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Scioperi e repressione

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Indice dei nomi

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una situazione più vicina alle cronache di quanto non sia la versione finale del dipinto. La folla è compatta, piuttosto ordinata, per certi versi rassicurante; solo una guardia a cavallo accenna, da destra, una carica. Nulla a che vedere con l’esplicita sedizione nella versione finale del dipinto.

Scioperi e repressione

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Carrà compose la sua autobiografia ad oltre trent’anni di distanza dai fatti, e quindi è comprensibile che possa essersi confuso con le date. Ma la ragione di questa imprecisione offre un elemento in più per meglio inquadrare il Funerale dell’anarchico Galli7. Lo sciopero generale del 1904 aveva infatti acquisito, nel tempo, un valore quasi mitico, perché era apparso come la prima vera irruzione, nel panorama della lotta politica italiana, di una massa politicizzata. Lo stesso Mussolini riconoscerà di aver aderito proprio in quel momento al sindacalismo rivoluzionario8 .

Intorno ai fatti del settembre 1904 si era rapidamente diffusa una letteratura apologetica e massimalista. Le cronache dei giornali militanti avevano arrischiato descrizioni epiche9:

La massa enorme sfolla e si riversa nella vie […] La piazza è padrona di Milano: ecco la rivoluzione, o conigli della teoria maccheronicamente evoluzionista! […] C’è una forza fino a ieri oscura e silenziosa, che oggi si è rivelata a voi e a noi, possente, la quale ha d’un tratto annientata, sotto questo biondo e chiaro sole d’autunno, la tua vita d’industrie e di traffici, sonante e splendida, e ti ha imposto un veto, o Milano, davanti al quale tutto deve piegare.

Dopo il comizio di quarantamila operai all’Arena, e mentre gruppi della Camera del Lavoro sorvegliavano la città, si propose di prolungare lo sciopero per ottenere le dimissioni di Giolitti. In mancanza d’una guida politica, il conflitto declinò senza

7 C. Carrà, La mia vita, ora in Tutti gli scritti, a cura di M. Carrà, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 633-634. 8 R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, p. 45. 9 Proclamazione, «Avanguardia socialista», II, 15 settembre 1904.

aver colto reali obiettivi strategici10. Lo stesso Giolitti parlò poi esplicitamente di fallimento per stanchezza e mancanza di vere ragioni. Il vero vincitore restò il capo del governo, che alla scadenza naturale delle Camere convocò i comizi elettorali, e poté raccogliere i voti della borghesia intimorita. La parte rivoluzionaria del partito socialista uscì sconfitta, e il risultato effettivo fu quello d’infrangere il fronte progressista11 .

Il giudizio sui fatti del 1904 restò quindi assai controverso, e rifletteva l’insanabile divisione tra i socialisti. Per il direttore de «L’Avanti», il socialista rivoluzionario Enrico Leone, lo sciopero era una manifestazione spontanea delle masse operaie, organizzate in piena indipendenza. Il socialismo non era più un sistema di previsioni maturate dall’attività parlamentare, ma un’azione diretta. Lo sciopero appariva così come la prima pagina scritta dal proletariato in quanto classe politica indipendente, protagonista unica di un movimento nazionale12 .

Per i riformisti, invece, lo sciopero fu il frutto d’una scelta incauta e confusa, un’accelerazione irragionevole che andava così a incrementare il conflitto in corso con la Camera del Lavoro di Milano. Retta dal mese di maggio 1904 dal gruppo «rivoluzionario» di Walter Mocchi e Arturo Labriola, che era prevalso anche nel congresso regionale, la Camera aveva in effetti pilotato gli eventi milanesi, dando libero sfogo alle fazioni più violente e incontrollate. Un organo ufficiale come «La Critica sociale» denunciò, con molta chiarezza, il rischio dell’infiltrazione degli anarchici in seno a quella che era considerata l’aristocrazia operaia italiana, fino a costituire un agguerrito gruppo di minoranza rissosa e irresponsabile, quanto inconcludente13 .

