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CUORE DI CAMPIONE Il “j’accuse“ di Sergio Parisse escluso dalle convocazioni per i Mondiali in Francia AL ROVIGO L’ULTIMO TOP10 TREVISO BILANCI Pavanello e Salvi fanno il punto sulla stagione 181 Giugno 2023 ALLRUGBY RIVISTA MENSILE Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale –70% AUT. N° 070028 del 28/02/2007 DCB Modena Prima immissione 01/02/2007 www.allrugby.it

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Perché Sergio. Di casi come quello di Sergio Parisse è piena la storia dello sport. Nel 2002 Trapattoni, nonostante le insistenze della pubblica opinione, non volle portare Roberto Baggio al Mondiale in Corea e Giappone. Nel 1996, in occasione degli Europei di calcio, il ct della Francia Jacquet lasciò a casa Eric Cantona, reduce dalla sua migliore stagione in Premiership con la maglia del Manchester United. Jacquet disse di non voler alterare gli equilibri della squadra che si era qualificata per la fase finale della manifestazione. Nel 2011 Robbie Deans, un neozelandese, escluse dal gruppo dell’Australia Matt Giteau. Quattro anni dopo, la federazione australiana modificò le proprie regole di selezione per portare Giteau, a 33 anni, alla Coppa del Mondo in Inghilterra, nonostante vestisse all’epoca la maglia (toh!) del Tolone. Nel 2019 Eddie Jones ignorò Danny Cipriani, player of the Premiership di quella stagione.

Insomma niente di nuovo sotto la luce del sole. Se non fosse che in Italia Sergio Parisse rappresenta qualcosa di più di un semplice fatto tecnico.

Cosa della quale Kieran Crowley, nonostante sia ormai nel nostro Paese da più di sette anni, da neozelandese, può anche non essere consapevole.

Proprio per questo, dunque, serviva una mediazione federale. Non un intervento dell’ultima ora, ma un percorso condiviso, in grado di valorizzare l’esperienza di Sergio e la sua personalità, anche mediatica.

Certo, molti storceranno il naso di fronte a questa affermazione: in Nazionale si va per meriti sportivi, non come “premio alla carriera”, cosa che anche Parisse sottolinea nella lunga intervista che pubblichiamo in questo numero.

Ma i meriti tecnici l’ex capitano azzurro li ha mostrati nella finale a Dublino. E dopo quella prestazione, e quelle dell’intera stagione, dire che Sergio non aveva i requisiti per fare parte dei 33 dell’Italia al Mondiale pare un azzardo difficile da sostenere.

Quanto all’aspetto mediatico, solo chi lavora in questo campo sa delle difficoltà del rugby italiano di trovare spazio in televisione e sui quotidiani.

Ed è anche per questo che Allrugby ha sposato con convinzione la causa (ahimè persa…) della partecipazione di Parisse al torneo. Un giocatore che, per la sua storia, per il suo ruolo, per il suo vissuto quotidiano in Francia, per il record che avrebbe potuto siglare con la sesta partecipazione a una Coppa del Mondo, un traguardo che nessuno ha mai raggiunto finora, avrebbe potuto essere un magnifico grimaldello, una splendida vicenda da vivere e raccontare in prospettiva di Francia 2023, dove non saranno certo le partite con la Namibia e l’Uruguay ad accendere i riflettori sull’Italia. Domanda: perché un Paese in cui il rugby fatica a farsi cultura, dobbiamo privarci di un’occasione, di un personaggio, di un contributo di questo valore? Richard Wigglesworth, che da questo mese di giugno fa parte dello staff dell’Inghilterra, ha detto a Allrugby (lo leggete più avanti) che capisce e sostiene le scelte di Crowley, ma se Parisse avesse manifestato un forte desiderio di far parte del gruppo, allora lui lo avrebbe preso in considerazione. Sergio questo desiderio lo ha espresso con forza, ha giocato e fatto meta nella finale di Challenge Cup a Dublino, ha fatto parte, in semifinale, di una squadra che in 14 ha lasciato a zero due terzi della Nazionale italiana attuale. Che altro avrebbe dovuto fare? Miopi, come spesso accade, continuiamo a farci male da soli.

Gianluca Barca

direttore responsabile

Gianluca Barca gianluca.barca@allrugby.it

photo editor Daniele Resini danieleresini64@gmail.com

redazione

Giacomo Bagnasco, Federico Meda, Stefano Semeraro. Collaboratori

Danny Arati, Felice Alborghetti, Alessio Argentieri, Sergio Bianco, Simone Battaggia, Andrea Buongiovanni, Enrico Capello, Alessandro Cecioni, Giorgio Cimbrico, Andrea Di Giandomenico, Mario Diani, Diego Forti, Andrea Fusco, Gianluca Galzerano, Christian Marchetti, Norberto “Cacho” Mastrocola, Paolo Mulazzi, Iain R. Morrison, Andrea Passerini, Walter Pozzebon, Luciano Ravagnani, Roberto “Willy” Roversi, Marco Terrestri, Maurizio Vancini, Valerio Vecchiarelli, Giancarlo Volpato, Francesco Volpe.

fotografie

In copertina, Sergio Parisse ai Mondiali inSudafrica (foto Steve Haag/Fotosportit). Nei riquadri, Matteo Ferro solleva lo Scudetto dopo la vittoria in Finale Top10 (Getty Images); Michele Lamaro e Lorenzo Cannone festeggiano la vittoria contro il Connacht nei quarti di finale di Challenge.

Fotosportit

Roberto Bregani, pag. 20; John Dickson pag. 73; Andrew Cowie, pag. 56; Gareth Everett, pag. 58; David Gibson, pagg. 2, 22, 55, 59, 72; Steve Haag, pagg. 18, 28; Jaco Marais, pag. 4; Photosport, pag. 21; Daniele Resini, pagg. 14a, 15, 16, 17, 23, 24, 25, 26, 27, 28b, 30, 32, 42, 45, 47, 48, 49, 52, 53, 65, 69, 71.

Getty Images

Malcolm Couzens, pag. 44; Alex Davidson, pag. 60; Federugby, pag. 51, Stu Forster, pag. 29a; Peter Meecham pag. 36; Quinn Rooney pag. 38; Phil Walter pagg. 43, 46.

Altri crediti

Giorgio Achilli, pagg. 10, 11; Benetton Rugby, pag. 40; Maurilio Boldrini, pag. 70; Fondo Tognetti/Allrugby, pagg. 12, 13, 14b; Sergio Pancaldi, pagg. 62, 64.

L’editore è a disposizione degli aventi diritto, con i quali non gli sia stato possibile comunicare, per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani e delle fotografie.

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stampa

L’Artegrafica

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Alemanno
Matteo
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FLASH Doccia irlandese

La meta di Ulupano Junior Seuteni, di La Rochelle, che, poco prima del riposo, ha ridotto a soli 9 punti il distacco fra le due squadre, dopo che il blitz iniziale del Leinster aveva portato i padroni di casa in vantaggio 17-0.Furlong, un pilone, non ha la rapidità per contrastare nell’uno contro uno il trequarti centro avversario. Nella ripresa, la fisicità dei francesi e l’indisciplina del Leinster faranno la differenza nel risultato finale.

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FLASH

La fine della carestia

Erano dodici anni che il Munster non conquistava un titolo internazionale. Tre volte vittoriosa nella Celtic League (2003. 2009, 2011) e due volte campione d’Europa (2006 e 2008) la Red Army, nella finale di URC ha sconfitto a Città del Capo gli Stormers, 19-14, con una meta John Hodnett, trasformata da Jack Crowley, quando mancavano 5’ alla fine. Vittoria a sorpresa per una squadra classificatasi al quinto posto della regular season, ma capace di battere il Leinster in semifinale, e gli Stormers, detentori del titolo, in finale davanti a 2000 tifosi irlandesi volati in Sudafrica per sostenere i propri giocatori.

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numero centoottantuno

CAMPIONATO TOP 10

Pag.8 Rovigo campione

Da “la città in mischia” a una città in difesa.

Pag.12 ... e rimasero in otto

Luciano Ravagnani ripercorre i tanti tentativi effettuati nel corso della storia per trovare una formula adatta al campionato italiano.

J’ACCUSE

Pag.18 Infinito Sergio

Giorgio Cimbrico celebra Sergio Parisse, un giocatore che è stato, e ha reso l’Italia, speciale.

Pag.20 Cuore di Campione

Tutta la delusione di Sergio Parisse che sognava un’altra fine di carriera. Di Gianluca Barca.

Pag.30 Pareri

Tecnici e giornalisti dicono la loro sul “caso” Parisse, qualche perplessità, tanti dubbi.

RUGBY WORLD CUP 2023

Pag.34 Italia, dica trentatrè

Dai quarantasei della rosa allargata, alla squadra definitiva che Crowley porterà in Francia con sé. Ipotesi e punti fermi.

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SOMMARIO

Pag.36 Sud chiama Nord

Il futuro del rugby è già qui, scrive Walter Pozzebon. La battaglia tra gli emisferi si combatte anche sulle regole.

UNITED RUGBY CHAMPIONSHIP

Pag.40 Stabilità e fiducia

Federico Meda fa il bilancio con Antonio Pavanello sulla stagione del Benetton Treviso, tra crescita e ambizioni.

Pag.44 Questione di testa

Julian Salvi spiega dove devono crescere i giocatori italiani: mentalità e convinzione. Di Federico Meda.

Pag.48 Aggiungi un posto all’ala

Ultimo in ordine di tempo ad aver esordito nella Nazionale maggiore, Simone Gesi confessa a Alessandro Cecioni il sogno di un posto nei 33 per il Mondiale.

NAZIONALE U20

Pag.50 Una scelta di vita

Vogliamo e possiamo diventare il meglio di sempre del rugby giovanile italiano, dice David Odiase a Valerio Vecchiarelli. Ai Mondiali in Sudafrica per lasciare il segno.

COPPE EUROPEE

Pag.54 La Rochelle un anno dopo

La squadra di Ronan O’Gara, a dodici mesi di distanza, si è confermata sul tetto d’Europa. Per il Leinster una delusione amara.

Pag.56 Lo stato delle Nazioni

Mario Diani fa il punto sullo stato delle formazioni europee dopo il Sei Nazioni femminile.

Pag.62 Women in rugby

Giacomo Bagnasco racconta la storia di Anna Bonfiglio, classe 2005, promossa in Eccellenza dopo tre anni di stop, con il Calvisano.

Pag.66 La prima vittoria non si scorda mai

Due successi per la U18 femminile al Six Nations Festival. Con il Galles la squadra ha ottenuto il primo successo della sua storia.

Pag.68 In memoria di Giorgio Cimbrico

Pag.71 In libreria

Pag.72 Lo spazio tecnico di Andrea Di Giandomenico

Pag.73 Mani in ruck di Maurizio Vancini

Pag.74 West end di Giorgio Cimbrico

RUBRICHE RUGBY DONNE

Rovigo campione

I rossoblù campioni per la quattordicesima volta. E la città festeggia nonostante le perplessità di patron Zambelli.

di Gianluca Barca

PERONI TOP10 2022/2023

Finale Scudetto, 28 maggio, Stadio Lanfranchi, Parma

Rovigo v Petrarca 16-9 (primo tempo 10-9)

Rovigo una meta (Stavile), una tr (Montemauri), 2 cp (Montemauri), un drop (Montemauri)

Petrarca 3 cp (Lyle)

Arbitro Gnecchi

I CAMPIONI D’ITALIA Bacchetti, Bazan-Velez, Borin, Cadorini, Casado-Sandri, Chillon, Ciccioli, Ciofani, Cosi, Elettri, Ferrario, Ferraro, Ferro, Ghelli, Giulian, Leccioli, Lertora, Linsday, Liut, Lubian, Lugato, Montemauri, Moscardi, Munro, Pomaro, Quaglio, Ratuva-Tavuyara, Ruffato, Sarto, Sironi, Stavile, Steolo, Swanepoel, Theys, Uncini, Van Reenen, Visentin.

ALLENATORI Allister Coetzee (fino al 1 novembre), Alessandro Lodi, Davide Giazzon, Joe van Niekerk.

CAMPIONATO
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AMPIONATO TOP10

Adesso che Rovigo ha conquistato il suo quattordicesimo titolo, battendo in finale, al Lanfranchi di Parma, il Petrarca 16-9, Francesco Zambelli, presidente del club rossoblù, potrà ribadire con ancora maggior forza il concetto già espresso in occasione dell’assemblea societaria di qualche settimana fa: “Da dieci/dodici anni lotto per riportare il Rovigo nell’alto livello. Inutilmente. L’impianto federale ha partorito un “mostro” a due teste. Quei due là (Benetton e Zebre, ndr) sopra e sotto il nulla! A noi del Top 10 deve bastare la soddisfazione di mettere in luce qualche giocatore che quelli sopra vengono a prendersi”.

Alla “città in mischia” (copyright Ravagnani), ai quasi duemila tifosi che domenica 28 maggio avevano seguito la squadra a Parma, tuttavia, battere il Petrarca regala sempre una bella soddisfazione. E se questo scudetto non vale, in assoluto, come quelli degli anni Cinquanta, o degli anni Settanta di Carwyn James, o come quello del treno rossoblù che nel 1988 calò su Roma per la finale del Flaminio contro il Treviso, in ogni caso Rovigo ancora una volta è campione d’Italia, simbolo di un territorio ad alta passione ovale.

La Finale

Il punteggio, 16-9, venticinque punti in totale, con il quale la squadra di Alessandro Lodi ha battuto la formazione padovana è il quinto più basso di sempre in una finale. Meno si era segnato solo

in quella famosa del 1988 (Rovigo- Benetton 9-7), nel 1998 (Benetton-Petrarca 9-3), nel 2008 (Calvisano-Benetton 20-3) e nel 2015 (Rovigo-Calvisano 10-11). L’anno scorso, stesse due finaliste, stesso score complessivo, ma diversa distribuzione dei punti fra le due squadre: Petrarca-Rovigo 19-6.

Anche nel 2022 una meta sola, quella di Nostran su percussione di Spagnolo. Stavolta, guizzo di Stavile, man of the match, dopo touche a 5 metri e spinta da drive.

In finale, la cassa di risparmio prevale sulla banca di investimento a lungo termine.

Match giocato, sì, ad alta intensità emotiva, ma costellato di errori (una quindicina di avanti fra le due squadre, alcuni in momenti topici, soprattutto da parte del Petrarca), e senza la volontà di prendersi grandi rischi, soprattutto nella ripresa: mischie giocate per conquistare un calcio di punizione, mai come piattaforma per un lancio di gioco o un attacco organizzato.

La sintesi di Tebaldi

La fotografia della partita l’ha scattata Tito Tebaldi al momento della sua sostituzione a 10’ dalla fine. L’ex mediano di mischia della Nazionale, al microfono della Rai, non senza un certo di disappunto, ha detto: “Niente di nuovo, siamo qua a prenderci a testate, è una finale, derby d’Italia, non so cosa ci si potesse aspettare di diverso…”.

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Alla fine ha prevalso il cuore di Rovigo che, con coraggio e una difesa arrembante, ha impedito al Petrarca di prendere il sopravvento con le armi più tradizionali del suo gioco: la grande fisicità dei suoi uomini, il drive avanzante, in primo luogo da rimessa laterale. La “città in mischia” per un giorno si è trasformata nella città in difesa. Ognuno con i suoi mezzi e le sue possibilità.

Rari i momenti di brillantezza nel corso degli 80 minuti della partita: intorno al 13’ uno splendido calcetto dello stesso Tebaldi per De Masi (passaggio non controllato da De Sanctis) e, poco prima, un’incursione per linee dirette, sempre di De Masi; la meta già citata di Stavile e, nel finale, la preparazione (e l’esecuzione, si intende) del drop di Montemauri, consacrazione di un giocatore votato prima della finale come miglior protagonista dell’intera stagione.

Per il pubblico presente sulle tribune del Lanfranchi, sono stati i placcaggi a fare spettacolo più delle giocate palla in mano.

Il Petrarca ha pagato la mancanza di un playmaker di ruolo: Faiva ha avviato le azioni di attacco senza mai riuscire a variare il gioco. E nella ripresa gli otto calci di punizione concessi dalla formazione di Marcato e Jimenez (3 in mischia chiusa) hanno reso la disciplina decisiva. Nel secondo tempo, i campioni carica non hanno messo a segno nemmeno un punto. Un’anomalia con pochi precedenti in finale.

Rugby e televisione

La finale in diretta, in prima serata su Rai2, era stata presentata come un grande spot per il rugby italia -

no. I numeri dell’audience hanno confermato che il pallone ovale in Italia resta una nicchia che va coltivata con grande cura e attenzione. I 409mila spettatori catturati dal match del Lanfranchi replicano, sebbene con altri profili, esattamente la stessa attenzione ricevuta da Scozia v Italia (Sky e TV8), lo scorso 18 marzo, ultima giornata del Sei Nazioni. I dati, perché abbiano un significato, vanno contestualizzati: il 21 maggio, sempre su Rai2, ma in seconda serata (ore 23), Italia v Brasile del Mondiale di calcio U20 aveva avuto 603mila spettatori. Sempre su Rai2, domenica 28 maggio, ma al pomeriggio, il Concorso ippico di Piazza di Siena si era fermato a 387mila.

Il rugby galleggia, in una non meglio definita area di attenzione. Dopo 25 anni di Sei Nazioni forse era lecito aspettarsi di più.

Il mostro a due teste Zambelli ha parlato di “mostro a due teste”, riferendosi al dualismo Top10-Urc.

Il presidente del Rovigo non sbaglia: in Europa nessuno dei paesi che hanno optato per le franchigie (Scozia, Irlanda e Galles) si pone l’obiettivo di mantenere un campionato professionistico di alto livello. Mentre Francia e Inghilterra hanno scelto la via del campionato gestito dalle leghe private di club: la LNR in Francia e la PRL (Premiership Rugby Limited) in Inghilterra.

Queste ultime due competizioni si mantengono principalmente con la vendita dei diritti televisivi e le entrate da botteghino. La Premiership, nel 2022, ave -

Nelle pagine precedenti, Matteo Ferro, capitano del Rovigo, solleva il trofeo che premia la squadra campione d’Italia. Sotto, la meta di Bautista Stavile che alla mezzora del primo tempo ha deciso il match.

A destra, Francesco Zambelli, presidente del club rossoblù, festeggia con i giocatori la conquista del quattordicesimo scudetto del Rovigo.

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va collezionato oltre due milioni di spettatori in totale con un media di 12.841 a partita, il Top14 quest’anno ha raggiunto la media record di oltre 14mila per match. Il ProD2 si è attestato sui 4.500 con il picco di 18.500 nel derby delle Alpi tra Grenoble e Oyonnax. In Irlanda, i club dell’All-Ireland League, vinta

quest’anno dal Terenure sul Clontarf (50-24 in finale, 8.642 spettatori), non ricevono un euro dalla IRFU: la loro è un’attività prettamente ancillare rispetto a quella delle province, il cui percorso è gestito dalle singole branche della Federazione, in sinergia con le direttive centrali.

In Galles, il budget medio di un club della Indigo Premiership è intorno alle 250mila sterline, con una forbice che va da 100mila per i club più piccoli a 400mila per Cardiff e Merthyr. I sei club del campionato scozzese (Fosroc Super Series) sono anch’essi semi-pro, con budget di circa 125 mila sterline, per squadre di 35 giocatori, alle quali la Federazione paga uno staff da circa 65 mila sterline e un direttore commerciale (35 mila sterline)

Non sbaglia quindi Zambelli a mettere l’accento su una realtà come il Top10 (ma in futuro come si chiamerà?), particolarmente esigente sul piano economico, ma privata dalle franchigie (e dall’esodo verso l’estero), come minimo dei cento giocatori migliori. E che anche per la finale, forse complice il giorno e l’ora, non ha raggiunto i quattromila spettatori (duemila provenienti fortunatamente dal Polesine).

Se all’Italia riuscirà la magia, un giorno, di rilanciare il campionato, tramutando l’acqua in vino, sarà un miracolo degno di quelli attribuiti a Nostro Signore. Magari ci riusciremo con otto squadre, come scrive più avanti Luciano Ravagnani.

Intanto Rovigo festeggia, avendo raggiunto Il Petrarca nel numero di scudetti conquistati nell’arco della sua storia.

Come dicono i proverbi: chi vince festeggia e chi perde si giustifica. Ma soprattutto, in questo caso: chi si accontenta gode (e, in questi giorni, di sicuro, anche Zambelli festeggerà in cuor suo…).

Fate il rugby che vi piace

Gianluca Gnecchi di Brescia è arbitro internazionale. Ha arbitrato la finale scudetto Petrarca v Rovigo. Storicamente un osso.

Gli arbitri internazionali chiamati da anni ad applicare regolamenti a mio parere (ma è solo il mio parere...) cervellotici, se la cavano sempre “facendo la partita” come viene loro indicato: lo spettacolo. Direttori di gioco, non arbitri. Nel derby scudetto mi è parso che Gnecchi, stando nelle regole, abbia invece assecondato la scelta delle squadre di esprimere il loro gioco.

Alla fine: contesa ruvida, aspra ma nessun cartellino; mai ricorso al TMO; nessuna litania del “giocala! giocala!”. Insomma: “Fate il rugby che vi piace”. Un rugby da derby. Bello no. Genuino. Bentornato Rugby. Gnecchi, il migliore in campo. (L. Rav.)

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...e rimasero

Tanti tentativi, nel corso della storia, per dare al campionato italiano una formula adatta alle nostre forze e al nostro territorio. Dal 2024 vi prenderanno parte otto squadre. Sarà la volta buona?

