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Mia figlia una bambina del n.3
La sofferenza di una coppia per non poter avere figli, per non poter generare è grande, profonda. Va rispettata. Accettare la propria sterilità o la sterilità di coppia è il primo passo per diventare aperti alla vita, per essere generativi anche senza figli, per accogliere l’altro. L’adozione è realizzare la propria impossibilità a dare la vita (che poi in realtà è di tutti) e aprirsi all’altro. Nell’adozione il bambino è il figlio che la famiglia accoglie, una persona, non un oggetto del desiderio. La maternità nell’adozione è a tutti gli effetti una vera maternità. Ce lo racconta Luisa Perotti, manager, in uno stralcio di “Mia figlia una bambina del n.3”, testimonianza dell’adozione della sua prima figlia pubblicata nel 2004. Luisa Perotti e suo marito, Vittorino Fiorese, di figli ne hanno adottati altri due, diventando per anni attivi e generosissimi collaboratori di un’associazione per le adozioni.
di Luisa Perotti
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«Non ho mai pensato durante la giovinezza (…) di adottare uno o più bambini. Ancora oggi sono sorpresa di questa scelta e rimango a bocca aperta quando ripenso a tutto il percorso intrapreso per arrivare ad incontrare Cristina. Scelta che è maturata nel lungo tempo dell’attesa servito a vagliare veramente cosa c’era nel mio cuore. Dopo 2 anni e mezzo di burocrazia (…), nel settembre 1998 ricevemmo una telefonata: ci era stata abbinata Cristina, una bambina di 13 mesi, nata a Mosca.
Ecco l’inizio della gravidanza vera e propria, nella quale iniziavo a sentire dento di me la piccola Cristina che ci aspettava all’orfanatrofio n. 3 di Mosca. (…) «Come sarà, sarà sana, ce la farò, mi accetterà, le piacerò, mi piacerà?» Esattamente le stesse domande di una madre che deve partorire il suo bambino. Ho impresso ancora nel cuore e nella mente quando la vidi (…) il suo viso con gli occhioni con un evidente strabismo, lo sguardo assente e distaccato, un sorriso accennato che non dimenticherò mai (…) mi piaceva! (…) sentivo dentro di me che cominciavo ad amarla. (…) Ho avuto immediatamente coscienza che (…) la mia bambina non sapeva neppure di essere al mondo. (…) Non sapremo mai come sia stata trattata in orfanatrofio, possiamo solo ipotizzare e supporre. Scoprimmo in seguito che il n. 3 era l’orfanatrofio “lager” di Mosca, molto famoso perché gestito da una direttrice “senza cuore”. (…) I bambini venivano sedati per non “disturbare”. Cristina era stata dimenticata, lasciata in una profonda solitudine (…) un dolore interiore, una “morte” che ha devastato la sua psiche (…). Una bambina senza identità. (…) “Ritardo psico-motorio da ipostimolazione ambientale” fu la diagnosi del neuropsichiatra. (…) Iniziammo la psicoterapia (…). La terapia (…) era tenere il più possibile in braccio la bambina (…) per darle limiti corporei che le dessero una sensazione di contenimento e rafforzassero la formazione di un’immagine mentale del sé. Questo contenimento fisico è stato il fondamento del nostro lavoro, come un rientrare nell’utero materno”. (…) Marzo 2004. I contenimenti con Cristina si erano molto ridotti, mirati alle situazioni. Una sera Cristina aveva bisogno di essere “tenuta” perché molto arrabbiata dopo l’arrivo del fratello adottivo pochi mesi prima. (…) Dopo il contenimento Cristina mi disse:
“Mamma come hai fatto ad aggiustarmi?”
“Ti ho tenuto in braccio tanto, tesoro”
“Secondo me mi hai incollato con la colla, pezzo per pezzo”
“È vero (…). Sai che colla ho usato? Una colla molto speciale”
“Quale?”
“La colla dell’amore (…) che dura tutta la vita, per sempre” (…)
Quanta strada era stata fatta (…) per arrivare alla relazione. La psicoterapeuta (…) mi disse che Cristina aveva acquisito una coscienza profonda di essere stata
“salvata”. (…)
Ho ripensato al passato ed ai momenti difficili nei quali stavo perdendo la speranza che Cristina potesse farcela a parlare e ad uscire dal pericolo della chiusura autistica (…), ma ora la gioia che avevo nel cuore era indescrivibile ed inesprimibile. Quanto mi ha dato la mia bambina del n. 3!»