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L’esperimento delle esposizioni

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Indice dei nomi

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e di ruolo, all’interno di una società avviata a candidare le figure professionali e artistiche in rappresentanze politiche (sono anni, tra il 1926 e il 1928, in cui praticamente tutti i maggiori protagonisti di questa storia sentono il dovere, o sono chiamati, a misurarsi con le questioni sindacali e corporative); e sollecitati, dall’altra parte, a fare i conti con un’esigenza di espressività pura e malcelata dietro le retoriche delle volontà «nazionali», il timore fu quello, anche, di veder cedere il proprio ruolo di pittore e di artifex a mero produttore. L’ossessione contro il materialismo, la modernizzazione, la meccanizzazione dell’arte (che prese in questi anni le forme metaforizzabili del cinema, della letteratura triviale, dell’automobile «americana») nacque dalla paura e dall’incapacità di accettare le vesti nuove del prestatore d’opera. Fu l’impossibilità di affrontare con ironia e cinismo una società che chiedeva agli artisti una partecipazione mercantile, una «chose littéraire», e al tempo stesso l’insofferenza di esserne esclusi43. Si comprendono dunque le parole con cui Soffici, certo il più «apocalittico» di questi intellettuali, commentò il suo distacco dal «Selvaggio» a causa di un Maccari convocato a Torino dal nuovo direttore de «La Stampa» Malaparte: «Nel Selvaggio non scrivo più perché Maccari ha girato il manico cascando nel giornalismo a rimorchio di Suckert»44 .

L’esperimento delle esposizioni

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Passare dalle pagine della rivista ai muri dell’esposizione era un gesto dei più naturali. «Il Selvaggio» fece quello che tutti i gruppi di pittori dovevano fare: trovò una sede e allestì una mostra collettiva; partecipò a un pugno di esposizioni garantendo al tempo stesso che non si aveva a che fare con un cenacolo. Ormai non era più tempo di presentare «movimenti» bensì – per utilizzare una vecchia clausola di Carrà – verificare l’esistenza di «temperamenti», di personalità artistiche realizzate45. Ma questa, ancora una

43 Alludo a Saint Beuve, La littérature industrielle, «La Revue des Deux Mondes», XIX, 1839, p. 675. 44 G. Prezzolini, A. Soffici, Carteggio, vol. II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977; Soffici a Prezzolini, 21 giugno 1929. 45 Carrà, L’occhiobàgliolo degli artisti, cit., p. 251.

volta, fu un’azione intempestiva, proprio come l’intransigenza squadrista del primo «Selvaggio» durante i mesi della normalizzazione. A che scopo creare e promuovere un gruppo ristretto e selezionato, nel momento stesso in cui si iniziavano a porre le basi all’ordinamento corporativo? La breve parabola del gruppo del «Selvaggio» sembra legata all’ingenuo desiderio di poter proseguire un’esperienza di petit comité, nella convinzione che un selezionato raggruppamento informale poteva, in forme disinteressate e volontaristiche, meglio corrispondere con la qualità delle opere alle esigenze di un’arte fascista46 .

Per la prima esposizione alla Stanza del Selvaggio, un piccolo ambiente in via San Zanobi a Firenze, Soffici sfruttò sue conoscenze (Carrà, Semeghini, Galante), cui s’aggiunsero i toscani e i bolognesi (Morandi, Longanesi). Quando non erano le grafiche già pubblicate sulla rivista o patrimonio personale di Soffici, si trattò di traduzioni recenti degli stessi temi. Prevalse nettamente il paesaggio, e non mancarono esiti assai alti, come l’Autoritratto di Morandi o Campi e colline di Soffici. Bottai pronunciò un discorso che il «Selvaggio» impaginò con gran cura; il gerarca notò nelle sale un incontro tra arte, politica e lavoro concordi «per instaurare in Italia una comune e fondamentale coscienza di italianità». Le quattromila lire di acquisti stanziati dal Partito soddisfecero tutti gli espositori47 .

