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DICONO A ROVIGO

Parla Zambelli, a tutto campo su Campionato e franchigie

Il percorso verso Spagna e WXV

Giada Franco si racconta

182 Luglio/agosto 2023 ALLRUGBY RIVISTA MENSILE Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale –70% AUT. N° 070028 del 28/02/2007 DCB Modena . Prima immissione 01/02/2007 www.allrugby.it NORD
La sfida si avvicina. Dopo trent’anni gli equilibri sono cambiati
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Per informazioni: redazioneallrugby@alice.it

Ifatti. Maggio 2021: Franco Smith, allenatore della Nazionale, con almeno altri due anni di contratto, viene sollevato dall’incarico e “promosso” responsabile dell’alto livello italiano. Durerà nella nuova posizione non più di dodici mesi, durante i quali il suo obiettivo principale è stato il rilancio delle selezioni azzurre denominate “A” e Emergenti, scomparse immediatamente dai programmi ovali non appena Smith si è trasferito a Glasgow, allenatore capo dei Warriors scozzesi. Cassate subito anche le innovazioni da lui introdotte nel Top10, sul tempo effettivo, mischie e bonus-mete. Vabbè.

Dell’era Smith era rimasto in eredità nei ranghi azzurri solo il preparatore atletico, lui pure sudafricano: Quintin Kruger che, nelle scorse settimane, all’inizio della preparazione in vista della RWC, ha lasciato l’incarico per tornare in Sudafrica, agli Sharks. Al suo posto, per il Mondiale, arriverà George Petrakos. Un preparatore pret a porter.

In sostituzione di Smith, a capo della Nazionale era stato messo Kieran Crowley. Che, nei due anni avuti a disposizione, ha creato un gruppo e, al netto di qualche scivolone (uno per tutti quello con la Georgia a Batumi), ha dato all’Italia un gioco, pur vincendo poco.

Data l’età dei giocatori a disposizione, il ct azzurro auspicava di poter guidare l’Italia, fino ai Mondiali del 2027 in Australia. Ricevuta risposta negativa, ha optato per andarsene già il prossimo novembre invece che a giugno del 2024, come il contratto prevedeva.

“Oggi che abbiamo deciso di chiudere dopo il prossimo Mondiale il rapporto con Crowley è il momento dei bilanci. E quello di Kieran con il rugby italiano è molto positivo”, ha detto Marzio Innocenti in un comunicato.

Dunque l’Italia è l’unico Paese che stila il bilancio alla vigilia dei Mondiali. Lo giudica positivo, ma saluta l’allenatore, mentre annuncia con largo anticipo il nuovo, Gonzalo Quesada, primo Puma a guidare la Nazionale. Un argentino, peraltro bravo e con un bel cv, alla collezione mancava. Auguri.

Crowley ha investito in un gruppo giovane tutto proiettato verso il futuro, argomentava qualcuno, a proposito della decisione di non portare Parisse alla Coppa del Mondo. Ma Crowley quel futuro neanche lo vedrà. Altro vabbè.

Arriva la metà di giugno e le Zebre, che hanno vinto una sola partita nelle ultime due stagioni, annunciano la partenza di 13 giocatori, più quella dell’allenatore dell’attacco, il sudafricano David Williams, ingaggiato dodici mesi prima. Dei 13 partenti, 12 hanno resistito a Parma non più di due stagioni. In qualunque altra squadra probabilmente, prima di un repulisti tanto radicale, sarebbe stata messa in discussione la gestione sportiva. Qui ci mettiamo un “mah”, in attesa delle novità su quella amministrativa.

Nel frattempo a Treviso è stata ricostituita l’Accademia federale, che sostituisce quella della Marca allestita dal Benetton al proprio interno, dodici mesi fa (leggi le interviste a Amerino Zatta, in Allrugby 179, e a Antonio Pavanello, nel numero 181): un passo avanti, due indietro. Ma non si può dirlo in modo chiaro. Boh.

A Rovigo, intanto, il presidente del club campione d’Italia, Francesco Zambelli, uno dei pochi mecenati rimasti, insieme a Grassi e Banzato, si domanda a gran voce: dove andiamo?

Indietro non si può più tornare, è utopistico e irrazionale come a proposito di altre, più importanti questioni di politica territoriale, ha scritto su Repubblica, dopo l’alluvione in Romagna, Andrea Rinaldo, uno che, si dà il caso, capisca anche di rugby vero. E allora, cito ancora le parole dell’ex seconda linea della Nazionale, Nobel dell’acqua 2023: “serve conservare e innovare con attenzione”. Viceversa, rimarremo per sempre alle prese con uno stato di agitazione la cui gestione sfugge a ogni controllo, a partire da quello della comunicazione.

Gianluca Barca

direttore responsabile

Gianluca Barca gianluca.barca@allrugby.it

photo editor

Daniele Resini danieleresini64@gmail.com

redazione

Giacomo Bagnasco, Federico Meda, Stefano Semeraro. Collaboratori

Danny Arati, Felice Alborghetti, Alessio Argentieri, Sergio Bianco, Simone Battaggia, Andrea Buongiovanni, Enrico Capello, Alessandro Cecioni, Giorgio Cimbrico, Andrea Di Giandomenico, Mario Diani, Diego Forti, Andrea Fusco, Gianluca Galzerano, Christian Marchetti, Norberto “Cacho” Mastrocola, Paolo Mulazzi, Iain R. Morrison, Andrea Passerini, Walter Pozzebon, Luciano Ravagnani, Roberto “Willy” Roversi, Marco Terrestri, Maurizio Vancini, Valerio Vecchiarelli, Giancarlo Volpato, Francesco Volpe.

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In copertina, Shaun Stevenson, dei Chiefs, a sinistra, e Will Jordan dei Crusaders si contendono il pallone nel corso della finale del Super Rugby Pacific (Hannah Peters/Getty Images).

Fotosportit

Roberto Bregani, pag. 28; Daniele Resini, pagg. 15, 17, 18, 26, 27, 30, 38, 39, 40, 42, 43, 50, 51, 56, 59, 61, 65, 71; Ashley Western pag. 48.

Getty Images

Michael Bradley, pag. 44; David Davies, pag. 47; Tim Clayton, pag. 52; Federugby, pag. 41; Catherine Ivill, pag. 55; Christian Liewig, pag. 4; Harry Murphy, pag. 46; Hannah Peters, pagg. 6, 45; Print Collector, pag. 69; Tim Rogers, pag. 54; Stringer, pag. 73; Phil Walter, pagg. 7, 49.

Altri crediti

Giorgio Achilli, pagg. 10, 12, 14, 16, 19; Paola Ambrosetti, pag. 21; Daniele Goegan, pag. 33; Barbara Mattioli, pag.35; Samuel Schiavo, pagg. 22, 24, 25.

L’editore è a disposizione degli aventi diritto, con i quali non gli sia stato possibile comunicare, per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani e delle fotografie.

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Matteo Alemanno
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FLASH Stade Toulousain fait vingt-deux

Con una meta al 78’di Romain Ntamack lo Stade Toulousain ha negato nel finale a La Rochelle il sogno di centrare l’accoppiata, Champions CupTop14. 13-13 all’intervallo, i campioni d’Europa si sono portati sul 20-13 subito dopo il riposo, ma nonostante una punizione di Hastoy li abbia tenuti in vantaggio fino a due minuti dalla conclusione, nel finale hanno dovuto arrendersi al colpo di genio del mediano di apertura della Nazionale francese. Per lo Stade Toulousain è il ventiduesimo titolo di Francia. Per La Rochelle la seconda sconfitta in finale con lo stesso avversario del 2021.

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FLASH Settebello

Per Scott Robertson, qui impegnato nella tradizionale breakdance di “ringraziamento”, si tratta del settimo successo in altrettante stagioni alla guida della franchigia di Canterbury. In vantaggio 20-15 fino a sette minuti dalla fine, i Chiefs non hanno retto: dopo ripetuti falli in difesa, decisivo il cartellino giallo a Sam Cane, che li ha costretti a giocare in 14 le fasi decisive della partita. La meta in spinta di Taylor (due per lui nel match), trasformata da Mo’unga, e la successiva punizione di quest’ultimo, hanno sigillato il risultato negando ai Chiefs un successo che gli uomini di Waikato mancano dal 2013. Robertson, dopo i Mondiali, diventerà l’allenatore degli All Blacks.

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numero centoottantadue

CAMPIONATO TOP 10

Pag.10 Dicono a Rovigo

Dopo la conquista dello scudetto Francesco Zambelli confessa a Roversi tutti i suoi dubbi e le sue perplessità sul sistema. del rugby in Italia

Pag.16 Mister derby

Terzo scudetto per Albi Chillon, che ne ha vinti due con la maglia del Rovigo e uno con quella del Petrarca. Di Gianluca Barca.

Pag.20 Power Rangers

Andrea Cavinato racconta a Giacomo Bagnasco tutte le emozioni di una nuova promozione.

Pag.26 Piccolo era bello

Calvisano lascia il rugby d’élite. Gianluca Barca ripercorre tonfi e trionfi del club giallonero.

Pag.32 Colorno raddoppia

Dopo il titolo U19 dello scorso anno, Colorno ha fatto il bis battendo la Capitolina in finale. Stefano Romagnoli svela a Valerio Vecchiarelli il segreto del successo con gli juniores.

Pag.36 Il nido dell’Aquila

Andrea Fusco racconta i segni di risveglio del rugby a L’Aqulia. Rugby Experience proietta la città verso il domani.

182 SOMMARIO

UNITED RUGBY CHAMPIONSHIP

Pag.38 Formare o allenare?

Fabio Ongaro dialoga con Federico Meda su formazione e crescita delle prime linee.

SUPER RUGBY PACIFIC

Pag.44 Giù al sud

Walter Pozzebon fa il punto sullo stato del rugby dell’Emisfero Sud.

RUGBY DONNE

Pag.50 Verso Spagna e WXV

Mario Diani analizza lo stato del rugby azzurro dopo la finale vinta dal Valsugana sul Villorba.

Pag.52 Dare tempo al tempo

Una conversazione tra Scott Bemand e Mario Diani su presente e futuro del rugby femminile.

Pag.58 Giada è “mille culure”

Giada Franco racconta a Gianluca Barca fatica e paure di una lunga riabilitazione per tornare a giocare nel prossimo Sei Nazioni.

Pag.64 Insieme diventiamo vittoria

A colloquio con lo sponsor della Nazionale. Bilanci e prospettive dopo la prima stagione di partnership. Di Giacomo Bagnasco.

Pag.66 Atlante ovale

Giorgio Cimbrico ci guida attraverso le nuove frontiere del rugby, un atlante di immagini che porta fino al recente ingresso del Nepal in World Rugby.

RUBRICHE

Pag.72 Lo spazio tecnico di Andrea Di Giandomenico

Pag.73 Mani in ruck di Maurizio Vancini

Pag.74 West end di Giorgio Cimbrico

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Dicono a ROVIGO

Dopo la conquista dello scudetto - ma l’aveva fatto anche prima - Francesco Zambelli torna a mettere in discussione il sistema di sviluppo basato su Franchigie e Nazionale. A che serve un campionato senza sbocco, dice?

“Un mostro a due teste”. Con questa definizione, magari piuttosto forte ma sicuramente efficace, il presidente della FemiCz Rovigo, Francesco Zambelli, ha definito l’attuale impianto sportivo di Federugby nel corso dell’assemblea dei soci del club rossoblù, svoltasi per il rinnovo delle cariche societarie dopo la ricostituzione del capitale sociale. Le due teste alle quali fa riferimento il patron dei bersaglieri sono la nazionale e le due franchigie che militano nell’URC. Non è la prima volta che Zambelli esprime la sua opinione su questo tema, però stavolta ha fatto più rumore del solito ponendo sul tavolo una questione sulla quale da tempo si dibatte nel piccolo mondo del rugby italiano: è stata una buona idea creare il sistema delle franchigie? Considerato che l’obiettivo per il quale nel 2011 si era adottato questo modello era quello di favorire la crescita della Nazionale bisogna dire che i risultati degli Azzurri sembrano smentire la validità di questa scelta. Basta guardare i risultati ottenuti dell’Italia nell’era del Sei Nazioni prima dell’arrivo delle franchigie e quelli conseguiti dopo, per rilevare che è cambiato poco o nulla. Anzi, a voler essere pignoli, negli ultimi dieci anni c’è stato qualche piccolo passo indietro. Tra la Nazionale espressione del campionato domestico e quella figlia del sistema delle franchigie, quindi, non si è visto quel salto di qualità che i fautori della

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Francesco Zambelli, 78 anni, è presidente del Rovigo da 12 stagioni.

scelta celtica auspicavano: l’Italia resta la cenerentola del Sei Nazioni, alla World Cup non passa mai il turno e naviga costantemente nelle posizioni di retrovia del ranking mondiale. È certo, invece, che quel passaggio abbia creato una divisione netta nel movimento rugbistico italiano con la presenza di un vertice, definito dalla stessa FIR come “alto livello”, e il resto, che a questo punto deve essere considerato il “basso livello” con l’aggiunta di un’anomalia tutta italiana che vede una franchigia di proprietà di un’azienda privata e un’altra, nei fatti di proprietà, gestita e finanziata direttamente dalla Federazione. Ed è su questa situazione che punta il dito il presidente Zambelli. “Oggi tutta l’attività del movimento è asservita alle esigenze delle due franchigie e della Nazionale – spiega il patron rossoblù – Sembra quasi che il campionato e le ambizioni di società storiche, come il Rovigo e il Petrarca ad

esempio, siano elementi di disturbo nel progetto della Federazione. Tanto che mi domando cosa serva essere affiliati alla FIR se non vengono tutelati gli interessi dei club.”

Di recente la Federugby ha annunciato una serie di modifiche del massimo campionato. Che ne pensa? “Queste decisioni non sono state discusse con le società però se il tutto fosse finalizzato alla crescita del campionato verso l’alto livello sarei anche d’accordo, ma temo non sarà così. Il torneo resterà fine a sé stesso senza nessun sbocco e saranno sempre le due franchigie e la Nazionale a dominare la scena. Con queste premesse, alcuni sponsor che, con passione, hanno investito molto negli ultimi anni potrebbero abbandonare o ridimensionare il loro impegno. È un rischio concreto. Personalmente posso dire che con questa situazione resterò sicuramente altri due/tre anni solo cercando di allestire

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Per Zambelli, festa dopo la vittoria, con i figli Antonio e Carolina.

“La riduzione del numero dei partecipanti al torneo non sarebbe in discussione, se fosse indirizzata, con adeguata attività, per creare un concreto supporto alla Nazionale. Poiché così non è, finisce con il rendere tale Élite fine a stessa e scarsamente impegnativa. Giocando meno partite di campionato c’è necessità di inserire altri impegni che non potranno essere solo l’eventuale Coppa Italia. Una competizione europea di terzo livello potrebbe essere una buona soluzione per assicurare ai club della futura Serie A Elite un numero di partite e una visibilità internazionale che giustifichino gli investimenti.”

una squadra competitiva e di avviare un percorso che porti al rinnovamento dello stadio Battaglini in modo da renderlo adeguato agli standard necessari per giocare e ospitare le partite internazionali.

Dopo, se non cambiano le cose, si vedrà.”

Ritiene che il passaggio in due stagioni dalle attuali 10 a 8 squadre possa favorire la crescita tecnica del campionato?

“La riduzione del numero dei partecipanti al torneo non sarebbe in discussione, se fosse indirizzata, con adeguata attività, per creare un concreto supporto alla Nazionale. Poiché così non è, finisce con il rendere tale Élite fine a stessa e scarsamente impegnativa. Giocando meno partite di campionato c’è necessità di inserire altri impegni che non potranno essere solo l’eventuale Coppa Italia. Una competizione europea di terzo livello potrebbe essere una buona soluzione per assicurare ai club della futura Serie A Elite un numero di partite e una visibilità internazionale che giustifichino gli investimenti. Non so, però, se questa ipotesi sia stata valutato o meno.”

Si è parlato anche di un protocollo al quale dovrebbero attenersi i club per partecipare al massimo campionato: stadi con capienza minima, strutture adeguate, risorse economiche garantite, ecc. È una strada percorribile?

“Anche qui partiamo da un presupposto condivisibile, ma non si tiene conto della nostra attuale realtà. Con questi criteri diverse società resterebbero tagliate fuori e allora sarebbe necessario ricorrere alle deroghe creando una situazione dove ci sarebbero figli e figliastri. Ci si potrebbe anche chiedere se la Federazione è disponibile a sostenere economicamente quei club che dovrebbero adeguarsi ai parametri richiesti. Dubito che ciò accada se già adesso quasi tutte le risorse a disposizione servono ad alimentare le due teste del mostro. C’è poi anche

la questione dell’obbligo della seconda squadra che non mi trova affatto d’accordo. Ripeto: dopo l’Elite abbiamo la Serie A nella quale devono giocare i nostri atleti con desiderano continuare con il rugby. Tempo fa a Rovigo abbiamo fatto una scelta che vuole favorire la filiera rugbistica della provincia. Conclusa l’attività giovanile i giocatori che non rientrano nei piani della prima squadra preferiscono continuare la loro attività negli altri club del territorio che partecipano ai campionati di Serie A e B piuttosto che militare precariamente in una squadra Riserve.”

