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Oltre il cubismo
venivano superati nel momento stesso in cui si salvaguardava la «perpetuità emotiva» e la «verità liricamente intuita».
Come si vede, questi ultimi argomenti conservano tracce evidenti del pensiero crociano. Lungi però dal costituire un ostacolo, il ragionamento intorno alla trasformazione poetica della materia consentì a Soffici di chiudere il suo articolo indicando con chiarezza due potenziali pericoli. Il primo era la possibile degenerazione verso quella che egli definì «una sorta di metafisica pittorica». Noi associamo un simile concetto a quell’estremo e radicale momento di scomposizione, sul filo dell’astrazione assoluta, raggiunto da Picasso e Braque proprio alla fine del 1911, e contro il quale verranno adoperate le risorse del papier collé e del collage. Ma è anche possibile, ritengo, identificare in quella locuzione un’allusione alle crescenti esegesi che del fenomeno cubismo tenderanno a offrire una lettura idealistica, che sospingeva l’indagine formale verso un assoluto esprit de synthèse, equivalente plastico di un platonico «bello in sé».4 Il secondo pericolo era invece rappresentato dalla possibile regressione verso un compiaciuto arcaismo delle forme: ovvero, la mera subordinazione delle risorse pittoriche alle spettacolari suggestioni dell’art négre senza una sorvegliata elaborazione visiva.
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Oltre il cubismo
Alla risoluzione di questi problemi, e al proseguimento del cubismo con la sua iscrizione entro un’agenda culturale di deliberato confronto con la tradizione italiana, Soffici dedicò una seconda riflessione, due anni e mezzo dopo. In questo lasso di tempo egli s’era impegnato in un diretto confronto con la pittura dei futuristi, che del cubismo, nell’ottica agonista a loro propria, ambivano a divenire al tempo stesso eredi e vincitori. È importante tenere a mente che Soffici scrisse Cubismo e oltre durante il breve e tormentato momento d’intesa strategica con
4 M. Raynal, Conception e vision, «Gil Blas», 29 août 1913, p. 3; Id., Anthologie de la peinture en France de 1906 à nos jours, Paris, Montaigne, 1927, p. 25; L. Rosenberg, Le cubisme et la tradition, in Id., La jeune peinture française. Les Cubistes, Genève, Galerie Moos, 1920, p. 7.
il gruppo futurista milanese. Due aspetti, in particolare, giustificano questo secondo intervento e ne offrono la coloritura specifica.
Il primo fenomeno è di carattere squisitamente pittorico. Dopo il soggiorno parigino dell’autunno 1911 i pittori futuristi si erano dedicati a un aggiornamento superficiale, in cui la grammatica cubista veniva percepita meno come uno strumento da apprendere che come una patina per un adeguamento dernier cri. È il caso, ben noto, delle riscritture «cubiste» di opere come La Risata o la seconda serie degli Stati d’animo di Umberto Boccioni, dove si citavano, in maniera piuttosto frettolosa, le schematiche linee di suddivisione dei volumi e le lettere stampigliate dei quadri cubisti.
Nel corso del 1912 aveva preso forma un più maturo e consapevole stile pittorico, che prevedeva esercizi di scomposizione delle forme, realizzati con la moltiplicazione delle sorgenti luminose, un intenso chiaroscuro e l’incremento dei punti di vista. Le segmentazioni monocromatiche di Carrà ne La Galleria di Milano (Venezia, Fondazione Peggy Guggenheim, Collezione Mattioli) e le architetture boccioniane leggibili sullo sfondo di Dimensioni orizzontali (Monaco, Bayerische Staatsgemaldegalerie) erano soluzioni più compiute e in grado di mantenere caratteri originali e distintivi, come una più forte densità dell’impasto e una specifica iconografia dedicata ai temi della contemporaneità urbana. Soffici stesso fece seguire alle sue osservazioni alcuni dipinti, come Linee e volumi di una strada, dove egli elaborava, in una chiara contaminazione cubo-futurista, una sorta di dimostrazione dipinta delle teorie da lui proposte.
Il secondo fenomeno, di portata assai maggiore, fu prodotto dal necessario adeguamento ideologico del discorso che, fino a quel punto, Soffici aveva limitato a questioni tecniche e pittoriche. Ora, egli doveva misurarsi con i forti accenti nazionalisti sostenuti dal futurismo e con l’urgenza di discutere le procedure per l’edificazione di una moderna arte italiana. La sua proposta si fondava sull’intelligenza, non sul ripudio, della tradizione nazionale e sull’adozione di un linguaggio né provinciale né emulativo, ma solidamente radicato nella coscienza storica degli stili. Un lin-
guaggio che potesse riflettere, anche, quel «culte de la méthode» verso cui sembrava convergere la giovane critica francese5 .
La trilogia di Cubismo e oltre era dunque rivolta a un destinatario più specifico e venne sostanziata da un denso spessore ideologico. L’argomento fu ordinato in temi strettamente correlati tra loro, a partire da una lettura formale dei quadri cubisti distinta in tre punti, ognuno dei quali venne approfondito con un ragionamento di carattere storico.