Fu di questi tempi il maggiore affondo politico di Soffici, che in Ufficio e fini della corporazione delle arti tracciò le coordinate per l’intervento statale48. Allo scopo di «ricostruire l’ordine» e ripristinare un forte criterio distintivo Soffici progettò una struttura di «carattere religioso e gerarchico» retta con «senso realistico e moderno» da manovratori «investiti di potere in un certo senso illimitato e dittatoriale». L’obiettivo era di censire e classificare gli

46 Un primo bilancio venne redatto da A. Maraini, Un anno di mostre dei sindacati regionali, «Dedalo», X, 1929-1930, pp. 679-720; A. Lualdi, Arte e regime. Con prefazione di Giuseppe Bottai, Milano-Roma, Augustea, 1929; B. Biagi, Il sindacato, l’arte, i giovani, «Gerarchia», XIII, febbraio 1933, pp. 89 sgg.; A. Nasti, Intellettuali ed artisti nella corporazione, «Critica Fascista», 15 febbraio 1934; Cannistraro, L’industria, cit., pp. 30-34. 47 Carrà, Soffici, Lettere, cit., pp. 174-179. 48 A. Soffici, Ufficio e fini della corporazione delle arti, «Il Selvaggio», 3 marzo 1927, p. 14 (anche in «Critica Fascista», V, 1927, pp. 87-89).

artisti secondo una minuziosa rubrica di temi, generi, tecniche. Era la proposta di una reale militarizzazione dell’attività artistica, che Soffici assicurò essere relativa alle sole opere promosse e sostenute dallo Stato. Quanti avessero voluto affrontare i rischi della libera attività sottratta al collettivismo avevano piena libertà, per quanto questo non giovasse all’interesse comune. È inutile aggiungere che gli artisti del «Selvaggio» si mantennero assai prossimi a quest’ultima scelta; e valgano ancora una volta le vicende espositive.

Nell’aprile 1927, alla Terza Esposizione del Sindacato Regionale Toscano delle Arti del Disegno (formatosi nel 1922 per iniziativa di Mario Tinti come Corporazione delle arti decorative e poi confluito nell’organizzazione sindacale) parteciparono ancora Lega, Maccari, Soffici e Rosai. Distribuiti tra le sale del bianco e nero e quelle dei dipinti, essi non furono certo avvantaggiati dalle scelte della Commissione, che non fece mistero della sua predilezione per una rassicurante linea di novecentismo toscano. Parimenti, la Prima mostra regionale d’arte toscana, organizzata dal Sindacato fascista di belle arti nell’aprile del 1928 sotto la presidenza onoraria di Bottai e quella effettiva di Oppo, registrò la «spontanea adesione di tutta la regione» secondo una «fraterna larghezza di ammissione» (così Maraini, segretario del sodalizio, nella presentazione); ma la commissione, composta da autori accademici, predilesse ancora una volta i pittori di area solariana. L’aspetto complessivo della mostra era sconsolante, e la partecipazione dei «selvaggi» assai più defilata. Nelle sale prevalse la misura aneddotica, l’Ottocento bozzettistico e rischiarato; una ruralità ripulita e accettabile; l’espediente capzioso, il ritratto col vestito buono. Rosai si lamentò con Maraini di essersi visto restituire i quadri uno «sputacchiato» e l’altro «segnato da un ignobile tipo con una figurazione oscena», ricordando che non era con siffatti mezzi che le battaglie artistiche potevano progredire. Con Bottai il pittore aveva alzato il tiro: «La corporazione del disegno fiorentina non marcia, il Segretario Maraini si presta a delle basse camorre morali con tre-quattro suoi amici e tira a fregare noi del gruppo Selvaggio»49 .

Quella stessa estate del 1928 solo alcuni si ritrovarono nella trentaquattresima sala della Biennale veneziana, la prima della

49 Rosai, Nient’altro che un artista, cit., n. 221, Rosai a Maraini, 3 luglio 1928 e n. 198, Rosai a Bottai, 7 gennaio 1927.

gestione «governativa» di Antonio Maraini50. Maccari vi appese cinque silografie e una puntasecca, Morandi fu invitato con quattro acqueforti e sugli stessi muri esponevano Bartolini e Romanelli; Rosai partecipò con due tele, ma ammise di essere passato pressoché inosservato. Anche la Stanza del Selvaggio languiva. Si era tentato, nella primavera del ’27, il recupero d’uno scultore come Evaristo Boncinelli, premiato da Soffici come campione di «toscano rurale», indurito da una vita di lotte e dolori, ma dal destino di plasticatore di genio, grazie a una «fatalità ispiratrice» scaturita dalla verginità spirituale di vero etrusco. Gli otto bronzi superstiti furono dapprima pubblicati in un numero monografico della rivista, quindi accolti in un’esposizione personale. Lo scopo, candidamente dichiarato, era di dimostrarne il talento, superiore a Rodin, Bourdelle, Degas, e pari solo a Rosso51 .

Nel programma della Stanza seguì Soffici con una personale di opere precedenti il 1914, con accurata espunzione di ogni deviazione futurista. La sede espositiva venne poi «chiusa per miseria». Maccari manifestò il timore che per tutto il 1928 «Il Selvaggio» avrebbe potuto non uscire52 .