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in otto

di Luciano Ravagnani

A sinistra, Roma v Amatori Milano, sfida principe degli anni Trenta. Il campionato (Divisione Nazionale ) è quello del 1936/37 e si gioca al campo Testaccio, l’11 aprile del ‘37. Aurelio Cazzini cerca il break fra i romani Raffo, Di Bello (sin) e Gastone De Angelis.

Il prossimo TOP10 del nostro rugby sarà un… TOP9. Così ha deciso il 29 aprile scorso (anche se il comunicato stampa riporta il 29 maggio) il governo del nostro rugby alla presa d’atto della rinuncia del Calvisano, che dovrebbe ripartire da una serie inferiore. Non è tutto. Il “governo” ha deciso altresì che dalla stagione 2024-25 il nostro livello “TOP” sarà di 8 squadre, nella sua “formula definitiva”.

Un campionato di vertice del nostro movimento rugbistico a otto squadre è sconosciuto dal 1946-47, cioè dalla ripresa dopo la seconda Guerra Mondiale, quando i tesserati alla rinata FIR non arrivavano a 2000.

Il modello di campionato è quello francese, unico in Europa, ma la “campionite” mutuata dal calcio è la competizione già entrata nel costume dell’agonismo sportivo. Nei paesi britannici l’attività è libera e talmente in contrasto con quella francese (che viene già definita “il vulcano della domenica”), che nei primi Anni Trenta la Francia viene scacciata dal Cinque Nazioni e per rientrare dovrà attendere il Dopoguerra.

Un momento dello spareggio Ambrosiana v Lazio (calzoncini bianchi), a Bologna, nel 1929, vinto dalla squadra di Milano 3-0. Il portatore di palla è sostenuto da Raffo e ostacolato da Bauman. Con il caschetto, a sinistra, Giuseppe Sessa. L’arbitro era il francese Henri Lahitte.

Per trovare un numero così esiguo di club partecipanti è necessario tornare alle origini del campionato (1928-29): due gironi di tre squadre con play off vinto dall’Ambrosiana Milano. Città coinvolte: Roma, Milano, Torino, Bologna, Brescia, Padova. Per regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, Lazio. È qui che è nato il nostro campionato.

Già dal campionato successivo le squadre sono 13, più che raddoppiate. Quattro gironi, play off vinti dall’Amatori Milano, club dominatore fino a metà secolo.

Sui nostri campi si va avanti con il dominio di Milano e Roma (rispettivamente 13 scudetti contro 2 fino alla sospensione a causa della Guerra). In questo periodo (stagione 1932-33) si stabilisce un record che batterà il nostro TOP8 previsto per il 2024-25. Accade, infatti, che al via si presentino soltanto 7 squadre, quattro delle quali “targate” GUF, universitari fascisti: tre di queste ultime, Napoli, Padova e Genova, si ritirano per partecipare ai Littoriali, le “olimpiadi” del regime.

È il periodo della “Federazione Italiana Palla Ovale”, in cui il rugby sa troppo di inglese e viene osteggiato.

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Faema Treviso, campione d’Italia nel 1956, il primo scudetto conquistato dalla formazione della Marca. Da sinistra, in piedi: Feletto, Levorato, Panizon, Peron I, Mestriner, Fantin, Frelich, Milani; accosciati: Carniato, Zucchello, Pavin, Sartorato, Baldan, Foglia I, Biggi II.

Un campionato così malridotto non si ripeterà. Superata la crisi, tornata la FIR, il rugby va avanti con dignità, sempre sull’asse Milano-Roma e con le solite Torino, Bologna, Genova, Padova. Nel 1935 appaiono Palermo e Catania e un anno dopo Parma e Trieste. Quasi tutte scomparse dalla storia moderna del nostro rugby.

Dopo l’interruzione per la guerra (“saltano” due campionati), si riprende a gironi, con play off tra sud e nord. Nel 1946 vince l’Amatori, nel 1947 la Ginnastica Torino. Si torna al girone unico. Serie A, 10 squadre. La ripresa è stata faticosa. In sei anni la FIR ha avuto 5 presidenti, un commissario, due reggenti. La Roma è la più pronta ad affrontare il girone unico a dieci squadre e per due volte (1948 e 1949) vince lo scudetto.

È la Roma di Paolo Rosi che trova nel Rovigo l’avversario più tenace, ma porta anche un rugby di sostanza non privo di fantasia e di un certo raziocinio derivante da tecnici sudafricani. La Roma, comunque, dovrà attendere fino al 2000 per vincere un nuovo scudetto, contro l’Aquila.

Nel Dopoguerra, infatti, c’è la grande novità delle “provinciali”, alcune (Parma, Rovigo) già affacciatesi prima dell’interruzione. Fatto è che, dopo il bis della Roma, tocca al Parma, quindi al poker del Rovigo (1951-1954), poi ancora a Parma e quindi (1956) alla prima squadra sponsorizzata d’Italia: Faema Treviso.

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A questo punto (non ricordo un motivo specifico), la FIR, che ha per presidente il romano Mauro Lais, decide di mutare formula, allargando il campionato a dismisura: si comincia con 4 gironi di 7 squadre con play off finali. La qualità generale ovviamente diminuisce e comincia la “striscia” delle Fiamme Oro, la squadra della polizia che è di stanza a Padova e arruola un po’ il meglio da tutta Italia. Ne esce una sorta di “semiprofessionismo in stellette”: già troppo per il dilettantismo anche delle migliori provinciali. Le “Fiamme” fanno il loro esordio nel 1957, non arrivano ai play off (vince il Parma sul Cus Torino), ma paiono pronte per gli anni successivi. Dal 1958 al 1961 infatti fanno un poker di scudetti superando, nelle rispettive finali, il Milano e L’Aquila e, in due mini gironi finali, Rovigo e Treviso. Esperienza deludente questi mega-campionati? Forse. Fatto è che dal 1962 (presidente il livornese Carlo Montano) si torna al girone unico, ora Eccellenza, a 12 squadre. Durerà 20 anni, riempiti da 7 scudetti del Petrarca, 5 del Rovigo, 3 de L’Aquila, 2 della Partenope Napoli, uno di Fiamme Oro, Brescia e Treviso. Poi, un periodo interlocutorio a due gironi e play off fino al 1987 (predominio Petrarca, 4 titoli), quindi la grande svolta della gestione Mondelli: formule varie ma play off finali in campo neutro. Non pochi contestano, ma una finale Benetton v Rovigo, al Flaminio di Roma, accontenta un po’ tutti (Rovigo che vince,

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Tito Lupini (a sinistra) e Guido Rossi, avversari in prima linea nella finale Rovigo v Treviso, a Bologna, nel 1989.

soprattutto, compresi i viaggiatori del “treno rossoblù”), anche i perdenti trevigiani decisi difensori della nuova formula.

Ovviamente il campionato incide sugli orientamenti tecnici. Adesso importante è arrivare ai play off. Il girone unico costringe a vincere più che si può, ora basta vincere il tanto che qualifica per le partite decisive. Poi, comunque, la parte finale si infiamma e con la sfida fra Rovigo e Benetton, giocata a Bologna l’anno successivo, la formula trova il via libera definitivo.

Il match di Bologna, vinto dal Benetton 20-9, risulta qualcosa di epico; un inatteso ritorno con la memoria allo spareggio Petrarca v Rovigo (Udine 1977), preceduto dai 18mila dell’Appiani per un altro decisivo Petrarca v Rovigo. I dati, non ufficiali, della finale di Bologna danno 17mila spettatori al Dall’Ara (15.200 paganti). Da Rovigo un vero e proprio esodo. Ma tutti i play off del 1989 sono stati un successo. Trovo annotati in una vecchia agenda i biglietti venduti a borderò (cioè ufficiali) per le varie partite: Quarti: Benetton v Parma, 1.038 paganti a Monigo; 350 a Parma; Rovigo v Petrarca, 3.120 al Battaglini,

2.970 a Padova; Mediolanum v Catania, 192 al Giuriati, ingresso gratuito a Catania; Scavolini v San Donà, 1.580 all’Aquila, 410 a San Donà. Semifinali: Benetton v Scavolini, 2424 a Treviso, 1.740 all’Aquila, spareggio a Treviso, 2.942 paganti. Mediolanum v Rovigo, 732 a Milano, 3.459 a Rovigo. Cifre non straordinarie in assoluto, comunque significative. Quasi 24 mila paganti tra semifinali (spareggio escluso) e finale, nel “nostro piccolo” non sono trascurabili. Tanto meno di questi tempi, nel 2023, nei quali regge fortunatamente il binomio PadovaRovigo (cosa resterebbe al nostro rugby senza il derby veneto in fatto di pubblico e incassi?). Il Monigo a volte pieno per il Benetton? Certo, è un fatto. Ma il Benetton è largamente competitivo e ha più o meno la consistenza (a volte superiore) della Nazionale di Crowley. I trevigiani capiscono e, quando è il caso, affollano il loro stadio. I 2.942 paganti per lo spareggio con L’Aquila nel 1989 non sfigurano con le tribune ricolme di una partita di cartello dell’URC attuale. Dal 1988 i play off finali non sono stati più messi in discussione, anche se la formula finale è stata più volte ritoccata ed è mutato anche il numero dei club nel -

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Carlo Caione capitano della Rugby Roma premiato al termine della finale del 2000. A destra il presidente della formazione romana, Renato Speziali.

la prima fase. Variazioni anche per la finalissima (dal campo neutro, 1988-2010, al campo della migliore qualificata nella regular season, fino all’attuale ritorno al neutro). Conclusa nel 1992 a Padova la rivalità veneta con un Treviso v Rovigo da 10mila spettatori, gli incassi al botteghino sono andati decrescendo fino al balzo del 2000, con la finale Roma-L’Aquila al Flaminio (stimati 15.600 spettatori). L’arrivo delle franchigie nel 2010 ha tolto di mezzo il tifo trevigiano e frenato quello di Viadana che cresceva bene. La finalissima dal 2011 al 2022, caratterizzata da ripetuti scontri Calvisano-Rovigo, ha avuto presenze padovane o rodigine 10 volte su 12 ma ha sempre viaggiato tra Calvisano e il Veneto, con due sconfinamenti nella sorprendente Prato.

Poco, troppo poco per le esigenze di crescita del nostro rugby. Territorio poco esteso, abitanti pochi, esplosione di altri sport (il volley femminile di Conegliano fa 5.000 a partita al Palaverde di Villorba), il triangolo Veneto-Emilia-Lombardia “disturbato” dal -

le franchigie che sono agli ultimi posti per spettatori nel nuovo URC e - a mio parere - sono più un freno che uno stimolo.

Otto squadre dal prossimo anno su che basi opereranno? Ci saranno incentivi? Praticamente il totale dei loro budget (ma c’è chi li definisce e li controlla?) sarà pari a un club medio del Pro2 francese. Apprendo che il comitato delle Landes (Mont de Marsan) in Francia conta 8 mila tesserati su 450 mila abitanti, l’equivalente sarebbe 24.000 per la sola provincia di Brescia, che è fra le più sportive d’Italia. Un sogno. TOP a parte, presidiare il territorio più fertile appare più che mai l’unica soluzione. E quindi, sperare.

Otto squadre (una stagione regolare da 14 giornate, solo 3 mesi e mezzo di campionato!) potrebbe essere la formula buona. Dal 1948, cioè in 75 anni, sul campionato italiano di vertice i vari Consigli federali ci hanno messo le mani, variando numeri e formule, ben 28 volte. Tutte documentate. Come diceva Nino Manfredi? “Fusse ca fusse la vorta bbona…”.

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Craig Green attacca palla in mano in Benetton v L’Aquila dei primissimi anni Novanta. Si riconoscono, da sinistra: Stefano Bettarello, Fulvio Di Carlo, Stefano Rigo e Massimo Mascioletti.
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INFINITO SERGIO

Davanti a un pubblico di universitari, a Princeton, Alì creò la più breve poesia della letteratura americana: “Io, voi”. Davanti a un gruppo di eccitati giornalisti, a Firenze, dopo il test contro il Sudafrica, Sergio Parisse fece ancora meglio: quel “Sì” alla domanda “è stata la più grande vittoria del rugby italiano?” risultò come la più sintetica e appassionata delle interviste. Sergio aveva il volto fermo e gli occhi frementi. In quella vittoria vedeva il riscatto di un bilancio numerico in rosso, di sconfitte onorevoli o meno, di una vita pericolosa, a volte feroce, di parole mai vuote. “Nessuno credeva in noi, nelle nostre chances”, disse a Edimburgo, dopo il secondo successo che a quel tempo era anche il secondo esterno nella storia del nostro secolo breve nel 6 Nazioni. E quando parla, a Sergio si spiana un sorriso che è buono e astuto, dolce e sulfureo. Giunti nel “cortile dell’addio”, è possibile azionare il migliore degli strumenti non scientifici a disposizione, il caleidoscopio: piccoli sassi colorati che si mischiano a immagini della nostra coscienza, della sua coscienza di quarantenne e che, tutti assieme, formano il corpus del ricordo, della memoria, dei giorni che abbiamo vissuto grazie a lui, perfetto modello per Prassitele, per Lisippo, e capace, stagione dopo stagione, di progredire in dialettica, in analisi, di essere master and commander, di saper scuotere i suoi uomini con una gran bestemmia all’uscita dello spogliatoio di St Denis (riportata senza reticenze sull’Equipe e conservata, in piccolo ritaglio, nel portafoglio di chi sta stendendo questi minuti “memoires”), di voler deliziare con numeri di alta scuola quando da quell’Ercole ci si poteva aspettare soltanto forza, abnegazione, sacrificio, lotta.

E così Parisse ha inventato la “parissina”, il passaggio rapido dietro la schiena, ha provato la magia del drop che avrebbe provocato un sussulto tellurico allo Stade de France, ha affinato, anno dopo anno, quelli che oggi vengono definiti skills, sino a pareggiare in bravura un’apertura, un mediano di mischia: un calcetto per servire l’ala che deve solo raccogliere e depositare

oltre la linea. Al Mayol il Benetton l’ha provato subito, sulla sua pelle.

Kalòs kay agathòs, bello e buono, secondo l’estetica coltivata dagli scultori prima menzionati, e sintesi di una personalità a più dimensioni: la nascita argentina che ha lasciato tracce nelle sue cadenze verbali, il radicamento nella terra del padre (che il destino ha strappato di recente), la lunga avventura, durata diciotto stagioni, nel campionato più ispido del mondo, gli anni in cui è capitato di vederlo scendere in campo con una maglia coperta di lilium, perfetti per ricoprire una poltrona del Secondo Impero, al tempo delle Folies ovali inventate da Max Guazzini. In questa parentesi ha rivelato, anno dopo anno, scontro dopo scontro, l’aspetto di un Conan senza la fisionomia deturpata dall’aggressività.

Sergio è stato un Sansone alla rovescia: quando, ancora giovanissimo, sono caduti anche gli ultimi ciuffi e la sua testa è diventata uno specchio, la sua forza, il suo impatto sono aumentati, sino a scuotere le colonne dei templi avversari. E così, in questo viaggio che non ha una direzione precisa, capita di ritrovarlo con un’espressione ancora ingenua, a Canberra 2003: aveva vent’anni e John Kirwan l’aveva fatto esordire un anno prima contro gli All Blacks. Un predestinato che non ha tradito, che non si è perso per strada, che ne ha percorso tanta da portarlo da La Plata a Treviso, a Parigi e ora in riva al Mediterraneo, a Tolone, dove si rivelò la giovanile genialità di un altro predestinato, Napoleone Bonaparte.

Il rugby degli omaggi, del tempo di regali, dello World XV contro gli Amici di Sergio, Barbarians per un giorno, è finito per sempre. Non c’è più tempo, non c’è più un giorno libero, forse, è triste dirlo, non c’è più interesse per questi pomeriggi deliziosamente cruenti.

Dare a Sergio il sesto mondiale, scrivere l’alfa e l‘omega offrendogli un posto contro i Neri del mondo dabbasso è quanto merita. Il numero 8 tracciato orizzontalmente significa infinito.

Sergio Parisse chiude una carriera che avrebbe meritato - merita - il sesto Mondiale.
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di Giorgio Cimbrico
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CUORE DI CAMPIONE

“Non sottovalutare il cuore di un campione”. Rudy Tomjanovich, allenatore degli Houston Rockets, lo disse a proposito di Hakeem Olajuvon dopo la vittoria della sua squadra nell’NBA. Ma la frase sembra inventata per Sergio Parisse che, a quasi quarant’anni, a Dublino ha dimostrato ancora una volta le sue qualità e le sue ambizioni.

“Papà, gioco titolare!”. La voce di Sergio, arrivò a casa Parisse, a Buenos Aires, nel cuore della notte argentina. Erano i primi di giugno del 2002. Dall’altra parte della cornetta, Sergio senior, che di rugby qualcosa sapeva, avendo vinto lo scudetto con la maglia de L’Aquila una trentina di anni prima, non poté far altro che balbettare: “ma Kirwan è impazzito…!?”. Mai entusiasmi troppo facili da parte del padre per il giovane figliolo.

Cominciava così, a Hamilton, in Nuova Zelanda, la carriera internazionale di Sergio Parisse, allora diciottenne, una promessa assoluta del rugby italiano.

Una promessa mantenuta, al punto che molti sognavano di vederlo concludere la sua spettacolare avventura di giocatore, il prossimo 29 settembre a Lione, al Mondiale.

Il cerchio da chiudere

Un cerchio perfetto, da chiudere ventun anni dopo l’esordio, nel modo più spettacolare: di nuovo di fronte agli All Blacks, i quali, chissà, magari, prima del fischio d’inizio all’OL Stadium, gli avrebbero riservato un’haka speciale.

Sergio alla sua sesta Coppa del Mondo, un record forse ineguagliabile perché di carriere così lunghe, a livello internazionale, andando avanti ce ne saranno sempre meno.

Alt, stop, basta fantasticare, si torna alla realtà più amara. Sergio senior se n’è andato pochi mesi fa, gli è stata risparmiata questa polemica stucchevole. Se fosse ancora tra noi forse, oggi come allora, si domanderebbe se qualcuno è impazzito quaggiù: Parisse nemmeno convocato per il primo raduno estivo dell’Italia. Ci sono ben 46 giocatori, praticamente tutti, fuorché l’ex capitano. “Io controllo solo quello che è che nelle mie possibilità” - dice Sergio-. “Quest’anno, tra coppa e Top14, ho giocato più di 1.200 minuti, venti partite, almeno quindici da titolare. Credo di aver parlato con i fatti, di aver dimostrato quello che posso fare. Da 22 anni, ho una media di 23 partite per stagione e, a quasi 40 anni, finirò ancora una volta molto vicino a quei numeri. Ho vinto la Challenge Cup con il Tolone, giocando per 71 minuti e segnando una meta”.

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Sergio Parisse, 142 presenze in maglia azzurra, 94 da capitano, compirà 40 anni il prossimo 12 settembre. Nella foto piccola, a Hamiton, nel giugno 2002, il giorno dell’esordio in Nazionale, con il caschetto giallo di fronte a Jonah Lomu.
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“Ho imparato dalle sconfitte, dai fallimenti, voi tutti sapete quante ne abbiamo subite con la maglia dell’Italia. Ma, per me personalmente, la determinazione non è mai venuta meno. Mi sono convinto che niente è impossibile, che ogni passo falso puoi tramutarlo nella base per una vittoria... Quando ho detto, e l’ho ripetuto più volte, che sarei stato disponibile per un altro Mondiale è perché conosco bene il mio fisico e la mia testa. E sapevo di poter affrontare una sfida così”.

In trionfo a Dublino, lo scorso 19 maggio, in maglia del Tolone, con la Challenge Cup. Sotto, a Canberra, Rwc 2003, placcato, Sergio riuscirà comunque a schiacciare in meta, la sua prima con la maglia dell’Italia.

E allora?

“Allora non ho altro da dire. Penso che la cosa sia difficile da spiegare, a maggior ragione fuori dall’Italia. A volte ci incagliamo in questioni piccole che non fanno bene alla nostra immagine e a quello che siamo. E non parlo di me, quello che ho fatto nella mia carriera è sotto gli occhi di tutti. Sono in pace con me stesso, ho il supporto degli amici, di una bella famiglia. Ho passato momenti difficili, infortuni, ne sono sempre venuto fuori. C’era una opportunità unica, secondo me irripetibile.”.

Cinque Mondiali alle spalle, il primo a meno di vent’anni. Prova a mettere in fila un flash per ogni edizione.

“Quello del 2003 è la meta al Canada, la mia prima in Nazionale. Del 2007 non posso non ricordare l’amarezza della sconfitta contro la Scozia a St-Étienne, quella qualificazione ai quarti svanita per un soffio

nel finale. Del 2015 in Nuova Zelanda, nonostante le due vittorie con Usa e Russia, prevale il rammarico della partita con l’Irlanda a Dunedin, avevamo perso per un drop all’ultimo minuto nel Sei Nazioni ed eravamo convinti di poter fare di più. Il 2015 è stato il mio Mondiale più frustrante, mi ero infortunato a un polpaccio nell’ultimo match di preparazione a Cardiff contro il Galles, e in tutta la Coppa del Mondo riuscii a disputare solo un’ora contro l’Irlanda. E del 2019, in Giappone, resta la memoria di torneo che salutammo chiusi in albergo, senza poter giocare con gli All Blacks, per il tifone”.

Mai arrendersi

A settembre compirai 40 anni, la domanda sorge inevitabile: perché insistere, dopo tutto quello che hai dato e avuto? In uno sport nel quale c’è gente che a trent’anni getta la spugna perché il fisico e la testa non reggono più la pressione.

