
5 minute read
Dalla mercificazione alla normalizzazione
di Tony Persico
Quella dell’utero in affitto, pratica nata ufficialmente nel lontano 1986, è ormai un’industria a tutti gli effetti, l’ultima terra conquistata dalla logica di mercato che non si preoccupa del limite invisibile tra desideri legittimati dalle disponibilità economiche e sfruttamento necessario per esaudirli. Dietro a questa rapida trasformazione ci sono almeno tre elementi da prendere in considerazione: la nascita del prodotto “maternità”, la rapida commercializzazione, i tentativi per la sua normalizzazione.
Advertisement
La nascita del prodotto “maternità” La cd. “maternità surrogata” si inserisce in un lungo percorso di mercificazione. Da anni assistiamo alla proliferazione di nuovi servizi pagati ad un altissimo costo umano caratterizzato da condizioni disumanizzanti e di estremo bisogno. Come in un eterno ripetersi, rivediamo qui il dibattito che ha accompagnato la rivoluzione industriale oltre due secoli fa: alle nuove richieste del mercato risponde chi non ha altro da offrire che il proprio corpo. È quella che alcuni giuristi laici come Rodotà e Ferrajoli hanno chiamato la “cannibalizzazione” capitalistica del corpo della persona, declassato a bene materiale disponibile. Ad un tratto la maternità, passando per le tecniche di fecondazione assistita e i contratti di surrogazione, è diventata una merce di scambio. Come ogni nuovo prodotto anche la maternità surrogata ha avuto una fase di lenta introduzione e poi una rapida commercializzazione. Oggi il settore è in piena espansione. Basti pensare che negli Stati Uniti il numero di “cicli di fecondazione con portatrici gestazionali” è aumentato da 727 nel 1999 a 9.195 nel 2019 (fonte Centers for Disease Control and Prevention , importante organismo di controllo sulla sanità pubblica negli USA). Tuttavia, i dati sul settore continuano ad essere piuttosto frammentati e si ricorre in larga misura a stime. La dimensione del mercato mondiale nel 2022 sfiorava i 14 miliardi di dollari che, con una crescita esponenziale, potrebbe superare i 120 miliardi nel 2023, di cui circa la metà in Europa (fonte GMI- Global Market Insights). Per gli analisti, infatti, l’aumento della sterilità, della partecipazione femminile al lavoro e di stili di vita poco sani contribuirà a sostenere il volume di affari del settore. La domanda è talmente alta che è nata una vera e propria competizione internazionale al ribasso. Così, se negli Stati Uniti il costo varia tra 70.000 e 200.000 dollari (di cui circa un quarto vanno alla mamma portatrice), in Ucraina, prima dell’invasione russa, il costo non superava i 37.000 dollari.
La rapida commercializzazione
I rapporti di forza tra domanda e offerta si riflettono a livello internazionale con committenti nelle nazioni più ricche che si rivolgono a centri in nazioni più povere, come Nigeria, Nepal, India, Messico e Thailandia. La pandemia ha acuito le dinamiche di sfruttamento esistenti. Molte donne hanno perso il lavoro e gli intermediari si sono concentrati « su donne single con bambini che avevano un disperato bisogno di sostegno economico, per me, loro sono delle vittime», non usa mezzi termini Teresa Ziaurriz, direttrice regionale della Coalizione contro la tratta di donne in America Latina e nei Caraibi in una recente intervista per CNBC in cui ha ribadito che «questa non è una industria a favore delle donne».
Le dinamiche di sfruttamento dietro l’utero in affitto, spesso taciute nei dibattiti politici nazionali, sono al contrario ampiamente riconosciute a livello internazionale. Le Nazioni Unite nel 2018 hanno avvertito che «la maternità surrogata commerciale di solito equivale alla vendita di bambini». A margine della 37a sessione del Consiglio dei Diritti umani dell’ONU, John Pascoe, Capo della Corte di Diritto di Famiglia dell’Australia, avvertiva che «la vendita di bambini attraverso la surrogata commerciale è ormai un affare multimiliardario, con intermediari criminali che controllano e trafficano donne incinte». Ad esempio, in Nigeria, sono proliferate molte “fabbriche di bambini”, edifici in cui sono tenute le donne surrogate incinte: istituzioni illegali, molto spesso legate a reti di sfruttamento con ramificazioni in tutto il mondo. Tra il 2008 e il 2014 ne sono state individuate almeno venti, nelle quali erano rinchiuse più di 290 donne (A. Makinde, Violence against women and girls in Nigerian baby factories , 2017).
