Utero in affitto
Dalla mercificazione alla normalizzazione di Tony Persico
Quella dell’utero in affitto, pratica nata ufficialmente nel lontano 1986, è ormai un’industria a tutti gli effetti, l’ultima terra conquistata dalla logica di mercato che non si preoccupa del limite invisibile tra desideri legittimati dalle disponibilità economiche e sfruttamento necessario per esaudirli. Dietro a questa rapida trasformazione ci sono almeno tre elementi da prendere in considerazione: la nascita del prodotto “maternità”, la rapida commercializzazione, i tentativi per la sua normalizzazione. La nascita del prodotto “maternità” La cd. “maternità surrogata” si inserisce in un lungo percorso di mercificazione. Da anni assistiamo alla proliferazione di nuovi servizi pagati ad un altissimo costo umano caratterizzato da condizioni disumanizzanti e di estremo bisogno. Come in un eterno ripetersi, rivediamo qui il dibattito che ha accompagnato la rivoluzione industriale oltre due secoli fa: alle nuove richieste del mercato risponde chi non ha altro da offrire che il proprio corpo. È quella che alcuni giuristi laici come Rodotà e Ferrajoli hanno chiamato la “cannibalizzazione” capitalistica del corpo della persona, declassato a bene materiale disponibile. Ad un tratto la maternità, passando per le tecniche di fecondazione assistita e i contratti di surrogazione, è diventata una merce di scambio. Come ogni nuovo prodotto 34
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SÌ alla VITA
anche la maternità surrogata ha avuto una fase di lenta introduzione e poi una rapida commercializzazione. Oggi il settore è in piena espansione. Basti pensare che negli Stati Uniti il numero di “cicli di fecondazione con portatrici gestazionali” è aumentato da 727 nel 1999 a 9.195 nel 2019 (fonte Centers for Disease Control and Prevention, importante organismo di controllo sulla sanità pubblica negli USA). Tuttavia, i dati sul settore continuano ad essere piuttosto frammentati e si ricorre in larga misura a stime. La dimensione del mercato mondiale nel 2022 sfiorava i 14 miliardi di dollari che, con una crescita esponenziale, potrebbe superare i 120 miliardi nel 2023, di cui circa la metà in Europa (fonte GMI-Global Market Insights). Per gli analisti, infatti, l’aumento della sterilità, della partecipazione femminile al lavoro e di stili di vita poco sani contribuirà a sostenere il volume di affari del settore. La domanda è talmente alta che è nata una vera e propria competizione internazionale al ribasso. Così, se negli Stati Uniti il costo varia tra 70.000 e 200.000 dollari (di cui circa un quarto vanno alla mamma portatrice), in Ucraina, prima dell’invasione russa, il costo non superava i 37.000 dollari. La rapida commercializzazione I rapporti di forza tra domanda e offerta si riflettono a livello internazionale con
committenti nelle nazioni più ricche che si rivolgono a centri in nazioni più povere, come Nigeria, Nepal, India, Messico e Thailandia. La pandemia ha acuito le dinamiche di sfruttamento esistenti. Molte donne hanno perso il lavoro e gli intermediari si sono concentrati «su donne single con bambini che avevano un disperato bisogno di sostegno economico, per me, loro sono delle vittime», non usa mezzi termini Teresa Ziaurriz, direttrice regionale della Coalizione contro la tratta di donne in America Latina e nei Caraibi in una recente intervista per CNBC in cui ha ribadito che «questa non è una industria a favore delle donne». Le dinamiche di sfruttamento dietro l’utero in affitto, spesso taciute nei dibattiti politici nazionali, sono al contrario ampiamente riconosciute a livello internazionale. Le Nazioni Unite nel 2018 hanno avvertito che «la maternità surrogata commerciale di solito equivale alla vendita di bambini». A margine della 37a sessione del Consiglio dei Diritti umani dell’ONU, John Pascoe, Capo della Corte di Diritto di Famiglia dell’Australia, avvertiva che «la vendita di bambini attraverso la surrogata commerciale è ormai un affare multimiliardario, con intermediari criminali che controllano e trafficano donne incinte». Ad esempio, in Nigeria, sono proliferate molte “fabbriche di bambini”, edifici in cui sono tenute



