In questo quadro si inserisce anche il rapporto tra le società del campionato e le due franchigie. Come lo giudica?

“Partiamo dalla questione dei “permit player”. Io sono contrario ad avere nella mia squadra giocatori che si allenano tutta la settimana con una franchigia per poi averli a disposizione solo in occasione delle partite. Non credo che questo sistema aiuti la crescita tecnica del singolo giocatore senza dimenticare le conseguenze di una situazione del genere negli equilibri del gruppo. Salvo la preparazione pre-season, ritengo molto più sensato l’utilizzo del “prestito stagionale” dei giocatori sotto contratto con le franchigie che restano così sempre a disposizione della squadra che disputa il campionato. A Rovigo l’anno scorso abbiamo avuto Tavuyara e per la prossima stagione dovremo formalizzare il prestito di due giocatori provenienti dal Benetton Treviso con il quale abbiamo una buona collaborazione. Non posso dire la stessa cosa delle Zebre visto che si sono accordati con due nostri atleti già a dicembre scorso senza nemmeno informare la società.”

Da tempo si parla di rimettere in piedi la Lega delle società di Serie A. A che punto siamo?

“In passato è stato perso tanto tempo. Con 10 società, ognuna con esigenze e realtà diverse, era difficile trovare dei punti in comune. Di recente si era quasi riusciti in questa impresa, ma è intervenuta la Federazione a sconvolgere le buone intenzioni, introducendo nuovi criteri e una nuova figura come quella del Direttore del Campionato. Magari con il torneo a 8 club ci saranno maggiori possibilità per far rinascere la Lega. Io mi chiedo, però, con quali obiettivi e con quali prospettive potrà muoversi se il ruolo del campionato resterà sempre subalterno alle franchigie e alla Nazionale.”

Cosa vede nel futuro del campionato?

“Devo ammettere che non sono molto ottimista. C’è una situazione nella quale sembra non esserci prospettive per il campionato e che non appare modificabile. Con la creazione delle franchigie abbiamo voluto in qualche modo scimmiottare altre nazioni rugbisticamente diverse dall’Italia. Credo, invece, che ognuno debba fare i conti con la propria real -

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tà. Dopo più di dieci anni questo modello non mi pare abbia prodotto grandi risultati. Forse tornare a un campionato nazionale forte e competitivo non sarebbe una cattiva idea. Le ultime finali-scudetto hanno dimostrato che ci sono delle potenzialità da sfruttare. La Federazione, però, va avanti per la sua strada. Davanti a questa chiusura, che in qualche modo non gratifica l’impegno di chi come me e i presidenti delle squadre che hanno disputato i play off, ma anche gli altri che hanno investito e stanno ancora investendo sul campionato, non mi resta che dedicarmi esclusivamente al Rovigo ancora per qualche anno. Senza un cambiamento di obiettivi ho già deciso che non mi interessa più partecipare alle prossime riunioni tra le società e la Federazione.” In effetti la Federazione non sembra aver intenzione di modificare i suoi programmi i quali prevedono che tutte le realtà del movimento italiano debbano operare con il solo scopo di sostenere l’attività dell’alto livello. Anzi con la riforma delle Accademie e dei Centri di Formazione potrà controllare e gestire, mettendoli direttamente sotto contratto, anche i migliori elementi che usciranno dai settori giovanili dei club. In questo modo il percorso delineato per “la meglio gioventù” del rugby italiano passerà esclusivamente per la filiera federale (Centri di Formazione, Accademie, Franchigie e Nazionale) escludendo di fatto i campionati seniores, dalla Serie C alla neo Serie A Elite, nei quali giocheranno solo gli atleti ritenuti non idonei al progetto federale. Il rischio potrebbe essere quello di avere tutta l’attività non funzionale alle franchigie e alla Nazionale relegata in un angolo come si fa con le cose che non servono. È vero che le risorse economiche di cui dispone attualmente la Federazione arrivano dall’attività di vertice, ma buttare a mare un patrimonio di un secolo di storia e di tradizione come quello rappresentato dalle società, con le loro naturali ambizioni e giuste esigenze, sarebbe un grave errore.

Gli scudetti vinti da presidente da Francesco Zambelli (2016, 2021, 2023) che eguaglia così il record di Lino Rizzieri, alla guida della squadra campione nel 1962, 1963 e 1964.

I titoli conquistati complessivamente dai Bersaglieri, il primo fu nel 1951, seguito da quelli del 1952, 1953 e 1954. Poi, ai tre degli anni Sessanta, e a quelli dell’era Zambelli, vanno aggiunti i due del 1976 e 1979, e quelli del 1988 e del 1990.

Alberto Chillon è uno dei due giocatori che hanno conquistato lo scudetto sia con la maglia del Petrarca (2011) che con quella del Rovigo (2016 e 2023). L’altro è Dino De Anna che, nel 1977, vinse il titolo a Padova, mentre l’anno prima aveva trionfato con quella rossoblù dei polesani.

Alessandro Lodi è solo il terzo allenatore italiano ad aver portato al successo in campionato Rovigo, i primi due erano stati Umberto Casellato (2021) e Giordano Campice (1962, 1963, 1964). Lo scudetto del 1976 i Bersaglieri lo conquistarono sotto la guida di Julien Saby, quello del 1979 con Carwyn James in panchina. Nel 1988 l’allenatore era Nelie Smith e nel 1990 Tito Lupini, azzurro ma di scuola sudafricana. Nel 2016 Joe Mc Donnell prese a metà dicembre il posto di Pippo Frati. Gli scudetti degli anni Cinquanta non annoverano ufficialmente un allenatore: Mario “Maci” Battaglini (1950-1953) e Aldo Milani (1954) svolgevano contemporaneamente il ruolo di giocatore e allenatore.

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Giovanni Montemauri, miglior marcatore del campionato 2023, con 233 punti. La prossima stagione giocherà nelle Zebre. A destra, il tifo delle Posse rossoblù al Battaglini.
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Terzo scudetto per Albi Chillon, che ne ha vinti due con la maglia del Rovigo e uno con quella del Petrarca

Dopo lo scudetto, la pesca con la mosca. Domenica 28 maggio, Alberto “Albi” Chillon ha conquistato a Parma il suo terzo titolo tricolore. Tutti e tre sono stati vinti sull’asse Padova-Rovigo. Il primo al Battaglini, con la maglia del Petrarca, gli altri due con quella rossoblù del club polesano, battendo entrambe le volte gli avversari padovani.

Archiviata la sesta finale, tre vinte (2011, 2016 e 2023) e tre perse (2017, 2019, tutte e due contro Calvisano, e 2022, contro Padova), Chillon può dedicarsi ora al suo hobby preferito: la pesca alla trota sul Brenta.

A Rovigo, Albi non è l’unico appassionato di ami ed esche: Davide Giazzon, l’allenatore della mischia del club, è il titolare di un negozio specializzato nel settore, Magic Angler, a Mogliano.

“Ma la sua è una pesca da uomo di prima linea (carpfishing, ndr) - lo prende in giro l’ex mediano di mischia delle Zebre -, io corro su e giù per i torrenti, lui se ne sta seduto sulla riva ad aspettare, magari con la birretta in mano…”.

Chiusa la diatriba tra pescatori, possiamo passare all’analisi della stagione del Rovigo, sfociata nel trionfo di Parma.

“Anche stavolta, come nel 2016, lungo la strada che ha portato allo scudetto c’è stato un cambio di allenatore in corsa. Allora, alla vigilia di Natale, il Rovigo esonerò Frati per mettere al suo posto Joe McDonald. Quest’anno, a novembre, al posto di Allister Coetzee è arrivato Alessandro Lodi…”

Coetzee non funzionava?

“Penso che questo ambiente non fosse il suo: aveva lavorato con gli Springboks, era abituato ad avere un staff di dieci persone… Faticava a calarsi nella nostra mentalità, nello spirito con cui qui si preparano e si vivono una partita, una trasferta, non coglieva gli umori della settimana. Tutto troppo distante dalla sua mentalità. Con Ale Lodi siamo ripartiti praticamente da zero, con più entusiasmo, insistendo su quel senso di appartenenza che a Rovigo è fondamentale e che lui ha saputo gestire molto bene”.

Perché Rovigo è un posto speciale?

“Perché qui quando vai in campo c’è tutta una città che aspetta, qui non giochi solo per te stesso, dietro c’è tutta una comunità che spinge, che tifa”.

Tu però il primo scudetto l’ha vinto con la maglia del Petrarca, battendo il Rovigo in finale proprio al Battaglini.

“Quello ancora me lo rinfacciano: nella regular season avevamo perso entrambi gli scontri diretti, in finale, dopo mezz’ora, eravamo sotto 3-14. Poi loro non hanno fatto più un punto e noi abbiamo vinto 18-14”.

Li hai ricompensati con due titoli, quello del 2016 e quello di quest’anno. Però ti sei perso quello del 2021, la vittoria rossoblù al Plebiscito.

“Nel 2019, la stagione del covid, ero rientrato a Padova. Con la mia compagna avevamo deciso di mettere su casa insieme, giocare nel Petrarca mi sembrava la soluzione migliore. Poi però le cose non sono andate come mi aspettavo, c’è stata l’interruzione per la pandemia, non si sapeva bene come sarebbe andata a finire, perciò quando Manghi mi ha fatto la proposta di trasferirmi al Valorugby ho accettato volentieri. Il campionato 2020/2021 l’ho disputato con la formazione emiliana, in semifinale abbiamo battuto il Petrarca in trasferta, ma non è bastato per guadagnarci la finale. Poi Rovigo ha conquistato lo scudetto con quella meta proprio alla fine”. Come mai sei stato a Reggio solo una stagione?

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Per Albi Chillon, quella appena conclusa è stata la sesta stagione con la maglia del Rovigo. Qui, con maglia del Petrarca, nel 2011, alla consegna dello Scudetto.

“Andare e tornare da Padova non era facile, nonostante tutto, padovano sono e padovano resto. E poi diciamo che il richiamo di Rovigo è una calamita quasi irresistibile. Vincere qui è davvero un’emozione particolare”.

Parliamo della finale di quest’anno. “L’abbiamo preparata sapendo che loro non avrebbero cambiato modo di giocare. Avevano insistito con quella strategia per tutta la stagione ed eravamo sicuri che non avrebbero cambiato alla vigilia della partita decisiva. Per questo abbiamo puntato molto sulla difesa, sul raddoppio dei placcaggi, sullo spirito di gruppo, che è stato la nostra cifra tecnica nella seconda parte della stagione. Abbiamo difeso molto bene, mostrato un bello spirito di sacrificio. E siamo stati bravi a raccogliere punti ogni volta che ne abbiamo avuto l’occasione”.

Quando è stato il momento della stagione in cui avete capito che potevate arrivare in fondo?

“A marzo, quando, dopo la pausa, abbiamo battuto nell’ordine il Calvisano, il Petrarca e il Valorugby, facendo 15 punti. Lì secondo me abbiamo acquisito la consapevolezza definitiva dei nostri mezzi”.

Tuttavia in semifinale, contro il Colorno, siete passati per un solo punto.

“Sapevamo che, nonostante il primo posto nella regular season, la miglior difesa e tutto il resto, ci sarebbero stati comunque momenti difficili. La semifinale di andata, a Colorno (19-14 per i padroni di casa, ndr), è stato uno di quelli. Ma ci siamo detti: meglio adesso che dopo… Al ritorno, sia pure di misura siamo riusciti a rimettere a posto le cose”.

Hai giocato nelle Zebre e in Nazionale: che opinione hai di questo campionato, come tornare a dargli valore?

“Certo, giocare in certe piazze, a Thomond Park, a Cardiff, a Murrayfield, affrontare avversari come Pienaar, a me è capitato contro l’Ulster… è un po’ diverso… è una grande emozione, ma a volte è più un fatto che vivi a livello individuale. Del resto, quando c’ero io non è che alle Zebre le tribune scoppiassero di spettatori, o che a Parma ci fosse tutto questo interesse. Sotto questo profilo, Rovigo molte volte ti da tanto di più. Sul piano tecnico è ovvio che le franchigie sono di un livello superiore, ma con 50/60 giocatori in rosa ce ne sono tanti che giocano poco, o quasi mai. Per questo penso che il campionato possa essere un’ottima palestra e che chi non gioca in URC nel week end debba essere a disposizione dei club. Come farlo, con che equilibri, deve deciderlo la federazione, ma penso che questo sia un passo necessario”.

Voi a un certo punto della stagione avete ereditato dal Benetton Ratuva Tavuyara.

“Un giocatore che ci ha dato una bella iniezione di fiducia e di forza fisica, il suo arrivo ci ha fatto molto piacere, è uno di quelli che se gli dai un po’ di spazio, per gli avversari sono guai seri”.

In squadra, nel tuo ruolo, avevi la concorrenza di Lautaro Bazan Velez, uno che in autunno ha giocato contro la Scozia con la maglia dei Pumas.

“Grande atleta, potente, veloce”. Però in finale hai giocato tu.

“Lodi ha comunicato le sue scelte e io onestamente non ho fatto troppe domande, né ho chiesto spiegazioni. Mi bastava giocare. Lautaro era alla prima stagione in Italia, magari deve trovare un po’ più di equilibrio rispetto al nostro stile di gioco”.

Cosa ti è mancato per restare più a lungo alle Zebre e riuscire a collezionare qualche presenza in più in maglia azzurra?

“Mah… per me quella delle Zebre è stata comunque un’esperienza positiva, in quegli anni c’era anche Leonard, non era facile imporsi e convincere l’allenatore a farmi giocare. Sono andato via che avevo solo 24 anni e in qualche modo sapevo che tornando al campionato avrei avuto poche occasioni per rientrare nel giro. Con la Nazionale ho preso parte solo al tour in Sudafrica del 2013. Mi dispiace, perché con il senno di poi penso che forse avrei potuto giocare qualche partita in più. Ma me ne faccio una ragione”.

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Premiato dai vertici federali, Alfredo Gavazzi e Nino Saccà, dopo lo scudetto del 2016 A destra, colonne rossoblù: Alberto Chillon e il capitano del Rovigo Matteo Ferro.
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POWER RANGERS

Vicenza promosso per la

in Serie

Alla soglia dei 60 anni l’allenatore, Andrea Cavinato, nato a luglio 1963. Vicina al mezzo secolo, che compirà l’anno prossimo, la società, il Rugby Vicenza super-sponsorizzato Rangers. L’unione è avvenuta all’inizio della stagione appena conclusa e ha dato ottimi frutti. Anzi, a essere precisi, ha regalato una primizia assoluta: una squadra di Vicenza promossa nel massimo campionato. Mai successo.

Partendo dall’ultima partita, dalla finale promozione contro una Lazio fino ad allora imbattuta e, anzi, sempre vittoriosa in stagione: addirittura con 100 punti in 20 match nel proprio girone, il che significa non avere mai mancato non solo il successo ma neppure il punto di bonus per le mete segnate, e con due vittorie convincenti nella semifinale con Parabiago. Imbattuta e imbattibile, si sarebbe detto, fin quasi a metà della ripresa del match decisivo, che la squadra romana conduceva 18-3 dopo aver chiuso la prima frazione sul 15-3. Succede, poi, che il Vicenza non solo segna la prima meta, con Tommaso Nicoli, ma soprattutto

da quel momento inizia a dominare, con possesso e territorio totalmente a suo favore. Ci sono due punizioni “di avvicinamento” di Pedro Mercerat (schierato apertura, anziché estremo, per sostituire il n. 10 titolare Marco Marin) e, nonostante i minuti che passano, si sente che sul 16-18 il sorpasso è vicino. Infatti a tre minuti dalla fine è proprio il capitano Pietro Piantella (terza linea e neo-ingegnere) a segnare in bandierina la meta che apre la porta della Serie A Élite.