“La spinta è quella di un’enorme passione, forse la mia è addirittura un’ossessione. Ma per alimentarla ci vuole una grande forza mentale. La mia è d’acciaio. Anzi, posso dire che è molto più forte la mia testa del mio fisico. Perché se non ci fosse stata una volontà così forte a guidare le mie azioni, il fisico non avrebbe potuto sopportare il peso delle partite, degli allenamenti, del lavoro duro quotidiano”.

Ma qual è la ricetta che ti ha permesso di conservare questa forza all’infinito, o quasi?

“Negli anni ho imparato a non arrendermi mai. E ho capito quanto questo sia importante guardando gente come Michael Jordan, o Kobe Bryant, la loro volontà quando avevano un’età molto vicina alla mia di adesso. Ho imparato dalle sconfitte, dai fallimenti, voi tutti sapete quante ne abbiamo subite con la maglia dell’Italia. Ma, per me personalmente, la determinazione non è mai venuta meno. Mi sono convinto che niente è impossibile, che ogni passo falso puoi tramutarlo nella base per una vittoria. Poi, certo ci vogliono impegno, disciplina, devi imparare ad alimentarti bene, a riposare quello che serve, a gestire i carichi di lavoro, devi vivere in un ambiente sereno e mettere le cose nella giusta prospettiva. Accettare le critiche utili e ignorare la spazzatura, quella che a volte imperversa sui social e avvelena i rapporti tra le persone. Quando ho detto, e l’ho ripetuto più volte, che sarei stato disponibile per un altro Mondiale è perché conosco bene il mio fisico e la mia testa. E sapevo di poter affrontare una sfida così”.

Compresi i lunghi mesi di avvicinamento, i raduni di gruppo, lontano da casa, roba che nemmeno molti giovani a volte riescono ad assorbire?

“Se avessi avuto dei dubbi, se non ci avessi creduto fino in fondo, se avessi pensato di non poter reggere una preparazione con la squadra, tutti insieme, avrei detto da tempo che la mia carriera si chiudeva con la fine di questa stagione di club. Di soddisfazioni ne ho avute abbastanza, ho giocato a livello internazionale

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per vent’anni. Ho una famiglia che mi sta vicino, Non avevo bisogno di riconoscimenti ulteriori, ma volevo dare il mio contributo all’Italia un’altra volta ancora”.

Prestigio per tutta l’Italia

Molti hanno pensato e detto: ecco, Parisse voleva la sua personale passerella d’addio.

“Su questo voglio essere molto chiaro: ho giocato più di 140 partite con la maglia azzurra, sono stato capitano per più di dieci anni, ma non volevo premi “alla carriera”, né riconoscimenti “alla memoria”. Sono un giocatore di quasi quarant’anni, sì, ma fino a pochi giorni fa sono stato in piena attività, ho giocato più di settanta minuti in finale a Dublino. Pensavo di essermi meritato una chiamata per quello che potevo ancora dare in campo, non solo per quello che sono stato. Mi sono anche detto che sarebbe stato pazzesco se fosse rimasto inciso nella storia che l’unico ad aver raggiunto il traguardo dei sei mondiali era stato un italiano: attenzione, non Sergio Parisse, ma un Azzurro. Sarebbe stato un

momento di prestigio per tutto il rugby italiano, che avrebbe regalato al nostro paese un traguardo storico nello sport mondiale”.

All’Aviva Stadium hai festeggiato con la bandiera tricolore, la stessa con la quale facesti il giro del campo dopo la conquista del Bouclier de Brennus del 2015.

“Tutti sanno quanto sia attaccato all’Italia e quanto significasse per me indossare la maglia azzurra… è stato un modo di dire grazie e salutare tutti i tifosi italiani presenti allo stadio e quelli che hanno visto la partita da casa”.

Forse qualcuno considerava la tua presenta un po’ ingombrante sul piano psicologico, in una squadra di ragazzi giovani.

“Io la penso diversamente, penso all’entusiasmo che ho visto nei ragazzi del Treviso quando siamo stati avversari qualche settimana fa nella semifinale che abbiamo vinto 23-0. Alle cose che mi hanno detto dopo la partita, al fatto che mi vedevano giocare, ahimè, quando loro erano ragazzini e io già un atleta affermato e maturo. Ho visto nei loro occhi entusiasmo e ammirazione e penso agli stimoli, all’esperienza e alla passione che avrei potuto trasmettere loro nei mesi della preparazione alla Coppa del Mondo. Credo sia peccato privare questo gruppo di un apporto così. Forse il peso era troppo grande per lo staff? Non lo so…”.

Un caffè amaro

Ti sei dato una spiegazione onesta del perché non ti hanno voluto chiamare? Sappiamo che Crowley è venuto a Tolone e ha parlato di scelta tecnica nella sua decisione.

“Cominciamo col dire che un paio di mesi fa ero

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“Pensavo di essermi meritato una chiamata per quello che potevo ancora dare in campo, non solo per quello che sono stato. Mi sono anche detto che sarebbe stato pazzesco se fosse rimasto inciso nella storia che l’unico ad aver raggiunto il traguardo dei sei mondiali era stato un italiano: attenzione, non Sergio Parisse, ma un Azzurro. Sarebbe stato un momento di prestigio per tutto il rugby italiano, che avrebbe regalato al nostro paese un traguardo storico nello sport mondiale”.

stato io ad andare a Roma, dove avevo un appuntamento con il presidente e con il ct. Il mio volo purtroppo partì dalla Francia con un ora di ritardo e quando sono arrivato in Federazione, Crowley era già andato via.. senza lasciarmi né un messaggio, né farmi una telefonata. Sono anche rimasto sorpreso che l’allenatore dell’Italia fosse l’unico assente in tribuna allo Stadio Mayol, dove il Benetton, che lui aveva allenato per anni e che schierava non meno di due terzi dell’attuale Nazionale, celebrava un traguardo storico, la prima volta di una squadra italiana in una semifinale di coppa Europa. Dico, almeno per l’entusiasmo creato dall’avvenimento… Poi quando è venuto a Tolone, la settimana successiva, abbiamo pranzato insieme, abbiamo parlato di rugby, dell’Italia e, alla fine di un pranzo durato tre ore, arrivati al caffè, mi ha detto che non mi avrebbe chiamato. Ho chiesto spiegazioni, pensavo a delle motivazioni legate all’equilibrio del gruppo etc, invece sono rimasto perplesso dalle sue valutazioni tecniche”.

Di che tipo?

“Ha detto che non contesto abbastanza palloni sui punti d’incontro, che non sono sufficientemente rapido nella pulizia delle ruck, che a volte placco troppo alto.…”.

E tu come l’hai presa?

“Devo rispondere onestamente? Come uno scherzo mal riuscito. Sono il primo a essere critico con il mio gioco e credo che tutti sappiano quali erano, e quali sono, i miei punti di forza e non’’.

Pensi pertanto che ci sia qualcos’altro, che questa partita si sia giocata altrove?

“Penso semplicemente che le spiegazioni che mi sono state date siano risibili. È come se uno fosse andato a dire a Richie McCaw che non era bravo a saltare in touche o che il suo passaggio a sinistra non era proprio perfetto…Direi che la sua classe, il

Al centro del gruppo di Azzurri durante un alllenamento, in versione leader. Da sinistra, Negri, Campagnaro, Ghiraldini, Lovotti, Sisi, Padovani, Tuivaiti, Steyn, Tebaldi (con la borraccia), Castello e Zanon ascoltano concentrati.

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suo carisma e le sue qualità tecniche si esprimevano altrove”.

Forse è mancata da parte dei vertici la capacità di mediazione.

“Per quanto riguarda la Federazione, prendo atto che non ha voluto intervenire, sottostimando l’importanza che avrebbe avuto la mia presenza a 360°: un forte impatto su un gruppo cosi giovane, una maggiore scelta nel reparto delle terze linee per diversità tecnica, infine, certo, anche per l’interesse mediatico di cui il nostro paese avrebbe goduto, ancora di più nel caso che la Fir voglia un giorno portare il Mondiale in Italia. Il nostro Paese non ha una cultura rugbistica profonda, non ha il rugby nel DNA come c’è altrove, non ancora almeno, ed è veramente un peccato che tutti questi aspetti siano stati ignorati; per come la vedo io, si dovrebbe lavorare a tutto tondo per cercare di dare più forza possibile al nostro movimento, valutando e sfruttando ogni singola occasione: bisogna saper vedere lontano, a lungo termine occorrono pianificazione e organizzazione! Invece ho la sensazione che tante cose vengano lasciate al caso… cosi, in balia degli eventi, incrociando le dita e sperando che tutto vada bene

per poter dire: è andata! E accettando, quando le cose non vanno come avremmo voluto, di trovare una scusa mediocre: che l’Italia è ancora indietro e ci vuole tempo”.

Il rugby oggi

Ma in questo rugby, così fisico, a volte così brutale , c’è ancora posto per giocatori come Sergio Parisse? “Per tanti aspetti è vero, questo non è più il mio rugby. Nella mia carriera ho sempre cercato di privilegiare il gesto tecnico, la fantasia. Oggi prevalgono i numeri, i dati dei Gps: se sui 30 metri non stai sotto un certo tempo, per dire, gli allenatori allargano le braccia e non ti prendono in considerazione. La paura di sbagliare induce a preferire un avanzamento sicuro, ancorché minimo, invece che invogliare alla ricerca dello spazio. Ne consegue un gioco più

A sinistra: l’urlo dopo la vittoria a Edimburgo nel 2015 contro la Scozia. Nelle due foto: a fianco un break, sempre contro gli scozzesi, a Roma nel 2016 con Giazzon, Minto e Castrogiovanni in sostegno e, sotto, ancora nel 2015, un off load da manuale, con Furno alle spalle.

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povero, più basico, nel quale devi anche avere delle abilità tecniche, è ovvio, ma se non hai il fisico c’è poco da fare. Certo io non sono mai stato piccolo, ma ho sempre preferito cercare di aggirare gli ostacoli piuttosto che andarmi a schiantare. E credo che nell’Italia di questo ultimo anno avrei potuto dare un contributo non banale con il mio tipo di gioco”.

Ecco, che idea ti sei fatto di questa Nazionale che, nell’ultimo Sei Nazioni, sembra tornata ad appassionare i tifosi, offrendo anche belle emozioni, salvo mancare ancora una volta in quello che nello sport professionistico è l’unico vero parametro della prestazione: il risultato.

“E’ una squadra che mi ha sorpreso piacevolmente per l’accuratezza dei gesti, per la capacità di esecuzione che, in questi ultimi tempi, è stata sicuramente superiore rispetto al passato. I movimenti sono più fluidi e abbiamo visto anche delle belle mete come quella di Bruno a Samoa (la prima delle due dell’ala delle Zebre, ndr), con un’azione a tutto campo par-

tita dai nostri ventidue. Però è ovvio che devi anche trovare un equilibrio tra attacco e capacità di controllare il gioco perché non tutti gli avversari ti concedono gli spazi dei samoani”.

Qual è la differenza più grande, secondo te, rispetto alle prestazioni di una decina di anni fa?

“La squadra non crolla, regge il confronto fino alla fine, anche se spesso fatica a entrare in partita, concedendo un vantaggio che poi è difficile recuperare. Sicuramente, rispetto a una volta c’è meno enfasi sul gioco degli avanti, sulla mischia, sui drive, che sono fasi che assorbono molte energie e questa probabilmente è una delle ragioni per cui una volta pagavamo tanto nel finale. Avevamo anche molta meno fluidità nei movimenti, adesso probabilmente c’è più equilibrio fra i reparti, anche se in alcuni momenti forse servirebbe trovarlo anche nel gioco, alternando le scelte. Non abbiamo ancora una mischia dominante come un tempo, ma in prima linea ci sono piloni molto giovani che, sono certo, con il

Contro il Sudafrica, alla Coppa del Mondo 2019, l’ultima di Sergio in maglia azzurra, inseguito da Lood de Jager, con Polledri al fianco. Gli altri Azzurri, sono, da sinistra: Morisi, Budd, Quaglio e Tebaldi. A destra, ieri e oggi: nel 2019, a Roma, contro la Francia, ultima partita all’Olimpico, con (da sinistra), Negri, Ferrari, Traorè e Ruzza; nel riquadro, selfie con la moglie Silvia, sul prato dell’Aviva Stadium dopo la conquista della Challenge Cup.

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tempo cresceranno ancora e domineranno ancora di più di una volta”.

Confronto fra epoche

Qualcuno pensa che questa possa diventare la Nazionale più forte di tutti i tempi.

“Non mi piacciono i confronti fra epoche diverse e penso che tante volte ci sia troppa fretta nei giudizi. Abbiamo la tendenza a esaltare e a criticare senza mettere i fatti nella giusta luce. Questa Nazionale nell’ultimo anno ha fatto cose buone e altre molto meno buone: si é vinto in Galles, ma poi abbiamo rischiato di perdere in Portogallo e abbiamo perso in Georgia… si sono battute Samoa e l’Australia, ma in questo ultimo Sei Nazioni, nonostante prestazioni incoraggianti, non siamo purtroppo riusciti a portare a casa la vittoria. E io più di tutti so cosa vuol dire finire un torneo con buone sensazioni… e il cucchiaio di legno nella bacheca. E so quante volte abbiamo pensato di essere a un passo dalla svolta, o vicini a un grande risultato, salvo ritrovarci la volta dopo ancora daccapo. In ogni caso sono convinto che questa squadra può crescere molto, perché ci sono ragazzi tecnicamente molto bravi e sono molto giovani”.

E allora, visto che si parla di risultati, dacci il tuo pronostico sulla Coppa del Mondo, che tu ci sia o meno.

“In questo momento tutti dicono Irlanda e Francia, che sulla carta sono le due squadre migliori. Ma puoi escludere la Nuova Zelanda? Se gli All Blacks dovessero vincere la partita di esordio contro la Francia, anche dal punto di vista emotivo cambierebbe tutto per loro. In ogni modo, vorrei fosse chiara una cosa, con o senza di me, auguro a questo gruppo di fare un grandissimo mondiale, e dico sempre: forza Italia!”.

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“E io più di tutti so cosa vuol dire finire un torneo con buone sensazioni… e il cucchiaio di legno nella bacheca. E so quante volte abbiamo pensato di essere a un passo dalla svolta, o vicini a un grande risultato, salvo ritrovarci la volta dopo ancora daccapo.”

PARERI

Giampiero De Carli

(staff Italia 2014-2021, 32 cap)

Io penso che Sergio andrebbe convocato non solo perché lo merita per come sta giocando (l’età conta relativamente), lo merita per la sua carriera e lo merita anche l’Italia per aver avuto nella sua squadra, per più di vent’anni, un giocatore di queste qualità. Parisse non è solo un grande esempio di professionismo nel rugby, è un’icona dello sport mondiale. Quindi io non ho alcun dubbio che bisognerebbe trovargli spazio nel gruppo. Non sarebbe assolutamente un regalo ma una chiamata del tutto meritata. Parliamo di un giocatore dalla tecnica eccezionale, con pochi eguali dalle nostre parti, e di grande fisicità, usata però con intelligenza, soprattutto per muovere il pallone. La sua caratteristica principale non è quella di combattere sui punti di incontro o di placcare come un ossesso, ma il suo apporto per me è comunque sempre molto positivo, anche se ovviamente a 40 anni è diverso da quando ne aveva 25 o 30. E resta un ottimo conoscitore della touche. Negli anni in cui io sono stato l’allenatore degli avanti dell’Italia, non posso dire altro che ho sempre avuto a che fare con un grande professionista, era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Certo, parliamo di un carattere importante, con il quale però abbiamo sempre colloquiato e interagito con molta tranquillità. Il punto è che se non sai colloquiare e non hai le competenze per farlo, diventa difficile misurarti con un giocatore con quelle qualità e quell’esperienza.

Jacques Brunel

(ct Italia 2012-2016)

“Mi sembra che Parisse potrebbe aiutare la Nazionale, per la sua esperienza, per la sua capacità di stare a questo livello. È sempre stato attento alla preparazione fisica, non ha avuto grandissimi infortuni e gioca con costanza. Non dobbiamo guardare la carta d’identità ma le performance del giocatore settimana dopo settimana. Io penso che in un gruppo di una trentina di elementi dovrebbe esserci posto anche per lui”. Parole di Jacques Brunel, che ha avuto Sergio come capitano ai tempi in cui era ct azzurro. Un binomio che, dal 2012 al 2016, ha caratterizzato l’Italia decine di volte. Il tecnico francese - che ha tuttora una collaborazione in corso con il Valorugby Emilia - si sofferma anche su un altro aspetto: “Francamente non ho capito come mai non gli sia stata concessa la possibilità di giocare un’ultima partita del Sei Nazioni all’Olimpico, nel ‘suo’ stadio. Era successo con altri giocatori e, vista la sua carriera, ritengo che questa fosse una cosa da fare, già nel torneo del 2022”.

E a un altro ex capitano dell’Italrugby, Brunel dedica un ragionamento per una prospettiva a breve termine: “Il rugby italiano - dice - è in progresso: nonostante le ultime sconfitte c’è stato un avvicinamento alle altre nazioni e intanto il settore giovanile sta ottenendo risultati. Hanno fatto esperienze interessanti anche gli allenatori e penso che sia arrivato il momento di avere un ct italiano: per me è Marco Bortolami”. (G. Bag.)

Andrea De Rossi

Il caso di Sergio è senza precedenti: parliamo di un giocatore di quarant’anni, che gioca titolare in una delle squadre più forti d’Europa, disputa una finale e la vince segnando una meta. È integro, non ha infortuni…ma perché lasciare fuori un giocatore così?

E ancora non sto parlando di tutto quello che la sua presenza al Mondiale potrebbe significare fuori dal campo: la sesta presenza in una Coppa del Mondo, i riflettori che accenderebbe sull’Italia, il prestigio che ne deriverebbe per tutto il nostro movimento ovale.

Parisse è un uomo che allo stato attuale dei fatti potrebbe dare un contributo enorme, fuori e dentro il campo. Gli equilibri del gruppo? Quello azzurro è fatto di tutti ragazzi intelligenti: escludo ci possa essere qualcuno che non capirebbe l’importanza di avere in squadra una personalità così in un’avventura come quella che si va a affrontare. Sergio è una spugna che andrebbe spremuta fino all’ultima goccia per quello che rappresenta e conosce del rugby. Detto questo, io stesso sono stato allenatore, mi sono trovato a fare scelte difficili, magari in quel contesto particolare anche impopolari, quindi da un certo punto di vista posso anche capire la posizione di Crowley. Ma qui, ribadisco, siamo in presenza di una storia unica, particolare, che esce dalle valutazioni individuali. Una storia della quale andrebbe valorizzato ogni aspetto. Sergio con l’Italia in Francia il prossimo autunno? Per me assolutamente sì, senza alcuna discussione.

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(direttore sportivo Zebre 2014-2022, 34 cap)

Georges Coste

(ct Italia 1993-1999)

Georges Coste si schermisce, quando gli si chiede un’opinione sul “caso” Parisse: “Chiedi un parere a un vecchio di quasi 80 anni, da più di 20 anni lontano dalla Nazionale?”, domanda con quello che, al telefono, si può indovinare come un sorriso. Ma poi il parere arriva: “Io lo vedo come un problema interno all’Italia, allo staff azzurro. Sono i tecnici che giudicano l’utilità o la non utilità della convocazione di Sergio. E bisogna osservare che se non gioca in Nazionale da quattro anni, se non lo hanno chiamato nemmeno per l’ultimo Sei Nazioni, evidentemente hanno preso una strada, una linea di condotta ben precisa, pensando a una squadra giovane, una squadra del futuro: pertanto mi sembrerebbe logico non cambiare idea adesso”.

“Naturalmente - aggiunge - ho la massima considerazione per Parisse, che è stato fra i tre migliori numeri 8 del mondo e che ancora adesso sa proporre momenti di alto livello, insieme ad altre circostanze in cui non è più in grado di dare quello che dava cinque-sette anni fa. Vogliamo ipotizzare un suo ingresso a partita in corso al posto di Lorenzo Cannone, un suo impiego per 20-30 minuti o anche di più, nel caso in cui si pensasse che ci sono carenze a livello di terze linee centro? Questo sarebbe un problema posto da una necessità, ma allora sorgerebbe un altro problema, di “concertazione”: bisognerebbe confrontarsi con il gruppo dei giocatori, con la Federazione. Senza dubbio è una questione spinosa”.

(G. Bag.)

TECNICI

Richard Wigglesworth

(head coach Leicester Tigers 2023, 33 cap)

Un anno fa, Richard “Wiggy” Wigglesworh, a trentanove anni, fu schierato titolare con la maglia dei Tigers contro i Saracens nella finale di Premiership vinta da Leicester 15-12. Lo scorso dicembre, contro Clermont, la sua ultima partita da giocatore, essendo stato chiamato a sostituire nel club, come head coach, Steve Borthwick, diventato nel frattempo ct dell’Inghilterra. Nelle prossime settimane Wigglesworth entrerà a far parte dello staff della Nazionale inglese, in vista dei Mondiali in Francia.

Ecco il suo parere: “Il punto della questione è che Parisse vorrebbe con tutte le sue forze essere parte del Mondiale. Perché l’Italia è un gruppo molto giovane, sanno esattamente quello che stanno facendo e Sergio, per contro, qualunque sia il suo stato di forma, è sempre stato l’uomo più importante della squadra. Quindi, in linea di principio mi sentirei di appoggiare Kieran (Crowley, ndr), sopra ogni cosa per come sta sviluppando il progetto, per come sta facendo giocare i ragazzi.

