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Il museo come spazio ideologico

Pocarini aderì al futurismo attratto prima ancora dal modello organizzativo che dalla proposta di linguaggi e stili. Egli mantenne un nazionalismo temperato dal riconoscimento delle autonomie culturali e linguistiche, e riconobbe i talenti artistici, ben lontano da chiusure sciovinistiche. Per lui fu centrale il problema dell’accordo, e non dello scontro, con le culture alloglotte. Il futurismo abbracciato come prassi eclettica, al di là dei generi e delle retoriche, poteva raccogliere la vasta e generosa attività di scrittura, giornalismo, teatro, pittura. Un lavoro non privo d’aspetti velleitari, ma di portata politica, che si scontrò inevitabilmente con la gestione del regime in fase di consolidamento. Tutte le possibili forme di mediazione apparvero, in questa recrudescenza, come una deliberata concessione alle intenzioni espressive, e quindi politiche, degli alloglotti. Il disegno culturale di Pocarini per un’avanguardia giuliana poté sopravvivere, ma solo come decoro fastoso della vita nazionale: e dunque, al prezzo del suo stesso svuotamento di senso.

Il museo come spazio ideologico

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In questo quadro s’inserì, nel corso del 1935, la donazione delle opere in memoria del giornalista scomparso. Già tra agosto e settembre i registri del museo documentavano le opere donate dalla madre e dal fratello, che comprendevano sia i quadri di Pocarini sia quelli della sua collezione, con lavori di Crali e Pilon. Fra gennaio e marzo vennero trascritti la maggior parte degli ingressi d’autori triestini. A settembre confluirono le opere degli artisti residenti fuori regione. Infine, alla data del 6 ottobre, in coincidenza con il giorno d’apertura delle sale, il profilo della donazione trovò compimento con l’ingresso de Il mattino di Giannino Marchig (fig. 9.5): un quadro giunto da Firenze, dove il pittore triestino insegnava nella più gloriosa delle Accademie nazionali: il simbolo stesso d’una rinnovata concordia nazionale35 .

35 Giannino Marchig: un artista triestino a Firenze, catalogo della mostra (Trieste, Museo Revoltella, 2000), a cura di M. Masau Dan, S. Gregorat, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2000; F. Fergonzi, Nota a margine di due mostre antologiche di Giannino Marchig, «Arte in Friuli, Arte a Trieste», n. 20, 2000, pp. 151-158.

Figura 9.5 Giannino Marchig, Il mattino, 1928.

Dal novembre 1935 in poi si ripresero a registrare i soli ingressi dal deposito del Museo. Erano perlopiù documenti cartacei e reperti della Grande Guerra. L’infiltrazione dell’arte contemporanea, che tale dovette apparire, poteva dirsi così conclusa.

I più ambiziosi casi, come Statua solitaria di Arturo Nathan ed Elisabetta e Maria di Carlo Sbisà (fig. 9.6), sorgevano dalla riformulazione di schemi e iconografie diffusi da De Chirico e Casorati dei secondi anni Venti, e assecondavano un generico gusto per la pittura di figura36. Se i tanti paesaggi e nature morte erano perlopiù attribuibili alle figure di comprimari, talvolta di scarsa dignità artistica, un discorso più articolato si può invece svolgere in merito ai ritratti. Essi vivevano nella tipologia scultorea della testa classica, talora di più realistico e quasi brutale ve-

36 E. Lucchese, Arturo Nathan, Trieste, Fondazione CRT, 2009; Carlo Sbisà, catalogo della mostra (Trieste, Museo Revoltella, 1996), a cura di R. Barilli, M. Masau Dan, Milano, Electa, 1996.

rismo, stemperato da soluzioni pittoriche e antinaturalistiche37 . L’autoritratto di Mario Lannes era un quadro d’un’eleganza austera e cerebrale, di voluta ambiguità spaziale nella soluzione del retrostante dipinto-finestra che inquadra il volto d’un nitore iperrealistico, con palese richiamo allo stile della Nuova oggettività tedesca. Il Ritratto di Veno Pilon di Luigi Spazzapan, dipinto inopinatamente definito «caricatura», rinviava ancora una volta a modelli importanti e di non scontata frequentazione, come l’espressionismo d’area tedesca e danubiana.