Una contesa che ha cambiato faccia: un’ora per i biancocelesti e 20 minuti, quelli decisivi, per i biancorossi occasionalmente in maglia scura. Inspiegabile? Nemmeno un po’, a sentire Cavinato: “Con Francesco Minto e con il preparatore atletico Alessandro Gerini, che è anche nello staff della Nazionale maggiore, abbiamo studiato le partite, prima dei Cavalieri Prato, che abbiamo superato nei due match di semifinale, e poi della Lazio. Due squadre che arrivavano dal girone del Centro-Sud. Abbiamo riscontrato che nelle partite più importanti c’era una differenza di sette-otto minuti (da

Andrea Cavinato, alle soglie dei sessant’anni (è nato il 15 luglio 1963) si è tolto la soddisfazione di conquistare una nuova promozione in Élite.

prima volta
A Élite alla vigilia dei cinquant’anni di storia del club. “Siamo qui per restarci”, promette il coach, Andrea Cavinato
di Giacomo Bagnasco
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32-35 a 25-27) nel tempo medio effettivo tra il nostro girone, tutto di squadre venete più il Romagna, e quello delle nostre due avversarie. Di più: nel corso della stagione la Lazio aveva segnato le quattro mete valide per il bonus offensivo già nel primo tempo, mentre noi, oltre ad aver perso due volte, avevamo vinto diverse partite con fatica, nel finale. Abbiamo notato anche che la Lazio era abituata ad attaccare continuamente, in forza di un grande possesso, e di conseguenza avrebbe potuto trovarsi in difficoltà se costretta a difen -

dersi. Noi sapevamo che sarebbero andati a mille nel primo tempo, perciò abbiamo cercato di contenerli per poi alzare il ritmo nella ripresa. Nell’intervallo avevamo anche corretto il tiro, ho detto ai ragazzi di smettere di calciare e mantenere il possesso del pallone, impostando un gioco multifase. Li ho visti concentrati: sguardi intensi, testa alta e convinzione di poterla ribaltare. Tra l’altro, nella finale il gioco effettivo del primo tempo è stato solo di 13 minuti, mentre nel secondo tempo si è saliti a 18”.

Giocatori e staff dei Rangers festeggiano la promozione dopo aver battuto, 21-18, la Lazio nei play off.

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Però, proprio nell’ultimo di quei 18 minuti avete rischiato di rovinare tutto, trovandovi a difendere una penaltouche con due uomini in meno per altrettanti cartellini gialli…

“Vero. Ci siamo complicati la vita nel finale dopo avere rimesso in piedi la partita. Loro sono stati molto bravi a rubarci una touche (con lancio in attacco per il Vicenza, ndr) e noi siamo stati poco disciplinati, abbiamo commesso falli stupidi ritrovandoci prima in 14 e poi in 13, senza i due piloni. A quel punto sono state micidiali la nostra volon -

tà di non subire meta e la difesa a terra nell’ultimo drive, dopodiché, certo, anche il fattore fortuna è stato dalla nostra parte”.

La squadra aveva iniziato la stagione con una rosa molto ridotta.

“Di fatto erano 24 giocatori, poi siamo arrivati a 28 con qualche innesto, come quello di Lapo Frangini, tallonatore arrivato come permit player dal Benetton a poche partite dalla fine della stagione regolare. L’età media è bassa, anche perché ci sono solo tre giocatori oltre i 30 anni e avevo in -

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serito in rosa quattro ragazzi appena usciti dall’Under 19: uno, il primo centro Erik Scalco, ha giocato quasi tutti i match da titolare. Più o meno la metà delle forze a disposizione è di Vicenza e provincia, a livello giovanile si lavora sulla qualità, facendo rete con le altre società del territorio. Quattro elementi arrivano da Treviso, tre da Padova, gli stranieri “veri” sono tre. Mi ha stupito molto la qualità dei giocatori, per le abilità tecniche notevoli, la caparbietà e la voglia di vincere, la serenità con cui si preparavano. Stavano bene insieme ed è stato piacevole allenarli. Ci ha sempre entusiasmato la loro capacità di credere nelle possibilità di successo. Oltretutto, essendo pochi, abbiamo lavorato per evitare il contatto il più possibile, in modo da limitare gli infortuni. E i ragaz-

zi si sono adattati sempre a una metodologia a cui non erano abituati. Posso dire che è stata per tutto l’anno una squadra felice, capace di rispondere agli stimoli e disponibile verso le cose nuove che proponevamo”.

“Mi ha stupito molto la qualità dei giocatori, per le abilità tecniche notevoli, la caparbietà e la voglia di vincere, la serenità con cui si preparavano. Stavano bene insieme ed è stato piacevole allenarli. Ci ha sempre entusiasmato la loro capacità di credere nelle possibilità di successo.”
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Ad esempio? “

Con Francesco e Alessandro abbiamo impostato un gioco basato sulla velocità e sull’innalzamento del ritmo. Velocità e fisicità rendono questo sport appetibile, divertente, spettacolare: vanno incontro ai gusti del pubblico”.

Adesso arriva una nuova sfida: tradizionalmente non è mai facile per una neopromossa, in più l’anno prossimo le partecipanti al massimo campionato si riducono a nove e le retrocessioni salgono da una a due… “Sarà una stagione molto dura, da studiare in modo accurato a tavolino, per capire dove e come si potranno fare punti. Sappiamo che il campionato è diviso in due tronconi. Cinque squadre hanno budget, roster e staff tecnici molto superiori alle altre quattro. Penso che ci giocheremo la salvezza con Mogliano, Lyons Piacenza e Viadana. Però affrontiamo questo impegno con la consapevolezza di avere alle spalle un vero mecenate locale, non solo del rugby ma di diversi sport: parlo di Luigi Battistolli, che poi è il titolare della Rangers, un’azienda molto nota a Nord-Est per l’attività nel campo del trasporto valori e dei servizi di vigilanza. La squadra sarà rinforzata e attrezzata grazie a un aumento molto consistente delle risorse. Siamo gli ultimi arrivati, entriamo in punta di piedi, ma vogliamo provare a non fare le comparse”.

Così parlò Cavinato, che - considerando anche le prime esperienze, quando ancora giocava e cominciò ad allenare i più piccoli - ha all’attivo oltre 35 anni da tecnico. Ha vinto due scudetti “assoluti” con il Calvisano, due titoli Under 20 con il Benetton, conquistato anche due promozioni nella massima serie (prima di Vicenza, ci riuscì con Silea), tre Coppe Italia, due Supercoppe “e - aggiunge lui - anche due trofei nazionali dei Giochi della gioventù con Casale, a

voler citare proprio tutto”. Tra le “panchine” praticate a livello di club, ci sono pure Petrarca e Parma, oltre a quella della franchigia targata Zebre. Poi c’è il capitolo azzurro con le Nazionali Under 17, Under 19 e Under 20 (quest’ultima anche nel Sei Nazioni e in cinque edizioni dei Mondiali di categoria), più gli Emergenti. A Vicenza è arrivato dal VII Rugby Torino (Serie A), dove era direttore tecnico, con Franco Properzi allenatore. Una sfilza di incarichi, di rapporti non sempre facili, una carriera di livello, che forse poteva arrivare ancora più in alto. A guardarsi indietro, c’è qualche rimpianto? “Con il senno di poi è facile dire che si poteva fare così o colà. Uno dei miei più grossi rammarichi è quello di non avere accettato il ruolo di assistente che John Kirwan mi aveva proposto nel 2003, quando era diventato il ct della Nazionale maggiore. Non mi sentivo pronto per quell’incarico e rimasi con l’Under 20. Quanto al resto, mi spiace per la nomea che mi porto dietro, quella di essere “turbolento”. Quasi sempre a fare queste affermazioni sono persone che non mi conoscono, e io penso che la nomea non corrisponda alla verità. Ho lavorato molto sul mio carattere e continuo a farlo. So di essere stato estremamente diretto in molte occasioni, ma una cosa è essere diretti, un’altra essere aggressivi e maleducati”.

Il capitano dei Rangers Pietro Piantella posa con la coppa accanto a Luigi “Lucky” Battistolli. A sinistra, un momento del match con le mischie all’ingaggio. Sotto, le squadre schierate prima del c alcio di inizio.

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Piccolo era bello

È il diciassette giugno del 2000, alla finale per il titolo di campione d’Italia sono arrivate la Rugby Roma e L’Aquila: allo stadio ci sono oltre sedicimila persone.

Milano, quattro scudetti tra il 1991 e il 1996, non c’è più ma è risorta la capitale.

Quattro mesi prima, a febbraio, nella partita inaugurale del Sei Nazioni, gli Azzurri hanno battuto la Scozia, con il Flaminio tutto esaurito e il pallone ovale sulle prime pagine dei giornali. Il futuro del rugby appare tinto di rosa in Italia.

Invece d’improvviso, mentre all’estero si comincia a discutere di stadi più grandi e di bacini metropolitani, mentre, in Francia, Parigi, con lo Stade Français, cui poi si aggiungerà il Racing, diventa la nuova realtà del rugby del Paese, da noi tutto d’un tratto si inverte la tendenza. Dopo Milano, anche Roma va a picco: nemmeno il tempo di festeggiare lo scudetto e, due stagioni dopo il successo, la gloriosa Olimpic finisce penultima. Il calvario di Roma durerà un paio di stagioni, la retrocessione inevitabile arriverà nel 2004.

Nel frattempo, a contrastare il dominio di Treviso si sono candidate due piccole realtà della Lombardia, Padania nei sogni di qualcuno: Calvisano e Viadana. “I due nuovi centri, insieme, non contano venticinquemila abitanti - raccontavamo nel 2008 nel libro che celebrava gli 80 anni della Fir - ma pulsano di passioni e hanno al proprio seguito tifosi numerosi e festanti. Se altrove il pubblico è diventato svogliato ed esigente, abituato al successo, un po’ annoiato e poco incline a mostrare i propri sentimenti, qui ci sono sanguigna partecipazione e genuino spirito di campanile. Le due

squadre dispongono di mezzi rilevanti, anche perché alla testa delle rispettive avventure rugbistiche hanno imprenditori capaci, uomini di un territorio di cui la sociologia comincia ad occuparsi con curiosità. Sono gli attori di un nuovo localismo che non conosce successi solo nello sport, ma rivendica identità e presenza anche a livello politico. È il nuovo che avanza sotto le bandiere del “piccolo è bello”. Piccolo, per quanto riguarda il rugby, significa poter contare su strutture che le grandi città spesso non sono in grado di mettere a disposizione. Nella piccola realtà viceversa, gli amministratori locali sono più vicini alle esigenze dello sport, in questo caso della “pallovale”. Fast forward.

Siamo a giugno del 2023, dalla data di quella prima finale del nuovo millennio sono trascorsi 23 anni, ventiquattro campionati: facciamo la conta di chi non c’è più. Dopo Milano e Roma (le Fiamme Oro sono una realtà extra territoriale), sono sparite, da quella che d’ora in poi si chiamerà Serie A Elite, anche San Donà, Catania, L’Aquila, Parma (che ebbe in Eccellenza perfino due squadre), Prato.

Venezia, Firenze, Verona e Torino hanno fatto negli ultimi quindici anni sporadiche e repentine apparizioni. La prossima stagione esordirà ai vertici Vicenza, ma intanto soffre Mogliano e fa un passo indietro Calvisano, dove il San Michele, insieme allo Zaffanella di Viadana, pare un monumento ai fasti che furono. Due impianti che raramente, se non mai, giustificano la capienza, sinonimo di vecchie ambizioni.

Viadana paga da anni il passo troppo lungo degli Aironi e con essi l’uscita di scena dal panorama rugbisti-

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di Gianluca Barca Leonardo Ghiraldini con il trofeo che premia i campioni d’Italia, dopo la conquista dello Scudetto 2008. Al suo fianco, a sinistra, Giampiero De Carli, a destra si riconoscono Paul Griffen e Il presidente Francesco Casali, che solleva la coppa. Nel riquadro, Alfredo Gavazzi.

co dell’Arix, l’azienda della famiglia Melegari, storico sponsor della squadra campione d’Italia nel 2002 e finalista nel 2009 e nel 2010.

Calvisano sconta l’addio del suo mentore e fondatore, Alfredo Gavazzi, scomparso alla fine dello scorso mese di ottobre. Senza di lui, il club che tra il 2001 e il 2019 ha vinto sette scudetti e disputato quattordici finali è stato costretto a gettare la spugna e ridimensionare traguardi e prospettive.

Negli scorsi mesi la società giallonera ha salutato non meno di 28 giocatori. Ripartirà dalla serie A1 e da un bravo formatore, Mattia Zappalorto, già direttore tecnico del settore juniores del Mogliano. C’è da ricostruire una filiera, ripartire dal basso, dai giovani: spendere meno, provare a spendere bene. Il primo dei suoi sette scudetti il Calvisano lo conquistò nel 2005. Prima di quel traguardo, la storia parla di quattro sconfitte consecutive in altrettante finali. Il successo arriverà con una formazione che nel frattempo è diventata parente stretta di quella della Nazionale: Castrogiovanni, Perugini, Moretti, Zaffiri,

Griffen, Nitoglia, Zanoletti, Ravazzolo e Vaccari. La replica arriverà nel 2008 con un gruppo del quale, tra equiparati e non, facevano parte non meno di 15 giocatori di scuola e formazione straniera. Un volo di Icaro, pagato caro: nel 2009, in concomitanza con l’ammissione di due squadre italiane alla Celtic League, e senza i mezzi per potersi candidare per quella nuova avventura, il club si impose una prima retrocessione volontaria. Alla quale seguì il ritorno in Eccellenza nella stagione 2011/2012, subito premiata dal primo di cinque scudetti nell’arco di otto campionati. Ma di nuovo, all’alba del 2023 e senza il suo nume ispiratore, Calvisano si è trovato orfano di tutto quello che Alfredo Gavazzi aveva rappresentato per il club nella sua storia: visione, passione, mezzi economici messi a disposizione con generosa profusione e un pizzico di follia.

È la storia paradigmatica di uno sport dove l’uomo solo al comando tiene la barra del timone finché può, in un campionato che non prevede entrate né dai diritti televisivi, né dal botteghino, nè dal mer-

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Poche volte, negli ultimi anni, il San Michele di Calvisano si è riempito di bandiere giallonere.

Nelle pagine seguenti, quando il Calvisano giocava in Heineken Cup: Jonah Lomu, con la maglia dei Cardiff Blues, placcato da Zanoletti e Perugini (a sinistra).

chandising, che negli sport di squadra più importanti rappresentano le tre voci principali del bilancio in entrata.Restano gli sponsor, generosi, appassionati, ma spesso miopi nella promozione delle proprie iniziative e incapaci di fare lega con i colleghi delle altre società.

Così Francesco Casali, presidente dello scudetto 2008 del Calvisano e, di nuovo, nella stagione 2020/2021: “Restano di questi anni una grande orgoglio, perché non accadrà mai più che un paese di seimila abitanti vinca sette scudetti, ma anche la consapevolezza di aver fatto una cosa che non poteva durare. I numeri, già dopo aver vinto il primo titolo (25-20 contro il Treviso a Padova nel 2005) ci dicevano che era impossibile continuare. E infatti, pochi anni dopo, è arrivato il primo ridimensionamento. Poi, la forza di Alfredo (Gavazzi, ndr), la sua determinazione, la sua incoscienza hanno prolungato fino a ieri quell’avventura. E se non fosse stato per lui, di Calvisano oggi non parlerebbe nessuno, nessuno conoscerebbe la storia di questa piccola realtà che a un certo punto ha do -

minato in Italia e si è fatta onore anche in Europa. Ma è il sistema nel suo insieme che non poteva reggere. Perché il rugby nel nostro paese non ha i numeri per giustificare bilanci da due milioni di euro. E se siamo onesti, visto quello che sta accadendo in Inghilterra, e fatte le debite proporzioni, forse è il rugby stesso, non solo in Italia, che non ha presupposti per reggere a livello imprenditoriale. Le squadre stanno in piedi finché c’è un appassionato molto ricco che paga, o finché i soldi ce li mette la Fir. Se togli queste due fonti di entrata, il giocattolo si rompe e finisce la storia. Quante ne abbiamo viste in questi anni?”. Da dirigente si sente di dover fare un’autocritica?

“Noi, il rugby, non eravamo preparati al professionismo. E quando quest’onda ci ha travolto non siamo stati capaci, nessuno, di mettergli un freno. Ci siamo svenati per giocare davanti a 400 spettatori, 100mila, forse, in televisione, e pagare mille euro al mese i giocatori, creando un professionismo da disadattati. Avremmo dovuto avere il coraggio di interrompere quella spirale. Ma nessuno l’ha fatto, nessuno ci ha

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provato. Noi ci siamo autoretrocessi nel 2009, ma poi, una volta promossi, siamo ripartiti con i medesimi errori. Il dato di fatto è che oggi il sistema regge solo in Francia, mentre in tutto il resto del mondo, dal Galles all’Australia, le squadre boccheggiano. Figuriamoci se potevamo tenere botta, noi, da soli a Calvisano...”.

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Gli scudetti conquistati nella sua storia dal Calvisano, il primo nel 2005, l’ultimo nel 2019.

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Le finali disputate dal club giallonero tra il 2001 e il 2019, con perfetta parità tra quelle vinte e quelle perse, sette.

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I giocatori che hanno vestito la maglia della Nazionale mentre giocavano nel Calvisano. Il primo fu Sergio Appiani, nel 1985, seguito da Paolo Vaccari e Massimo Ravazzolo. Gli ultimi sono stati Jacopo Trulla e Federico Mori (nel 2020), e Manfredi AlbaneseGinammi, nell’estate 2022.

1970

È l’anno di fondazione del Calvisano. Nel 1982 il club fu promosso per la prima volta in Serie A.

1998

Il Calvisano si fonde con il Milan (Amatori Milano) dando vita all’Amatori Calvisano.