L’Italia sta guardando avanti, ha voltato pagina, motivo il quale io da allenatore non chiamerei un giocatore così, a meno che non fosse lui a farsi avanti di persona e lo chiedesse con forza. In quel caso effettivamente potrei prendere la cosa in considerazione”. Che forse è proprio la situazione di cui stiamo parlando. In Inghilterra probabilmente i fatti non sono arrivati in modo così chiaro. (glb)

Marco Bortolami

(head coach Benetton, 112 cap Italia)

Il primo a pronunciarsi è stato Marco Bortolami, capo-allenatore del Benetton, il giorno dopo la sconfitta subita dalla sua squadra nella semifinale di Challenge Cup giocata sul campo del Tolone. Il XV di casa schierava al centro della terza linea Sergio Parisse, autore di una prova decisamente sopra le righe. Bortolami - ex capitano dell’Italia, con cui ha giocato in tutto 112 partite - era ospite della trasmissione sportiva di Radio 24 “Tutti convocati”, per commentare la stagione, comunque di successo, portata a termine dal team trevigiano. Domanda secca: “Marco, un Parisse così, arrivato a 40 anni, lo porteresti al Mondiale?”. Ed ecco la risposta: “Conosco Sergio da molti anni e in azzurro abbiamo giocato una vita insieme. Penso che la sua presenza avrebbe un’importanza specifica. Non dovrebbe pretendere di giocare ogni partita, ma secondo me la sua esperienza, il suo vissuto possono essere un grande valore aggiunto per ogni squadra, e soprattutto per un’Italia giovane come la nostra, che magari deve ancora completare qualche tappa verso la consistenza dell’altissimo livello. Tappe che tutto il movimento deve avere la pazienza di aspettare, anche con qualche battuta di arresto. Insomma, come tecnico (e, aggiungo, anche come amico di Sergio) io lo porterei alla Coppa del Mondo”. (G. Bag.)

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PARERI

Giorgio Cimbrico Valerio Vecchiarelli Luciano Ravagnani

I record guadagnano spazio in queste cronache superficiali del nostro tempo contrappuntate dall’aggettivo “storico”. E così nella categoria rientrerebbe la sesta Coppa del Mondo di Sergio Parisse. Sei alla decima edizione, nell’anno che segna il quarantesimo compleanno del capitano e il 200° della nascita del gioco. Così, almeno dicono mito e storia. Nel suo caso, il mito non c’entra. Ma qui non si tratta di celebrazioni, di opportunità offerte per una gratitudine che deve esser nutrita per chi ha allineato 142 presenze o caps che dir si voglia. Qui in ballo c’è un giocatore in forma molto lucida, cromata, che quest’anno ha toccato i 1200 minuti, che con il Tolone ha conquistato la Challenge (lasciando a zero una buona parte di Italia in biancoverde), che non ha avuto un dubbio quando gli è stato domandato se, alla sua età, lo turbasse la prospettiva di un’estate di sacrificio, di lavoro duro, di volontà di scrollarsi di dosso le scorie del tempo, in un esercizio di emulazione con chi potrebbe esser fratello molto minore. O figlio, si fosse comportato in giovanissima età come Andy Farrell.

Sergio è sempre Sergio: combatte nei punti d’incontro, si duplica dopo l’espulsione di Ollivon, cerca soluzioni “artistiche” che non sono proprie di un avanti con quel fisico scultoreo. Sergio, soprattutto, non è la settima o l’ottava terza linea del rugby italiano. È lui e basta. Chi ha cuore deve salvare le sua ultime battaglie contro i quattro continenti.

Se c’è davvero un affaire Parisse dovremmo tutti fermarci a riflettere dove è arrivato e, soprattutto, dove vuole andare il nostro rugby. L’interrogativo che si è abbattuto sulla sua convocazione per il Mondiale di Francia è una di quelle faccende in cui con spietata puntualità ci scopriamo maestri nel confezionare problemi gratuiti. Parisse al Mondiale accenderebbe un faro luminoso sul rugby italiano, unico giocatore della storia a partecipare a sei edizioni, un’occasione da prendere al volo per avere quella visibilità che da sempre dobbiamo elemosinare a capo chino.

E poi c’è una parola dalla quale chi ama lo sport non può prescindere: riconoscenza. Per l’uomo che più di ogni altro ha vestito l’azzurro, per l’unico giocatore italiano che avrebbe potuto indossare la maglia di qualsiasi Nazionale del planisfero ovale, per chi si è mantenuto integro attraverso una massacrante carriera ad altissimo livello lunga un quarto di secolo.

Tutto iniziò nel 2002 contro gli All Blacks, cosa ci sarebbe di più giusto se tutto potesse finire 21 anni dopo, proprio contro gli All Blacks? I puristi del gioco, quelli che privilegiano il gruppo e i suoi delicati equilibri, storcono il naso di fronte alla possibilità di portare in squadra una personalità troppo ingombrante. Piccoli uomini hanno paura di chi ha carisma e non sanno fare di meglio che evitare il rischio.

Ma poi quante terze linee migliori dell’attuale capitano del Tolone abbiamo a disposizione? Non convocare Sergio per il suo personalissimo Last Waltz si trasformerebbe in un pericoloso boomerang. E la trama mondiale del rugby italiano si materializzerebbe in malinconiche Urla nel Silenzio.

Obbiettivamente, alla vigilia dei 40 anni, dopo quattro anni che non veste l’azzurro, Sergio Parisse resta il giocatore più dotato, sotto ogni punto di vista, fra coloro che hanno indossato la maglia della Nazionale. In un ipotetico referendum sui più grandi atleti italiani di ogni tempo e di ogni sport, forse sarebbe l’unico rugbista a trovare posto fra i primi cinquanta.

Parisse con l’Italia al mondiale di rugby in Francia, dove abita rispettato e ammirato, fra pochi mesi? E’ una suggestione. Con qualche sì e molti no.

Sì, per la qualità del personaggio; per i suoi 142 caps (fra i primi 5 al mondo); per i risultati ottenuti; perché giocherebbe il suo sesto mondiale (un record), perchégiocando in Francia con l’Italia costretta a un girone impossibile con Nuova Zelanda e francesi - per almeno 15 giorni stampa e tv tratterebbero praticamente soltanto Parisse e di riflesso, molto riflesso, dell’Italia. Mediaticamente, dunque, ne varrebbe la pena. Ma soltanto per non vedere ignorata l’Italia, confinata nel ritiro di Bourgoin. No, per le troppe cose che non sappiamo sui rapporti tra Parisse e la Fir e l’attuale struttura tecnica della Nazionale; no, perché troverebbe una squadra nuova in tutto (solo 5-6 giocatori della sua ultima partita in azzurro nel 2019; responsabile e staff nuovo; risultati - sulla base del ranking - praticamente trascurabili); no, a conferma che il suo valore come giocatore è stato costruito più sull’attività in Francia che sull’impegno con la Nazionale italiana; no, perché inevitabilmente, sarebbe necessario trovargli un ruolo (a scapito di chi?) e soprattutto affidargli una responsabilità (cioè fare il capitano) in un ambiente che ha già i suoi “intoccabili”, indipendentemente dal loro valore specifico. Che è basso.

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GIORNALISTI

Alessandro Cecioni Federico Meda Giacomo Bagnasco

All’indomani della sconfitta con l’Irlanda a Dunedin nel mondiale 2011, scrissi su Il Mattino di Napoli che con l’avvicendamento tra Mallett e Brunel, sarebbe stato utile anche cambiare capitano. Il caposervizio non gradì: una presa di posizione del genere suonava come inopportuna e quindi non andò in stampa. Ho pensato spesso a quella mia considerazione, forte di alcune chiacchierate con diversi compagni di Sergio. In quel mese e mezzo a fianco del gruppo azzurro avevo notato la forza del blocco “argentino”, quindi Sergio-Castro-Canale, e di quanto potesse essere un valore aggiunto quando le cose andavano bene e, di contro, un limite nella burrasca. Conosco lo sport e le sue dinamiche e non sempre un campione formidabile si rivela il migliore dei capitani - o il riferimento ideale per il resto della squadra. E non posso dimenticare la sequela di sconfitte pur avendo Sergio in campo e, parimenti, le difficoltà dei nuovi ad approcciare un gruppo con una figura così ingombrante come quella del numero 8 di Tolone. Sono certo che la Federazione e Crowley potevano fare di più e meglio per gestire questo affaire ma dall’altra abbiamo il ricordo delle difficoltà di Roma a lasciare andare Francesco Totti. La colpa non si può ascrivere solo a una delle parti. Mi sarebbe piaciuto si fosse trovato un accordo per permettere a Sergio di vivere ancora l’azzurro senza imbarazzi, questue e acclamazioni popolari. Perché chi ne paga le conseguenze è un gruppo sano, giovane con leader riconosciuti, cui avrebbe solo giovato la presenza di Parisse, compreso chi avesse dovuto dividere con lui la maglia con il segno dell’infinito sulla schiena

La tradizione, il passato, i monumenti viventi, nel nostro sport sono importanti quanto e più di chi veste la maglia della Nazionale o di un club. È così a ogni latitudine, nell’Emisfero Sud come in quello Nord. Con un’eccezione, l’Italia. Fateci caso, provate a cercare nella vostra memoria, ogni volta che in un test match le telecamere pescano in tribuna qualche volto della storia del rugby lo stadio esplode, i tifosi applaudono, insieme. Perché chi è stato grande lo è stato per tutti, non solo per la sua bandiera. È una questione di rispetto profondo. Sergio Parisse è il nostro unico monumento, l’unico giocatore dei nostri internazionali che inquadrato susciterebbe l’applauso dello stadio. E lo susciterà, statene certi. Ma non dal campo perché noi siamo così ciechi e presuntosi da impedirgli di vestire la maglia azzurra per il suo sesto mondiale, di aggiungere cap alle sue già imponenti 142 presenze in azzurro. “Scelta tecnica”, è stata la spiegazione. Certo, le statistiche suffragano questa decisione. I placcaggi sono pochi rispetto alla media della squadra, e non entra più nei raggruppamenti come faceva anni fa. Ma ha fatto un Top14 da paura, in finale di Challenge Cup ha fatto anche meta contro Glasgow portando il Tolone alla conquista del trofeo.

Se Parisse fosse nei 33 atleti per France 2023, toglierebbe spazio ad altri più giovani”, dicono. Parliamo di ragazzi italiani o di qualche prodotto del Pacifico che non prende mai la linea del vantaggio come ball carrier? E, in questa crisi di spazi e notizie, chi farebbe parlare di più del rugby azzurro: Sergio o un trentenne arrivato in Italia cinque anni fa?

E dire che già quattro anni fa ci sarebbe stata la partita ideale per un addio all’azzurro da parte di Sergio Parisse. Ultimo match della fase a gironi della Rugby World Cup giapponese, Italia-Nuova Zelanda: a 17 anni di distanza dal suo esordio internazionale avvenuto, da diciottenne, proprio in casa degli All Blacks. Ma quella partita dei Mondiali 2019 venne annullata (in maniera sportivamente inaccettabile) per il pericolo di un cataclisma atmosferico che non si verificò, e il cerchio non si chiuse.

Da allora Sergio non ha più giocato in Nazionale. Si è parlato più volte di un suo possibile ritorno, si sono ipotizzate partite “celebrative” per un’ultima volta con la maglia indossata in 142 circostanze: un match organizzato appositamente, un incontro del Sei Nazioni? In realtà, a mio parere, c’era già tutta la carriera di Parisse a celebrarlo come rugbista di classe e fama assolute, e l’idea di un’apparizione programmata a tavolino non mi è mai piaciuta granché. Ma ecco che i Mondiali 2023 sono alle porte e lui, sulla soglia dei 40 anni, si propone non come icona (il che avrebbe un valore sì, ma mediatico) bensì come giocatore a un alto livello di forma. Preparatissimo, concentratissimo sugli obiettivi del suo Tolone. Forte nel fisico e nella testa, insomma. Se c’è una valutazione tecnica da fare, guardando alle forze a disposizione, sembra ben difficile tenerlo fuori dal gruppo azzurro. Con una gestione oculata della situazione Sergio potrebbe diventare un “plus” non indifferente, senza essere ingombrante.

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Ci sono 21 giocatori del Benetton, 10 delle Zebre e 15 che giocano in formazioni straniere, fra i 46 nomi scelti da Crowley per la lunga preparazione estiva in vista del Mondiale.

Di questi, dieci hanno preso parte alla precedente edizione della Coppa del Mondo, nel 2019 in Giappone: Allan, Bigi, Ferrari, Morisi, Negri, Padovani, Riccioni, Sisi, Ruzza, Zani. Allan è l’unico che aveva partecipato anche a quella del 2015 in Inghilterra.

Questa è la prima edizione in cui ciascuna squadra potrà iscrivere 33 giocatori, in precedenza le rose erano limitate a 31.

Nel 2019 Conor O’Shea portò 18 avanti (6 piloni, 3 tallonatori, 4 seconde e 5 terze linee) e 13 trequarti (3 mediani di mischia, 2 aperture, 3 centri e 5 tra ali e estremi).

Obbligatori anche stavolta almeno sei piloni e tre tallonatori, Crowley potrebbe aggiungere agli avanti un uomo in più tra seconde e terze linee. Fra i trequarti, necessari anche tre mediani di mischia e otto giocatori complessivamente tra centri, ali ed estremi. Il trequarti in più potrebbe essere un numero dieci (Da Re, Marin?) da aggiungere a Paolo Garbisi e Tommy Allan, i due più papabili per il ruolo.

I tagli

Rispetto all’elenco dei 46, tra gli avanti dovrebbero presumibilmente esserci cinque tagli in prima linea e quattro tra seconde e terze linee. I sicurissimi, al momento, paiono essere: Fischetti, Ceccarelli, Ferrari, Riccioni e Nicotera.

Zani, che può essere impiegato in più ruoli, è un’opzione abbastanza probabile, mentre per Lucchesi dipenderà se avrà recuperato dall’infortunio o meno.

Dietro la prima linea, Federico Ruzza, Michele Lamaro, Sebastian Negri, Manuel Zuliani e i due Cannone ipotecano sei posizioni su nove. Per gli altri tre posti, i candidati più verosimili

Italia, dica

sono Edoardo Iachizzi, Giovanni Pettinelli e l’imperscrutabile Toa Halafihi, con Dino Lamb e David Sisi nelle posizioni di rincalzo e Riccardo Favretto e Andrea Zambonin outsider. Lotta serrata, invece, fra i numeri 9: uno dei quattro rimarrà fuori. Fra i trequarti (otto posti), apparentemente intoccabili Ignacio Brex, Tommaso Menoncello, Monty Ioane, Ange Capuozzo (se starà bene…), Luca Morisi e il jolly Edoardo Padovani. Per gli altri due posti: Enrico Lucchin in pole position come centro (l’alternativa è Leonardo Marin, che può coprire due ruoli) mentre Pierre Bruno se la gioca con Paolo Odogwu, Federico Mori e Simone Gesi per l’ultimo posto in squadra.

Gli assenti

Dai 46 mancano Marco Zanon e Matteo Minozzi, due che avrebbero meritato almeno di far parte della rosa allargata, mentre Jake Polledri pare molto lontano da un possibile recupero. IL PROGRAMMA DEI

RADUNI ESTIVI

5-9 giugno, Pergine Valsugana 18-24 giugno, Pergine Valsugana 7-13 luglio, Pergine Valsugana 13-16 luglio Corvara, Team Building con Esercito Italiano LE PARTITE DI PREPARAZIONE DEGLI AZZURRI 29 luglio Edimburgo Scozia v Italia 5 agosto Dublino Irlanda v Italia 19 agosto sede da definire Italia v Romania 26 agosto Treviso Italia v Giappone 34

dica trentatrè

Quarantasei nomi che, a fine estate, diventeranno trentatrè.

Tutte le date della preparazione in vista di Francia 2023

PILONI

Filippo Alongi (Benetton Rugby, 1 Cap)

Paolo Buonfiglio (Zebre Parma, No Cap)

Pietro Ceccarelli (Brive, 26 Cap)

Simone Ferrari (Benetton Rugby, 44 Cap)

Danilo Fischetti (London Irish, 30 Cap)

Ivan Nemer (Benetton Rugby, 11 Cap)

Matteo Nocera (Zebre Parma, No Cap)

Marco Riccioni (Saracens, 19 Cap)

Federico Zani (Benetton Rugby, 21 Cap)

TALLONATORI

Luca Bigi (Zebre Parma, 46 Cap)

Epalahame Faiva (Hurricanes, 5 Cap)

Gianmarco Lucchesi (Benetton Rugby, 17 Cap)

Marco Manfredi (Zebre Parma, 1 Cap)

Giacomo Nicotera (Benetton Rugby, 12 Cap)

SECONDE LINEE

Niccolò Cannone (Benetton Rugby, 30 Cap)

Edoardo Iachizzi (Vannes, 5 Cap)

Dino Lamb (Harlequins, No Cap)

Federico Ruzza (Benetton Rugby, 41 Cap)

David Sisi (Zebre Parma, 27 Cap)

Andrea Zambonin (Zebre Parma, 2 Cap)

Terze Linee

Lorenzo Cannone (Benetton Rugby, 8 Cap)

Riccardo Favretto (Benetton Rugby, 1 Cap)

Toa Halafihi (Benetton Rugby, 9 Cap)

Michele Lamaro (Benetton Rugby, 26 Cap) - Capitano

Sebastian Negri (Benetton Rugby, 46 Cap)

Giovanni Pettinelli (Benetton Rugby, 12 Cap)

Manuel Zuliani (Benetton Rugby, 10 Cap)

Mediani Di Mischia

Alessandro Fusco (Zebre Parma, 13 Cap)

Alessandro Garbisi (Benetton Rugby, 4 Cap)

Martin Page-Relo (Stade Toulousain, No Cap)

Stephen Varney (Gloucester Rugby, 19 Cap)

MEDIANI DI APERTURA

Tommaso Allan (Harlequins, 71 Cap)

Giacomo Da Re (Benetton Rugby, 1 Cap)

Paolo Garbisi (Montpellier, 24 Cap)

CENTRI

Juan Ignacio Brex (Benetton Rugby, 23 Cap)

Enrico Lucchin (Zebre Parma, 1 Cap)

Leonardo Marin (Benetton Rugby, 6 Cap)

Tommaso Menoncello (Benetton Rugby, 10 Cap)

Luca Morisi (London Irish, 44 Cap)

ALI/ESTREMI

Pierre Bruno (Zebre Parma, 12 Cap)

Ange Capuozzo (Stade Toulousain, 10 Cap)

Simone Gesi (Zebre Parma, 1 Cap)

Montanna Ioane (Melbourne Rebels, 17 Cap)

Federico Mori (Bordeaux, 12 Cap)

Paolo Odogwu (Stade Français, No Cap)

Edoardo Padovani (Benetton Rugby, 44 Cap)

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SUD CHIAMA NORD

Il futuro del rugby è già qui. La battaglia che in autunno si combatterà in Francia, nelle stanze dove vengono elaborate le regole del gioco, è già iniziata.

A qualche mese dalla World Cup in Francia si fa sempre più caldo il confronto tra i due emisferi. Sulla carta l’Emisfero Nord sembra aver definitivamente colmato il gap grazie alle mirabolanti evoluzioni di Irlanda e Francia. Il ranking d’altronde parla chiaro ma, come ben sappiamo, sarà il campo a parlare.

Mentre in Francia fervono i preparativi per l’evento

sportivo dell’anno, nel lontano Pacifico hanno introdotto alcune novità estremamente interessanti nel gioco. La sperimentazione è in stato avanzato perché, a dire il vero, aveva preso avvio in Nuova Zelanda già nel 2022 a livello senior-amatoriale e nelle giovanili. Gli assessment, ovvero le valutazioni derivate dai filmati, dai parametri di gioco e dai feedback dei partecipanti ai trials avevano dato in -

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La meta di Leicester Fainga’anuku nel match vinto dai Crusaders 15-3 sugli Auckland Blues, lo scorso 13 maggio, all’Orangetheory Stadium di Christchurch. Inutile il tentativo di placcaggio di Hoskins Sotutu.

dicazioni talmente incoraggianti da spingere Matt Barlow ad implementarle subito nel torneo del quale è il direttore, il Super Rugby Pacific.

“Vogliamo che il nostro torneo diventi la competizione rugbistica più emozionante, innovativa e veloce del mondo” ha dichiarato lo stesso Barlow che, fedele al suo profilo intimamente commerciale, sta impacchettando un “prodotto” (termine naif che scrivo tappandomi il naso) da vendere agli appassionati e, soprattutto, alle televisioni. Se la visione di Barlow è coerente e univoca, le strade per raggiungerla prendono due direzioni. La prima: riduzione dei tempi morti e aumento del ball-in play. È questo al momento uno dei campi di maggior confronto tra i due emisferi dal momento che la Federazione neozelandese sta cercando affannosamente di colmare il gap con Francia e Irlanda. Le due nazioni europee infatti hanno alzato la barra a 48 minuti di gioco effettivo nell’ultimo 6 Nazioni, laddove la media del Super Rugby è di 33’. La strada è quindi lunga e i tempi stringono. Entrando più nel dettaglio, nel Super Rugby Pacific, il tempo a disposizione per piazzare i calci (trasformazioni o penalty) viene ridotto drasticamente, come pure l’assetto delle fasi statiche (30” per formare la mischia e l’allineamento della rimessa laterale). Viene eliminato il water-break. L’intervento del TMO subirà delle restrizioni e sarà meno ingombrante, perché lavorerà dietro alle quinte mentre il gioco procede. Questi accorgimenti sembrano funzionare, con grande gioia di Barlow. È stato calcolato infatti che mediamente vengono tagliati 6 minuti di dead-time a partita, la cui durata totale è passata a 91 minuti e 46 secondi contro i 98’ di prima.

6 minuti in più da vendere agli sponsor. È la televisione, bellezze!

Non è un caso quindi che World Rugby si sia prodigato per far adottare queste regole sia per i mondiali Under 21 che per quelli in Francia.

