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Letture squadriste e paesane

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Indice dei nomi

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tazione che si sfrangia fino alla sgranatura totale dell’immagine, nei bordi superiori e inferiori del foglio. I volumi architettonici sono appena delineati e poi ombreggiati a sfumino. Sulla rivista, ne sortisce un effetto di grana fotografica, di fuori fuoco; la nitida immagine al centro si rilascia progressivamente agli estremi. L’altro foglio propone un edificio chiuso in primo piano da un muretto che lambisce l’estremità inferiore della carta; la casa emerge dalla vegetazione nel nitore della parete calcinata, con un’ombra portata dallo sporto del tetto. Intorno sono fronde a tratti sommari, angolati, più volte ribaditi negli incroci diagonali, che si spengono progressivamente lasciando il vuoto del foglio a chiudere la composizione. Sono apparizioni del paesaggio, più che descrizioni vere e proprie. Nessuna geografia immediatamente riconoscibile, solo la possibilità di un affondo visivo, di un lento scrutinio. I tempi della percezione sono rallentati; l’enigma della realtà può trasferirsi nella natura. Se mai è esistito un paesaggio puro ed estraneo alla retorica rurale, non è dissimile da questo. Il problema, per Morandi, è che sul «Selvaggio» si scriveva, anche, su di lui. Ecco però come.

Letture squadriste e paesane

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L’articolo su Morandi che Achille Lega pubblicò sul «Selvaggio» nel luglio del 1927 chiederebbe quel minimo di rispetto dovuto all’intelligenza mimetica degli emuli. Lega offrì in effetti un ragionamento di piena ortodossia sofficiana; e qui iniziarono a prendere estensione quei caratteri del Morandi «selvaggio» che non sarà difficile riscontrare fino almeno al 1932. Lega assicurò che il pittore si muoveva lungo la linea della buona tradizione (e a modo d’esempio Maccari impaginò la lastra grande della Natura morta con cestino di pane). Il carattere sobrio e modesto dell’autore era all’origine di un lavoro lento e coscienzioso, che sottoponeva all’osservatore la familiarità delle cose nei loro aspetti più umani. La poesia degli oggetti comuni si offriva senza inganni e lenocini, confidando nel senso moderno della composizione19. L’ar-

19 A. Lega, Giorgio Morandi, «Il Selvaggio», 30 luglio 1927, p. 3.

ticolo fu accompagnato un profilo severo e sgraziato di Morandi tracciato da Maccari. È una testa espressiva, che male si concilia con la candida immagine dell’autoritratto a matita pubblicato poche settimane prima.

Il discorso di Lega non spiccava certo per lungimiranza o sottigliezza critica. Egli però altro non fece che riprendere le «note caratteriali», già ben presenti nel testo di Carrà, e innestarle in quella linea di modernità classica cui Soffici faceva da garante. Certo, era ben difficile comprendere da queste poche righe che Morandi stava in realtà perseguendo, con impressionante continuità, un’elaborazione che proprio dalle lastre del 1921 aveva condotto agli esiti della Natura morta con panno giallo (1924, poi in collezione Longhi) e al successivo acquerello conservato a Berna. Né maggiori indicazioni sul percorso propriamente pittorico poterono giungere dalle altre partecipazioni insieme ai «selvaggi», come la presenza, sempre in quel 1927, alla seconda Esposizione internazionale dell’incisione moderna a Firenze. Da qui, molte opere si travasarono nell’Atlante dell’incisione moderna curato da Vittorio Pica e Aniceto Del Massa. Fra le tavole raccolte nel volume, spiccava un altro ritratto di Morandi fatto da Maccari. La figura questa volta venne colta in una posa scomposta, seduta a terra con il busto flesso sulle gambe arcuate, le mani giunte in un nodo unico che pende tra le ginocchia. In questa puntasecca non vi era alcun attributo che qualificasse l’attività del pittore. Maccari scelse lo sguardo scostato, l’espressione corrugata e scettica.

L’immagine piacque talmente da essere riproposta nella pagina autobiografica pubblicata sulla rivista del fascismo bolognese «L’Assalto». Che il quieto Morandi abbia consegnato alla redazione e alle bibliografie una così zelante dichiarazione non deve stupire. Egli era stato invitato da Giorgio Pini con una lettera circolare, all’indirizzo dei «giovani intellettuali fascisti», dove si richiedeva un’autobiografia «da cui risulti la formazione della vostra fede fascista, le sue concordanze con la vostra opera intellettuale e con gli eventi degli ultimi anni, oltre i motivi della vostra adesione al tempo mussoliniano e gli eventuali propositi per il futuro». Insomma, il testo era già ben messo per iscritto da Pini. Morandi preferì allora ricordare i suoi insoddisfacenti studi accademici, il

passaggio e la disillusione del futurismo, la necessità di recuperare i valori prodotti dall’arte dei secoli passati:20

Questi studi, che non nascondo mi fecero pure cadere in nuovi errori, mi furono sopratutto benefici perché mi portarono a considerare con quanta sincerità e semplicità operarono i vecchi maestri […] Questo mi fece comprendere la necessità di abbandonarmi interamente al mio istinto, fidando nelle mie forze e dimenticando nell’operare ogni concetto stilistico preformato.