Il piazzamento della squadra quest’anno al termine della regular season. E’ il peggiore del club dal 2000, quando finì ottavo.

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Colorno raddoppia

Dopo il titolo U19 dello scorso anno, Colorno ha fatto il bis battendo la Capitolina in finale. Viaggio in questo piccolo miracolo con Stefano Romagnoli.

Un’isola ovale in mezzo alla Pianura (Padana), Colorno, a un tiro di schioppo da Parma, fa il solletico ai giganti e ci prende gusto: secondo scudetto giovanile consecutivo, lo scorso anno vittoria in finale con il Benetton Treviso, quest’anno replica contro la Capitolina (22-19 nella finale di Calvisano). Due indizi possono fare una prova, forse a Colorno sono riusciti a confezionare un modello di cui il rugby italiano può andar fiero. La testa pensante del progetto è Stefano Romagnoli, pilone azzurro prima, tecnico dell’Italia

A ai tempi in cui Georges Coste dettava frenetici ritmi di crescita all’intero movimento, fino ad arrivare a buttar giù a spallate il portone che ci divideva dal mondo dei grandi.

Caratteri forti e inevitabili infinite discussioni, fino a quando Romagnoli si fece da parte. Ma guarda caso, nel 2006, quando il presidente federale Giancarlo Dondi recepì l’invito dell’International Board che chiedeva ai paesi emergenti di dotarsi di Accademie per la crescita dei giovani, a garante del progetto chiamò Georges Coste che, per prima mossa, volle proprio Stefano Romagnoli nel più importante ruolo operativo. Solo chi non ha una lucida visione dell’orizzonte può vivere di rancori.

Con le Accademie federali sappiamo come è andata a finire, chiuse per fine progetto, una scelta drastica che ha fatto tornare Romagnoli sui propri passi, fino a sbattersi la porta alle spalle.

Adesso l’avventura in un piccolo paese emiliano, l’esperienza e un amore sconfinato per il rugby italiano messi di nuovo a disposizione della causa.

Dopo i due scudetti giovanili, possiamo parlare di un “modello Colorno”?

“Non credo - taglia corto Stefano Romagnoli, il director of rugby del club - ma sicuramente possiamo parlare di un progetto che ha a cuore la crescita del nostro modo di intendere rugby. Personalmente io ho messo a disposizione la tanta esperienza maturata in Fir, ho riproposto in scala un modello che continuo a pensare sia stato vincente; basta guardare quello che ha fatto la nostra Under 20 negli ultimi anni, consolidando l’ottavo posto a livello di Coppa del Mondo, diventando una squadra di riferimento del Sei Nazioni e formando giocatori pronti a vestire la maglia della Nazionale. Chiudere l’Accademia è stata una scelta sbagliata, perché quando si operano scelte politiche e non tecniche spesso si va incontro a errori. E allora ho provato a dare continuità alle mie convinzioni in un club di un paese, quasi una famiglia, che ha accettato la scommessa”.

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raddoppia di

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Valerio Vecchiarelli

Mettiamo in fila queste convinzioni…

“Essendo un centro molto piccolo, non possiamo fare altro che andare in giro per l’Italia a cercare ragazzi che abbiano la voglia e le potenzialità per crescere. Naturalmente dobbiamo essere bravi ad andare oltre quelli “noti”, già entrati nel giro federale o delle franchigie. Offriamo loro la possibilità di intraprendere un percorso di formazione, vitto, alloggio, l’istruzione scolastica, il miglior modo possibile per crescere. Per fare ciò, però, abbiamo dovuto creare una struttura adeguata; l’impianto, la palestra e tutta l’assistenza possibile. I ragazzi hanno 3 fisioterapisti a disposizione, una costante assistenza medica, i preparatori atletici, il nutrizionista e uno staff tecnico: solo nell’Under 19, per esempio, con Riccardo Piovan lavorano altri quattro allenatori. Chi accetta la nostra proposta viene da noi e inizia un percorso di formazione, ci sono giocatori come Francesco Ruffolo che qui è cresciuto e oramai sono 6 anni che vive questa esperienza. Chiamarla accademia è troppo, però di sicuro abbiamo lo spirito giusto e facciamo vivere i ragazzi con pochissima pressione. Io ho voluto, e resto della mia idea, che il Colorno abbia 2 squadre nell’ultima categoria giovanile. Un po’ per una sana competizione tra i giocatori, un po’ perché per imparare a giocare bisogna giocare”.

Poi succede che i ragazzi pronti per l’alto livello, vengono in mente Mey e Odiase per esempio, alla prima occasione facciano le valigie e vadano all’estero. “Questo è un problema che va affrontato, io sono convinto che se teniamo al rugby italiano dobbiamo noi caricarci la responsabilità di far crescere i giocatori italiani e non delegarla agli altri. Certo al momento siamo impotenti, la capacità economica e attrattiva di grandi club esteri per noi è irraggiungibile. Se è così noi non possiamo fermarli, ma allora mi viene da fare un’altra domanda: perché un club deve spendere in formazione se poi per puntare a un campionato di alto livello deve riempirsi di stranieri? Adesso sembra che sul modello degli Espoirs francesi la Federazione stia introducendo una categoria Cadetta, potrebbe essere una giusta logica, ma potrebbe essere anche un problema per molti club, perché vai a togliere giocatori alla base del rugby. Per club come noi, che vogliamo mantenere le due squadre a livello seniores (Colorno in Élite e Barbari del Po in serie B, ndr) potrebbe essere complicato, ma ben venga. A patto che si strutturi con regole chiare e che venga individuata una strategia che miri esclusivamente allo sviluppo dell’intero movimento”.

Torniamo indietro, all’esperienza Accademie. “Quando abbiamo iniziato pensavamo che in un decennio avremmo potuto avere un’Accademia che rispondesse alle esigenze del rugby attuale. E credo che con il numero di giocatori juniores messi a disposizione dal movimento quello che abbiamo fatto sia

un vero miracolo. Adesso si riparte dall’anno zero, se si vogliono le accademie all’interno dei club bisogna che la Fir aiuti questi club, formi i tecnici da mandare sul territorio, faccia da supervisore a strutture e organizzazione. L’idea è accattivante perché potrebbe far espandere lo sviluppo del rugby a tutto il territorio della Serie A Élite, ma forse un decennio non basterebbe più per raccogliere i frutti. Siccome noi siamo quelli che pretendono subito i risultati, ho paura che si possa fare un passo indietro, alla nostra era, quella della grande Nazionale di Georges Coste basata su 10 giocatori forniti dalle due pseudofranchigie di allora, Milano e Treviso per intenderci, e tutti gli altri di formazione straniera. La direzione imboccata mi sembra quella, ma non era l’obiettivo di chi ha lavorato per far

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Nelle pagine precedenti, Stefano Romagnoli (a destra) e Pippo Frati, rispettivamente director of rugby del club e assistente allenatore della prima squadra.

crescere dentro casa sua il rugby italiano. Se questo è il nuovo modello dico con convinzione che bisogna pensare a qualcosa di diverso”.

Intanto alla guida della Nazionale arriverà ancora un tecnico straniero…

“Non lo vedo come un problema, anche nei Paesi rugbisticamente evoluti spesso si affidano ai migliori tecnici in circolazione, senza badare al loro luogo di nascita. Succede perché nel professionismo si chiede di vincere subito, si è ogni volta alla ricerca del successo a tutti i costi. A livello professionistico è tutto molto semplice, chiedi e alleni il meglio che la struttura ti può mettere a disposizione. Ma formare un giocatore e guidare una squadra sono due cose molto diverse e la prima è sicuramente assai più complessa. Però

anche lì bisogna avere una visione: se hai scelto un grande tecnico straniero, e sicuramente Quesada è di questo gruppo, lavora perché al suo fianco crescano i tuoi tecnici, quelli su cui hai investito nel tempo. Ancora una volta bisognerebbe avere coraggio, crederci, dare fiducia a chi si è formato alle spese del rugby italiano. Solo chi prova a giocare, sbaglia. Noi per esempio con le Accademie abbiamo fatto degli errori, ma sempre perché siamo innamorati di questo gioco e in alcuni frangenti abbiamo provato a fare una giocata impossibile. L’importante è riconoscere i propri errori e avere fiducia nel percorso intrapreso. Solo così, forse, in un giorno non troppo lontano potremmo avere un tecnico italiano alla guida di una Nazionale di giocatori formati e cresciuti in Italia”.

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Foto ricordo dopo la vittoria 22-19 con la Capitolina nella finale U19 a Calvisano.

Il nido dell’

Con il progetto “rugby experience” si pongono le basi perché il capoluogo abruzzese torni ad essere protagonista in Italia.

Che cosa c’entrano le favole con il rugby? Si può avere confidenza con la palla ovale attraverso le fiabe del “brutto anatroccolo” e di “Pinocchio”?

Due mondi apparentemente lontani, impensabili da accostare. Eppure è partendo da questi due spunti che l’U19 e l’U17 della Rugby Experience L’Aquila hanno scalato, nel giro di pochi anni, i vertici nazionali. L’idea nasce da due ex giocatori neroverdi (Marco Molina, 55 anni, centro-ala, ora presidente del Comitato regionale abruzzese, imprenditore nella formazione aziendale, e Alessandro Cialone, 35 anni, seconda-terza linea), che hanno creato, insieme con Isabella Franchi, Stefania Mannucci, Massimiliano Placidi e Marco jr Rotilio, il progetto “rugby experience”, unico nel suo genere in Italia.

“Un impulso - spiega Molina - nato nel 2012. La nostra convinzione è che gli atleti del domani debbano approcciarsi allo sport dalla più tenera età. Grazie anche al sostegno dei genitori e degli insegnanti, abbiamo introdotto il nostro modello formativo nelle scuole dell’infanzia, puntando sui bambini dai 3 anni in su”. D’accordo, ma le favole?

“L’approccio - sostiene Cialone - deve partire dal divertimento puro. Prendiamo proprio la celebre favola di Collodi: la balena ad esempio, è formata da tanti bambini, metaforicamente la mischia, con Pinocchio, un altro bambino, che va all’interno della sua pancia

alla ricerca del pallone come un mediano di mischia o come un ‘avanti’. In questo modo i ragazzi, fin dalla più tenera età, apprendono giocando i principi fondamentali del rugby e accettano la sfida divertendosi”. La svolta ha una data di riferimento ben precisa: 2014. “Quell’anno - ricorda Molina - chiedemmo la collaborazione dell’Istituto Santa Maria degli Angeli, retto da religiose. Avevamo a disposizione un campo di calcio a 8. La risposta fu sorprendente: da quaranta partecipanti passammo rapidamente a 80. E da questa base abbiamo costruito il nostro percorso sino ad oggi”. Per superare le naturali ritrosie dei più piccoli, Cialone inventò una filastrocca basata sulla leggenda di William Webb Ellis, l’inventore del rugby.

“Fu un modo simpatico per far prendere ai bambini confidenza con il gioco - dice sorridendo Cialone - anche se, in questa sede, non ripeterei quelle frasi neanche sotto tortura. L’importante era far scattare nei ragazzi la voglia di essere in campo”.

E nel giro di pochi anni sono nate l’U19, quarta quest’anno a livello nazionale nel proprio girone (lo stesso di Capitolina e Colorno, che hanno disputato la finale per il titolo) e l’U17, che ha dovuto cedere solo al Petrarca nelle fasi finali

“Ma a noi - specifica Cialone - il risultato interessa relativamente. Gli elementi importanti sono l’educazione e il processo di formazione che tutti i giovani devo -

Foto sotto i pali per la U19. In piedi al centro la presidente di Rugby Experience L’Aquila Federica Aielli. A destra, U17 all’attacco, con Alessio Scaramazza ball carrier.

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Aquila

no compiere. Se non avessimo puntato su questi due elementi fondamentali il ‘giocattolo’ si sarebbe rotto durante il covid. Invece, paradossalmente, il gruppo è stato ancora più coeso in questo periodo, lavorando anche da ‘remoto’ con programmi personalizzati”.

Il campo di allenamento ora è quello storico di Piazza d’Armi, non più in terra battuta, come ai tempi di Mascioletti, Ghizzoni o Di Carlo, ma in sintetico.

“La risposta dei ragazzi e dei genitori - aggiunge Cialone - è stata impressionante. In una città che ancora porta le ferite del terremoto del 2009, è palpabile la voglia di vivere, di costruire qualcosa di serio anche nel rugby. Tanto che puntiamo a creare due squadre U18. Il merito è anche di Mauro Zaffiri, ex presidente dell’Aquila Rugby (scomparso prematuramente nel 2017, padre di Maurizio, ex nazionale), che ci ha sempre sostenuto.

Con queste premesse L’Aquila sta gettando le basi per tornare tra le protagoniste del rugby italiano.

“In realtà - sottolinea Molina - ci farebbe piacere che i ragazzi usciti dall’U19 giocassero nella Rugby L’Aquila per partecipare al ritorno della squadra in campionati

più ambiziosi, ma, come sempre, li lasciamo liberi di scegliere la loro strada, senza alcuna forzatura. A noi preme soprattutto la loro formazione anche a livello universitario”. “Per questo - aggiunge Cialone - a chi decide di intraprendere l’università e di restare nel club, per dedicare parte del suo tempo alla crescita dei più piccoli, viene riconosciuta una borsa di studio. Ma

prima di tutto viene il rispetto delle regole specie il giorno della partita, che non deve essere vissuto con apprensione, ma con un sorriso”.

Non mancano certo i discorsi motivazionali prima di entrare in campo.

“L’episodio che ricordo con simpatia - racconta Cialone - risale al 2017. Dovevamo disputare la finale per il terzo posto con l’U14 contro la Rugby Roma. Ma la sera prima la squadra venne praticamente decimata da un virus intestinale. Si reggevano in piedi 3-4 giocatori. Eravamo a un passo dal perdere la partita a tavolino. Ma gli ostacoli che avevamo superato per raggiungere quel traguardo erano stati tanti e non poteva finire così. Radunai i ragazzi nello spogliatoio e con poche parole, guardando uno ad uno negli occhi, spiegai che non potevano far svanire i loro sogni in un modo così beffardo. Li convinsi. Giocarono con grandi motivazioni ottenendo, a livello caratteriale, un risultato ben più alto della vittoria conseguita sul campo”. Ma non è un’educazione a senso unico. “Anche ioammette Cialone - imparo molto da loro, anche dai più piccoli. Ho scoperto di essere più riflessivo, di avere più capacità di attenzione e accetto di cambiare le mie idee”. Le basi per ricostruire la squadra che riempiva lo stadio Fattori e che incuteva timore a qualsiasi avversaria ci sono tutte, insomma? “È un bel traguardo ma il nostro motto è ‘step by step’, solo con un passo alla volta e con modestia si possono realizzare i sogni più importanti”.

dell’
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Formare o di

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Federico Meda

o allenare?

Tallonatori

e piloni rimangono ruoli primari anche nel rugby moderno e infatti si moltiplicano nel roster: a Treviso Fabio Ongaro - tra permit e giocatori sotto contratto - ne segue più di quindici ma sarebbe importante rivedere il sistema di sviluppo, magari puntando sulle seconde squadre. che un’ora, oggi tra recupero, altri carichi, puoi fare sedute specifiche da 15 minuti. E con gente, quelli aggregati, che stanno con noi due giorni, il tempo si riduce. Ricordo quando Vittorio Munari parlava di 4-6 mesi per formare un giocatore per la Celtic League e la consideravano un’esagerazione. Invece no, aveva ragione”.

In attesa di una meritata vacanza in Grecia e poco dopo la doccia fredda per il passaggio di Andrea Masi al Tolone (“non se lo aspettava nessuno, ha sorpreso tutti”), Fabio Ongaro riflette sul suo ruolo al Benetton: ufficialmente allenatore della mischia, in realtà qualcosa di diverso.

“Noi siamo una squadra che deve ottenere risultati, però accogliamo un mix di giocatori già formati e molti che arrivano dalle giovanili e dal Top 10. Ma in prima linea spesso non sono pronti per il livello più alto, quindi non possiamo allenarli e basta, vanno formati. E questo comporta di perdere il focus su altre cose”.

Il discorso di Fabio è figlio anche dell’epoca in cui viviamo: quando giocava ai Saracens c’erano tre tallonatori. Punto. Ora lui ne ha il doppio da gestire, ma sono cambiate le metodologie di lavoro e sono cambiati i carichi in settimana, perché le partite sono più probanti rispetto all’epoca. “Quando giocavo io potevamo allenarci con la macchina della mischia an -

Un dato che conforta è la capacità dei ragazzi di oggi di migliorarsi e compiere dei balzi in avanti, perché allenarsi con la prima squadra del Benetton (di fatto la Nazionale) è uno stimolo e un livello tale che chi ha le capacità può davvero emergere. “Un esempio che mi piace fare è quello di Mirko Spagnolo. Io lo conosco dal 2016, quando aveva 15 anni. All’epoca non avrei puntato un euro ma da un anno all’altro è esploso. E adesso è un buon giocatore (e il Benetton ha scommesso fino al 2026 su di lui, ndr). Io però dico sempre ai ragazzi: arrivare in vetta in Italia non è difficile, perché siamo pochi e la concorrenza non è alta, il difficile è rimanerci”.