La seconda via invece prevede un’innovazione a livello di gioco, volta a renderlo più spettacolare, votato all’attacco e con più marcature. Si tratta di una piccola modifica al regolamento, scritta quasi a margine del documento “Super Rugby Pacific

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2023 - Law Modifications & Shape of Game Improvements”, consultabile online.

La sua portata è però enorme, tanto da indurre molti addetti ai lavori a chiedersi perché provocare un simile terremoto a ridosso del Mondiale.

La modifica dice: una volta introdotta la palla in mischia, il numero 9 che difende non può oltrepassare la linea mediana creata dalle prime linee. In altre parole nelle mischie ordinate il mediano di mischia non può più seguire come un’ombra il mediano avversario e cercare di sporcare l’uscita del pallone. Può solo muoversi nel raggio di un metro attorno ai propri avanti o abbandonare del tutto il set piece e unirsi alla linea dei trequarti, 5 metri alle spalle delle proprie terze linee.

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I vari TJ Perenara e Nic White, maestri nello spoilerare le mischie altrui, non ne saranno contenti, ma anzi si dovranno subito adattare. Il numero 9 subirà infatti l’ennesima metamorfosi perché ora diventa il primo difensore della linea arretrata e sicuro target dei bisonti che caricano dalla base. Inoltre il ritmo sempre più forsennato e la riduzione dei tempi morti, e quindi di ossigeno per gli avanti, renderà il 9 molto spesso l’opzione di emergenza nelle ruck: quando si è a corto di fanteria pesante, toccherà al mediano di mischia tirare incornate nei raggruppamenti.

Pare quindi che stia tornando di moda l’over-size scrum half. Non è un caso che il golden boy del momento in Nuova Zelanda sia Cam Roigard, mediano di mischia degli Hurricanes, un ragazzotto di Manukau alto 1.83cm per oltre 90kg, capace comunque di correre circa 9km a partita e, a quanto pare, prossimo alla convocazione con gli All Blacks. Questa nuova regola rende inoltre la mischia un’arma offensiva ancora più potente e crea un nuovo ventaglio di opzioni per l’attacco. Il numero 8 per esempio, non avendo più sul collo il fiato del mediano avversario, ha un notevole margine di corsa. In tale prospettiva, anche questo ruolo sta vivendo una vera e propria metamorfosi. Ad essere più precisi, stanno cambiando le qualità richieste al timoniere della mischia, a prescindere dal numero della maglia. Non è un caso infatti che molto spesso quest’anno Dalton Papali’i o Hugh Renton, entrambi flanker dotati di un’accelerazione bruciante, siano stati piazzati in fondo alla mischia ordinata per il pick and go.

Peter Lakai invece è un nome nuovo e sconosciuto ai più. È un ventenne che gioca all’ombra di Ardie Savea, ma quando questi, dopo il mondiale, emigrerà in Giappone, avrà sicuramente la sua chance. È meno dirompente e granitico di Savea, ma Jason Holland, allenatore degli Hurricanes, non sembra preoccuparsene. “È un ragazzo speciale” dice “e con una combinazione speciale di forza naturale, intelligenza e soprattutto velocità”. Sarà questa quindi la caratteristica primaria del numero 8 del futuro?

Queste modifiche per ora hanno entusiasmato parecchi tecnici e accontentato gli spettatori, tanto che molti auspicano che siano estese anche al di fuori di questo torneo. Il rischio di dare un simile benefit all’attacco però è quello di rendere banale e ripetitivo il gioco da mischia ordinata.

Da un lato è vero che la media dei punti segnati nelle partite del Super Rugby si è alzata a 61, la più alta di sempre in questa competizione, ma dall’altro alcuni palati fini, Wayne Smith su tutti, storcono il naso e cambiano canale.

Per ora World Rugby non ha confermato la modifica del regolamento della mischia per il Mondiale, ma la questione sarà sicuramente oggetto di un forte dibattito, dove peseranno anche questioni politiche ed economiche.

Se la battaglia tra i due emisferi si combatterà sul campo tra qualche mese, nei piani alti, tra i colletti bianchi, è già iniziata.

Un’incursione di Cam Roigard, numero 9 degli Hurricanes, nel match di Super Rugby Pacific contro i Melbourne Rebels all’AAMI Park della capitale australiana.

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STABILITÀ E FIDUCIA

Per Antonio Pavanello la stagione 2022/23 è da valutare positivamente perché i playoff erano a un passo e la semifinale di Challenge Cup è un traguardo storico. La sensazione è che” the

La domanda rimane sempre quella: quando si andrà all’incasso? di Federico Meda

Partiamo dall’ultima partita, la più attesa. Tolone bifronte: gran traguardo arrivare in semifinale, gran rammarico, per via di una prestazione al di sotto delle aspettative.

“Sì, il risultato finale ha lasciato l’amaro in bocca. Già vedendo le previsioni del tempo ero scoraggiato, con la pioggia sapevo avremmo sofferto il peso e la fisicità dei francesi. Ma non ha inciso solo quello, ovviamente. È l’attitudine a giocare una partita mediaticamente così esposta. Lo vedevo nei ragazzi, in albergo, nei corridoi, c’era un’emozione particolare. Poi lo stadio dopo il rosso a Ollivon si è trasformato in una bolgia di fischi, cori, mai vissuto niente del genere. Ci verrà utile per la prossima stagione. Sono ormai otto anni che abbiamo intrapreso questo percorso di crescita e aspiriamo a palcoscenici ancora più importanti”.

Come sta andando questo pe rcorso?

“Penso di poter dire che insieme a Enrico Ceccato abbiamo tirato su uno staff manageriale e professionale. A livello sportivo, commerciale, di analisi, di comunicazione. Un processo che continua con l’inserimento di un ufficio legale all’interno di Benetton”.

Gustard? Rimpianto o meglio così?

“Ci è dispiaciuto che sia andato via (allo Stade Français, alla fine della scorsa stagione, ndr), ma è stato un passaggio che abbiamo smaltito velocemente. Calum McRae aveva fatto benissimo a Edimburgo. La seconda franchigia scozzese, che era sempre nelle parti basse della classifica, negli ultimi anni, con lui nello staff, aveva raggiunto i playoff, fatto la voce grossa in Champions Cup. Forse Calum era meno noto, un nome meno forte ma si è inserito benissimo nell’ambiente, dando un bell’equilibrio all’interno dello spogliatoio. Paul Gustard era più diretto, severo, manageriale. Calum più legato al campo e compagnone. Sembrava un passo indietro? Non lo è stato”. La scelta di Dewalt Duvenage come allenatore/giocatore in che direzione va?

“Il campo, lo spogliatoio non li puoi insegnare o trasmettere. Devi portarli tu dentro. Lui sarà preziosissimo sul territorio, per l’Accademia. Ma è un percorso che ha già intrapreso Lazzaroni, “ambassador del club” e lo stesso farà Corniel Els. Lo stiamo aiutando nel post carriera (la lesione di alcune radici nervose cervicali lo ha costretto al

best is yet to come” perché il Benetton è ormai una macchina che di anno in anno aggiunge cavalli al suo motore.
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Antonio Pavanello, 39 anni, dal 2015 è il direttore sportivo del Benetton con la cui maglia ha disputato in carriera oltre settanta partite. Nel riquadro, Dewaldt Duvenage, in Italia dal 2018.

ritiro a soli 29 anni, ndr) e ci serviva una figura da affiancare al team manager Ceccato per aiutare i giocatori e le famiglie fuori dal campo”.

A proposito di Academy, riaprendo quella Federale cambieranno i vostri piani.

“Sì, ma avremo la possibilità di lavorare con i migliori prospetti a livello regionale. Quest’anno erano solo della provincia. Certo, non ci saranno i 30 durante la settimana e andremo noi da loro, giocatori e tecnici. Sarà un modo per trasformare il Benetton in un hub per condividere le competenze sul campo, a livello di allenatori e, ormai, anche a livello manageriale”.

Quando parliamo di Academy mi vengono sempre in mente quelle gallesi e irlandesi che sfornano giocatori pronti per l’URC, o così ci appaiono quando giocano contro di noi. A che punto siamo affinché diventi una consuetudine anche italiana?

“Manca ancora un passaggio tra Under 20 e franchigia. Anche se negli ultimi anni i vari Zuliani, Lamaro, Menoncello, i due Garbisi hanno dimostrato di poterne fare a meno. Ma gli altri hanno ancora bisogno di un periodo in Top 10. Dobbiamo garantirlo. Però è bene sottolineare un dato”.

Quale?

“In quattro anni abbiamo preso in carico 27 giovani. 23 hanno fatto percorso da permit o accademia, 21 hanno ottenuto un cap in Nazionale maggiore. Questo non per intestarci meriti, solo per dimostrare che il meccanismo, una volta oliato, funziona”. Come è organizzato lo scouting? Perché oltre ad azzeccare gli italiani, anche sugli stranieri siete migliorati molto.

“Abbiamo una rete di ex giocatori ed ex compagni di squadra sparsi ovunque, non solo in Italia. Sull’estero la tecnologia aiuta perché si possono visionare sia quelli segnalati dalla rete, sia quelli proposti dagli agenti. L’Italia non è coperta e la ricerca è molto più oculata. Dobbiamo fare noi un lavoro di taglia e incolla delle partite. Poi ci ritroviamo con lo staff tecnico e ragioniamo di cosa ci serve per la stagione successiva. I contratti vanno chiusi già in autunno perché non abbiamo molta forza contrattuale e dobbiamo muoverci con anticipo. È l’unico modo per tenerci un certo vantaggio sui club più ricchi”.

Quali sono i ruoli più richiesti e difficili da trovare?

“Su piloni destri e seconde linee è una guerra spietata. Perché di Etzebeth ce ne sono pochissimi ma, in generale, di giocatori di fisicità importante come richiesto dal rugby moderno non ce ne sono molti. Quindi chi può spendere si prende il meglio“.

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E a livello italiano cosa ci manca?

“Seconde linee, perché è un problema che riguarda tutti. E le ali. È un ruolo diventato tra i più complessi sul campo di rugby. Devi essere bravissimo in difesa, impeccabile in aria e avere doti da finisher che non si limitano ad andare in bandierina. Ormai si cerca l’acrobata. E sei anche coinvolto nei calci di spostamento in attacco…”

Torniamo indietro un attimo, dobbiamo soffermarci su Fekitoa. Un grandissimo colpo

“L’ambizione in campo va a braccetto con quella nel recruitment. Un ex All Black, vincitore della Coppa del Mondo. Già quando era ai Wasps, prima di andare a Munster, abbiamo provato a prenderlo. Ma scontavamo limitazioni nel budget e in credibilità. A metà stagione scorsa si è palesata l’opportunità e l’appeal attuale del Benetton ha fatto il resto“.

Ne siete orgogliosi, dal tono.

“Abbiamo ricevuto tanti complimenti e poi siamo stati sotto i riflettori dopo averlo annunciato. È una strategia anche quella”.

A proposito di orgoglio, di cosa sei davvero contento di questi otto anni al Benetton?

“Della stabilità. Perché da semplice principio ha iniziato a diventare parte del dna dell’azienda Benetton Treviso. È una delle basi per costruire continuità fuori dal campo: circondarsi di persone giuste, con spirito di appartenenza, ambiziose. Puoi dare di più in questo modo. E il club intanto cresce”.

Le partite vinte quest’anno dal Benetton tra URC (8) e Challenge Cup (5). La stagione precedente le vittorie erano state in tutto 8 (sei in URC), più un pareggio.

I punti che sono mancati quest’anno per l’accesso ai play off nello United Rugby Championship, l’anno scorso il traguardo era rimasto lontano quindici lunghezze.

Malakai Fekitoa, 24 cap con la maglia degli All Blacks, l’ultima nel 2017. Nel 2022 ha giocato per la nazionale di Tonga, dove è nato. A sinistra, una carica di Michele Lamaro, con Manuel Zuliani in sostegno.

I giocatori utilizzati quest’anno dal Benetton in almeno una partita.

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QUESTIONE DI TESTA

“Il mio arrivo in Treviso? In realtà è destino che io sia qui. Già si era parlato di un ingaggio da giocatore, ai tempi del Leicester. Quindi siamo sempre rimasti in contatto, anche perché abbiamo giocato contro, io e Antonio Pavanello ma anche altri. Quindi tempo fa si era ripreso il discorso per il coaching in maniera del tutto naturale. Sapete, io ho il passaporto italiano, mio nonno è nativo del bolognese, ho ancora cugini e parenti là. Quindi eccomi qui”.

Il 37enne Julian Salvi ha iniziato ad allenare presto, rispetto a tanti coetanei, dopo una carriera tra Brumbies - quindi downunder - e dodici anni di Premiership (Bath, Leicester e Exeter), che, per sua stessa ammissione, lo hanno un po’ fossilizzato sul rugby inglese, a discapito del resto: “Sono arrivato qui che sapevo davvero poco di Urc. Perché da giocatore e coach di un campionato ricchissimo, tra i migliori del

mondo, come quello inglese, tendi a non apprezzare i concorrenti meno affermati. Quindi, oltre all’ostacolo della lingua e a tutte le novità del caso, ho dovuto recuperare il resto”.

È stata una stagione - la prima di Julian, la seconda di Bortolami come head coach - che ha visto Treviso giocarsi la prima semifinale europea della sua storia e, parimenti, perdere il treno playoff in campionato: “Arrivare così in fondo in Challenge è stato estremamente positivo. Non è una partita normale quella che abbiamo affrontato a Tolone ed è bene che i ragazzi abbiamo toccato con mano l’emozione di quel momento. Perché dovranno farne tesoro quando ci ricapiterà. Per quanto riguarda il campionato, ci sono mancati i punti in trasferta: per arrivare nelle prime 8 devi vincere di più fuori e soprattutto portare a casa i bonus”.

I giocatori devono crescere, nell’approccio al gioco, specie in trasferta, e nella sua comprensione complessiva, dice Julian Salvi. Che aveva l’Italia nel destino.
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Julian Salvi è arrivato al Benetton la scorsa estate. Sotto, Salvi in meta contri il Treviso con la maglia dei Leicester Tigers a Monigo, in Heineken Cup, a gennaio del 2014 (34-19 per gli inglesi). Da sinistra si riconoscono: Cittadini, Rizzo, Derbyshire (in parte coperto da Dan Cole), Antonio Pavanello, Ayerza (in sostegno con il caschetto) e Gibson.

C’è una spiegazione per tutto questo?

“Purtroppo siamo diventati un difficilissimo cliente per tutti a Monigo ma non riusciamo a essere consistenti away. Penso sia una questione di mindset, di mentalità: è capitato di trovarci punto a punto fino al 60’ e poi passare da una sconfitta entro il break a una di 14-20 punti. Fa molta differenza. L’esempio di La Rochelle, in finale di Champions Cup con Leinster, dovrebbe farci riflettere: non si è mai fuori dalla partita, bisogna continuare a lottare e tenere, anche perché ogni incontro ha le sue fasi”.

Come si può allenare questa attitudine?

“Bella domanda. Forse cercando di ricreare lo stesso scenario, allenando a giocare in una situazione complicata. E poi sperare che ci capitino partite difficili, in cui siamo continuamente sotto nel punteggio ma poi, all’80’, riusciamo a conquistare la vittoria. Un paio di queste imprese potrebbero convincerci che siamo forti anche a casa degli altri”.

Conta anche come affrontiamo noi il campionato?

Parlo a livello logistico, viaggiamo di più e spesso con le compagnie low cost.

“Non è una scusa, it’s the way it is. Probabilmente la situazione volo, hotel, diverso letto, diverso approccio alla partita, è un processo che dobbiamo ancora metabolizzare. Anche perché a volte arrivi in ritardo, o ci sono attese impreviste. E poi anche il tour in Sudafrica - e per loro venire in Europa, ovviamente - non è così semplice come appare”.

I grandi club e le Nazionali più importanti hanno spesso optato per ritiri particolari, in condizioni quasi estreme, mutuate dagli addestramenti militari. In Italia non lo abbiamo mai fatto, pensi che potrebbe essere utile?

“Sono tutte cose che possono aiutare a rafforzare il gruppo e sicuramente un cambio di clima, delle condizioni di lavoro potrebbe dare qualcosa in più. Stimoli diversi, innanzi tutto. E alcuni sicuramente tirerebbero fuori una personalità diversa, magari uscendo dal guscio. Quindi, perché no?”

Julian, tu sei arrivato per aiutare Marco Bortolami e il suo staff in difesa. Su cosa hai lavorato?

“Mi sono focalizzato sul breakdown, difensivo e offensivo. Soprattutto sulla capacità di prendere la giusta decisione. È quello che fa la differenza: capire quando rallentare e basta, quando provare a rubare e, in generale, saper essere a proprio agio in ruck. Abbiamo ottimi giocatori in questo fondamentalele statistiche lo dimostrano (Benetton è la settima squadra dell’URC per turnover conquistati)”.

Cosa è mancato quest’anno?

“Dobbiamo essere più efficaci nel portare pressione e nel mettere punti nei momenti chiave. Dobbiamo stare di più nel campo avversario, perché possiamo farlo per qualità ed è anche il modo migliore per vincere le partite”.

Ma qual è il giudizio sul Benetton - e quindi sul rugby italiano, vista l’importanza che riveste il club?

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“Io considero il vostro movimento “roaring”, scoppiettante. Avete un ottimo gruppo di giocatori che a 22-23-24 anni sta facendo un’esperienza incredibile tra Sei Nazioni, coppe e URC. Vi tornerà tutto questo. Perché le strutture qui a Treviso per certi versi sono migliori di alcune realtà che ho vissuto in Inghilterra. Bisogna incrementare il livello intellettuale dei giocatori”.

In che senso?

“Sono convinto che da voi ci sia ancora questa situazione in cui i giocatori fanno i giocatori e gli allenatori gli allenatori. A comparti stagni. Ai giocatori va ancora spiegato dove hanno sbagliato e come devono migliorare in alcune aree del gioco. In futuro mi auguro di vedere giocatori capaci di gestire l’allenamento e di diventare consapevoli di quali sono gli strumenti per migliorare i difetti, sia individuali che di squadra”. Allora anche aggiungere personalità come Dewaldt Duvenage allo staff nel ruolo di allenatore/giocatore può essere un metodo efficace per costruire quella struttura di lavoro necessaria a colmare il gap con altri club dell’URC, no?

“Lo staff è molto valido, c’è una bella dinamica, siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Con Masi abbiamo giocato contro ai tempi degli Wasps, c’è Alessandro Troncon che si occupa dei ragazzi dell’Accademia, e la sua esperienza in Francia è mol-

e gli allenatori gli allenatori. A comparti stagni. Ai giocatori va ancora spiegato dove hanno sbagliato e come devono migliorare in alcune aree del gioco. In futuro mi auguro di vedere giocatori capaci di gestire l’allenamento e di diventare consapevoli di quali sono gli strumenti per migliorare i difetti, sia individuali che di squadra.”

to utile per ragionare di nuovi prospetti. Poi oltre a Fabio Ongaro c’è Callum McRae… tutto fa supporre che lo sviluppo professionale del team stia andando nella giusta direzione. L’obiettivo è arrivare nelle prime 8: significa che per metterci dietro un paio di squadre tra le sudafricane, le irlandesi e Glasgow dobbiamo crescere ancora un po’”. (Federico Meda)

Julian Salvi è nato a Dawlish, nel sud dell’Australia, il 9 ottobre del 1985. Flanker, da giocatore ha disputato una sessantina di partite di Super Rugby nei Brumbies e quasi duecento nella Premiership inglese, tra Bath, Leicester Tigers (113) e Exeter Chiefs. Con questi ultimi, nel 2017, ha conquistato la vittoria in Premiership, replicata insieme al successo in Champions Cup nel 2020, come membro dello staff.

L’esultanza di Lorenzo Cannone (a sinistra) e Michele Lamaro dopo la vittoria nei quarti di finale di Challenge Cup contro il Connacht. A sinistra, Federico Ruzza svetta in touche su Tanguy allo Stade Mayol contro il Tolone. A sinistra, si riconosce Sergio Parisse.

“Sono convinto che da voi ci sia ancora questa situazione in cui i giocatori fanno i giocatori
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Simone Gesi è l’ultimo

di

Miglior marcatore di mete, in una stagione, delle Zebre, sogna un posto nei 33 per il Mondiale. Ma la concorrenza nel ruolo è forte.

È stato un crescendo. La scorsa stagione, quando giocava nel Colorno, Simone Gesi, livornese, classe 2001, è stato eletto miglior giocatore del Top10. Poi Troncon lo ha chiamato per Emergenti e Nazionale A. Quest’anno, passato alle Zebre, ha segnato 11 mete (nessuno come lui nella storia della franchigia emiliana in una singola stagione), e alla fine del campionato Urc è stato inserito nel XV ideale. Nel frattempo, il 18 marzo, aveva fatto il suo esordio nel Sei Nazioni contro la Scozia a Edimburgo. Finisce la stagione ed ecco arrivare la convocazione nel gruppo allargato degli azzurri che si alleneranno in vista della Coppa del Mondo in Francia, ma non potrà partecipare al primo raduno perché nel frattempo, con Alessandro Garbisi e Alessandro Fusco, è stato scelto da Matteo Mazzantini per far parte della Nazionale di Seven. Un 2023 eccezionale, carico di soddisfazioni. Ma lui resta con i piedi per terra, solo metaforicamente, perché sono la sua velocità e i suoi leggeri e imprevedibili step ad averlo portato fin qui.

“Non avevo realizzato che aver segnato 11 mete fosse un record per un giocatore delle Zebre, me lo hanno fatto notare alla fine i miei compagni. ‘In una singola stagione come te nessuno mai’, ma non può essere che un punto di partenza”.