10 Sui fatti del 1904 cfr. G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma, 1970, pp. 375 sgg. e cfr. R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano, Edizioni Oriente, 1966, pp. 373-392. 11 G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945, p. 211. 12 Il giudizio è citato in H. Lagardelle, La grève generale et le socialisme: enquête, Paris, E. Cornely, 1905, pp. 351-353. 13 L’ora delle responsabilità. Lo sciopero generale e la situazione politica, «Critica sociale», XIV, 1904, pp. 273-277: «Alleatisi a qualche anarchico patentato – e gli anarchici erano i soli che dovessero sentirsi a loro agio in quell’avventura – […] inanimiti a facile eroismo dalla latitanza, ordinata dal governo, degli agenti della pubblica forza; iniziarono la loro predicazione ingegnandosi di persuadere alla folla

La forza proletaria veniva infatti intesa dai socialisti rivoluzionari come «atto risolutivo» della dissoluzione del capitalismo attraverso l’insurrezione spontanea. Ogni mediazione politica sul piano di riforme concordate in seno agli istituti democratici appariva come un’inammissibile deroga a questa intransigenza. Il parlamentarismo veniva tollerato, ma giudicato inessenziale: rifiutando il principio democratico della rappresentatività, la rivoluzione si elaborava nel sindacato e si doveva compiere nelle piazze anziché essere il frutto di un piano di riforme14 .

«Avanguardia Socialista», l’organo della frazione rivoluzionaria diretto da Labriola e Mocchi commentò i fatti milanesi del 1904, divenuti senz’altro «le cinque giornate del primo esperimento di dittatura proletaria», e la successiva sconfitta dei rivoluzionari alle elezioni politiche di novembre, incoraggiando una recrudescenza delle lotte operaie15. Per quanto in minoranza su scala nazionale, i sindacalisti rivoluzionari mantenevano un grande ascendente nella base del partito e tra i militanti. La politica riformista nel primo decennio del secolo aveva certamente ottenuto importanti vittorie sul piano dei diritti minimi dei lavoratori; trainate dalla crescita economica, le condizioni degli operai erano migliorate. Ma, come è stato osservato, il sindacalismo rivoluzionario, inteso come una revisione da sinistra del marxismo ortodosso, era la conseguenza non già d’una crisi economica, quanto piuttosto d’un relativo benessere16 .

Ad alimentare l’appeal delle forze radicali concorse anche l’esasperazione nei confronti delle politiche di repressione del governo italiano. Alle timide aperture verso la tutela dei lavoratori

scioperante, convenuta ai comizi, esser essa, per un nuovo e peregrino portento, con una piccola anticipazione dell’anno duemila, divenuta, senza sforzo e d’un balzo, la sola ed assoluta signora, non pure di una grande città, ma dell’intera nazione; costituirono una grottesca parodia di Governo provvisorio, emanante ukasi e prescrivente alla Municipalità la forma e il tenore dei manifesti ufficiali; […] tentarono di lanciare una valanga di popolo, sovreccitato e minaccioso, all’assalto notturno delle sedi dei ferrovieri per imporre a essi, renitenti, la solidarietà dello sciopero». 14 I. Bonomi, Il Congresso socialista di Bologna, «Nuova Antologia», V, n. 1, 1904, p. 125. 15 Le cinque giornate del primo esperimento di dittatura proletaria, «Avanguardia socialista», II, 24 settembre 1904, p. 1. 16 Z. Sternhell, Né destra né sinistra: la nascita dell’ideologia fascista, Napoli, Akropolis, 1983, p. 252.

e all’allargamento dei diritti civili con le riforme elettorali del 1882 e del 1912, non aveva infatti corrisposto una modifica al codice generale e alle leggi di pubblica sicurezza che limitavano le libertà personali e politiche. In occasione degli scioperi del 1904, per fare solo un esempio, vennero comminati venti giorni di reclusione per aver gridato «vigliacchi e lazzaroni» alla polizia. Per quanti intimavano la cessazione delle attività economiche erano previsti fino a venti mesi di reclusione17. Secondo i pubblici ministeri, infatti, in questi casi non ricorreva l’ipotesi di un conflitto tra capitale e lavoro, con finalità economiche (applicando quindi gli articoli 165 e 166 del codice penale) ma, trattandosi di una «degenerazione della protesta popolare con atto di vera e propria violenza teppistica», veniva applicato l’art. 154, che prevedeva la violenza privata.