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Fabio “Yuri” Ongaro, 45 anni, fa parte dal 2016 dello staff Benetton.In basso, in prima linea con la maglia azzurra fra Castrogiovanni e Perugini, a Londra nel 2009.
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Il problema è anche questo, come rimanere in vetta se c’è poca possibilità di giocare? Al momento i migliori prospetti si allenano due giorni a Treviso e poi fanno ritorno al club di Top10 (d’ora in poi serie A Elite, ndr), però il mercoledì è spesso giorno libero, quindi si allenano dal giovedì per la domenica. Ma non sempre trovano spazio, perché si preferisce puntare su chi è sempre presente e - come dare torto a chi decide in questo senso? - su chi si prende uno stipendio full time dal club. “Il risultato è che i ragazzi fanno panchina. Ma se li fai allenare per il livello URC devono poi mettersi alla prova, altrimenti li perdi. A me piacerebbe avere una seconda squadra nel massimo campionato, non in lizza per il titolo. Sarebbe una vetrina per chi è reduce dall’infortunio, per chi deve fare minutaggio. Anche perché il Top10 non è il massimo a livello di ritmo, ma per le prime linee va benissimo: impatti e mischie ne hai quanti ne vuoi e ci sono fior di giocatori con cui confrontarti”. Sembriamo troppo concentrati sulla mischia e su due ruoli molto specifici ma il rugby moderno si fonda ancora moltissimo sulle fasi statiche. “Cercano in tutti i modi di ridurre le mischie, in nome dello spettacolo, e per ragioni di sicurezza. Infatti faccia -

mo spesso meeting con l’obiettivo di evitare i reset e le cadute a terra. Ma poi, con una media a livello internazionale di 12-13 mischie, di solito da un minuto, un minuto e 20’’ l’una, stiamo parlando di quasi un terzo della partita. Quindi mettere gli avversari sotto pressione in mischia significa mettere sotto pressione il tallonatore nel lancio successivo, i piloni che devono sollevare, le seconde per le chiamate. Il ruolo della mischia è ancora molto importante ed è una delle cose più rugbistiche che ci siano”.

La digressione è utile per capire cosa allena un allenatore della mischia nel 2023, dato che tempi e modalità sono cambiati e anche la rotazione dei singoli è un fattore da tenere in considerazione: “A parte esercizi palla in mano di 2v1, 3v2 e cose del genere, lavoro molto sulla postura e sulla conoscenza del proprio corpo in mischia. Perché piloni e tallonatori non solo devono essere tecnici ma devono anche vincere uno scontro individuale con l’avversario. E poi mi concentro sulla combattività, la resilienza, la capacità di soffrire. In mischia non puoi andare indietro, devi resistere. E quando non ci arriva la tecnica, devi metterci la combattività. Abituarsi alla pressione della mischia chiusa a un livello come l’URC

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Mirko Spagnolo, nella finale di Parma contro il Rovigo. A sinistra, Simone Ferrari, 28 anni, per lui otto stagioni finora a Treviso.

Giacomo Nicotera, 27 anni, si è affermato con continuità dopo una lunga gavetta tra Mogliano, San Donà e Rovigo.

A destra, Nahuel Tetaz Chaparro, ha disputato due stagioni al Benetton. L’Argentina lo ha incluso nella lista dei 48 convocati per la preparazione in vista del Mondiale. Nella pagina a fianco, Gianmarco Lucchesi, 22 anni, prodotto delle accademie toscane.

non è da poco. E quando hai raggiunto quello dovrai prepararti a gestire una discesa con le prime linee inglesi e francesi”. Secondo Ongaro, nell’attuale campionato del Benetton le mischie sono “gentili”, ovvero pulite. C’è molta tecnica e il vero obiettivo è far uscire un ovale veloce e di qualità. Nelle coppe, invece, si ha a che fare con transalpini e inglesi e la musica cambia: “Si basano molto sulla superiorità in mischia per incanalare il match, in campionati talmente impegnativi che ogni partita diventa una guerra. Questa attitudine ad avere sempre il coltello fra i denti è qualcosa cui devi abituarti. E il confronto con squadre che, se sentono l’odore del sangue, non vedono l’ora di ammazzarti è un banco di prova, soprattutto per una squadra giovane come noi”. Dicevamo del roster del Benetton: tra piloni e tal -

lonatori è molto ben fornito. Ma in ruoli in cui la maturità si raggiunge alle soglie dei trent’anni, i biancoverdi sono decisamente messi male a chiocce per il ruolo: tra i tallonatori il decano è il ventisettenne Nicotera (1996), mentre fra i piloni solo Tetaz Chaparro e Zani (entrambi 1989) rispondono a queste caratteristiche. E Ferrari, classe 1994, ha appena finito un lungo processo di affinamento. “Simone è un buon esempio per farvi capire cosa significa formare un giocatore di prima linea: con lui lavoriamo dal 2016. Si sono spesi tanto tempo ed energie per arrivare al giocatore che ha tenuto in piedi la mischia a Tolone in semifinale. Non per togliere qualcosa agli altri ma, uscito lui, non abbiamo più tenuto. Perché dovremmo poter sempre avere in campo un giocatore di grande esperienza che aiuti gli altri. Spesso per necessità di recupero, chiamate in Nazionale che riducono i minutaggi, per turnover (i ragazzi reggono 3-4 partite al massimo di seguito, poi non performano più adeguatamente), il mio “branco di giovani”, come mi piace chiamarli, si ritrova a confrontarsi con gente con più esperienza e meglio preparata a livello fisico. In un ruolo in cui il gioco sporco è all’ordine del giorno”.

Dopo i piloni è bene aprire il capitolo tallonatori:

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“L’avrei portato a occhi chiusi (Sergio Parisse ndr). Al di là dell’amicizia. Spesso abbiamo parlato di come ha fatto ad andare avanti fino alla sua età. Io ho smesso a 34 anni per ragioni più mentali che fisiche. Dopo la partita, gestire i dolori, gli orari fissi, gli allenamenti… Sono arrivato a dire addio per quello. Lui ha dato prova di una determinazione che lo avrebbe portato a essere campione in qualsiasi sport avesse praticato.

ruolo molto delicato che necessita di capacità di leadership, spiega Ongaro, perché, oltre a scendere in mischia, lancia in touche. Una responsabilità enorme. E anche questa non si può improvvisare, viene con il tempo. “Penso a un Lapo Frangini, classe 2002 e qualità da vendere, anche invidiabili, ma quest’anno per salire di livello è andato via di casa, si deve inserire in un gruppo nuovo. Non possiamo pensare che un giocatore buono in Under 20 in automatico vada bene in URC. Ci vuole tempo e la possibilità di giocare con continuità: noi non possiamo garantirlo per questi ruoli, una seconda squadra li trasformerebbe e guadagneremmo tempo”.

Chiudiamo con domande a raffica, per toglierci delle curiosità.

Tallonatore preferito attuale? “Julien Marchand, la crescita che ha avuto mi ha davvero sorpreso. Gli invidio la realtà con cui si confronta ogni settimana (gioca allo Stade Toulosain, ndr). Però subito dopo c’è Lucchesi, per me Gianmarco è fortissimo e ha quel veleno toscano che fa la differenza”. Mondiali e Eddie Jones? “Lo sento spesso, siamo rimasti in ottimi rapporti. Lui è davvero un numero uno. Ha evitato una brutta figura con l’Inghilterra a fine ciclo e ha subito trovato una panchina importante come l’Australia. Certo, con gli inglesi ha avuto la possibilità di lavorare su una generazione molto forte, però è arrivato a un passo dal Mondiale. E nessuno è mai durato così tanto su quella panchina. Penso che ci sorprenderà ancora anche con i Wallabies”.

Sergio al Mondiale? “L’avrei portato a occhi chiusi. Al di là dell’amicizia. Spesso abbiamo parlato di come ha fatto ad andare avanti fino alla sua età. Io ho smesso a 34 anni per ragioni più mentali che fisiche. Dopo la partita, gestire i dolori, gli orari fissi, gli allenamenti… Sono arrivato a dire addio per quello. Lui ha dato prova di una determinazione che lo avrebbe portato a essere campione in qualsiasi sport avesse praticato. E il Mondiale, per me, se lo era guadagnato così: sul campo. Avrebbe aggiunto qualcosa nel gruppo azzurro e lo avrebbe aiutato nei momenti di difficoltà. Penso che se Crowley lo avesse conosciuto meglio, lo avrebbe portato. Però le scelte si fanno secondo diversi fattori, in base a chi ti consiglia. Ed è andata così”.

E a Quesada alla guida della Nazionale dopo i Mondiali? “Sempre avuto feedback positivi dai giocatori argentini e parigini. Dalla sua ha l’essere giovane (relativamente, visto che ha 49 anni, ndr), ambizioso, con tanta energia. Non gli manca il coraggio, e per la nostra panchina serve. Non è un posto facile, la vetrina del Sei Nazioni è qualcosa di enorme. Comunque come consiglio gli direi di lavorare tanto e bene con le franchigie. Solo uniti, insieme, possiamo vincere”.

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Giù al Sud

a quello europeo. La sensazione è che la vocazione allo spettacolo del Super Rugby lasci per strada precisione e intensità che invece abbiamo visto nelle finali di Champions Cup, Challenge e Urc.

In un recente articolo apparso sul Times, Stuart Barnes, leggendaria apertura dell’Inghilterra e ora apprezzato opinionista sportivo, offre ai lettori la propria provocatoria visione sullo stato attuale del rugby e sul gap tra i due emisferi. Barnes non è nuovo ad articoli graffianti che spesso hanno dato vita a feroci dibattiti: lo scorso anno definì Sam Cane “non all’altezza nemmeno per la Nazionale italiana” e nel 2020 chiese l’esclusione dell’Italia dal 6 Nazioni. Nel pezzo in questione Barnes sottolinea come il divario tecnico tra i due emisferi si stia progressivamente ampliando a

favore delle compagini europee. L’avevamo sottolineato anche noi nel numero di giugno di Allrugby, ma Barnes non usa mezzi termini e parla di un vero e proprio “enormous adbvantage” che l’Europa ha in questo momento. Come dargli torto d’altronde? La fase storica attuale vede infatti una convergenza di situazioni mai così favorevoli al Vecchio continente. C’è da considerare innanzitutto l’uscita delle franchigie sudafricane dal Super Rugby. La storica svolta, maturata in periodo Covid ma dettata comunque da motivi logistici e economici, ha

Semifinale fra Chiefs v Brumbies, la difesa dei neozelandesi ferma l’incursione di Rob Valetini.

I Chiefs vinceranno la partita 19-6. A destra, Shaun Stevenson, a sinistra, dei Chiefs, e Will Jordan dei Crusaders si contendono il pallone nel corso della finale del Super Rugby Pacific disputata al FMG Stadium Waikato, a Hamilton, lo scorso 24 giugno. I Crusaders si sono imposti 25-20.

Il rugby dell’emisfero sud del mondo sembra perdere progressivamente terreno rispetto
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scosso notevolmente i vertici del Super Rugby e ha evidenziato come Francia ed Irlanda stiano diventando i nuovi fari del rugby mondiale. La prova della superiorità delle squadre europee d’élite è data dai risultati in campo: se è vero che in URC i sudafricani arrivano in finale con gli Stormers, è pur sempre evidente come le franchigie che alimentano la Nazionale verde oro, nella competizione regina d’Europa cioè la Heineken Champions Cup, siano state spazzate via già ai quarti di finale. Non sorprende quindi che ben nove Springboks abbiano già le valigie pronte per approdare in Europa dopo la Coppa del Mondo. La Nuova Zelanda, che da sempre ha dettato le nuove tendenze del gioco, sembra quindi essere scalzata per il momento. Ed è un momento sbagliato però, perché il Mondiale è alle porte.

Mentre Scott Robertson eseguiva la sua leggendaria breakdance dopo il settimo (!!!) titolo consecutivo dei Crusaders, già erano divampate le speculazioni e i confronti con il rugby europeo.

La prova della superiorità delle squadre europee d’élite è data dai risultati in campo: se è vero che in Urc i sudafricani arrivano in finale con gli Stormers, è pur sempre evidente come le franchigie che alimentano la Nazionale verde oro, nella competizione regina d’Europa, cioè la Heineken Champions Cup, siano state spazzate via già ai quarti di finale.
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Tom Cairns degli Exeter Chiefs mette a segno la sesta meta per la formazione inglese nel quarto di finale contro gli Stormers a Sandy Park. Stormers travolti 42-17. Sotto, Un’incursione dell’estremo dell’Irlanda Hugo Keenan nel quarto di finale dello URC disputato a Dublino fra Leinster e Sharks. Sharks umiliati, 35-5.

In effetti, se si comparano le finali di Super Rugby e di Heineken Cup, o del Top 14 francese, emergono notevoli differenze. Nel suo articolo, Barnes crede che ai Crusaders al momento non sia nemmeno lontanamente consentito “sognare di competere” con le compagini europee. Probabilmente ha di nuovo ragione: i Chiefs e i Crusaders hanno mostrato un gioco dinamico e capace a tratti di esaltare abilità individuali sublimi (Mo’hunga, Mc Kenzie e Jordan su tutti), ma la sensazione che resta è che la vocazione allo spettacolo del loro gioco lasci per strada quella precisione e intensità che invece abbiamo visto nelle finali europee.

Il Super Rugby, dove è fortissimo il peso e il controllo esercitato dal management neozelandese, sembra aver perso l’appeal di un tempo. Il voltafaccia delle franchigie sudafricane ha fatto sì che in un certo senso si ripiegasse su sè stesso, cercando di compensare il vuoto venutosi a creare allar-

gandosi a est in pieno Pacifico, con le 2 franchigie figiane. È ovvio che così facendo, il livello della competitività si sia notevolmente abbassato.

A livellare ulteriormente verso il basso l’asticella c’è stato inoltre l’esodo di molti giocatori australiani verso il Giappone per scampare alla situazione finanziaria catastrofica della propria Federazione. Escludendo i Brumbies, il ruolo delle franchigie australiane è stato molto prossimo a quello dello sparring partner nell’arco dell’intero torneo.

In questo quadro poco rassicurante, a peggiorare ulteriormente le cose va considerato anche l’acutizzarsi della guerra (i media neozelandesi usano proprio questo termine, “war”) fra i Club e la Federazione. Dall’avvento del professionismo nel 1995 c’è sempre stato in Nuova Zelanda un sistema centralizzato di gestione dei giocatori. Come in Inghilterra. Questo sistema ha sempre portato

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ottimi risultati. Dal ’96 infatti gli All Blacks hanno vinto l’80% delle partite e soprattutto non hanno mai conosciuto periodi prolungati di under performance. I tour di fine stagione, che di solito sono un test molto indicativo sullo stato di salute dei giocatori, si sono rivelati quasi sempre delle marce trionfali. Sotto la guida di Henry, dal 2004 al 20011, gli All Blacks non hanno mai perso un test match in Europa. Con Hansen ne persero solo 3 (uno contro l’Inghilterra e 2 contro l’Irlanda), per un totale di 3 sconfitte su 42 partite giocate nell’arco di 15 anni. Lo scenario ora è però cambiato.

Il numero delle partite del Super Rugby è diminuito, la stagione si è accorciata e i giocatori non devono sorbirsi continui viaggi estenuanti in paesi con fusi orari tanto diversi. In un simile contesto alcuni club sono diventati allergici ai diktat della Federazione, che di fatto gestisce e monitora costantemente il workload dei giocatori. Gli allenato -

ri infatti devono lavorare incorporando nei propri programmi la “rest-policy” imposta dall’alto e si vedono magari costretti a lasciar fuori rosa le superstar nei momenti cruciali. Le interferenze federali, dicono i club, snaturano il torneo e la gente si disaffeziona. È per questo motivo che l’opinione pubblica e i media vedono in Scott Robertson l’uomo chiave per sciogliere tutte queste contraddizioni e rilanciare il movimento.

La pressione su di lui è già enorme. Sembra quasi che l’approccio che accompagnerà gli All Blacks fino al Mondiale sia vagamente fatalista, in attesa dell’arrivo del “Messia”.

Con l’Australia alla disperata ricerca di una nuova identità e il Sudafrica in un pericoloso limbo creato dalle sirene europee, sembra proprio che questo essere l’anno decisivo che, come sostiene Barnes, segnerà la fine del dominio dell’emisfero sud durato quasi ininterrottamente per 30 anni.

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La meta di Freddie Steward contro gli All Blacks nel match disputato a Twickenham lo scorso novembre e concluso in parità 25-25.

Il Super Rugby è il torneo in cui è stato realizzato il maggior numero di mete per partita: 8. Nello URC sono state 7 ogni match, come in Premiership, nel Top14 poco meno di 5 (4,9).