In una squadra che non ha vinto nemmeno una partita.

“Molte perse per un soffio, negli ultimi minuti. La differenza la fanno i particolari, le scelte, in momenti cruciali del match. Credo che alcune sconfitte siano arrivate perché eravamo un gruppo giovane, molto cambiato rispetto al passato. Ci sono stati parecchi innesti dalla Under 20, me compreso, ci mancava esperienza a questo livello. Sono fiducioso che il prossimo anno andrà molto meglio”.

Cosa cambia nel passaggio da Top10 a Urc?

“La preparazione del match e l’analisi di quello che si è fatto la settimana prima. Ogni allenamento è focalizzato, sia in campo che fuori, a curare nei minimi particolari i dettagli, la posizione in campo i meccanismi di difesa e di attacco. Bisogna essere precisi e restare concentrati per 80 minuti. Avere il cento per cento di concentrazione”.

E la Nazionale maggiore?

“Un passo avanti sempre in questa direzione, più preparazione della gara che gioco. Un modo di allenarsi molto simile a quello delle Zebre. Con una maggiore sensazione di sicurezza, di positività. Anche quando sbagli”.

In Nazionale poi c’erano altri giocatori che venivano dall’Under 20.

“Sì avevo già giocato con Lorenzo Cannone, con Garbisi e Menoncello. Mentre con Capuozzo che non c’era a Edimburgo, avevo giocato a Madrid nella prima partita della rinata Nazionale A”.

Con la Nazionale maggiore esordio in Scozia, una partita che potevamo vincere.

“Ne eravamo assolutamente sicuri, quando mancano 180 secondi alla fine e sei sulla loro linea di meta pensi di aver vinto, che segnerai una meta. Forse abbiamo avuto troppa frenesia”.

Zebre e Nazionale sono sembrate mancare di un giocatore d’esperienza che potesse mettere ordine in certi momenti cruciali.

“Avere in campo qualcuno che puoi guardare nei momenti più difficili, che ti infonde comunque sicurezza, è determinante. Alle Zebre io mi sono sempre sentito molto supportato da Lucchin e Boni, parlo da trequarti. Poi se vinci o perdi è dovuto alla prestazione collettiva più che all’errore di un singolo. In Nazionale ho giocato solo una partita”.

in ordine
tempo ad aver esordito nella Nazionale maggiore.
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Simone Gesi, con la maglia della Nazionale Emergenti contro la Romania A, match nel quale mise a segno tre mete a dicembre del 2021 a Parma. Nel riquadro, una meta contro l’Olanda nel giugno del 2022, sempre con gli Emergenti.

posto all’ala

Alle Zebre con chi hai legato di più?

“Con Ratko Jelic perché viviamo insieme, ma anche molto con Lorenzo Pani e Pierre Bruno”.

Punti di forza di Simone Gesi, quello che c’è da migliorare?

“Devo migliorare la comunicazione in campo, dire quello che vedo. Punti di forza: la mia velocità, la resistenza, anche se non ho dati precisi perché quando hanno fatto i test ero in Namibia con la nazionale A”. I giocatori più forti incontrati quest’anno, Urc e Nazionale.

“In Nazionale ho visto in azione Van Der Merwe, per fortuna (ride) non era il mio diretto avversario. Comunque impressionante per come si muove, per l’apporto che dà ogni volta che prende il pallone. Con le Zebre mi ha colpito Conan Moodie, l’ala dei Bulls. Incredibile per velocità, scelte, gestione del pallone, fisicità anche se non è enorme. Lui era il mio avversario diretto, l’ho visto bene, ha competenza in tutto. E ha un anno meno di me”.

Un’esperienza all’estero?

“Sì, certo, se se ne presentasse l’occasione mi piacerebbe. E se potessi scegliere direi la Francia, credo sia il campionato dove si può imparare di più”.

E ora?

“Ora fare nel miglior modo possibile il raduno premondiale, riuscire a conquistarmi un posto in una delle partite verso Francia 2023, giocarmi le mie chances per entrare nella rosa dei 33. Ma già essere in una delle partite di riscaldamento sarebbe un sogno”.

Simone Gesi è nato a Livorno il 23 maggio del 2001. In Top 10, dove aveva esordito a novembre del 2020 con la maglia del Colorno, contro il Valorugby, ha messo a segno 14 mete in due stagioni (26 partite in totale). L’esordio in URC, con le Zebre, a marzo del 2022, a Durban contro gli Sharks. Con la Nazionale U20 ha disputato il Sei Nazioni 2021, mettendo a segno due mete.

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Una scelta di vita

David Odiase non si nasconde: la Nazionale U20 andrà in Sudafrica per lasciare un segno. “Vogliamo e possiamo diventare il meglio di sempre del rugby giovanile italiano e, per-

Le parole soppesate con cura, sempre giuste, inseguendo la giusta logica, le frasi che diventano concetti, si allargano alle analisi, si ritirano nelle conclusioni. Parlare con David Odiase di rugby, di scelte personali, di passato, di prospettive, di vita, è un piacere da coltivare.

Sembra di trovarsi di fronte a un giocatore esperto e a un uomo maturo, più che in un’intervista ci si scopre immersi in una chiacchierata che si trasforma in una meditazione, sul qui e ora, sui talenti da sfruttare e sulle vite parallele di ognuno di noi, da individuare e percorrere senza timore.

David da quest’anno è a Oyonnax, in Francia, ha giocato una stagione intera con gli Espoirs del club, contribuendo alla loro permanenza nel campionato Élite e si è ritagliato una presenza agli allenamenti nel gruppo di prima squadrache ha dominato la stagione regolare di ProD2, conquistando la promozione in Top14 ( vittoria 14-3 in finale su Grenoble). Il suo mondo a colori è là, nell’Auvergne-RhôneAlpes, figlio di una scelta difficile, ma consapevole: “All’inizio è stata dura - racconta dalla stanza di hotel divenuta la sua residenza francese - perché ero reduce da una pulizia in artroscopia del ginocchio e dovevo gestirmi da solo tutto il percorso di riabilitazione. Poi, appena ho iniziato a unirmi al gruppo per gli allenamenti, mi hanno bloccato i medici, negandomi l’idoneità agonistica perché sembrava avessi un piccolo problema cardiaco. Gli accertamenti successivi hanno rimesso tutto a posto, ma a quel punto la stagione era iniziata, la preparazione saltata e alla fine ho potuto giocare la mia prima partita, con gli Espoirs, solo il 15 ottobre”.

Una scelta da consigliare a un giovane italiano che ha appena iniziato il suo percorso di formazione verso l’alto livello professionistico?

“Non me la sentirei proprio di dare consigli, ognuno nella propria vita ha una sua esperienza e un suo percorso e ognuno devo percorrerlo seguendo il proprio bisogno. Quella che per me può essere una scelta valida, per un altro ragazzo potrebbe rivelarsi

un problema. E poi la mia non è stata esclusivamente una decisione presa per motivi rugbistici, sentivo di aver bisogno di un’esperienza di vita in un altro Paese, diciamo che ho usato il rugby per un motivo sociale. Certo, sono in un paese piccolo, tranquillo, in mezzo alle montagne, non ho distrazioni e questo mi dà la possibilità di essere molto concentrato sul mio impegno di atleta. All’inizio non è stato facile, anche perché io avrei sempre voluto giocare e continuare a giocare con François (Mey, attualmente a Clermont, ndr). Dopo aver vissuto insieme l’esperienza del Centro di Formazione a Milano, l’esordio in Top 10 a Colorno e l’avventura con la Nazionale under 20, mi sembrava impossibile non poter più crescere insieme. Ma anche questo è la vita: non tutto ciò che si sogna si ottiene in automatico, e allora adesso ci sentiamo per scambiarci opinioni e raccontarci le nostre esperienze di italiani all’estero. Entrambi ci stiamo trovando bene, ovviamente in un ambiente rugbisticamente evoluto come è questo, e se vogliamo conquistare minuti, dobbiamo fare i conti con un doppio handicap: siamo giovani e siamo italiani, il che equivale a dover sudare il doppio per farsi strada in un Paese che non è il nostro. Ma questa è una storia che la mia famiglia conosce bene, non mi crea alcun disagio”.

Primi passi in Francia complicati, però durante il Sei Nazioni con l’under 20 quel disagio non si è avvertito…

“Con la “mia” under 20 mi sono sentito subito a mio agio, è stato come se il destino mi avesse voluto offrire in modo gratuito la svolta della mia stagione: qui a Oyonnax stavo pure un po’ faticando con la lingua, conoscevo il francese ma non riuscivo a sostenere una conversazione e questo, anche in campo, mi creava qualche difficoltà. Appena tornato a respirare quel legame con i miei compagni di Nazionale, con quel gruppo, ho iniziato a offrire un altro tipo di prestazioni, è come se lì avessi imboccato la svolta giusta sul percorso che avevo iniziato a seguire. L’Under 20 non è una squadra, è un gruppo,

ché no, di quello seniores tra qualche anno”. di Valerio Vecchiarelli
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David Odiase è nato a Crema a gennaio del 2003.
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una famiglia, è lo specchio di quello che Massimo Brunello chiede e pretende dai suoi giocatori. Lui è un grande tecnico, ma prima ancora è un uomo che sa trasmettere i valori, ci ha passato la convinzione che in questo gioco il piano umano è fondamentale e che se davvero siamo una famiglia, tra i membri di questa famiglia deve fluire buon sangue. Noi siamo dei ragazzi fortunati a poter vivere questa esperienza, a poter condividere queste emozioni e ancora di più a poter vivere insieme i momenti di tristezza. Adesso ci aspetta un Mondiale che rappresenterà per molti di noi il punto di approdo di un’esperienza fondamentale, sia dal punto di vista formativo, sia da quello sentimentale. Per questo andremo in Sudafrica per vincere, dopo tutto quello che ci siamo persi nel Sei Nazioni; in fondo già sappiamo come si sta dalla parte degli sconfitti. Nei mesi scorsi non siamo riusciti a esprimere tutto il nostro potenziale e allora dovremo farlo al Mondiale. Siamo davvero stufi di continuare a essere considerati gli ultimi della classe, vogliamo e possiamo diventare il meglio di sempre del rugby giovanile italiano e, perché no, di quello seniores tra qualche anno. Perché possiamo essere orgogliosi di quello che facciamo solo rendendo orgogliose di noi tutte le persone che hanno creduto in questo gruppo e tutti coloro che in Italia per troppo tempo hanno familiarizzato con sconfitte e delusioni”.

Molti ragazzi dell’U20, soprattutto i più giovani, hanno confessato a Allrugby che con David Odiase in campo si sentono tranquilli, protetti, mai soli… “Questo mi fa molto piacere, ma non sono io a proteggerli, è la squadra nel suo complesso a farlo. Io quando sono arrivato a Colorno, appena diciottenne, impaurito, inesperto, ho trovato in Iacopo Sarto una figura eccezionale, un vero capitano che diventa riferimento nei momenti difficili, che sa ascoltarti, che quando serve sai dove trovarlo. Ecco, io vorrei restituire ai miei compagni di Nazionale una parte di quello che lui ha dato a me, perché questo è uno sport di valori e i valori si trasmettono. Brunello lo fa con noi, i giocatori più esperti lo fanno con i giovani, io proverò a farlo con i bambini dal prossimo anno, quando entrerò nello staff degli allenatori del mini rugby dell’Oyonnax. Perché io, se non ci fosse stato il rugby, magari sarei diventato un bravo portiere di calcio, ma non l’uomo o la persona che sto provando a essere oggi. E allora devo trovare il modo di ringraziare questo sport e donare agli altri quello che ha regalato a me”.

A proposito di esperienza a disposizione del gruppo, cosa diciamo di Sergio Parisse in Azzurro? In Italia si è aperto un dibattito tra chi è favorevole a un suo ultimo ballo al Mondiale e chi lo considera un giocatore datato…

“Di cosa stiamo parlando? Io darei l’anima per giocare con Sergio Parisse, rubargli tutto il vissuto

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Con la maglia della Nazionale U20, tra il 2022 e il 2023, Odiase ha disputato 9 partite, tutte nel Sei Nazioni, tutte da titolare. Qui entra in campo con i compagni, preceduto dal capitano Giovanni Quattrini, a Treviso per il match di quest’anno con la Francia.

possibile, sarei incantato ad ascoltare i suoi consigli in campo e fuori. Chiariamo un concetto: io e la maggior parte dei miei compagni di Nazionale abbiamo iniziato a giocare a rugby o siamo cresciuti su un campo da rugby sperando un giorno di imitare Sergio Parisse. Poi sono venuto qui in Francia e ho scoperto il rispetto che questo Paese ha per lui, per ciò che ha fatto e che ancora fa su un campo da gioco. Avete visto la semifinale di Challenge Cup? Beh, se quello è un giocatore datato… Io sarei orgoglioso e felice di poter giocare con o contro Sergio Parisse, averlo vicino, guardarlo e magari cercare di capire cosa poter fare per un giorno provare a imitarlo. E poi guardiamo la realtà in faccia: noi italiani in questo mondo ci siamo sentiti sempre un po’ snobbati, uno come Parisse ha permesso al rugby italiano di guadagnare rispetto là dove spesso non gli è concesso. Un Mondiale in Francia con Parisse in squadra accenderebbe i riflettori sul nostro rugby e il nostro rugby ha grande bisogno di visibilità”.

Allora David, ancora Oyonnax nel prossimo futuro?

“Sì, credo che un mio eventuale ritorno in Italia sia lontano. Qui ci sono strutture, logistica, compagni di squadra che hanno vissuto esperienze di altissimo livello, staff tecnici, metodi di allenamento che sento

possano far bene alla mia evoluzione, come rugbista e come persona. Non voglio dire che in Italia non ci sia possibilità di crescere, ma sento che per me questo è l’ambiente giusto. Già il campionato Espoirs è di alto livello competitivo, forse addirittura più del nostro Top10. Poi, con l’approccio professionale del ProD2 non c’è paragone e al club mi hanno assicurato che dal prossimo anno farò parte stabilmente del gruppo di prima squadra, oltre ad allenare i bambini. Cosa potrei volere di più? Sì, una cosa c’è, chiudere vincendo la nostra fantastica parentesi con l’U20”. C’è solo rugby nel futuro di un ragazzo italiano emigrato inseguendo la sua passione?

“Qui in mezzo alle montagne e vicino al campo di gioco, non ho molte altre distrazioni. Certo, leggo molto, sono attratto dalla psicologia e vorrei iscrivermi all’università per approfondire i temi della crescita personale, del controllo delle emozioni, della gestione della leadership in un gruppo. Per ora sono autodidatta, mi intriga molto il fronte della nutrizione e della giusta alimentazione. Perché se è vero che siamo ciò che mangiamo, io voglio mangiare il meglio possibile per essere il miglior rugbista possibile…”.

2023 World Rugby Under 20 Championship

Le partite dell’Italia (Pool C), tutte a Paarl (Western Cape, Sudafrica).

24 giugno Paarl Gymnasium Italia v Argentina

29 giugno Paarl Gymnasium Italia v Sudafrica

4 luglio Paarl Gymnasium Italia v Georgia

Play off: 9 e 14 luglio

Gli altri gironi

Pool A Francia, Galles, Nuova Zelanda, Giappone Pool B Australia, Inghilterra, Irlanda, Fiji

“...Io darei l’anima per giocare con Sergio Parisse, rubargli tutto il vissuto possibile, sarei incantato ad ascoltare i suoi consigli in campo e fuori. Chiariamo un concetto: io e la maggior parte dei miei compagni di Nazionale abbiamo iniziato a giocare a rugby o siamo cresciuti su un campo da rugby sperando un giorno di imitare Sergio Parisse.”
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La Rochelle, un

Dublino, Aviva Stadium, 20 maggio Finale Champions Cup

Leinster v La Rochelle 26-27

Leinster 3 mete (Sheehan 2, O’Brien), una tr (Byrne), 3 cp (Byrne)

La Rochelle 3 mete (Danty, Seuteni, Colombe), 3 tr (Hastoy), 2 cp (Hastoy)

Da dove comincerà Andy Farrell a raccogliere i pez zi dopo il disastro del Leinster contro La Rochelle? Questo si domandava la stampa irlandese all’indomani della finale di Champions Cup?

La settimana prima, lasciando a riposo un bel po’ di titolari (Sheehan, Furlong, Porter, Doris, Van der Flier, Gibson-Park, Ringrose, Lowe, Keenan), la squadra di Leo Cullen aveva regalato al Munster (15-16) un posto nella finale di URC.

Per quanto dolorosa, la sconfitta era apparsa ai più frutto della volontà della formazione di Dublino di concentrare tutte le proprie forze sulla sfida con La Rochelle, una rivincita attesa da un anno, dopo la sconfitta in volata subita nel 2022 a Marsiglia. Ora, la squadra che all’Aviva Stadium ha schierato in finale non meno di quattro quinti della Nazionale irlandese si trova invece a chiudere la stagione per il secondo anno consecutivo con un pugno di mosche in mano.

Il che allarma, e non poco, i tifosi in vista della Coppa del Mondo, alla quale l’Irlanda si presenta da numero uno, ma con la pericolosa abitudine a non mantenere ai Mondiali le promesse suscitate nel corso della stagione che li precede.

Un anno fa, contro La Rochelle, il Leinster non era riuscito a mettere a segno neppure una meta: diciotto dei ventuno punti erano venuti dal piede di Sexton, con Byrne realizzatore di un ulteriore, ultimo, calcio di punizione.

Stavolta, al contrario, la formazione irlandese non poteva avere avvio migliore: la prima meta di Sheehan, dopo nemmeno 90” è la più veloce mai realizzata in una finale europea. Poi O’Brien ha replicato dopo nemmeno cinque minuti e il tallonatore ha sfondato di nuovo che non era trascorso ancora un quarto d’ora. Nel frattempo Kerr-Barlow aveva rimediato un cartellino giallo per aver ostacolato una ripartenza veloce di Gibson-Park dopo l’ennesimo fallo francese.

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La squadra di Ronan O’Gara, a dodici mesi di distanza, si è confermata sul tetto d’Europa. E il Leinster, per il secondo anno consecutivo, è rimasto a mani vuote.

anno dopo

Insomma, con poco più di un’ora da giocare la partita del Leinster sembrava decisamente avviata sul binario ideale. E, invece, da quel momento in poi, La Rochelle ha cominciato a guadagnare possesso e territorio.

E, così, nonostante l’inferiorità numerica, Danty ha trovato di forza la via della meta, dando respiro ai suoi e riaprendo i giochi.

Poi Seuteni ha marcato ancora prima del riposo e, nel secondo tempo, La Rochelle ha continuato ad avanzare forte delle sue quattro ruote motrici, ovvero i muscoli di Skelton, la potenza di Aldritt, la mole di Atonio, l’incedere esplosivo di Botia. A queste ondate gli irlandesi non sono riusciti a trovare risposta se non quella di attestarsi su una pericolosa Maginot. Alla fine, i placcaggi del Leinster saranno 183, contro i soli 73 de La Rochelle. E i circa mille metri guadagnati con il gioco al piede di Ross Byrne e James Lowe (una media di una trentina di metri ad azione) si riveleranno essere stati soltanto l’innesco dei contrattacchi di Dulin, 87 metri contro i soli 29 di un cavallo di razza come Hugo Keenan. E tuttavia, a un minuto dalla fine, con le squadre entrambe in 14 (cartellini gialli a Kelleher e Danty) gli irlandesi hanno avuto l’opportunità di vincere il match: sarebbe bastato pazientare e pazientare ancora a cinque metri dalla linea di meta, prima o poi l’occasione sarebbe arrivata, oppure provare a mettere in velocità le gambe di Ringrose, Keenan e Lowe, tanto più che alla difesa francese mancava Danty.

Invece le speranze dei Leinster si sono arenate sul fallo sciagurato di Ala’alatoa su Colombe, l’autore della meta che ha deciso la partita.

Contro il Tolosa, in semifinale a fare la differenza a favore della squadra di Leo Cullen era stata la disciplina: nei due periodi di inferiorità numerica i francesi avevano concesso quattro mete. Stavolta: rosso a Ala’alatoa e sipario calato.

La lite nel tunnel, all’intervallo, tra Sexton (in borghese) e O’Gara dice di vecchie rivalità e nuove ambizioni: l’allenatore dei francesi sogna di sedersi prima o poi sulla panchina irlandese. (glb)

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Gregory Alldritt (a sinistra) e Romain Sazy alzano la Champions Cup, a Dublino, dopo il secondo trionfo consecutivo sul Leinster.

Lo stato delle

Dopo il Sei Nazioni Donne, Mario Diani analizza la situazione delle squadre europee.

Dal Sei Nazioni 2023 ci si aspettava una maggiore competizione e un generale miglioramento della qualità del gioco, visto l’effetto RWC 2021 e il passaggio al professionismo ormai avviato in tutte le nazioni partecipanti. Qualche cambiamento c’è stato: si sono segnate più mete che nel 2022 (122 contro 101) e tutte le squadre tranne l’Inghilterra e l’Irlanda hanno migliorato la differenza tra mete segnate e mete subite. La Francia ad esempio ha chiuso a +22 (era a +16 lo scorso anno), l’Italia a -16 (contro -20). Questo non ha però significato un maggiore equilibrio: gli incontri con bonus offensivo sono stati 14 (contro 11); per contro, soltanto le Crunch nell’ultima giornata si è concluso con meno di 8 punti di scarto (era successo quattro volte un anno fa). Se lo scarto medio in una partita lo scorso anno era stato di 28 punti, nel 2023 è salito a 32 punti. Inoltre, mentre la classifica aveva visto nel 2022 tre squadre con due vittorie a testa (Galles, Irlanda e Italia), separate soltanto dai punti di bonus, quest’anno ha presentato una gerarchia più marcata. L’unica differenza nell’ordine finale ha riguardato lo scambio di posizione tra Scozia (passata dal sesto al quarto posto) e Irlanda (precipitata all’ultimo posto).