Morandi ricordò come maestri Corot, Courbet, Fattori e Cézanne, e Giotto e Masaccio su tutti; e gli rimase ancora dello spazio per rendere omaggio a Soffici e Carrà. Chiuse rammentando l’invito come acquafortista alla Biennale del 1928 e assicurando la sua fedeltà al regime. «Soltanto un giornale squadrista, anzi il primo e più glorioso giornale squadrista – commentò nell’occasione “Il Selvaggio” – poteva dare quest’esempio di coraggio»21 .

Poco tempo dopo, Maccari dedicò al pittore un corsivo. Si soffermò su bellezza e poesia delle cose umili, osservando la rimozione d’ogni carattere pittoresco e la volontà di una pittura senza eccessi: «il miracolo morandiano — scrisse sul “Carlino” — consiste nello scoprire e nel fare intendere la poesia che si nasconde negli oggetti più miseri, o negli aspetti più semplici del paesaggio»22 .

Il lungo articolo che Longanesi consacrò al pittore «strapaesano di razza», alla fine dell’anno, è assai conosciuto; pertanto, risulta forse più utile andare a rintracciare un paio di passaggi precedenti meno noti. Nell’aprile 1928 Longanesi pubblicò il proprio scherzoso Taccuino programma del nostro futuro deputato. Si promise, tra l’altro, di non parlare più per dieci anni «di primitivi, di sintesi e di sensazioni». Ancor più impegnativo il decretare l’«Obbligo dell’uso del carattere bodoniano a tutte le tipografie del Regno». Com’è noto, su questa proposta si giocò buona parte dello straordinario rinnovamento tipografico promosso da Longanesi. Le Sei mele in un piatto (Vitali, 37) furono riprodotte sottoponendole a una Lettera alla figlia del tipografo. È una lunga

20 G. Morandi, Autobiografie di scrittori e di artisti del tempo fascista, «L’Assalto», Bologna, 18 febbraio 1928, p. 3. 21 «Il Selvaggio», 15 febbraio 1928, p. 9. 22 M. Maccari, Giorgio Morandi, «Il Resto del Carlino», 8 giugno 1928.

digressione didattico-estetica sulle virtù dei caratteri tipografici. Secondo Longanesi, gli scrittori si dividevano in due schiere: quelli da pubblicare in bodoni e quelli da elzeviro:

col Bodoni, ad esempio, che è un carattere austero, regolare, classico, e un po’ freddo, non è ben fatto stampare opere che non conservino quel tono sostenuto e composto ch’è naturale ai nostri massimi scrittori. Il Bodoni è un abito tipografico a doppio petto da grande parata, quando non è addirittura da cerimonia funebre, e mal si confà a quelli che son soliti scrivere in maniche di camicia smaniando e abbandonandosi alla foga delle passioni.

Insomma il bodoni era classico, rigoroso e severo; l’elzeviro romantico, francese e futile. Morandi, garantì poi Longanesi, è «uomo casalingo e modesto, pittore tradizionale e sincero, sfuggito alla retorica di Montparnasse». Certo difficilmente oggi si è disposti ad accettare pacificamente che nessuna traccia del «costruttivismo ultramoderno», delle «fredde astrazioni» sorrette «da certa letteratura ebraica» fosse rimasta nella pittura del bolognese. Al di là delle forzature, certo infelici, di Longanesi, colpisce non tanto l’articolo in sé, quanto la pagina nella sua interezza, l’impaginazione epigrafica, la salda coerenza dell’insieme. Essa parla d’un Morandi certo strapaesano, ma indubbiamente legato a una dimensione classica ed austera, confermata dal nitore di un’impeccabile presentazione tipografica23 .

Un anno dopo, Longanesi fu alle prese con l’impaginazione de Il sole a picco di Vincenzo Cardarelli. In apertura di ciascun capitolo – naturalmente composto in bodoni – sta un’immagine di Morandi. Sono semplici ricalchi su carta lucida di precedenti incisioni24 .

Il lavoro di Cardarelli è stato proposto come esempio di restaurazione neoclassica d’impronta leopardiana. Ma i toni della narrazione appaiono differenti, e forse giova rileggerne alcuni passi. Santi del mio paese, brano d’apertura, insisteva sull’operosità bonaria dei santi, secondo una sentenziosità popolare

23 L. Longanesi, Lettera alla figlia del tipografo, «L’Italiano», 24 luglio 1928, p. 2; Id., Giorgio Morandi, ibid., 31 dicembre 1928, p. 3. 24 V. Cardarelli, Il sole a picco. Ventidue disegni di G. Morandi, Bologna, L’Italiano Editore, 1929. Delle mille copie di tiratura, cinque furono allestite su carta a mano con un’acquaforte originale di Morandi e firma dell’autore. Cfr. Pasquali, Tavoni, Morandi. Disegni, cit., Appendice, nn. IX-XXX.

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