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Pesi (quasi) equivalenti. Nella finale di Top14 la mischia di Tolosa pesava 945 e quella de La Rochelle 929; nella finale del Super Rugby 942 chili per i Crusaders e 911 per i Chiefs.

Crusaders e Chiefs nella finale di Super Rugby hanno concesso 23 calci di punizione (più 3 cartellini gialli, tutti dei Chiefs). Tra Stormers e Munster, nella finale di Urc i falli sono stati 18 in totale (tre gialli, due a carico del Munster). In Premiership, fra Saracens e Sale Sharks, l’arbitro ne ha fischiati 19 (un giallo per squadra). In Toulouse v La Rochelle i penalty sono stati 22.

Nella finale tra Chiefs e Crusaders ci sono stati 305 passaggi (cinque “buchi” in totale). Tra Toulouse e La Rochelle 189 (9 “line break”). In Saracens-Sale, 300 passaggi, 10 buchi. In Stormers-Munster 360/11.

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Nel Super Rugby la squadra con il miglior tasso di successo nei placcaggi è stata quella dei Blues (89,5%). Nello Urc quattro squadre (nell’ordine Glasgow Warriors, Leinster, Ospreys e Connacht) ha superato il 90%, mentre nessuna è andata sotto l’87%. Nel Super Rugby ben cinque hanno chiuso la stagione al di sotto dell’85% (Brumbies, Moana Pasifika, Fijian Drua, Highlanders e Rebels)

I Chiefs sconfitti in finale dai Crusaders hanno battuto in media 34 avversari a partita, i Cusaders una trentina. Difese allegre, o attaccanti particolarmente efficaci ed elusivi? In Inghilterra i Saracens si sono fermati a 23, nello Urc il Munster è arrivato poco sopra i 18, idem il Leinster.

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Un break di Anton Lienert-Brown dei Chiefs nella finale contro i Crusaders.

Verso Spagna e “WXV ”

La finale del campionato di Eccellenza, giocata a Mogliano Veneto il 3 giugno scorso e terminata con il successo per 28-3 del Valsugana Padova sul Villorba, ha rappresentato l’ultima occasione della stagione per vedere in campo la maggior parte delle giocatrici che rappresentano l’ossatura della Nazionale.

È stata una partita con un tasso agonistico molto elevato, in cui l’eccellente organizzazione difensiva del Villorba ha messo in difficoltà il Valsugana soprattutto nel primo tempo. Alla lunga però la maggiore qualità complessiva delle padovane ha fatto la differenza, nonostante l’inferiorità numerica in cui si sono trovate per oltre un’ora per l’espulsione di Vittoria Vecchini. Colpisce che Vil -

lorba non sia riuscito a capitalizzare sul vantaggio numerico al largo (Padova ha deciso di mantenere la parità numerica in mischia introducendo l’esperta Cerrato al centro della prima linea e sacrificando una trequarti). Certo ha pesato sulle trevigiane la perdita di Alyssa D’Incà, uscita per il trauma cranico causatole dal fallo di Vecchini. In ogni caso, una linea di trequarti che poteva comunque contare su nazionali come Barattin, Cavina, Muzzo e Capomaggi ha perso nettamente il confronto con le varie Stefan, Rigoni, Sillari e Ostuni Minuzzi (tutte a referto), senza dimenticare la player of the match Emma Stevanin. Di rilievo, tra le avanti, il rientro di Elisa Giordano, dopo l’infortunio nel 6 Nazioni.

Il Valsugana festeggia la vittoria in finale sul Villorba, in primo piano Sofia Stefan, con la coppa, e Beatrice Rigoni alla sua sinistra. Nella pagina a fianco, un break di Michela Sillari.

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L’attenzione si sposta adesso verso lo spareggio con la Spagna, che sabato 22 luglio a Piacenza assegnerà l’ultima posizione europea nel secondo gruppo del nuovo torneo WXV. Il regolamento della nuova competizione prevede infatti che la quinta classificata del Sei Nazioni si giochi l’accesso con la vincente del Rugby Europe Women’s Championship (titolo cui la Spagna è “abbonata” da tempo immemorabile). Un successo ci darebbe l’opportunità di confrontarci con avversarie impegnative ma battibili, come quelle che costituiranno il gruppo 2 (Sudafrica, Giappone e Samoa, vincitrici delle rispettive competizioni regionali, Scozia, quarta nel Sei Nazioni, e l’ultima del torneo Pacific Four che che vede la partecipazione di Nuova Zelanda, Australia, Canada e USA esi concluderà il 15 luglio). Sarebbe invece problematico finire relegate nel terzo gruppo, dove incontreremmo squadre come Colombia o Kazakhstan, che con tutto il rispetto darebbero poche opportunità di crescita.

Oltre il Sei Nazioni Donne

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Dare tempo

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tempo al tempo

Scott Bemand, 44 anni, un passato da mediano di mischia con club illustri come Harlequins, Bath e Leicester, è stato allenatore delle trequarti dell’Inghilterra femminile dal 2015. Nel 2016 ha anche sostituito Simon Middleton come head coach, quando quest’ultimo era concentrato sulla versione a 7 del gioco. Il suo recente ritiro dalle Red Roses ha fornito l’occasione per uno scambio di idee sul torneo appena concluso, ma soprattutto sulle prospettive delle sue protagoniste “minori”.

“Del torneo di quest’anno mi ha colpito soprattutto l’esplosione dell’attenzione mediatica - sottolinea

-. Siamo sempre stati sotto i riflettori, c’era sempre una storia da raccontare. E in parallelo è cresciuto l’interesse del pubblico, il volume dei commenti sulle partite, positivi o negativi che fossero”.

Più problematico, invece, individuare novità sul piano tecnico rispetto alle edizioni precedenti, non credi?

“Tu mi parlavi di un numero più alto di mete segnate quest’anno, di altri indicatori… mi pare difficile trarre indicazioni precise su questo terre -

no, penso che si debba tener conto del fatto che le squadre venivano da una Coppa del Mondo. Questo è il momento in cui gli organici vengono ringiovaniti, in cui alcune giocatrici tirano magari il fiato per via di altri impegni, specialmente tenendo conto che mancano poco più di due anni alla prossima RWC. Per cui è difficile fare confronti con il 6 Nazioni 2022.”

Questo non significa che non vi siano stati dei cambiamenti…

“Come Inghilterra, dopo la Coppa del Mondo volevamo dimostrare di essere in grado di sviluppare un gioco offensivo più variato. Credo che ci siamo riusciti, eguagliando il nostro record di mete segnate (45, ndr). Più in generale, abbiamo visto una chiara evoluzione nel modo in cui le nostre avversarie cercavano di giocare, con squadre più organizzate. Il salto più grande è stato probabilmente quello tattico, in termini di comprensione della partita e strutturazione del proprio gioco. Ad esempio, era chiaro che il Galles aveva individuato un paio di aree su cui potevano metterci

La questione è come l’Italia si proponga di sviluppare il prossimo gruppo di giocatrici, dice Scott Bemand, per otto anni nello staff delle inglesi.
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Scott Bemand, 44 anni, dal 2015 faceva parte dello staff dell’Inghilterra femminile.

in difficoltà, e almeno per il primo tempo ha funzionato. È normale, se giochi contro un avversario forte come l’Inghilterra, cercare di rallentare il flusso del suo gioco. Ci sono peraltro differenze nell’approccio: squadre come il Galles o anche l’Irlanda, quando ci incontrano, cercano soprattutto di limitare i danni; l’Italia invece anche contro di noi cerca comunque di fare il suo gioco (e a tratti a Northampton ci è riuscita, pur perdendo pesantemente). Detto questo, noi sappiamo che il nostro sistema non è perfetto, e che durante un incontro saremo sotto pressione. Per cui ci alleniamo specificamente per essere pronte a superare quegli inevitabili momenti di difficoltà.”

In linea generale, le innovazioni tattiche sono più facili (o meno difficili) da introdurre rispetto a quelle strettamente tecniche.

“Puoi cambiare approccio da una partita all’altra, ma non puoi improvvisamente migliorare le abilità individuali nel calciare o passare. Ci si può lavorare, ma essenzialmente si tratta di competenze che si sviluppano fin da piccoli e che richiedono tempo per essere acquisite. Dopodiché, differenti competenze individuali hanno un peso anche

sulla gestione della partita e quindi sulla tattica: sapendo che contro di noi il controllo del territorio sarebbe stato molto importante, la Francia ha schierato Jessy Tremouliére che ha una pedata lunga e precisa. In effetti ne ha tratto qualche vantaggio.”

Ecco, è indubbio che da questo punto di vista l’Italia abbia qualche problema…

“È un aspetto da prendere in seria considerazione. Voi avete giocatrici come Beatrice Rigoni che hanno l’abilità di usare calci corti, di esplorazione, per creare situazioni di attacco. Ma il gioco si basa su alcuni fondamentali e uno di questi è la posizione del campo in cui si gioca. Come si fa a mettere sotto pressione l’avversario? Generalmente stando più vicini alla loro linea di meta. Ad esempio, il gioco al piede ci ha aiutate a reggere momenti di pressione come contro il Galles nel 2022, dopo la frattura alla gamba di Abby Dow.”

Un tratto distintivo di un sistema genuinamente professionistico sta nella capacità di produrre numerose giocatrici con una buona combinazione di competenze tecniche e tattiche, di solidità fisica e mentale. E questo richiede tempo. “Probabilmente il vantaggio dell’Inghilterra sta nella profondità della rosa, rispetto ad altre nazioni. Ma noi ci lavoriamo da almeno quattro anni. Se pensiamo ad esempio al triangolo allargato, abbiamo molte giocatrici di livello assoluto come Ellie Kildunne, Abby Dow, Jess Breach, Lydia Thompson, o Claudia Macdonald. La concorrenza è feroce, al punto che una giocatrice come Emma Sing, che in allenamento ho visto trasformare da metà campo, quest’anno ha potuto trovare spazio soltanto in una partita del 6 Nazioni (contro l’Italia, ndr)... Anche la Francia ha avviato un percorso

Abby Dow, irresistibile palla in mano, supera di potenza Beatrice Rigoni, a terra. A sinistra, Jessy Trémoulière, World Rugby player of year nel 2018, ha dato l’addio al rugby al termine dello scorso Sei Nazioni.

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formativo di grande qualità, quest’anno contro di noi hanno inserito a un certo punto due giocatrici di prima linea poco più che ventenni, con grandi doti fisiche. Anche loro hanno una buona profondità”.

Parlando di profondità di rosa, il discorso torna inevitabilmente sull’Italia e sulla penuria di giocatrici in alcuni ruoli chiave, specialmente in prima linea. I piloni schierati contro il Galles, Lucia Gai e Gaia Maris, superavano di poco gli 80 chili, mentre Gwenllian Pyrs e Sisilia Tuipulotu erano ben oltre il quintale…

“È una bella fonte di pressione, vero? Hai mai sentito l’espressione ‘you have to be fit for purpose’?

Se pesi 82 chili, puoi correre, correre, e correre, ma quando poi devi spingere, ti trovi sotto pressione e alla fine non riesci nemmeno più a correre perché sei sfinita. La questione è come l’Italia si propone di sviluppare il prossimo gruppo di giocatrici. In Inghilterra per un periodo abbiamo avuto un programma che si proponeva di scoprire giovani giocatrici specificamente per la prima linea. Magari anche individuando atlete che giocavano in altri ruoli ma avevano la giusta combinazione di

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potenza e dinamismo (in terza linea spesso trovi profili di questo tipo). Il fatto che in Italia il gioco non sia radicato nelle scuole non aiuta, ma l’unica strada è creare un percorso di formazione con una buona continuità nel tempo”.

L’Italia ha in effetti avviato un processo di crescita delle atlete attraverso la creazione di selezioni

Under 18 e Under 20 (vedi Allrugby 181). I numeri da cui pescare però sono ancora molto bassi, e si tratta comunque di attività i cui frutti si vedono a medio-lungo termine. Nel breve, per rafforzare la competitività delle migliori giocatrici si potrebbero forse considerare altre strade, come incoraggiare queste ultime a trasferirsi nei campionati inglese o francese (in fin dei conti, i miglioramenti recenti più marcati sono stati di Galles e Scozia le cui giocatrici giocano al 100% - Galles - e al 70% - Scozia – in campionati stranieri). Oppure

si potrebbe costituire una franchigia che sia impegnata in competizioni internazionali. Rispetto a queste opzioni, sia Nicola Bezzati (head coach del Valsugana) che Michela Tondinelli (Villorba), sentiti prima della finale scudetto, erano apparsi molto scettici. Scott Bemand concorda: “Sono soluzioni a breve termine che non risolverebbero il problema di fondo. Per qualsiasi risultato ci vorrà del tempo. Quello che abbiamo notato in Inghilterra è che non si possono fare le cose a metà. Come dicevo, bisogna definire un percorso, consolidare la competizione nazionale, e poi la squadra nazionale, altrimenti si finisce per sprecare i propri soldi. La crisi finanziaria attuale dei club professionistici inglesi ha in alcuni casi toccato anche il settore femminile (ad esempio le Wasps), ma la RFU ha confermato il suo sostegno, e il rugby femminile ha un grande potenziale di attrazione, che al momento è ancora largamente inesplorato”. Si tratta ora di vedere se alla convergenza nelle posizioni dei tecnici corrisponderà un’analoga convergenza, pur nelle ovvie differenze di risorse, nelle strategie delle rispettive federazioni, come del resto espresso da tempo (vedi Allrugby 164, di dicembre 2021) dalla consigliera federale Francesca Gallina. (Mario Diani)

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La prima linea azzurra, con Gaia Maris, Melissa Bettoni e Lucia Gai, all’ingaggio con la Spagna.

Giada è “mille culure”

Dopo l’infortunio subito contro il Galles, Giada Franco lavora per tornare più forte di prima. E guarda con curiosità ai prossimi appuntamenti internazionali

Giada si è fatta male contro il Galles, lo scorso mese di aprile, la sua trentaduesima partita con la maglia dell’Italia.

E adesso sta trascorrendo la sua estate in palestra a Brescia, dove si sottopone a un duro lavoro di riabilitazione.

“Mi sono giocata le vacanze - dice -, ma per quelle, pazienza. Quello che mi dispiace di più è che non posso andare nemmeno qualche giorno a casa, a Salerno, dalla mia famiglia. Se voglio tornare a giocare, non posso perdere nemmeno un giorno di lavoro”.

Cristiano Durante, l’esperto numero uno nei recuperi da infortunio, ha stabilito per lei un calendario che non ammette distrazioni: l’obiettivo è riportarla in campo per il prossimo Sei Nazioni. Giada lo asseconda, fa un cenno di assenso con il capo, ma poi le si incrina la voce: “Speriamosussurra -, perché dopo ogni incidente il rientro

si fa più duro. Avevo già perso il Sei Nazioni del 2022 per un’operazione all’altro ginocchio. Spero di tornare quella di prima”.

Giada è Giada Franco terza linea del Colorno e della Nazionale femminile, 27 anni questo 11 luglio e una massa di capelli neri su un bel viso dai lineamenti gentili.

Giada che ama la battaglia, non si tira indietro se c’è da mettere il fisico, ma che non disdegna di giocare anche nello spazio, di muovere la palla. Giada che guida ogni giorno da Colorno a Brescia, un’ora e mezza all’andata, altrettanto al ritorno, e in macchina pensa, un po’ si annoia, e magari a forza di pensare, alle partite, all’infortunio, si fa venire anche un po’ di tristezza, di malinconia, calcolando quanti giorni mancano al ritorno in gioco. “Metto la musica, mi distrae, mi fa compagnia - racconta -. Ascolto di tutto. Un nome? Forse Pino Daniele che canta i suoni e le parole della

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Giada Franco è nata a Napoli, l’11 luglio del 1996.
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Campania. Una terra che amo, anche se sono un po’ brasiliana, ma i brasiliani hanno più di una cosa in comune con i campani, sono allegri, spensierati, anche il Brasile è casa mia”.

Giada che ha cominciato a giocare a rugby a scuola, prima un po’ di calcio, di pallavolo, di nuoto, ma quando ha avuto la palla ovale in mano non la più mollata. “All’inizio ero più grande, più forte delle altre. Adesso non posso certo dire di essere tra quelle più grosse a livello internazionale. Il rugby mi è subito piaciuto perché è uno sport completo, c’è il contatto fisico, c’è bisogno di abilità tecniche, devi essere brava a prendere le decisioni giuste al momento giusto, insomma c’è tutto”.

Sul rugby femminile: “Il rugby è rugby. Non c’è un rugby maschile e un rugby femminile. Ci sono

“Il rugby è rugby. Non c’è un rugby maschile e un rugby femminile. Ci sono partite degli uomini giocate malissimo, noiose, ma nessuno dice niente. Poi, quando lo giocano le ragazze, le analisi sono spietate, e c’è chi non aspetta altro per dire: non è uno sport da donne. Io dico: se una partita non ti piace non la guardare, nessuno ti obbliga.”

partite degli uomini giocate malissimo, noiose, ma nessuno dice niente. Poi, quando lo giocano le ragazze, le analisi sono spietate, e c’è chi non aspetta altro per dire: non è uno sport da donne. Io dico: se una partita non ti piace non la guardare, nessuno ti obbliga. Ci sono un sacco di gare, di avvenimenti sportivi, maschili e femminili, che non sono divertenti da seguire”.