Come ai tempi di «Lacerba», le rivendicazioni di ordine artistico si accompagnarono a una richiesta di riconoscimento e di gratificazione economica. L’effettiva partecipazione delle arti visive a un’etica pubblica implicava un reciproco scambio e un meccanismo di sovvenzione per gli artisti. Senza mezzi termini, «Il Selvaggio» si proponeva anche come foglio che richiedeva un esplicito intervento pubblico: fedeltà e operosità andavano ricambiate con un ampio sforzo di sostegno all’arte e agli artisti.

La rivista era un’impresa a più voci che si desiderava offrire come regesto della propria continuativa operosità d’artista. Rosai inviò il foglio a Bottai, inoltrando richieste di commissioni per il laboratorio di stipettaio ereditato dal padre. Soffici invitò a una più intelligente risposta politica alla valorizzazione delle arti, invo-

50 Cfr. per questo la ricostruzione di M. De Sabbata, Tra diplomazia e arte: le Biennali di Antonio Maraini (1928-1942), Udine, Forum, 2006. 51 M. Maccari, Evaristo Boncinelli, «Il Selvaggio», 30 marzo 1927, p. 23; A. Soffici, Verità dura, ibid., 15 aprile 1927, p. 27; M. Tinti, Evaristo Boncinelli, ibid., 15 maggio 1927, p. 35. 52 F. Benzi, Materiali inediti dall’archivio di Cipriano Efisio Oppo, «Bollettino d’Arte», LXXI, maggio-agosto 1986, p. 183, Maccari a Oppo, 26 agosto 1927.

cando una precisa richiesta di aiuto pubblico («la politica è anche l’arte di interpretare i sintomi», scrisse)53 .

Sotto il titolo ben chiaro di Morti di fame si fece impaginare un piccolo bronzo del grande e sfortunato Boncinelli e Soffici riepilogò l’intero canone dell’Ottocento italiano più valido, tracciandone tanto il positivo bilancio artistico quanto il meschino risvolto pecuniario54. Ancora una volta, l’insofferenza dell’intellettuale tradizionale che attendeva con fiducia la restituzione del mandato da parte della società che lo aveva ritirato, o affidato a quanti essi stessi avevano combattuto, prese forme contraddittorie e paradossali. S’invocò il corporativismo, ma si volle difendere una sfera d’azione individuale; si auspicò un intervento pubblico di sovvenzione, salvo poi farsi censurare il giornale a causa dei corsivi al vetriolo contro le ingerenze profittatrici e personalistiche delle gerarchie negli affari dell’arte55 .

Era ormai chiaro che tali operazioni di lobbying fossero però meglio manovrate nelle grandi città e che, anzi, l’arroccamento orgoglioso nelle mura paesane alla lunga non pagasse, generando un sentimento di esclusione dal grande giro delle esposizioni nazionali.

Quando gli artisti del Novecento milanese si presentarono alla fine del 1928 in una collettiva a Firenze, vennero qualificati di facilità, «secessionismo» e decorativismo, ma ormai questo appariva più come un gioco delle parti56. Dopo le ritorsioni contro Rosai e Maccari, esclusi da certe mostre sarfattiane all’estero per le frecciate al «Novecento», la mostra favorì un momento di concordia57 . Stilisticamente, il chiaroscuro velato e crepuscolare dei lombardi appariva l’esatto contrario della «nitida chiarezza toscana», ma

53 O. Rosai, Nient’altro che un artista, a cura di V. Corti, Piombino, Traccedizioni, 1987, n. 213, Rosai a Bottai, 7 ottobre 1927; s.a., Arte e fascismo, «Il Selvaggio», 7 settembre 1926. 54 A. Soffici, Morti di fame, «Il Selvaggio», 15 maggio 1927, p. 33; Id., Semplicismi, ibid., 31 maggio 1927, p. 37. 55 A. Soffici, Moralizzare l’Italia, «Il Selvaggio», 15 luglio 1927, p. 49. L’articolo venne colpito dalla censura; una nuova edizione del fascicolo lo sostituì con una ben più ortodossa Commemorazione della spedizione di Sarzana. L’articolo di Soffici si legge nella meritoria ristampa anastatica procurata da Spes, Firenze, vol. II, p. 81. 56 Carrà Funi Marussig Salietti Sironi Tosi, Galleria Bellenghi, Firenze, 1928; «Il Selvaggio», 15 dicembre 1928, p. 81. 57 Carrà, Soffici, Lettere, cit., pp. 180-181, Soffici a Carrà, 28 aprile 1927.

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