Nel cubismo di Picasso e Braque agiva per Soffici un’organizzazione visiva fondata sulla dialettica tra la superficie del supporto e la profondità fittizia dei volumi architettonici. Soffici designò con il termine di «arabesco pittorico» quell’insieme di linee e forme che veniva tracciato sulla tela; la notazione delle masse volumetriche era invece generata dagli effetti del chiaroscuro. Questi due elementi concorrevano all’insieme armonioso del dipinto, e la loro funzione era avvertibile anche nella percezione d’un singola porzione d’immagine, come peraltro era ravvisabile, a suo giudizio, nelle opere degli antichi maestri. L’esempio, per nulla casuale, proposto da Soffici fu infatti quello della spazialità vertiginosa di un quadro strutturalmente complesso come Susanna e i vecchioni di Tintoretto del Louvre.
L’accordo di questi due elementi, l’arabesco e il chiaroscuro, consentiva di dar vita a una pittura pura, ossia una pittura che, disancorata da ogni contenuto letterario o psicologico, s’addentrava esclusivamente nell’interpretazione delle forme per un fine disinteressato. Essa trovava quindi in se stessa (e non nel rispecchiamento più o meno mimetico della realtà esterna) la propria ragione e la propria armonia. Questo sistema di lettura del fatto visivo costituiva una rielaborazione di quelle teorie letterarie che avevano guidato Soffici ad apprezzare nella poesia di Arthur Rimbaud (presentato nella monografia del 1911 come un «descrittore imbevuto di latinità» e un «campagnolo e di schiatta plebea»), il «bagliore delle immagini e la sfrenatezza e deformazione del colore e del disegno».6
5 A. Salmon, La jeune peinture française, Paris, Société des trente, 1912, p. 61. 6 A. Soffici, Arthur Rimbaud, Firenze, Casa Editrice Quattrini, 1911 (si cita da Id., Opere, vol. I, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 109, 126 e 193). Questa interpretazione di Soffici ebbe come probabile spunto di partenza lo studio di A. Cassagne,
Il secondo aspetto su cui si soffermò Soffici fu la nozione di sodezza e di gravità, vale a dire il recupero della concretezza tangibile e della solidità degli oggetti, in analogia a quanto già letto in Picasso e Braque. Con «realtà integrale» Soffici intendeva, infine, la restituzione di una più completa esperienza di realtà, che trascendeva il mero naturalismo, e che avrebbe dovuto costituire una sorta di sintesi delle due precedenti esperienze.
È abbastanza facile trarre le conclusioni circa questo gioco di parallelismi. Soffici lesse la pittura cubista scomponendo tre elementi essenziali (pittura pura; sodezza e gravità, realtà integrale) associandoli ad altrettanti sviluppi storici: rispettivamente, quello dell’impressionismo francese, del cubismo che ad esso reagiva, e di una postulata sintesi tra questi due. Restava così da compiere l’assimilazione del colore impressionista nella forma analitica del cubismo. Questa iniziativa doveva essere assunta da Boccioni, Carrà, Soffici stesso: i protagonisti dell’unica possibile arte moderna italiana, al di là delle pastoie contenutistiche del futurismo. La ragione di questo incarico era molto semplice. Tutti gli strumenti per questo oltrepassamento sembravano infatti già disponibili nella pittura di Masaccio, Michelangelo, Tintoretto. L’attento scrutinio di dettagli come le rigorose partizioni architettoniche degli affreschi della Cappella Brancacci consentiva a Soffici di concludere che «la migliore arte italiana, il cui merito precipuo consiste appunto in questa sobrietà, sodezza, pesantezza, equilibrio, è d’essenza precisamente cubistica – e il cubismo, perciò, specialmente consono alla nostra tradizione»7 .
Diversamente da Soffici, però, gli argomenti di Carrà e Boccioni in quel periodo erano maggiormente orientati a dimostrare il primato del movimento futurista in merito ad aspetti di poetica pittorica contesi con la Francia. Ne è un esempio la polemica rivolta contro Apollinaire in merito ai caratteri dell’orphisme di Fernand Léger e Robert Delaunay e a difesa della nozione futurista di «simultaneità». Boccioni accusò da parte sua Picasso di «formalismo aprioristico», di «ideografia a priori» e di «impassibile misurazione scientifica»; i cubisti di «freddo buon gusto
La théorie de l’art pour l’art en France chez les derniers romantiques et les premiers réalistes, Paris, Hachette, 1906. 7 Soffici, Cubismo e oltre, cit., p. 10.
accademico francese», denunciando il «fondo gotico della loro razza».8 Carrà, che pure nel 1916, come vedremo, leggerà in Giotto la «terribilità serrata in legge cubica», trovava in Picasso un «puro cifrario delle forme» e un «monotono chiaroscuro grigiastro e melmoso», osservando nei ricorsi ai manufatti etnici null’altro che i detriti di un vituperato arcaismo9 .
