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Il silenzio dell’utero

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Il cuore che batte

Il cuore che batte

“Maternità surrogata”, “utero in affitto”, “gestazione per altri”. Una lunga, interminabile serie di sinonimi racconta come la società occidentale sia tornata a sdoganare la schiavitù, per supportare un sistema culturale scollato dalla vita e marchiato a fuoco dall’ideologia. L’età dei diritti, descritta da Norberto Bobbio, ha sancito davvero la fine del Diritto, soffocando ogni fragile, incerto, abbozzo di pensiero critico. La violenza del capitalismo, che pensa come merce la vita dei bambini, li vede come prodotti disponibili sul bancone del mercato globale, si camuffa nel linguaggio sentimentale e mellifluo che impacchetta l’offerta ed espone la mercanzia nei siti internet di mezzo mondo. La retorica consumista prende di pancia i consumatori e prende pure le pance delle madri, che consumano nell’ingiustizia la loro più grande possibilità di pienezza. Sostituire un figlio con il denaro, e chiamare questo gesto amore, mostra la più perfetta ottusità del cuore e della mente. Le aziende dell’eugenetica calibrano i prezzi sul colore degli occhi e dei capelli, sulla storia clinica della “gestante” e della “donatrice degli ovuli”, sui loro voti a scuola, sulla predisposizione al diabete o alla longevità. Il mercato ha intasato i sensi affettivi di milioni di uomini e donne, che non hanno parole –perché sono state snaturate – per dire a sé stessi, innanzitutto, quel loro essere ridotti a “utenti”, che si riversa in ogni aspetto dell’esistenza. Il femminismo radicale si oppone con forza alla deriva maschilista e patriarcale sottesa all’utero in affitto. Praticamente sono rimasti a combattere comunisti e cattolici. Ma solo quelli più “radicali”, quelli del mezzo non hanno retto neanche lontanamente.

Il femminismo generalista, poi, quello borghesuccio, modaiolo, di tendenza, quello dei benpensanti, dei conformisti che chiamano libertà il loro vendersi al discorso dominante – in ogni regime sono stati i mediocri i peggiori, ci ricordava Bonhoeffer – non fa altro che giustificare, ripetendo a pappardella la solfa propinatagli da chi detiene il monopolio della narrazione: “che male c’è? È un diritto, no?”. Quando si trattava di giudicare l’ebreo un parassita, e non una persona, la massa era d’accordo. Quando si trattava di mandare al macello milioni di persone, in nome di un’ideologia aberrante, intere popolazioni europee, progredite, colte, culturalmente emancipate, acconsentirono senza battere ciglio. Perché era giusto, se la legge stabiliva quello. Era vero, se il governo lo ordinava. Era evidente, se la propaganda lo riteneva tale. Così com’è evidente, oggi, che una donna che porta in grembo un figlio per nove mesi non sia sua madre. Com’è evidente che una coppia di “committenti”, dando denaro a una donna incinta in cambio del figlio, non sta “comprando” un bambino – come si compra una macchina nuova – ma sta semplicemente esercitando un diritto. È ovvio che è così. Dopotutto, anche oggi lo dice la televisione, lo dicono i giornali, lo dicono le pubblicità inclusive, il festival di Sanremo, Tik Tok, lo dicono pure i cartoni animati, ormai. È evidente che è così, deve esserlo. No?

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Tutte strane evidenze, in realtà, che cambiano come cambia il vento, come cambiano le mode, il mercato, le ideologie politiche. Ma c’è qualcosa, viene da chiedersi, che non cambia in questa nostra strana e variegata esperienza umana? C’è un punto, uno solo, che sia rimasto fermo da quando questa inquieta e contraddittoria creatura che è “homo sapiens” ha fatto la sua comparsa sulla scena del pianeta terra? C’è una sola esperienza che prescinda dalla moda – che Leopardi diceva sorella della morte – libera dalle follie del momento, dai ricatti della società pan-economica che ci vuole piegati e omologati ai suoi dettami? Cosa sfugge alle grinfie di una società che fa leva sui nostri capricci per venderci qualunque soluzione a una sofferenza che è lei stessa a provocare, convincendoci del fatto che non potendo avere qualunque cosa a disposizione allora siamo degli sfigati, dei falliti, degli incompleti? Cos’è che non è soggetto alla cultura, all’economia, alla politica, alla frammentazione di un Diritto liquefatto nella rivendicazione di diritti slegati dalla ragione e dalla sua tensione verso la giustizia? Cosa non può essere pervertito da linguaggi manipolatori asserviti alla logica dei “consigli per gli acquisti”? Esiste, insomma, uno spazio di libertà? In realtà qualcosa c’è. Perché esiste uno spazio sacro in questo mondo di parole che è il mondo degli uomini. Uno spazio che precede la parola e ne stabilisce il valore e il senso. Uno spazio di silenzio che precede la cultura, precede l’economia e le sue pretese, precede e anticipa ogni giurisprudenza, precede addirittura il linguaggio, in effetti. Questo spazio libero è proprio il silenzio dell’utero. Quel luogo simbolico – lo chiamano gli psicologi – che rompendosi, col parto, produce i segni – i vari linguaggi – come meri indicatori di una provenienza che non coincide con il mondo e i suoi discorsi, ma con una persona: la madre.

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