Questi sono soltanto alcuni esempi del pacato modernismo «riformista» documentato dalle donazioni del 1935. Per valutarne appieno la presenza nel tessuto della cultura giuliana, sarà bene provare ad affrontare, infine, la questione centrale: a quale ipotesi di contemporaneità ambivano gli exempla così raccolti, e quali invece furono le condizioni oggettive della loro inserzione nel contesto museale.

La donazione del blocco d’opere presentate nelle Sale Pocarini sovvertì la pratica di fondazione e incremento museale sin lì seguita. Il processo, istituzionale e ideologico, che aveva dato vita al Museo della Redenzione era chiaro e lineare nella tendenziosa strumentalizzazione del valore politico degli oggetti così raccolti e riordinati. Se il moderno allestimento era funzione diretta di una pesante riscrittura storica e politica, ora l’innesto massiccio delle sale Pocarini minacciava di sovvertire ogni controllo. Le opere erano state scelte non da un comitato né dalla direzione, ma direttamente dagli artisti. Gli artisti a loro volta vennero cooptati, per quanto si può capire dai documenti, senza seguire un programma prestabilito, ma dal semplice allargamento della cerchia dei diretti conoscenti. Le opere così raccolte confluivano tuttavia in un programma politico e ideologico ben articolato e dalle radici ormai decennali.

L’«idealità borghese» di Trieste non aveva avuto difficoltà a identificare l’espansionismo economico, militare e culturale celebrato da Ruggero Fauro Timeus con la cultura nazionalista del futurismo. Allo stesso modo, il «cosmopolitismo furbo» additato

37 Cfr. Scultura in Friuli Venezia Giulia. Figure del Novecento, catalogo della mostra, a cura di A. Del Puppo (Pordenone, Spazio Espositivo di Corso Garibaldi, 2005-2006), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2005, pp. 130 e 142.

Figura 9.6 Carlo Sbisà, Elisabetta e Maria, 1926.

da Scipio Slataper come difesa di autonomia e interessi commerciali aveva tuttavia consentito un invidiabile profilo di scambi e raffronti europei38. Furbo, ma pur sempre cosmopolitismo era: una sintesi, o almeno un accordo con le più nette riformulazioni del nazionalismo, sembrava ora difficilmente praticabile.

Come Trieste, Gorizia era una città italiana in modo diverso dalle altre città italiane. Le sue istituzioni culturali, collocate in una zona di confine dove i margini d’ambiguità politica erano assai ridotti, consentirono alla comunità locale di celebrare il proprio culto. Questo culto nel 1935 era però quello del nazionalismo, non del modernismo. Tantomeno del futurismo, e di quel futurismo giuliano, cui Pocarini aveva rivolto così tante energie: non semplicemente in nome di una redenzione e di un riscatto nazionali, quanto della possibile convergenza tra le forze creative italiane e forestiere, su una piattaforma debole soltanto nella misura in cui ambiva a essere inclusiva.

È quindi vero che la saldatura tra modernismo e nazionalismo, che altrove stava reggendo il rilancio delle culture europee tra anni Venti e Trenta, operò qui solo parzialmente. Il gusto del Novecento, cui si rifaceva una buona parte delle opere donate nel 1935, non era certo frutto del libero gioco delle differenze culturali dei singoli autori. L’ordinamento artistico degli anni Trenta aveva provveduto a infrangere, nella accurata struttura gerarchica delle esposizioni gestite dal Sindacato, il diaframma che separava l’immagine dal suo valore politico. Ed è questo valore che il museo intendeva in pari grado ripristinare e governare.

Il discorso che il presidente della Provincia di Gorizia pronunciò all’apertura delle Sale Pocarini esprimeva un sentimento forse comune, di sicuro difficilmente eludibile: «in questa sala, circondati dai cimeli tangibili e dalle effigi di tanti Eroi immolatisi per la grandezza della Patria e per la Redenzione di queste terre troppo a lungo avulse dall’abbraccio della Madre comune, il nostro sentimento d’italianità si esalta come in un sacro tem-

38 R. Timeus (Ruggero Fauro), Scritti politici (1911-1915), Trieste, Tipografia del Lloyd Triestino, 1929; cfr. E. Guagnini, Uno studio «sul vivo». La Trieste di Slataper e gli autoritratti di una città emergente nei primi del Novecento, «Otto/ Novecento», XII, n. 5, 1988, pp. 31-47.

pio e in queste storiche giornate si sublima nella fede sicura di più alti e più radiosi destini dell’Italia risorta»39 .