L’Inghilterra

Passando alle singole squadre, l’Inghilterra ha confermato i pronostici che la davano favorita, ma impressiona come lo ha fatto. Ha dovuto infatti fronteggiare per tutto il torneo l’assenza di giocatrici di primo piano come Scarratt al centro, Harrison all’apertura, Ward in seconda line, oltre a fare a meno nelle prime giornate di pedine del calibro di Kildunne (estremo), Matthews (terza linea) e Botterman (pilone). Non ne è stata minimamente toccata, dimostrando una profondità di rosa assoluta e lasciando spazio a giocatrici in precedenza meno utilizzate come Heard al centro o Kabeya in terza linea, o altre impiegate in ruoli diversi (il passaggio di Aitchison da centro all’apertura è stata una delle success stories del torneo). Inoltre, ha smentito l’immagine di squadra incentrata sulla rolling maul marcando mete a ripetizione con le trequarti (meno brillanti però nell’unica partita realmente impegnativa, quella con la Francia). Infine, la nuova capitana Marlie Packer ha fornito una leadership certo molto più abrasiva e sgradevole rispetto a Sarah Hunter, che l’ha preceduta, ma di assoluto rilievo quanto a prestazione sul campo (miglior marcatrice, con

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Nazioni

sette mete, e più alto numero di turnover). Si tratta ora di vedere se il nuovo allenatore John Mitchell (carriera stellare, compreso un periodo come head coach degli All Blacks alla Rwc 2003, ma una reputazione di personalità spigolosa) riuscirà a portare alle Red Roses il titolo mondiale nel 2025. La sua nomina ha suscitato un certo scetticismo, accentuato dal fatto che, essendo attualmente allenatore della difesa del Giappone (maschile), assumerà il nuovo incarico soltanto dopo la fine di RWC 2023. Potrà pertanto raggiungere la squadra, impegnata nella nuova competizione World XV che prevede anche la rivincita della finale di Rwc 2021 contro le Black Ferns, senza aver contribuito alla preparazione di un incontro di grande rilevanza, se non altro simbolica.

La Francia

Per il futuro prossimo è difficile individuare serie rivali delle inglesi al di fuori della Francia. La squadra transalpina ha superato senza patemi i problemi che ritiri e infortuni avrebbero potuto porle, lasciando spazio a giocatrici emergenti tra le avanti (ad esempio la Escudero) e confermando la classe di figure come il mediano di mischia Bourdon e il centro Vernier nelle linee arretrate. Soprattutto, la Francia sembra essersi lasciata alle spalle le tensioni che ne avevano avvelenato il clima al Mondiale. Riaprire la partita a Twickenham dopo un passivo di 33-0 nel primo tempo suggerisce un notevole spirito di squadra. Si tratta di vedere ora se una messa a punto della qualità del campionato - al momento di buon livello ma non paragonabile a quello inglese - metterà le francesi nelle migliori condizioni per aspirare al vertice assoluto del ranking. Anche per loro, l’appuntamento autunnale di WXV avrà grande importanza.

Il Galles

Tra le posizioni consolidate - e non era scontato, visto il calendario non favorevole - anche quella del Galles, che ha regolato con punto di bonus tutte le avversarie abbordabili. Per ottenere questo risultato si è appoggiato a un pacchetto di mischia che, già solido, è stato ulteriormente rafforzato dall’emergere di due giovani piloni di alto livello come Pyrs e, soprattutto, Tuipulotu. La qualificazione nel primo gruppo della nuova competizione autunnale WXV permetterà alle gallesi di confrontarsi annualmente con Nazionali di punta come Nuova Zelanda e Canada e potrebbe favorire il loro consolidamento come

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principale alternativa al duopolio anglo-francese. Perché questo accada, tuttavia, andrà nettamente elevata la qualità delle linee arretrate. Per il momento, pur guidando il secondo gruppo, il Galles non ha in realtà migliorato la sua prestazione contro le due grandi, da cui ha subito lo stesso scarto complessivo (-81 punti) dello scorso anno.

La Scozia

Un altro interrogativo alla vigilia del Sei Nazioni riguardava la capacità della Scozia di liberarsi del ruolo di eterna perdente. Ci è finalmente riuscita - purtroppo anche a nostre spese - grazie a due elementi: una migliorata coesione nel gioco delle avanti, che in passato alternavano buoni momenti a errori banali nel corso dello stesso incontro, e l’emergere nelle linee arretrate di giovani promettenti come il centro Orr o l’ala McGhie, in grado di offrire opzioni alternative al solito, incisivo estremo Chloe Rollie. Vedremo in autunno se la Scozia, qualificata direttamente al secondo gruppo di WXV, sarà in grado di performare con continuità su un livello più elevato rispetto al suo recente passato.

L’Irlanda

Chi invece non ha saputo uscire dalle difficoltà con

cui si era avvicinata al Six Nations è stata l’Irlanda. A una discreta prestazione del pacchetto di mischia, specie nelle seconde Fryday e Monaghan e nella terza centro Nic a Bhaird, ha fatto riscontro la sterilità delle linee arretrate, anche in incontri come quello di Parma in cui il possesso non è mancato. Le aspre polemiche da tempo in corso nel Paese intorno alla disattenzione riservata alla versione a XV del gioco, condite di accuse di sessismo e discriminazione, non hanno certo contribuito a creare un clima interno sereno, portando infine alle dimissioni dell’head coach Greg McWilliams. Rimane però da chiedersi quale squadra del secondo gruppo sarebbe stata in grado di fronteggiare l’assenza della sua intera linea arretrata titolare. In particolare, con le varie Flood, Parsons, Higgins, e Murphy-Crowe in campo, sia la partita con l’Italia che quella con la Scozia sarebbero state come minimo assai più incerte. D’altro canto, la raggiunta qualificazione alle Olimpiadi 2024 suggerisce che almeno in parte la scelta di privilegiare il Seven abbia pagato.

L’Italia

Che dire infine dell’Italia? Non si possono dimenticare i vari aspetti positivi emersi durante il torneo. L’Italia ha segnato 6 mete in più rispetto al 2022 (10

Nelle pagine precedenti, la festa inglese dopo la vittoria nel Sei Nazioni.

Sotto, Sisilia Tuipulotu, classe 2003, 1.75 per 113 chili, vera forza emergente della nazionale gallese.

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contro 4), subendone solo 2 in più (26 contro 24), e marcando almeno una volta in tutte le partite. La difesa ha funzionato piuttosto bene, soltanto contro l’Inghilterra la percentuale di placcaggi riusciti è stata inferiore a quella delle avversarie. Si è anche visto qualche miglioramento nell’uso del piede, un aspetto sul quale Raineri ha insistito molto, nonostante errori banali (in particolare, calci direttamente in touche) che hanno più volte stoppato buone manovre delle Azzurre, e nonostante una gittata media inferiore a quella delle altre squadre. Se poi si passa a considerare le singole giocatrici, di pochissime si può dire che abbiano avuto un torneo complessivamente insoddisfacente, mentre ci sono state prestazioni di grande rilievo: non si può non menzionare la presenza offensiva e difensiva di Sara Tounesi, il dinamismo di Muzzo e D’Incà sulle ali, o la precisione di Sillari dalla piazzola (ha chiuso con l’83% di successi, 10 su 12).

Tuttavia, molti - in primis le giocatrici e lo staff tecnico, ma anche gli appassionati - hanno considerato deludente l’esito del torneo, pur tenendo conto delle attenuanti legate al cambio di allenatore. È indubbio che si sperasse in qualcosa di meglio: il calendario quest’anno era favorevole, con due celtiche su tre in casa e una trasferta in Scozia dove dal 2010 avevamo perso soltanto una volta, nel 2017; inoltre, potevamo contare su una squadra di grande espe -

rienza che arrivava al torneo sulla scia di una RWC di alto livello. D’altro canto, se i risultati sono stati inferiori alle aspettative, ciò è avvenuto solo marginalmente rispetto all’anno scorso: in fin dei conti la vittoria di Cardiff, la seconda del 2022, arrivò all’ultimo minuto grazie a un’ingenuità della difesa gallese e alla freddezza di Michela Sillari, e anche il successo sulla Scozia a Parma fu alquanto laborioso. Il problema, però, non è tanto nei risultati ma nel modo in cui ci si è arrivati, che giustifica una certa frustrazione: la squadra ha espresso momenti di grande brillantezza, soprattutto nelle linee arretrate, ma anche con alcune penetrazioni delle avanti, però ha raramente dato l’impressione di controllare il gioco. Anche l’incontro con l’Irlanda, alla fine vinto abbastanza largamente, ha visto lunghissime fasi di possesso irlandese (due terzi del totale) ed è rimasto aperto più di quanto doveva.

Errori e disciplina

Della squadra azzurra hanno colpito i numerosi errori nel controllo del pallone, che hanno a volte vanificato situazioni anche molto promettenti. Questo per la verità non emerge in modo netto dai dati: secondo le statistiche ufficiali del torneo, le azzurre nel corso dei cinque incontri hanno compiuto 38 “in avanti” contro 34 delle avversarie, e 66 errori di handling (contro 69), mentre la percentuale di passaggi sbagliati è stata superiore a quella delle avver-

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Duro confronto tra la mischia azzurra e quella scozzese al Dam Health Stadium di Edimburgo, nella quarta giornata del Sei Nazioni.

sarie solamente contro il Galles (10% contro 4%). È vero però che gli errori si sono spesso concentrati in situazioni molto delicate, in particolare nella partita con la Scozia, dove gli “in avanti” sono stati 12 contro 3 delle nostre avversarie.

Un altro punto critico su cui molti si sono soffermati è la disciplina, ma anche qui i dati forniscono un quadro meno fosco rispetto alle impressioni immediate. È vero che in media abbiamo avuto più calci contro (11 per partita) che a favore (8); ma è anche vero che l’unico caso di squilibrio veramente marcato si è verificato nel solo incontro che abbiamo portato a casa, con 14 calci contro di noi e soltanto 6 contro l’Irlanda. Va riconosciuto però che le nostre avversarie sono state molto brave a sfruttare le opportunità concesse loro dai nostri falli. La Scozia, in particolare, ha marcato tutte le sue cinque mete contro di noi direttamente o indirettamente da penaltouche; in cinque partite noi abbiamo segnato soltanto una volta in questa situazione, contro l’Inghilterra, mentre abbiamo malamente sprecato numerose touche ai 5 metri con lanci storti o fraintendimenti tra saltatrici e lanciatrice.

Possesso e fasi statiche

Questa osservazione ci porta al vero problema di questo torneo, da cui poi dipendono anche gli errori sotto pressione: la difficoltà ad assicurarsi un possesso di qualità dalle fasi statiche. Tranne l’Irlanda, tutte le nostre avversarie hanno vinto il 100% delle mischie su loro introduzione; noi lo abbiamo fatto soltanto una volta, proprio contro le Verdi, altrimenti la nostra percentuale è stata nettamente più bassa; in particolare, contro la Scozia non si è andati oltre il 67%. Quanto alle rimesse laterali, dove si è sentita l’assenza di Melissa Bettoni, al di là del numero di quelle formalmente vinte ha contato molto la qualità scadente dei palloni conquistati. Ciò ha raramente permesso di attivare attacchi con la necessaria rapidità.

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A parziale giustificazione delle difficoltà nelle fasi statiche non si può dimenticare la sfortuna, riflessa non solo nell’alto numero di incidenti ma nel loro avere colpito (con l’eccezione di Jessica Busato) particolarmente le avanti, già indebolite dalle assenze di lungo periodo di Arrighetti e Veronese. Silvia Turani ha disputato soltanto parte dell’incontro con la Francia, una perdita pesante considerato che in tutto disponiamo al momento di soli tre piloni di effettivo livello internazionale; la settimana successiva sono finite fuori uso due altre terze linee di livello come Sgorbini (il cui tentato rientro contro l’Irlanda è durato pochi minuti) e la capitana Elisa Giordano. Ne sono risultati ulteriori problemi in rimessa laterale e una grande pressione sulle rimanenti back five, con Duca, Fedrighi, Tounesi, Locatelli e Franco costrette a giocare tre partite di fila quasi per intero (anche se le inesperte Ranuccini e Gurioli si sono ben comportate quando sono entrate in campo).

Il fatto che l’unica partita con una nostra prestazione al breakdown veramente insufficiente e fallosa sia stata quella con il Galles non sembra dipendere solo dalla qualità dell’avversaria ma dal fatto che la benzina era veramente finita.

Detto tutto questo, la serie di infortuni subiti nel 6 Nazioni ha proposto nuovamente la questione di come estendere la profondità della rosa. In vista dello spareggio con la Spagna valido per l’ammissione al secondo livello di WXV, in programma a luglio, non c’è che da sperare nel recupero di almeno una parte delle infortunate (non vi sarà purtroppo Giada Franco, infortunatasi al crociato contro il Galles). In prospettiva però la questione del ricambio e dell’inclusione di forze nuove nel gruppo azzurro richiederà la massima attenzione (e il massimo investimento).

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Giordana Duca salta in touche contro l’Inghilterra. La rimessa laterale è stata uno dei talloni d’Achille dell’Italia nell’ultimo Sei Nazioni.

Women in Rugby

Allargare la base. Capire che cosa ha attratto le ragazze che già giocano e che cosa, invece, ne tiene altre lontane. La storia di Anna Bonfiglio promossa in Eccellenza con il Calvisano dopo tre anni di stop.

Di Giacomo Bagnasco

Tre anni di stop, e dopo - nell’arco di sei mesi - la ripresa con il rugby giocato, la conoscenza del gioco a 15 e l’inserimento in una squadra che va a vincere il campionato di Serie A, conquistando la promozione in Eccellenza. Nel rugby femminile può succedere anche questo. Protagonista della scalata è Anna Bonfiglio, diciotto anni, studentessa del Liceo scientifico e secondo centro delle “Calvignare”, cioè le ragazze del Calvisano. Non una paracadutata nel mondo del rugby, visto che da bambina era già nell’Under 10 e nell’Under 12 del Fiumicello. “Finché è stato possibile - racconta - ho giocato nelle squadre miste, e dopo, per continuare con il femminile, ho fatto una stagione con il Cus Brescia e una con il Parabiago. Tornata a Fiumicello, partecipavo a raggruppamenti a livello regionale/interregionale organizzati dal Comitato regionale lombardo. Si giocava con la formula della Coppa Italia, a sette in metà campo, e ogni volta mi mettevano in una squadra mista: le compagne cambiavano sempre e questo era anche stimolante. Sono andata avanti così fino ai 15 anni”. Ma poi... “È arrivato il Covid, e durante quel periodo mi è passata la voglia di giocare. Volevo rimanere, però, nel mondo del rugby e ho cominciato a seguire i bambini più piccoli. Una cosa che continuo a fare e che mi dà divertimento e soddisfazione”. La pandemia si allontana, a livello (inter)regionale si riannodano i fili e si fa partire un’attività d’area. Tra le convocate, per quel giorno di ottobre 2022, c’è anche Anna, che era sempre rimasta tesserata per il Fiumicello. Roberto Dal Toè - che affianca

Elisa Rochas, responsabile del progetto area Nord-

Ovest (Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta) - l’aveva seguita a suo tempo nelle selezioni regionali, e questo spiega la chiamata nel gruppo delle nate nel 2005.

Un “appello” a cui Anna non è rimasta insensibile. “A convincermi è stato mio papà. Per farmi tornare la voglia di giocare è bastato il primo allenamento, a Parabiago. L’ho trovato divertente, coinvolgente. Ho continuato per tutta la stagione l’attività d’area ma ho anche contattato il Calvisano, ho chiesto se potevo allenarmi con loro”.

Calvignara da novembre, Anna parte con ambizioni limitate: “Dovevo inserirmi in una squadra a 15, tutta formata da ragazze più grandi. In questa prima stagione potevo sperare di giocare qualche minuto e invece sono arrivata ad essere titolare. Sono stata accolta bene, le compagne mi hanno sempre sostenuta e in partita mi danno fiducia. All’inizio il passaggio dal “sette” al 15 è stato un po’ complicato, sono due modalità di gioco diverse, ma mi sono adattata velocemente”.

Secondo posto nel girone Nord-Est della Serie A, alle spalle della squadra-bis del Valsugana, che però non può salire di categoria, visto che in Eccellenza c’è già la “prima” delle Valsugirls. E allora ai play-off va il Calvisano, che supera in semifinale (partite di andata e ritorno) le marchigiane del Montegranaro e poi, il 2 aprile a Parabiago, batte in finale le piemontesi del Volvera.

E adesso si va avanti... “Sì, certo, dipenderà dall’allenatore (Alessandro Cudicio, figlio di Graziano, ex arbitro e dirigente, ndr) ma spero di continuare su questa strada. So di dover migliorare un po’ in tut-

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Anna Bonfiglio classe 2005.
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to, in difesa, nel placcaggio, nel gioco al piede. Una dote? Penso di avere una certa visione del gioco. Palla in mano mi trovo bene, mi piace, ad esempio ho fatto un bel passaggio, anche un po’ coraggioso, per una meta segnata nella finale”.

E allora buona fortuna ad Anna, e complimenti per la sua “accelerazione”. Resta la curiosità a proposito di una rentrée così efficace dopo tre anni di inattività.

“La convocazione ai raduni per le Under 18 avviene inizialmente solo con una miniselezione, tramite l’attività regionale e le segnalazioni dei tecnici sul territorio - spiega Elisa Rochas -. Si tenta di coinvolgere il maggior numero possibile di ragazze delle due annate interessate, spiegando loro che si punta soprattutto sulla formazione e sull’avvicinamento al XV, che molte non hanno mai giocato. È una bella chance e un’occasione di crescita, trovarsi a fare allenamento con 30-40 atlete della stessa età mettendosi in gioco in prima persona. Per tutta la stagione siamo andate avanti con un paio di incontri al mese, a Parabiago o a Lainate, scelte per motivi di comodità logistica”.

“Per diverse giocatrici - prosegue Rochas - è poi arrivata la selezione in vista di un possibile impiego nella Nazionale Under 18 (vedi l’intervista in queste pagine a Diego Saccà, responsabile tecnico delle Azzurrine, ndr). Fino al Festival Sei Nazioni di aprile abbiamo mantenuto il gruppo 2005-2006. Dopo siamo passate a lavorare per la stagione successiva, con le nate nel 2006 e nel 2007. Si tratta, tanto per cominciare, di motivare le ragazze, di spronarle a continuare, con allenamenti extra che puntano a far compiere a ognuna un miglioramento, secondo le sue possibilità e il suo livello

di impegno. È successo anche con Anna, che non è comparsa dal nulla, perché comunque la conoscevamo. Noi abbiamo voluto darle uno stimolo in più e la cosa evidentemente ha funzionato. In lei c’è un potenziale, non è arrivata in Nazionale con l’Under 18 ma continueremo a seguirla e può giocarsi le sue carte in prospettiva Under 20”.

Maria Cristina Tonna, responsabile del settore femminile della Fir, ribadisce il disegno che sta dietro l’attività studiata per le Under 18: “Almeno in una prima fase - specifica - nei raduni si continua a premere l’acceleratore sulla formazione, cercando di alzare il livello per tutte e sottolineando il concetto che soprattutto a livello giovanile non ci sono gerarchie stabili”.

“Per quelle che sono arrivate in Nazionale - aggiunge Tonna - è stato molto importante partecipare al Festival Sei Nazioni Under 18 e rendersi conto della situazione delle coetanee degli altri Paesi, delle loro qualità. A volte ne sono rimaste impressionate. D’altronde, Francia e Inghilterra, che prevalgono anche in questa categoria di età, hanno un bacino molto più grande delle altre, una grande capillarità sul territorio, una cultura sportiva e rugbistica differente dalla nostra. Noi dobbiamo fare di tutto per rimanere in scia”. Si parte dalla necessità di allargare la base. “Addirittura, a livello femminile tante societàà non hanno nemmeno i numeri per giocare a sette. La cosa più importante è che molti più club allarghino la loro visione e che investano nel femminile, creando la filiera”.

Per il reclutamento ogni cosa serve: “All’interno del progetto “Women in Rugby” abbiamo anche lanciato un sondaggio per cercare di capire che cosa ha attratto le ragazze che già giocano e che cosa, invece, ne tiene altre lontane”. Aspettiamo i risultati.

Maria Cristina Tonna, responsabile Fir del settore femminile. A sinistra, le ragazze del Calvisano in azione: Bonfiglio palla in mano con Francesca Sberna in sostegno.
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Una meta spettacolare durante un’edizione della Coppa Italia femminile U18.

La prima vittoria

Una piccola pietra miliare per il rugby femminile italiano. È l’11 aprile 2023, sui terreni del Wellington College, non lontano da Londra: con una meta di Chiara Cheli trasformata da Sara Mannini la Nazionale Under 18 (giovane non solo per l’età delle atlete ma anche perché è nata da poco più di un anno) supera 7-0 il Galles e ottiene il primo successo della sua storia. Replicherà poi con la Scozia, ma la prima vittoria è come il primo amore: non si dimentica.

Era il secondo Festival Sei Nazioni, che si è tenuto dal 6 al 16 aprile. Calendario su tre giornate, un paio di confronti per ogni squadra nei primi due turni (con un tempo solo da 35 minuti per ciascun incontro) e una partita con due tempi, sempre da 35 minuti, nella giornata conclusiva. Le Azzurrine si sono avviate con una sconfitta per 55-0 contro la Francia (che poi finirà per vincere tutti e cinque i suoi incontri, dominando l’Inghilterra 57-10 in quello conclusivo) ma hanno rialzato subito la testa: con l’Irlanda il passivo è stato limitato (0-10) e così è successo anche contro le inglesi (7-15) nella seconda giornata, che poi ha portato alla vittoria sul Galles. Infine il 19-15 con cui la squadra di Diego Saccà, responsabile tecnico del -

le Nazionali Under 18 e Under 20 (nonché del settore Seven) femminili, ha chiuso la sua serie di impegni battendo la Scozia.