Tentativi di normalizzazione dell’utero in affitto Quasi tutti i paesi al mondo (ad eccezione del continente africano) hanno vietato il ricorso alla pratica della maternità surrogata, soprattutto quando ha finalità commerciali. Tuttavia, i divieti sono ipocritamente superati attraverso forme di surrogata “altruistica”, basata su rimborsi che rimpiazzano i pagamenti commerciali. Altro non è che uno dei modi in cui si spinge verso una normalizzazione della pratica i cui risvolti etici continuano a rimanere ineludibili: le preoccupazioni sullo sfruttamento delle donne hanno portato quei paesi in cui la pratica era legale a chiudere le loro “industrie”. Alcune destinazioni popolari per la surrogata hanno deciso di circoscriverla o vietarla del tutto, ad esempio la Thailandia nel 2015, il Nepal e l’India nel 2016. D’altra parte, la domanda in crescita ha spinto altri a rimpiazzarli: un numero crescente di donne ha iniziato a lavorare come surrogate commerciali in paesi come la Georgia e il Messico. Anche alcuni paesi beneficiari hanno allargato le proprie maglie legali. Ad esempio, lo Stato di New York negli USA, consentiva solo pratiche “altruistiche”, ma nel 2021 ha legalizzato anche la procedura commerciale.
Maternità surrogata in Europa Fortunatamente in Europa, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea contiene un esplicito «divieto di fare del corpo umano e delle sue parti, in quanto tali, una fonte di lucro» che si applica egregiamente all’utero in affitto. Anche il Parlamento Europeo nel 2015 ha condannato la surrogata, in quanto «mina la dignità umana della donna poiché il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono utilizzate come merce» (Rapporto annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo). In quasi tutti gli stati dell’Unione Europea la pratica è illegale, mentre è consentita con restrizioni in Portogallo e in Grecia, oltre che nel Regno Unito. Tuttavia, i divieti nazionali non sono sufficienti ad arginare il fenomeno. Il mercato continua ad essere sostenuto da un fiorente turismo “sanitario” che finisce col generare intricati casi giuridici nei paesi di origine. Questi, a loro volta, alimentano una nuova spinta alla normalizzazione condotta a livello internazionale. Ad esempio, l’organo intergovernativo della Conferenza dell’Aia sul Diritto internazionale privato sta studiando l’armonizzazione delle norme sul riconoscimento dei bambini nati all’estero attraverso l’utero in affitto. Come spiega Claire Fenton-Glynn, dell’Università di Cambridge, «il mercato globale della maternità surrogata è sorto a causa dell’incoerenza delle leggi nazionali, ma è proprio a causa di queste differenze che oggi i paesi non riescono a regolamentare la pratica in modo efficace». È chiaro che anche gli sforzi per contrastare il mercato della surrogata dovranno compiersi a livello internazionale. Recentemente un gruppo di avvocati, medici ed esperti provenienti dai cinque continenti ha promosso una “Dichiarazione internazionale per l’abolizione universale della maternità surrogata”. Il lavoro per contrastare la normalizzazione della pratica e aumentare la consapevolezza sulla violazione della dignità umana che rappresenta è appena iniziato. «Non possiamo restare a guardare questa schiavitù moderna svilupparsi» ha spiegato Aude Mirkovic, coordinatrice dell’iniziativa, alla testata CNA (Catholic News Agency ): «la schiavitù non sarebbe mai stata abolita se i nostri antenati fossero stati individualisti come lo è la nostra generazione. Ma la dignità umana va difesa in ogni momento e in ogni luogo, e tutti abbiamo un ruolo da svolgere in questa missione»