Giada cui non dispiace nemmeno il calcio, è juventina. “Vabbè, quest’anno ci accontentiamo della Coppa Italia vinta dalle ragazze, contro la Roma”, sorride.

Giada che non ci sarà contro la Spagna, il 22 luglio a Piacenza, nel match-spareggio che vale l’accesso alla divisione due del WXV. “La Spagna è una squadra molto fiera - dice -. Sulla carta, se prendiamo la partita che abbiamo disputato contro di loro a febbraio (22-5 per le Azzurre, ndr), le favorite dovremmo essere noi. Però poi quando in palio c’è qualcosa le motivazioni cambiano e bisognerà essere molto concentrate. Dobbiamo anche vedere se loro decideranno di schierare quelle atlete che ultimamente avevano prestato al Seven. Certo la data non è ideale: a luglio normalmente si stacca, anche quelle che hanno un lavoro e possono finalmente andare un po’ in ferie. Poi, per quelle che hanno disputato la finale del campionato (lo scorso 3 giugno, ndr), cade proprio in mezzo alla ripresa della preparazione. E c’è il rischio che per alcune la partita arrivi troppo presto o, se non hanno riposato abbastanza, che ci sia ancora la stanchezza dell’ultima parte della stagione. Ma sono comunque sicura che tutte si faranno trovare pronte a dovere”.

Giada che non cerca alibi, l’ultimo Sei Nazioni non è andato come doveva: “Ovviamente c’erano molte attenuanti: il torneo arrivava dopo la Coppa del Mondo, qualche figura di riferimento aveva dato addio alla squadra, avevamo un nuovo coach e dovevamo metabolizzare un nuovo modo di gio -

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Con Cristiano Durante, al lavoro alla Medical Spa di Brescia, per tornare in campo nel 2024. A destra, l’esultanza dopo la meta con la Francia, nella prima partita del Sei Nazioni 2023.
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care. Tutte sfide che eravamo ben disposte ad affrontare, ma tuttavia una vittoria sola non basta, non era quello che volevamo”.

Differenze tecniche tra Andrea Di Giandomenico, che aveva guidato l’Italia per dodici stagioni, e Nanni Raineri che ha preso il suo posto nel 2023?

“Diciamo che il gioco di Andrea si basava più sulla capacità di leggere le situazioni, di trasformare rapidamente la difesa in attacco, mentre Nanni privilegia strategie più strutturate. È diverso, però non voglio dire che è difficile, ci vuole tempo e a volte non hai a disposizione tutto il tempo necessario per assorbire il nuovo”.

Soprattutto se la conquista scricchiola - osserviamo - e se in touche vinci pochi palloni come è successo nel Sei Nazioni. E se poi subisci in mischia, come ci capita sempre più spesso in un rugby che privilegia i muscoli e una fisicità a doppie dimensioni…

“Sulla fisicità è vero che ci sono squadre, come l’Inghilterra, che puntano molto sul peso delle avanti e sulla spinta del pack, però ce ne sono anche come la Nuova Zelanda che, alla fine, hanno dimostrato che si può giocare in un’altra maniera. Noi non abbiamo certi fisici, però in determinate situazioni quello che perdi in potenza, lo puoi guadagnare in dinamismo. Tutto sommato non ne farei una questione. Quanto alla touche è vero che abbiamo sofferto. L’addio di Melissa (Bettoni, ndr) ha messo più responsabilità sui lanci di Vittoria (Vecchini, ndr), che in passato non aveva giocato con tanta continuità a livello internazionale. Quindi anche per lei è stata un’esperienza nuova. Non è facile lanciare in certi momenti topici del match, con le avversarie che ti hanno studiato e cercano di contestare la touche. In campionato un errore te lo perdonano, nel Sei Nazioni no”. Giada che ha due modelli, Maggie Alphonsi (74 presenze, 28 mete con la maglia dell’Inghilterra, con cui vinse la Coppa la del Mondo del 2014, ndr) e Ardie Savea, il numero 8 degli All Blacks. “più che altro mi piace come interpretano il gioco”, spiega.

Giada che ha fatto collezione di emozioni, difficile fare una graduatoria: “L’incontro con mio madre Rosy, a bordo campo, dopo la partita d’esordio al Mondiale, lei venuta a sostenermi fino in Nuova Zelanda, io e lei strette in un abbraccio, dall’altra parte del mondo, una sensazione che mi porterò dietro per tutta la vita. E poi la prima partita in Nazionale, contro l’Irlanda, nel 2018, lo scudetto con il Colorno (sempre nel 2018), la prima con gli Harlequins…, il rugby inglese, dove c’era tutto quello che serviva per essere professioniste fino in fondo. Peccato che quell’avventura si sia conclusa in anticipo per il covid”.

Il prossimo Mondiale, nel 2025 in Inghilterra, sarà ancora più difficile con 16 squadre invece di 12. Non abbiamo ancora stabilito i nostri obiettivi, ma certo il traguardo è sempre provare a migliorare”.

Il WXV: “È una nuova formula che ci permetterà di affrontare squadre con le quali non ci misuriamo abitualmente. Potrà essere un’occasione per crescere ulteriormente”

Lo slogan con cui le redarguiva Andrea Di Giandomenico: “Non fate le femmine”. “Messaggio sempre fortemente condiviso - dice Giada -. Voleva dire, tirate fuori il vostro orgoglio, il vostro coraggio di donne. Non mollate mai”. Giada che ribadisce “essere donne è fondamentale, ma non deve oscurare il merito. Dobbiamo conquistare i nostri diritti, nessuno ce li deve regalare solo perché la parità è di moda”.

Giada “è mille culure”, Giada “è mille paure”, come canta di Napoli Pino Daniele. Giada lavora per tornare più forte di prima.

“Sulla fisicità è vero che ci sono squadre, come l’Inghilterra, che puntano molto sul peso delle avanti e sulla spinta del pack, però ce ne sono anche come la Nuova Zelanda che, alla fine, hanno dimostrato che si può giocare in un’altra maniera. Noi non abbiamo certi fisici, però in determinate situazioni quello che perdi in potenza, lo puoi guadagnare in dinamismo.
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Giada Franco ha esordito in maglia azzurra contro l’Irlanda nel 2018. Trentadue i suoi cap in totale finora.
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“Insieme diventiamo

Bilancio della prima stagione dello sponsor delle Nazionali.

Un colpo di fulmine e una strategia comunicativa affidata prevalentemente, se non esclusivamente, al rugby. Vittoria Assicurazioni, sponsor di maglia delle Nazionali azzurre dallo scorso autunno, rafforza la partnership con la Fir grazie alla presenza in sei tappe del Trofeo italiano di “beach” e a una campagna pubblicitaria che schiera nello stesso team gli agenti della compagnia assicurativa e le atlete e gli atleti dell’Italrugby.

“Si può dire che con la palla ovale è stato amore a prima vista - spiega Luciano Chillemi, responsabile della comunicazione istituzionale di Vittoria -. Il contatto iniziale, in realtà, è arrivato grazie alla stipula di una polizza assicurativa con la Fir, che poi ci ha proposto di diventare sponsor di maglia per le Autumn Nations Series. Difficilmente sarebbe potuta andar meglio: abbiamo vissuto un momento magico. In particolare il successo sull’Australia è stato accolto con grande entusiasmo nel nostro ambiente, gratificato anche dal fatto che la notizia è finita sulle prime pagine di molti giornali nazionali. A fine anno la sponsorizzazione è stata rinnovata, con scadenza a metà 2024, per tutte le squadre azzurre e non solo per la maglia, ma anche per materiali di allenamento, capi di abbiglia -

mento e gadget forniti dallo sponsor tecnico Macron”. Il bilancio di questa prima stagione? “È positivo, ancora prima di avere i numeri a disposizione. La nostra non è un’azienda che vende beni di largo consumo, con una rispondenza immediata dall’aumento delle vendite dei prodotti sugli scaffali. Però i clienti vengono raggiunti dalla nostra comunicazione, per cui più facilmente potranno rivolgersi ai nostri agenti. Che sono molto motivati da queste iniziative. Qui emerge un valore, lo spirito di squadra, che sentiamo di condividere con il mondo del rugby. La nostra, di squadra, è composta fra l’altro da 528 agenti, distribuiti su 490 agenzie, inseriti in una community molto ampia, che valutiamo oltre i 2,5 milioni di persone, calcolando naturalmente i clienti, tutti i dipendenti, gli azionisti e i partner commerciali”.

E gli agenti, sia pure in maniera simbolica, guidano in campo gli Azzurri e le Azzurre… “Sì, su quasi 6.500 cartelloni comparsi a partire dal 19 giugno in 270 località italiane. Per la campagna di affissioni abbiamo fatto otto giorni consecutivi di shooting fotografico ritraendo di volta in volta gli agenti operativi su uno specifico territorio e mettendoli alla testa di una ipotetica squadra. Sarebbe stato molto semplice utilizzare modelle e

Vittoria”

modelli, ma siamo sicuri di avere lanciato un messaggio decisamente più efficace, in grado di rafforzare il legame con i clienti attuali e di attirarne degli altri”. “Pochi giorni dopo l’avvio della campagna - prosegue Chillemi - è partito il Vittoria for Women Tour. Insieme con la Federazione abbiamo scelto sei tappe, sei spiagge, del Trofeo italiano di beach rugby, ponendoci lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla prevenzione oncologica femminile. La Fondazione Specchio d’Italia metterà a disposizione un furgone Ducato Maxi che contiene due ambulatori per visite senologiche gratuite. Il nostro claim è “La prevenzione femminile è la nostra meta” e la testimonial di tutti gli appuntamenti sarà l’ex capitana azzurra Manuela Furlan. Promuoveremo anche una raccolta fondi per contribuire ad acquistare un altro Ducato Maxi per la Fondazione. I tornei, maschile e femminile, si disputeranno al sabato ma noi saremo presenti anche la domenica, sempre con un villaggio popolato di stand, giochi e intrattenimento. Affrontiamo questo tour con soddisfazione e pure con un po’ di ansia, perché per la prima volta siamo alle prese con un evento del genere”. Forte la volontà di stare vicini al Rugby Donne. “Dico la verità: alla pri-

TROFEO ITALIANO TROFEO ITALIANO

ma partita della Nazionale femminile nel Sei Nazioni 2023, a Parma, sono andato come rappresentante della compagnia, più che altro per dovere. Non mi aspettavo di vedere un match di quel livello, delle belle atlete in grado di mettere in pratica un gioco veloce e ben fatto. Le Azzurre hanno creato serie difficoltà alla Francia e potevano anche vincere: davvero una bella sorpresa”. Di sorpresa in sorpresa, Vittoria Assicurazioni sembra aspettarsi molto da questa sponsorizzazione. “Noi però - conclude Chillemi - contiamo non solo di ricevere valore ma anche di darne, a tutto il rugby italiano, avvicinando al gioco un target di pubblico non specializzato e ampliando la platea degli appassionati”. (Giacomo Bagnasco)

CHI PROTEGGE SE STESSO, PROTEGGE GLI ALTRI HI ALTRI. 24/06 MARINA DI ARDEA LAZIO 01/07 CAORLE VENETO 08/07 ALGHERO SARDEGNA 15/07 CAPACCIO PAESTUM CAMPANIA 23/07 MARINA DI RAGUSA SICILIA 29/07 FINALE TORRE SAN GIOVANNI PUGLIA
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Come uno di quei compilatori di bestiari e di trattati naturalistici medioevali, così cari alle prime vocazioni del professor Eco, Massimo Massoni ha steso un meraviglioso atlante, ha realizzato un trattato di araldica, ha minuziosamente ricercato gli affettuosi e orgogliosi soprannomi di tutto quel che costituisce il mondo ovale.

Ricorda, questa sua opera, certi vecchi libri che hanno affascinato la nostra infanzia (e quella di altri entusiasti di generazioni precedenti), disseminati con i popoli della terra, con le loro caratteristiche, la loro fauna, le piante che ne costituiscono il simbolo. Tutto questo lavoro e il risultato finale meritano una colonna sonora, ed è l’inno della Coppa del Mondo. Per chi non lo sapesse, è tratto dal capolavoro di Gustav Holst, “I Pianeti”. Malgrado il nome, Holst era inglese di Cheltenham, contemporaneo

di Edward Elgar. La sua “Land of hope and glory” si sente spesso, specie a Twickenham. L’inno d’Inghilterra, God save the King, è l’inno della monarchia.

Di fronte a una galleria larga come il globo, non si può che procedere, come dicono i francesi, a piccoli morsi, gustando qualcosa, tralasciando molto e affidando a chi si inoltrerà nella visita della “galleria” l’espressione delle proprie preferenze. Il leone senegalese che afferra la palla con le zampe anteriori e la schiaccia in meta con elegante tuffo; il magnifico fiore del deserto della Giordania; il profilo minaccioso del Badak Putih, il rinoceronte bianco dell’Indonesia; l’uccellino con le sopracciglia azzurre di El Salvador; il vulture del Botswana che in quell’infinito altopiano desertico ha trovato habitat e mezzi di sostentamento; la giraffa della Tanzania, con lo sfondo delle nevi (o

Un giro del mondo attraverso i simboli e i soprannomi delle squadre nazionali di rugby. Tra piante, fiori e animali.
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monti Virunga, costati la vita a Diane Fossey, che con l’andar dell’età assumono, nell’ampia schiena, il color dell’argento. E il Madagascar ha scelto il Maki, uno dei tanti lemuri che popolano foreste sempre più minacciate.

Un giardino che offre le meraviglie della natura non è completo senza una parte che investa la botanica: la palma figiana, il fior di ciliegio giapponese, la felce delle piovose foreste neozelandesi, la protea andata ad affiancare la saltante springbok sulle maglie del Sudafrica, la rosa d’Inghilterra, il cardo scozzese, il trifoglio irlandese, la genziana slovena, la stella alpina svizzera, la quercia romena. Singolare: nessun paese africano ha scelto la forza pietrosa del baobab.

C’è anche chi ha scelto pagine di storia. È il caso della Moldavia (haiduci, banditi-patrioti, proprio come gli hayduk croati), della Polonia (hussars, in onore di vecchie tradizioni cavalleresche e di una pagina di sfrenato coraggio nei primi giorni di guerra), dell’Ucraina che non poteva che rivolgersi alla saga sfrenata dei cosacchi.

quel che ne rimane…) del Kilimanjaro: sono i primi e molto parziali risultati di una scelta operata con le ali di un Pegaso compiacente.

Quel che spesso non appare nello stemma (non tutti sono capolavori grafici), affiora nei soprannomi che finiscono per formare uno zoo dalle ampie e complete sezioni: dai pachidermi alle scimmie antropomorfe, dagli ungulati di ogni zona geografica e dimensione ai felini (leoni, leopardi, giaguari: la tigre non c’è e rientra in qualche modo solo grazie ai Leicester Tigers…), dagli uccellini e dagli uccellacci spesso rapaci (aquile, aquile di mare, condor) ai predatori a quattro zampe. Vukovi, lupi, sono i giocatori del Montenegro. Di animale da cortile, solo il galletto francese, le coq. I tifosi del Mali incitano i loro ippopotami, gli ivoriani gli elefanti, gli andorrani gli stambecchi, gli austriaci i camosci, i rwandesi i silver back, i meravigliosi gorilla dei

Il coccodrillo del rugby giamaicano e l’elefantino dello Sri Lanka

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Anche il Nepal fra le rugby-country

A settant’anni dalla meta più alta, segnata da Edmund Hillary - fisico da seconda linea All Black - agli 8.848 metri dell’Everest (mancavano quattro giorni all’incoronazione di Elisabeth e fu, al tempo stesso, il dono per la giovane sovrana e “l’ultima impresa innocente”, secondo la magnifica definizione dell’inviato Jan Morris), il Nepal è entrato, in compagnia di Turchia e Qatar, in World Rugby e quel buonanima di Tenzing Norgay, che in cima arrivò a due metri di corda da Hillary, può sentirsi, in qualsiasi sfera celeste si trovi dopo la sua dipartita, più vicino al suo compagno d’avventura e di conquista, eletto dai Neri come simbolo del carattere dei neozelandesi. Ora anche il Nepal è una rugby-country.

Edmund Hillary e il nepalese Tenzing Norgay, sull’Everest nel 1953

Sotto, rugby ai piedi dell’Himalaya per le ragazze nepalesi

A destra, ufficiali del 44° Gurkhas dell’Indian Army, nel 1896

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In questo gioco sempre più riservato a titani, a mischie che puntano ormai alle quattro cifre della tonnellata, a prima vista i nepalesi non possono reclamare grandi possibilità.