Come osservò Paolo Valera, nel 1904 le organizzazioni si erano adoperate per impedire che si ripetessero i massacri degli scioperanti18. Il partito socialista aveva istituito un efficace servizio d’ordine in grado di allontanare dalle strade le frange più turbolente, gli ubriachi e gli armati. Ma questo non bastava a garantire l’incolumità dei manifestanti, di coloro che Alfredo Oriani chiamerà poi «gli assenti dalla storia». Ci sarebbero voluti anni ed enormi sforzi, chiosò un osservatore dell’epoca non privo d’ottimismo, prima che in Italia si potesse istituire «una forza di polizia onesta e padrona di sé»19 .

17 Traggo la notizia dal «Corriere della Sera», 24 settembre 1904. Sulla repressione poliziesca cito alcuni studi: D. Tarantini, La maniera forte. Elogio della polizia: storia del potere politico in Italia, 1860-1975, Verona, Bertani, 1975; R. Vivarelli, La frattura tra «paese legale» e «paese reale», in I. Zanni Rosielo, Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 317-336; J. A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano, Franco Angeli, 1989, p. 220 sgg; U. Allegretti, Dissenso, opposizione politica, disordine sociale: le risposte dello Stato liberale, in Storia d’Italia, Annali 12. La criminalità, Torino, Einaudi, 1997, pp. 719-756. 18 P. Valera, Il diario sugli avvenimenti dello sciopero generale, «La Folla», IV, settembre-ottobre 1904, ora in Giornalismo italiano 1901-1939, a cura di F. Contorbia, Milano, Mondadori, 2007, pp. 110-146, p. 119. 19 A. Oriani, Appello, in conclusione a La rivolta ideale (1908), Bologna, Gherardi, 1912, p. 351; O. Olberg, Der italienische Generalstrik, «Die Neue Zeit», XXIII, 1904-1905, pp. 18-24, tr. it. Lo sciopero generale del 1904, in E. Ragionieri, Italia giudicata 1861-1945, vol. II, Torino, Einaudi, 1976, p. 347. E si pensi a quanto scriverà poi G. Fortunato, Il mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallecchi,

Così, le sollevazioni si proponevano ciclicamente, in un quadro di sommaria repressione. Anche se la Camera del Lavoro milanese a partire dal 1906 fu retta da un’ampia maggioranza di riformisti, bastava assai poco per avviare un’escalation insurrezionale. O la sua messinscena. Nel maggio 1906 a scatenare gli animi fu l’uccisione, da parte della polizia, di un operaio all’interno della Camera del Lavoro di Torino durante uno sciopero dei tessili. Il giorno seguente, lo sciopero echeggiava anche a Milano; i riformisti osservarono con preoccupazione l’insofferenza di un ceto sostanzialmente antipolitico, o prepolitico. Era una massa di manovra fatta di giovani e di giovanissimi, priva d’inquadramento e facilmente soggiogati dalle scorciatoie nichiliste degli anarchici, che andavano saldandosi con i socialisti rivoluzionari20 .

L’azione di sponda ai gruppi anarchici da parte di taluni dirigenti socialisti, capeggiati dal nuovo direttore de «L’Avanti!» Enrico Ferri, era giudicata immorale e demagogica. Ed è forse vero che i fatti di Milano del 1906 si potevano leggere, anche, come una sorta di manovra contro la politica socialista riformista nel gabinetto Sonnino. Dopo aver infatti ricevuto la fiducia dai socialisti nel marzo 1906, il governo non aveva mantenuto il profilo riformista promesso; in più, aveva appena affossato la legge sull’ispettorato del lavoro. Un ordine del giorno di Turati esortò i lavoratori a prendere le distanze dai promotori dello sciopero, così da non favorire gli argomenti dei reazionari, in vista delle possibile elezioni politiche, e di non ostacolare la difficile mediazione riformatrice a livello governativo: «cauterizzare così ogni genere di evoluzione democratica nel Ministero e nella Camera», come scrisse.

In questo quadro, per Carrà era piuttosto facile confondere i due episodi del 1904 e del 1906: agli occhi del giovane e irruente pittore, affascinato dal mondo dei sovversivi, il primo memorabile sciopero generale nazionale e l’occasionale tumulto degli anarchici apparivano come le due fasi di un unico, vagheggiato, movimento insurrezionale.

1926, vol. I, p. 396: «Noi siamo autoritari nelle ossa; e per eredità, per educazione, per costumi, siamo indotti o a troppo comandare o a troppo obbedire». 20 Filippo Turati e Anna Kuliscioff: 1900-1909 cit., p. 425, 9 e 10 maggio 1904.

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