui esito, come si vedrà nei capitoli seguenti, non fu quell’irradiazione internazionale del futurismo, raccontata e promossa dalle tante odier-
59 F. T. Marinetti, I poeti futuristi, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1912, p. 179. 60 E. Cavacchioli, Cavalcando il sole, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1914, VII, pp. 8-9 e 20-21. 61 A. Soffici, La ricetta di Ribi buffone, «La Voce», I, n. 16, 1 aprile 1909, p. 63 e Arte libera e pittura futurista, «La Voce», III, n. 25, 22 giugno 1911, p. 597.