Sono piccoli e leggeri e per le touche hanno una sola chance, chiedere l’aiuto dello yeti che, secondo le confuse descrizioni di molti viandanti, deve essere un bel pezzo di peloso marcantonio. Lo stesso Hillary, caduto in eterno amore per il Nepal, andò a dare un’approfondita occhiata ma non riuscì a scorgere né l’uomo delle nevi né ad imbattersi nelle sue grandi orme.

I nepalesi sono piccoli, d’accordo, ma sono determinati e coraggiosi (l’etnia degli Sherpa, cui Tenzing apparteneva, ha queste spiccate caratteristiche) e sanno essere pugnaci, sino alla ferocia. Anche in questo caso un simbolo, molto reale: due pugnali incrociati, lunghi e a lama larga. È il kukri che i gurkha, da quasi due secoli al servizio dell’esercito britannico come volontari retribuiti, portano alla cintura. Sull’uso, meglio non indagare a fondo. Il periodo di ferma serve per mettere assieme, al momento del congedo, un buon gruzzolo, tornare nelle valli natali e acquistare

gli yak che devono convincere il suocero a concedere la mano della figlia.

In questo lungo tempo i gurkha hanno combattuto dappertutto, hanno conquistato le loro prime Victoria Cross nella jungla della Birmania dove avevano trovato un comandante che li sapeva apprezzare, il mistico Orde Wingate. Facevano parte anche del corpo di spedizione che navigò da Southampton alle Falkland in un ultimo rigurgito di guerre imperiali e coloniali.

Qualche anno fa il battaglione di stanza ad Aldershot, quartier generale dell’esercito britannico, fornì la banda per Inghilterra-Italia e sul prato di Twickenham i piccoli musicanti sorridenti scesero con i loro eleganti cappottini color tortora. In testa, uno zucchetto con sottogola.

L’altro battaglione è di stanza ad Edimburgo, intitolato al defunto principe consorte, e nei pressi di Murrayfield da anni esiste un take away - insegna, i due coltellacci incrociati, ovviamente - per i soldatini che, in libera uscita e colpiti da attacchi di nostalgia, non possono rinunciare alle specialità avite. Il piatto forte è il montone.

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Italian Classic XV manifestazione di interesse per le Zebre

Italian Classic XV, la società sportiva che dà vita alla squadra ad inviti degli ex giocatori della Nazionale Italiana di Rugby Over 30, ha inoltrato alla FIR in questi giorni una manifestazione di interesse per l’acquisizione delle Zebre Parma, franchigia italiana di rugby a 15 istituita nel 2012, che, come è noto, è oggi interamente di proprietà della Federazione Italiana Rugby.

Questa azione nasce dall’esperienza maturata da molti componenti di Italian Classic XV in diversi contesti competitivi e dai tanti rapporti internazionali instaurati in oltre dieci anni di attività, che hanno consentito alla società di creare un network particolarmente efficace.

“La nostra ‘Nazionale a Inviti’ ha coinvolto e, oso dire, fatto divertire fino a oggi oltre 130 ex Nazionali, nel puro spirito del Rugby, assecondando i valori dell’impegno e del senso di responsabilità che sono al cuore di questo sport”, ha affermato Giorgio Monaco, CEO di Italian Classic XV.

Da sempre dedita allo sviluppo sportivo e all’ideazione di piani di formazione per i giocatori, tecnici e dirigenti, oltre che in iniziative di beneficenza in diversi ambiti, Italian Classic XV vanta oggi al proprio interno varie competenze professionali che si esprimono, per esempio, in area sportiva, medica, legale e manageriale. “La struttura che abbiamo consolida -

to in questi anni ci rende fiduciosi di poter gestire le Zebre Parma in modo sostenibile ed efficace”, ha continuato Monaco.

Il percorso delle Zebre è stato fino ad oggi tormentato: è infatti nota la circostanza del fallimento del 2017, vicenda che ha dato il via alla nascita della attuale società. E oggi la situazione attuale, e certamente i numerosi avvicendamenti di Amministratori e Responsabili voluti dall’attuale proprietà, non lasciano intravedere una strategia chiara per il futuro della squadra. Dopo un confronto con l’ex e attuale amministratore, nel rispetto della storia e del prestigio di questa franchigia, e alla luce della attuale situazione - al netto dei risultati sportivi - Italian Classic XV ha manifestato l’interesse per l’acquisizione delle Zebre Parma, anche e soprattutto in funzione della salvaguardia dei ragazzi che militano nel club, che dovrebbe avere quale scopo principale quello di fornire uomini alla Nazionale Maggiore, nell’ottica di dare nuovo slancio al patrimonio di valori che contribuisce a tenere vivo ed emozionante il rugby nel nostro Paese.

“Riteniamo che oggi la gestione delle Zebre Parma abbia bisogno di un sostanziale cambio di rotta, e siamo convinti di essere in grado di dare un futuro tutto ‘italiano’ alla franchigia di Parma”, ha concluso Monaco.

LO SPAZIO TECNICO LO SPAZIO TECNICO

ROMANZO DI FORMAZIONE

“Ciao Andrea, come va? Pensavo, perché non fai un pezzo sulla didattica, ovvero come si formano gli allenatori e cosa ci manca per avere un sistema di formazione all’altezza dei nostri avversari, ammesso che il nostro non lo sia ancora?” Caro Direttore, domanda da un milione di dollari!

Partiamo da una descrizione di quella che è la situazione della didattica. A partire dalla stagione sportiva 2017/2018, dopo un’analisi di quella che era l’offerta formativa federale, si è proceduto ad una riforma della stessa: si è mantenuta la strutturazione su quattro livelli, ma con la possibilità di individuare da subito, sulla base degli obiettivi individuali del tecnico, il corso di riferimento, senza dover necessariamente aver preso parte ai livelli precedenti. Il principio che ha guidato la riforma, e che vede protagonista il/la giocatore/trice, è l’imprescindibile relazione tra l’atleta appunto (considerato nella sua fase di crescita/sviluppo biologico), il gioco (qual è il più adeguato in quel momento?) e l’allenatore (un facilitatore estremamente consapevole delle esigenze relative ai due punti precedenti). Un percorso quindi che mira ad approfondire e specializzare un segmento circoscritto della formazione dei giocatori e dei tecnici: minirugby – giovanili – seniores. Supportato da solide basi scientifiche (fondamentale punto di riferimento negli anni sono stai gli studi del Prof. Jean Côté, psicologo dello sport che, con i suoi

colleghi della Qeen’s University di Kingston, Ontario, Canada, ha dato vita ad un modello di sviluppo per le attività sportive giovanili, DMSP Developmental Model of Sport Partecipation che mira a conciliare prestazione, partecipazione e sviluppo personale) nei corsi si provvede ad affiancare ai contenuti (dalla multidisciplinarietà nella fase dell’avviamento allo sport ai parametri d’efficacia delle varie aree del gioco) una metodologia anch’essa basata su principi dell’apprendimento sportivo. Nel 2020, complice la situazione dovuta all’emergenza sanitaria, si è provveduto a “caricare” su una piattaforma on line tutti i corsi allenatori (oltre ai tre livelli, un corso per video analist, un corso Seven’s ed è in fase di ultimazione un corso di rugby integrato). Se da un lato è venuta a mancare la fondamentale relazione con i fruitori dei corsi e la possibilità di procedere a esercitazioni pratiche in campo, dall’altro è aumentata la possibilità di raggiungere e coinvolgere un maggior numero di utenti o semplicemente di interessati grazie ad un risparmio sia economico sia di tempo. Le aree di criticità vengono recuperate con un percorso successivo al conseguimento del brevetto temporaneo: nelle due stagioni successive i corsisti continuano la loro formazione (aggiornamenti, tutoraggi, lavori da consegnare ai formatori) per raggiungere il numero di crediti necessari per rendere il brevetto definitivo.

Offrire sempre maggiori spunti, approfondimenti e possibilità di confronto credo sia la sfida che il settore della Formazione debba affrontare. Ma credo altresì che nel tempo abbiamo costruito una scuola italiana che può dialogare con competenza con le altre; abbiamo i riscontri anche sul piano internazionale giovanile con le nostre selezioni, femminili e maschili, risultato del nostro movimento rugbistico. Per quanto riguarda il livello élite, abbiamo due italiani come Capo Allenatore nelle due franchigie professionistiche, allenatori italiani negli staff, allenatori italiani nello staff della Nazionale Maggiore, allenatori che vengono chiamati all’estero; e nel campionato domestico, serie A élite, tanti validi allenatori che hanno dimostrato le loro qualità.

Certo, la possibilità di essere esposti con consistenza alle esigenze e alla pressione del rugby “pro” è un percorso obbligato per la crescita e dovremo essere bravi a programmare e a sfruttare le opportunità, limitate, che il contesto ci propone. Ma questa è la sfida.

E poi la formazione, lo abbiamo detto, è continua e, aggiungo, personale. Curiosa è la definizione di romanzo di formazione: “è un genere letterario riguardante l’evoluzione del protagonista verso la maturazione e l’età adulta tramite prove, errori, viaggi ed esperienze.” Sembra proprio si parli di allenatori.

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MANI IN RUCK

MANI IN RUCK

IL SEVEN QUESTO SCONOSCIUTO

Esistono mondi paralleli nell’universo mistico del rugby. Tra i tanti, l’unico consacrato dai cinque cerchi olimpici è quello del Seven.

Disciplina che si disputa in partite da 2 tempi di 7 minuti ciascuno sull’intero campo di gioco. Tanta corsa, tanti polmoni che esaltano le qualità di tecnica in velocità dei 7 giocatori per squadra. “Skills”, come un erudito potrebbe oggigiorno definirli, che hanno permesso alla specialità l’”upgrade” a disciplina olimpica a partire da Rio de Janeiro 2016.

World Rugby ha creato da questa declinazione della disciplina ovale un circo giramondo denominato World Series; una decina di tappe che si giocano generando raduni e ottenendo sponsor di visibilità mondiale da Singapore alla California, dal Canada a Dubai.

Proprio a Dubai ho avuto modo di esser chiamato in due differenti occasioni (nel 2017 e nello scorso mese di dicembre) a vivere due esperienze straordinarie nel ruolo disciplinare di citing commissioner. In campo ho visto il meglio del meglio del circuito: Fiji, Australia, Nuova Zelanda, Argentina, Sudafrica, Francia e tutte le

britanniche. Spettacolo assicurato in una cornice di pubblico - 40.000 sulle tribune costruite ad hoc in mezzo al deserto – tra sceicchi spettatori incuriositi e star come Farrell e Tuilagi con la loro combriccola di amici danarosi a divertirsi e concedere selfies su uno dei 10 campi in erba smeraldina.

Ma la dimensione del Seven, a mio parere, sarà misurabile definitivamente a breve quando qualche Union sorprendente sarà protagonista tra i grandi nomi. Ci sono nuovi paesi che stanno dedicando alla specialità la loro intera forza organizzativa. Secondo o terzo stato rugbistico? Direi proprio di sì.

Ho avuto la prova provata quando ho svolto recentemente la funzione di citing al torneo organizzato da Rugby Europe in Montenegro. Alla domanda naturale e forse lecita: “Anche lì giocano a rugby?” va data una risposta perentoria. Sì, insieme a Slovenia, Slovacchia, Kosovo, Estonia e San Marino (i “Titani” hanno vinto l’edizione e giocheranno in Conference 1 dal 2024!).

E gli Azzurri e le Azzurre? Stanno nella terra di mezzo, perché l’evidenza dei risultati

ci sta dimostrando che non siamo ancora pronti per il palcoscenico olimpico, ma ci dobbiamo credere e lavorare con tanta volontà, destinando alla specialità giocatori, tecnici e dirigenti con la necessaria specificità. Ormai impossibile lasciare in un cono d’ombra il “Sette”.

Dobbiamo farcela, visto che la finalissima 2022 del Mondiale Seven - Fiji v All Blacks - l’ha diretta Gianluca Gnecchi, lo stesso arbitro della finale di campionato 2023 giocata al Lanfranchi. E Gnecchi farà parte anche del panel di giudici di gara designati per i Giochi Olimpici di Parigi, tra dodici mesi.

Se un tempo giocare a sette era l’occasione per celebrare la fine campionato e l’inizio della stagione estiva, ricordiamoci che allo Stadio dei Marmi anche Roma ospitava una tappa di rilevante importanza di questa disciplina. Purtroppo, da quasi un decennio, anche la manifestazione capitolina è entrata in profondo letargo. Serve un risveglio generale, sia femminile che maschile, soprattutto giovanile, affinché la forza di gravità ovale ci porti nell’orbita del rugby olimpico fatto di fascino, novità e divertimento.

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World Rugby Sevens Series a Dubai, Francia v Fiji.

WEST END WEST END

UNO SPRINGBOK AZZURRO

Arrivare da lontano e lasciare il segno: è il filo non sottile che lega Eric Liddell e Marcello Fiasconaro. A Parigi 2024 sarà un secolo da una vittoria raccontata in uno dei migliori film sportivi della storia e proprio in questi giorni, 27 giugno, è arrivato il mezzo secolo del record mondiale degli 800, ancora e tuttora record italiano. Rugby e atletica uniti nella storia e dalla storia. Liddell era nato in Cina, giocò per la Scozia sette volte nel 5 Nazioni e segnò quattro mete, per la Gran Bretagna conquistò l’oro olimpico nei 400. Era lo Scozzese Volante e morì in odore di martirio, in un campo di concentramento giapponese.

Fiasconaro è nato in Sudafrica da un musicista siciliano e da una gentildonna belga: era un giocatore di Western Province (centro, ala) che frequentava anche la pista, seguito da Stewart Banner. Un vecchio discobolo dall’occhio fino - Carmelo Rado - lo vide e cambiò la sua vita. Esordio italiano con una maglia a strisce orizzontali e a disagio sui blocchi, secondo agli Europei di Helsinki da apprendista: gli avevano detto di marcare il polacco Werner e così gli sfuggì, al largo, David Jenkins, scozzese nato a Trinidad, un passato nel cricket e un futuro in galera, in Messico, per commercio di pillole e altro.

March teneva sempre una palla con sé ma il rugby si diradò sino a sparire in quelle

stagioni che lo proposero come fenomeno mediatico ante-litteram. Nel marzo del ’72 portò 10.000 spettatori al Palasport di Genova per il suo attacco al primato mondiale dei 400 indoor, sparring partner il piccolo polacco Andrzei Badenski. Il boato fu lungo quanto la sua corsa selvaggia: 46”1. La conversione agli 800 venne dopo che un piede malandato e tendini lisi gli avevano negato un ruolo nell’Olimpiade bavarese del ’72. Nell’inverno del ’73 (l’estate sudafricana) arrivò la notizia che aveva corso in 1’44”7: il record del mondo era quattro decimi più in basso. E così nacque il suo giorno dei giorni, il 27 giugno 1973, all’Arena di Milano, ItaliaCecoslovacchia, stesso luogo, stessa pista dove nell’estate pericolosa del ’39 Rudolf Harbig diede nuovi confini alla distanza. Le immagini in bianco e nero, stampate o in movimento, mostrano March scavallar via, liberarsi senza indugi del ceko Jozef Plachy (che nella sua lontana scia ottenne il record nazionale, 1’45”7), scuotere la criniera, andare a placcare il tempo, incidendo con quei due giri in 51”2 e 52”5 la linea di confine che sino a quel momento aveva tenuto al largo del sub 1’44” l’all black Peter Snell, l’aussie Ralph Doubell e Dave Wottle, l’americano che partiva da dietro e correva sempre con un cappellino piantato sul cranio.

Marcello aveva dentro di sé la forza, il desiderio di lotta, ed è scontato dire che queste inclinazioni derivassero dalla frequentazione, sin dalla più tenera età, con lo sport che in Sudafrica è costume di vita, il rugby. Non era calligrafico, non era il levriero che esce di cancelletti. Qualcosa di più brutale, istintivo. Piaceva per la dote che aveva dentro, nel codice, nei muscoli. E tutto questo produceva il coraggio. Il Marcello invitto fu l’interprete della finale degli Europei del ’74: acciaccato, zoppo, passò in testa alla campana in un 50”14 che qualcuno definì folle ma che apriva nuove frontiere, prima di arrendersi al dolore e rompere come un trottatore che perde ritmo e direzione. Fu il suo canto del cigno e la prima apparizione in scena di un giovanotto di Brighton dalla barba stenta e l’espressione beffarda: Steve Ovett. Il rugby tornò nel meriggio della sua parentesi italiana: otto mete in cinque partite in serie A, la prima segnata all’Amatori Catania, con la maglia scura del Cus Milano, “sostenuto” dalla Concordia e allenato da quel buonanima di Marco Bollesan. Aveva il fisico, la velocità, lo spirito. Un invictus che a Ellis Park, nel ’95, sorrise beato quando la palla calciata da Joel Stransky volò in mezzo ai pali. March, Azzurro, primatista del mondo, quel giorno si sentì Springbok.

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Passione per la meta

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