Soffici parlò invece di Rembrandt e del Greco per dimostrare le congruenze storiche del cubismo ma anche le ragioni di un primato nazionale. Alla voce evanescente e musicale di Mallarmé volle contrapporre la solida lingua di Dante. Dimostrò di essere preoccupato non tanto di copiare le forme esterne in una logica puramente competitiva, ma di voler comprendere il modello operativo, vale a dire le radici storiche, della specifica modernità del cubismo e di volerlo ricollocare nella storia e nella geografia nazionali.
Il rigore di questa analisi di Soffici in effetti non ebbe eguali in Italia e neppure in Francia. La reale portata del coevo opuscolo di Guillaume Apollinaire Les peintres cubistes non andrebbe da questo punto di vista sopravvalutata. Il poeta francese impiegò infatti una prosa evocativa, dai toni spesso oscuri quando non esoterici, per far confluire osservazioni vecchie e nuove in merito a proposte differenti e irriducibili tra loro, come la pittura di Picasso e Delaunay, Marcel Duchamp e Francis Picabia, nell’alveo di quello che altro non era che un diseguale orientamento comune a un’intera generazione10. Soffici avvertì in diverse occasioni la distanza che separava le ricerche di Picasso e Braque dall’attività di pittori come Jean Metzinger, Albert Gleizes, e di quanti si organizzavano per esporre al Salon degli Indépendants o con il gruppo della Section d’Or11. L’attenzione esclusiva verso il nucleo essenziale promosso da Kahnweiler (cioè Picasso,
8 U. Boccioni, I futuristi plagiati in Francia, «Lacerba», I, n. 7, 1 aprile 1913, pp. 66-68; Id., Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico), Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1914. 9 C. Carrà, Parlata su Giotto, «La Voce», VIII, 1916, p. 167; Id., Piani plastici come espansione sferica nello spazio, «Lacerba», I, n. 6, 15 marzo 1913, pp. 53-55; Id., Vita moderna e arte popolare, «Lacerba», II, n. 11, 1 giugno 1914, pp. 167-168. 10 G. Apollinaire, Les Peintres Cubistes, Paris, Figuière, 1913. 11 J. Nigro Covre e M. G. Messina, Il cubismo dei cubisti: ortodossi/eretici a Parigi intorno al 1912, Roma, Officina, 1986.
Braque, Gris e Léger) si riflette in effetti nelle consonanze tra la lettura formalistica di Soffici e quella che Kahnweiler stesso presenterà in Der weg zum Kubismus. Le analogie però si fermano qui, dal momento che il gallerista tedesco fu un appassionato quanto sfortunato sostenitore di una vocazione transnazionale ed europea del movimento12 .
Come si è visto, il più importante snodo teorico di Soffici fu invece quello di innestare la sua analisi nel terreno della grande arte italiana, ricostruendo così una tradizione della pittura nazionale spinta fino al presente. Il discorso di Soffici in tal modo si collocava all’interno di un fitto panorama di contrapposte rivendicazioni nazionalistiche dell’esperienza moderna, costituendo una risposta alle pretese origini «celtiche» del cubismo elaborate da Gleizes13 .
Quando Soffici parlò di pittura pura non desiderò in alcun modo svolgere l’apologia di una disinteressata art pour l’art. Elaborando le possibili forme di una moderna classicità italiana, egli era invece desideroso di riscattare sia il materialismo «positivo» sia il degenerato intellettualismo simbolista della precedente generazione e della sua stessa formazione giovanile. Risolta in clausola «politica», la sua interpretazione della pittura cubista si andava così allineando alle posizioni di quella giovane e agguerrita generazione che stava facendo della fede patriottica, del rinnovamento morale e del culto della tradizione l’asse portante di un possibile rinascimento spirituale14 .
Offrendo al pubblico italiano una lettura formale di rara chiarezza e altrettanta tendenziosità, Soffici fece confluire un ragionamento pittorico all’interno di un’ipoteca ideologica. Il successivo decorso della critica italiana, dalle pagine di Roberto Longhi sui futuristi al polemico bilancio sull’eredità delle avanguardie svolto in «Valori Plastici», non fece che avvalorare
12 D.H. Kahnweiler, Der Weg zur Kubismus, München, Delphin-Verlag 1920 (trad. it. La via al cubismo, a cura di L. Fabiani, Milano, Mimesis, 2001). 13 A. Gleizes, Cubisme et tradition, «Montjoie!», 1 (1913), n. 1, p. 4; n. 2, pp. 2-3 e cfr. Id., Tradition et Cubisme, Paris, Aux éditions «La Cible», J. Povolozky, 1927. 14 Il più eloquente esempio è l’inchiesta di Agathon (Henri Massis e Alfred de Tarde), Les jeunes gens d’aujourd’hui: le goût de l’action. La foi patriotique. Une renaissance catholique. Le réalisme politique, Paris, Plon-Nourrit, 1913.
questi giudizi. Il fatto stesso che i maggiori maestri della pittura italiana fra le due guerre, da Giorgio Morandi a Filippo De Pisis, da Carlo Carrà a Mario Sironi, passarono attraverso l’esperienza futurista al vaglio dei testi di Soffici, sembra costituire una sufficiente convalida.