La lotta artistica era tutt’uno con la lotta politica. Nel racconto della biografia di Pocarini, irredentismo e italianità divennero le componenti di un percorso ideologico e culturale entro cui trovava sintesi e ragione l’intera operosità dello scomparso. A farne le spese, furono i residui del futurismo così speso. Esso venne relegato a fenomeno episodico, mera forza di reazione per le aree avulse dallo stato centrale, in nome di una sensibilità nazionale.

È chiara allora la parabola che prese il futurismo giuliano: da forza in grado di raccogliere e rendere scambievoli le energie creative dei giovani artisti affacciatisi nei primi anni Venti, a strumento di controllo di un’ortodossa italianità. Laddove prima vi era un sommovimento anarchico, di disinvolto annessionismo, comprensivo di un’eclettica indole modernista, ora agiva una forza di reazione, in nome di una normalizzazione.

La libera sperimentazione stingeva in un rivendicato, «fatale», e non di meno confuso, stile nazionale. Non sorprendono allora i toni di pressoché unanime compiacimento per l’evento, e di rassicurazione circa l’esito così raggiunto. Promulgare ufficialmente e in tal modo una collezione d’arte contemporanea significava anche, nella Venezia Giulia del 1935, portare a compimento l’opera di governo e di «riordino» indotta dalle Sindacali fasciste.

Assorbire, in nome e per conto dell’attività di Pocarini, quel poco o quel tanto di futurismo e modernismo che si era fino a quel punto discusso e prodotto significava farne confluire le componenti più irrequiete e meno controllabili entro una salda cornice istituzionale, in grado di accogliere le tensioni e ammorbidirle entro il prevedibile decorso di un’eredità artistica nazionale. Il senso dei tanti resoconti comparsi all’epoca sembra essere questo40. E in ogni caso, la sostanziale estraneità dell’addizione pocariniana al percorso del Museo della Redenzione era sotto gli occhi di tutti. Un osservatore lamentò «l’invadenza di una mostra d’arte moder-

39 L’apertura al Museo della redenzione delle Sale «Sofronio Pocarini», «Il Giornale di Gorizia», 9 ottobre 1935, p. 3. 40 Cfr. ad esempio R. Marini, Tre sale di arte giuliana contemporanea, «La Panarie», XI, 1935, pp. 299-302; Le sale «Sofronio Pocarini» al Museo della Redenzione, «Il Gazzettino», 13 ottobre 1935.

na, troppo povera per essere degna di tal nome, troppo grande per trovare posto in un museo dedicato ai ricordi di Gorizia ai quali essa è completamente estranea»41. Tale fu la premessa dello scorporo della donazione Pocarini e del suo esilio a Borgo Castello, nel frattempo risarcito dagli scempi di guerra.

Il Museo della Guerra e della Redenzione trovò una nuova sede, inaugurata nel maggio 1938. Soltanto pochi mesi più tardi il museo costituì una delle tappe della lunga visita che Mussolini svolse lungo i territori delle battaglie, in occasione del ventennale della vittoria. Il duce volle toccare tutti i luoghi simbolici del conflitto. Da Caporetto a Vittorio Veneto, inaugurò sacrari, musei, templi, ossari e case del balilla42 .

L’esperienza della guerra mondiale non era più affidata, come un tempo, all’inventiva grafica dei pittori. La memoria del conflitto e la sua rappresentazione politica erano affidate, ora, agli strumenti persuasivi rodati in quindici anni di regime.

41 Museo Provinciale della Redenzione, «Vita isontina», X, n. 11, 1937, p. 16; cito da R. M. Cossar, Storia dell’arte e dell’artigianato in Gorizia, Pordenone, Arti Grafiche Cosarini, 1948, p. 401. 42 Il duce nelle Venezie, numero monografico, «Le Tre Venezie», XIII, 10, ottobre 1938; cfr. P. Nicoloso, Mussolini nella Venezia Giulia: indirizzi totalitari e architetture per il fascismo, in Torviscosa: esemplarità di un progetto, Udine, Forum, 2003, pp. 13-26.

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