“L’inizio con la Francia è stato duro - osserva Saccà - e d’altronde loro svettavano anche l’anno scorso a Edimburgo. Ma mi ha colpito la capacità delle ragazze di comprendere velocemente il contesto in cui si trovavano, adeguandosi in poco tempo. Si è vista una buona consistenza già nel secondo match, davanti all’Irlanda, con la capacità di prendere le misure e rispondere alle esigenze poste dalla situazione, ed è stata bella e interessante la prestazione con l’Inghilterra. Certo, poi avere portato a casa il risultato con il Galles è stato molto emozionante. Per loro, ma anche per chi compone lo staff tecnico e ha dedicato tanto al movimento femminile. In Under 18 lavorano con me Elisa Rochas e Leila Pennetta, mentre le altre due responsabili di area, Elisa Facchini ed Elena Chiarella, sono nello staff dell’Under 20, con Melissa Bettoni responsabile delle avanti. In comune le due Nazionali hanno la team manager Paola Zangirolami e Michela Tondinelli, che si occupa del gioco al piede”.

La spedizione azzurra delle U18, in piedi da sinistra: Diego Saccà (Responsabile Tecnico), Daniele Pacini (Direttore Tecnico FIR), Maria Cristina Tonna (Coordinatrice Donne FIR), Elisa Rochas (allenatrice), Laura Foscato, Ilaria Alonzi, Sara D’Andrea, Emma Tognon, Lucie Jeanne Moioli, Asia Liccardo, Elisa Cecati, Elettra Costantini, Sara Mannini, Antonella Maione, Greta Copat, Leila Pennetta (allenatrice), Arianna Corbucci (video analyst), Paola Zangirolami (Team Manager); Fila centrale: Valerio Ricci (fisoterapista, in ginocchio), Viola Bernuzzi, Desirée Spinelli, Eva Eschylle, Morgana Corsaro, Margherita Tonellotto, Chiara Cheli, Penelope D’Epiro, Ilaria Remonti, Carola Fogarin, Lavinia Tonna, Edoardo Colantoni (dottore, in ginocchio); in ginocchio: Nami Fujimoto, Giada Abiti, Mary Akosa, Nicole Ruggio, Giorgia Cuppari, Alessia Cagnotto, Miriana Carlini.

Due successi per la U18 femminile al Six Nations Festival. Con il Galles la squadra ha ottenuto il primo successo della sua storia.
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non si scorda mai

Torniamo al Festival Under 18, particolare non solo nella formula. “Intanto - spiega l’allenatore - non ci sono classifiche ufficiali. Si punta a far giocare tutte le ragazze e ognuna delle nostre 28 ha avuto il suo minutaggio. Abbiamo alternato anche le capitane: Desirée Spinelli (tallonatrice del Benetton), Sara Mannini (apertura del Colorno), Antonella Maione (pilone destro dell’Amatori Torre del Greco), Margherita Tonellotto (terza linea del Valsugana). Al di là delle partite, quello che conta è che nell’arco dei dieci giorni le Nazionali si allenano insieme e le giocatrici partecipano a sessioni comuni di analisi video suddivise per ruoli. Si creano confronto e condivisione, per loro è davvero una grande esperienza. Non mancano nemmeno le attività extra sportive”.

“Il nostro - aggiunge - è un gruppo che ha saputo rispondere in maniera brillante a livello caratteriale, ha attitudine al gioco, una mischia di consistenza fisica e tecnica, trequarti di qualità. Si accetta la sfida, si riesce a dare continuità, si lavora bene a livello sia offensivo che difensivo. C’è anche da tenere presente che noi schieravamo solo ragazze del 2005, mentre qualche altra squadra aveva anche le nate nel 2004”.

Queste ultime erano state impegnate l’anno scorso, “pescando” da un blocco di tesserate che - a quanto risulta - in tutto il Paese superava appena le 200 unità, mentre la quota di 2005 dovrebbe essere intorno alle 160. Numeri imparagonabili, quantomeno, con quelli dei movimenti di Francia e Inghilterra. Ma si va avanti: “Nell’attività formativa a livello interregionale c’è innanzitutto da impostare un avvicinamento al gioco a 15 su una base larga, per prendere confidenza, ad esempio, con le mischie e i raggruppamenti. Di qui può partire una prima selezione, che comunque non dev’essere troppo precoce ed è per forza un processo complesso, con diverse variabili e con il bisogno di conferme nel tempo”.

E nel tempo si evolve anche l’Under 20. “C’è stato un primo test in casa della Spagna Under 21 a febbraio (con sconfitta per 10-5, ndr) ed è prevista una ulteriore attività in estate. Andando per gradi, si conta di arrivare a istituire un Sei Nazioni Under 20 femminile. Naturalmente tutto quello che si fa è in rapporto alle prospettive della Nazionale maggiore, perché possa disporre di ragazze che hanno già avuto esperienze internazionali”. (G. Bag.)

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Adieu monsieur Bernard

A 75 anni se n’è andato Bernard Lapasset, già presidente di World Rugby e grande amico dell’Italia

Pirenaico di Tarbes, Bernard Lapasset aveva in sé quello spirito regionale da sempre linfa del rugby francese e di pari passo quell’applicazione che rende un burocrate un personaggio stimato, destinato a ricoprire importanti incarichi.

Esattamente il contrario di quanto capita in Italia dove il burocrate è un personaggio grigio o farsesco, alla Policarpo de’ Tappetti. Il burocrate, addestrato in una scuola fondata da Napoleone, crescendo in esperienza e in responsabilità, diventa grand commis, architrave dello Stato.

Lapasset, partito da incarichi importanti nelle Dogane (nel suo cursus honorum anche un titolo francese vinto nel campionato di categoria, dopo averne conquistato uno giovanile con l’Agen), è stato il Grand Commis del rugby francese e mondiale. Ed è stato un grande amico dell’Italia e di Giancarlo Dondi che ha provato un grande dolore alla notizia di una scomparsa avvenuta a 75 anni, dopo che il regno delle ombre aveva portato una costante e implacabile minaccia alla mente del primo presidente non anglofono nella storia del rugby.

Segretario e poi presidente della Ffr, Lapasset è stato uno dei più genuini e convinti assertori della necessità dell’ingresso dell’Italia nell’aristocrazia del rugby europeo, sino alla creazione del nuovo formato dell’antico torneo e alla nascita del 6 Nazioni.

Nei suoi due mandati passati alla presidenza dell’Internationl Board, oggi World Rugby, ha affrontato il non facile processo di crescita di un gioco diventato professionistico e globale, ha fatto sì che a quasi cent’anni dall’ultima apparizione, la palla ovale tornasse nella famiglia olimpica con la versione disinvolta e veloce del rugby a 7 favorendo così l’ingresso di nuovi paesi, è stato fautore di uno spazio sempre più importante concesso al mondo femminile.

Uno dei suoi maggior successi è venuto dall’edizione 2007 della Coppa intitolata a William Webb Ellis: mai un Mondiale aveva fatto registrare un pubblico medio, partita dopo partita, vicino alla 50.000 unità. Una svolta, dettata proprio dalla Francia, che ebbe un seguito, ancora su suolo europeo, con l’edizione inglese del 2015.

Lapasset è stato uno degli artefici della “grande accoppiata” che il paese di Marianna sta per offrire al mondo: la Coppa del Mondo ormai sempre più vicina, e l’Olimpiade 2024 che torna a Parigi cent’anni dopo una delle sue edizioni più amate e memorabili.Se a condurre il comitato di candidatura di Londra 2012 era lord Sebastian Coe, a guidare quello di Parigi 2024 era monsieur Bernard. Non vedrà né l’uno né l’altro di questi due grandi appuntamenti ospitati dalla sua terra che gli sarà sempre riconoscente. (Giorgo Cimbrico)

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in
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memoria

Verona festosamente invasa da 500 giovani rugbisti per la seconda edizione della Massimo Cuttitta Challenge

Si è svolta il 13 e 14 maggio presso il Payanini Center di Verona la seconda edizione della Massimo Cuttitta Challenge, il torneo internazionale Under13 dedicato alla leggenda del Rugby azzurro, scomparso nel 2021. È stato un weekend festoso, che ha colorato - al suono delle cornamuse - anche le strade di Verona con le maglie delle 51 squadre di giovani rugbisti provenienti da tutta Italia e dalla Scozia, oltre che un momento prezioso di grande sport giovanile nel nome del grande Massimo Cuttitta e dei valori del Rugby. “Divertirsi per avere successo” era una delle frasi che Massimo pronunciava spesso a proposito della sua passione per questo sport, un tutt’uno con la sua vita.

E proprio in quest’ottica è nata la “Massimo Cuttitta Challenge”, da un’idea di Sergio Ghillani, ex pilone e caro amico di Massimo e dei fratelli di Massimo, Michele e Marcello Cuttitta, quest’ultimo storica ala della nazionale e detentore del record di mete segnate in azzurro. Organizzata da Italian Classic XV, la società sportiva che dà vita alla squadra ad inviti degli ex giocatori della Nazionale Italiana di Rugby Over 30, la Challenge è stata ospitata in maniera eccellente da Verona Rugby, che oltre all’allestimento di un allegro Rugby Village con attività propedeutiche per bambini, ha saputo coinvolgere tutta la città, anche con l’intervento delle autorità e del sindaco di Verona, Damiano Tommasi, a cui è stata donata una maglia personalizzata.

La pioggia battente non ha fermato i 500 ragazzi, rendendo, se possibile, ancor più straordinarie le loro prestazioni sul campo.

Dopo la due giorni di sfide, la vittoria della Challenge è andata ai ragazzi della Colleferro Rugby 1965, che custodiranno il trofeo Massimo Cuttitta fino alla prossima edizione, prevista a maggio 2024.

Grande espressione dei valori del rugby, la partecipazione alla sfida di una squadra intitolata a Massimo Cuttitta, composta da una selezione di ragazzi provenienti da tutte le società iscritte al torneo, che per la prima volta si sono trovati compagni in campo, e hanno saputo distinguersi conquistando il decimo posto in classifica.

A celebrare la perfetta riuscita del torneo e a premiare i vincitori sono stati Marcello e Michele Cuttitta, con Sergio Ghillani, Raffaella Vittadello, presidente del Verona Rugby, e Antonio Luisi, vicepresidente della Federazione Italiana Rugby.

“È stata una stupenda due giorni di amicizia, rispetto e passione per il Rugby, i valori su cui Massimo ha costruito la propria vita dentro e fuori dal campo”, ha affermato un emozionato Marcello Cuttitta. “Abbiamo voluto definirla ‘challenge’ proprio per indicare la sfida, che era di per sé un valore in cui Massimo ha sempre creduto, in un respiro internazionale, così come internazionale è stato il suo impatto sul gioco”, ha concluso Marcello Cuttitta.

Marco Beraldi

La Grande Storia del Sei Nazioni (Ultra Sport, 399 pagg. € 22)

Della nazione vincitrice è citata per ogni anno una formazione, non necessariamente quella schierata con più continuità nel corso del torneo. La narrazione è scarna, quasi mai contempla più di due pagine di racconto per ciascuna edizione della manifestazione. Un buon “bigino” per nuovi appassionati che vogliono documentarsi sul Sei Nazioni.

Andrea Nalio Quindici

(Ultra Sport, 295 pagg. € 18,50)

traverso alcuni personaggi famosi il rugby italiano degli anni Novanta. Ossia quel periodo in cui, complice lo sfasamento temporale tra le stagioni agonistiche del nord e del sud del mondo, alcuni dei campioni più famosi del rugby internazionale si sono trovati a giocare nel campionato italiano, a Rovigo, a Padova, a Casale, a Calvisano, a Treviso, a Roma, a Milano, a Viadana, a L’Aquila, a Colleferro, a Catania. Il racconto è accattivante, a tratti avvincente: la nebbia “californiana” di Tito Lupini, la maniacale attenzione per i dettagli di Naas Botha (i due sono insieme con la maglia del Rovigo nella foto in basso, ndr), il dialetto bresciano di Andy Mehrtens, l’arbitro Giacomel che in una finale tra Treviso e Rovigo riceve dal presidente della Federazione Mondelli il messaggio: “Se continuano con le scorrettezze, sospendila pure”.

Marco Beraldi, napoletano trapiantato in Germania, da sempre appassionato di storia dello sport (ha scritto Die Weltgeschichte des Fußballs in Spitznamen - Storia mondiale del calcio attraverso i soprannomi), ha pubblicato all’inizio dell’anno questa “Grande Storia del Sei Nazioni - 140 anni nel cuore del rugby” che ripercorre le vicende del torneo dalle origini a oggi. Il volume si apre con alcuni brevi cenni sui primi passi del gioco, dalla scuola di Rugby alla nascita della RFU, nel 1871, per poi passare direttamente alla prima edizione di quello che nel tempo si chiamerà Home Nations Championship, diventando successivamente Cinque e, infine, Sei Nazioni.

Il compendio ha una struttura fissa, il torneo è raccontato anno per anno, ma la cadenza è irregolare e oscilla tra l’enciclopedico e la cronaca, indugiando talvolta su fatti specifici, partite, dettagli, azioni scelti in modo un po’ arbitrario. Di ogni edizione è riportata la classifica finale, apparsa in realtà per la prima volta sul Times solo nel 1896, ovvero un quarto di secolo dopo la prima partita internazionale, Scozia-Inghilterra, disputata a Raeburn Park (Edimburgo) nel 1871, e, insieme alla classifica, sono documentati anche i risultati delle partite, giornata per giornata.

Con questo libro che porta come sottotitolo “Le storie dei campioni che hanno dipinto il rugby italiano”, Andrea Nalio racconta at-

Una galleria di personaggi, di episodi, di storie: la sacralità dell’allenamento per i neozelandesi di Treviso (Green e Kirwan), il trasferimento mancato di Dallaglio a Milano, l’asado di Fabio Gomez e Tati Milano, Jeff Miller che arriva a Colleferro senza bagaglio, Stransky vs Ambrosio, L’Aquila vs San Donà, due club che hanno vissuto giorni (e che giorni!) di gloria, prima di un presente che ne umilia la storia. È un libro da leggere per chi crede che il rugby italiano sia nato con il Sei Nazioni. E anche per rendersi conto di che occasione di crescita abbiamo sprecato in questo quarto di secolo, dopo che, entrati nel torneo, non abbiamo saputo capitalizzarne il valore, il peso commerciale, la tradizione. (glb)

in libreria
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LO SPAZIO TECNICO LO SPAZIO TECNICO

MEGLIO L’EFFICACIA DELLA PERFEZIONE

Come garantire sempre maggiore sicurezza e, contemporaneamente, favorire un gioco sempre più spettacolare. Questo ormai è il mantra che, da World Rugby in giù, risuona costantemente nei corridoi di chi amministra il rugby.

È notizia recente che alla prossima Coppa del Mondo U20 in Sudafrica verrà utilizzato lo smart ball; anche nel Torneo delle 6 Nazioni è stato utilizzato, addirittura la sperimentazione era partita due stagioni fa nel Torneo Femminile. La raccolta dei dati finora si limitava a studi statistici senza avere impatti significativi sul gioco, se non riportare tutti i movimenti del pallone durante una partita (che, a mio modesto parere, se non sono collegati ai movimenti dei giocatori, ci raccontano poco o nulla di interessante), lo spin dei passaggi o le traiettorie di volo dei calci. Nel Torneo citato, invece, il pallone intelligente non si limiterà più a produrre a fine gara dei pollock digitali ma è pronto a supportare i TMO in alcune aree del gioco. Nello specifico: nella valutazione dei passaggi in avanti (immagino sarà presa in considerazione l’inerzia della corsa del giocatore e se al momento del rilascio del pallone questo vada effettivamente in avanti); nel determinare se la palla ha effet-

tivamente oltrepassato la linea di meta (ma non se effettivamente tocca terra, almeno credo di aver capito così); nell’indicare in maniera esatta il punto in cui il pallone calciato varca la linea di touche (con buona pace dei calciatori che finalmente vedranno riconosciuti i loro sforzi ma anche, impietosamente, le loro “svirgolate”; sorrido all’idea di un TMO che via radio guidi un giudice di linea fino al posizionamento corretto del punto di uscita: perché, se si utilizza, allora, secondo me, vale per tutti i calci di una partita); nel sapere quando un pallone viene toccato durante il tempo di volo (ancora per passaggi in avanti, questa volta causati dai difensori, che spesso possono tirare in ballo cartellini, ma che non ci raccontano della “volontarietà”, o per tentativi di stoppare un calcio con conseguente assegnazione della rimessa laterale o di decadenza della regola del fuorigioco in gioco aperto); nel determinare se il lancio nella rimessa laterale è dritto (e perché non in mischia?

Vi ricordate dell’introduzione storta in mischia chiusa? Forse la generazione Z non sa di cosa si parli!). Ancora qualche parola su quest’ultimo punto: le touche storte a mio parere sono spesso sanzionate; alcune altre, a volte no, nonostante la platealità; è

necessario questo intervento? E cosa vuol dire storta? Di quanto? Rischiamo che non ce ne sia più una dritta, piuttosto. E, se pensiamo alla pressione psicologica già presente a livello di contesto per un lanciatore, secondo me siamo di fronte ad un aumento significativo del carico mentale. Non sono assolutamente contrario all’innovazione in generale e personaggi molto più autorevoli di me hanno già messo in guardia sui rischi di una esasperazione del controllo sul gioco. Maggior numero di interruzioni e pressione sui giocatori. Partite che sempre più sono condizionate dai cartellini. Che poi, eclatante il caso di Ollivon, magari vengono “smentiti” il giorno dopo dalle commissioni disciplinari. A noi la sfida di preparare giocatori sempre più capaci di rispondere con competenza alle sempre nuove richieste e pressioni, consapevoli che sono ambiti nuovi che richiedono nuove strategie formative. Ma ritengo altresì che il modello debba sempre riferirsi all’efficacia più che alla perfezione. Se invece adottiamo quest’ultima come faro rischiamo di generare frustrazione. Chiedete a Michelangelo, che pure ci era andato vicinissimo, e che prende a martellate il suo Mosè. Evitiamo di prenderci a martellate sulle… ginocchia.

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Touche contesa fra il “riabilitato” Chales Ollivon e JP du Preez durante la finale di Challenge Cup fra Tolone e Glasgow.

MANI IN RUCK

MANI IN RUCK

I DODICI APOSTOLI

Le attesissime designazioni di arbitri, assistenti e TMO per la Coppa del Mondo del prossimo autunno sono state rese pubbliche qualche settimana fa da parte di World Rugby. Scelte che sono state immediatamente oggetto di analisi, critiche, previsioni e considerazioni su molti temi, non ultimo, chi dirigerà la finalissima del torneo.

Le prime considerazioni sono scaturite per la nomina, a sorpresa, che poi tanto sorprendente non è, del georgiano Nika Amashukeli fra i dodici arbitri. Sarà il primo referee dell’Est Europa a fischiare in un match della World Cup. Che Nika sarebbe stato tra i convocati era fuori di dubbio da tempo, perché il percorso che ha portato alla sua scelta è stato costruito con impegni importanti negli scorsi test match novembrini, nell’ultimo 6 Nazioni e nelle fasi finali delle coppe europee. La sua strada, tracciata con la supervisione di Dave Mc Hugh e la collaborazione tra la federazione caucasica e la IRFU, ha fatto il resto.

Le critiche sono rivolte soprattutto alle Union celtiche. Galles in testa, che, come sostengo da tempo, dopo l’addio di Nigel Owens, non è stato capace di trovare un suo degno erede. Lontani i tempi di Derek Bevan e papà Whitehouse, nomi illustri che hanno preceduto “King Nigel”; Whitehouse figlio, che di nome fa Ben, non ha convinto particolarmente sul campo, ma sarà comunque TMO alla manifestazione iridata. Peggior sorte per la Scozia che da tempo non riesce a proporre un profilo di direttore di gara internazionale capace di raccogliere

l’eredità di Jim Fleming. Mike Adamson non ha mai avuto la continuità necessaria per gravitare ai livelli siderali del rugby internazionale.

Si riaffaccia l’Irlanda che, dal ritiro del miglior arbitro di sempre, Alain Rolland, ha avuto in George Clancy e John Lacey discendenti di buon livello, ma che nel 2019 era rimasta per la prima volta a bocca asciutta. Ora si presenta con Andy Brace, un professionista serio e capace che interpreta con rigore e disinvoltura le regole del gioco.

Tra i dodici apostoli delle Laws of Rugby investiti della massima funzione al prossimo Mondiale, si nota una fortissima inversione di tendenza tra Francia ed Inghilterra. La sfida ovale tra i due Paesi che si affacciano sulla Manica pende questa volta a favore della Rosa. Quattro anni or sono furono ben quattro gli arbitri francesi designati per la Coppa del Mondo in Giappone: Gauzere, Poite, Garces - già presenti nell’edizione 2015 - a cui si aggiunse Mathieu Raynal, oggi unico superstite del quartetto nell’edizione che i transalpini giocheranno in casa.

In Francia toccherà invece a quattro direttori di gara inglesi (Matthew Carley, Karl Dickson, Luke Pearce e il grande vecchio Wayne Barnes) invadere il suolo dei rivali di sempre e sperare che, alla sua quinta presenza, Barnes possa essere designato per la finalissima che rappresenterebbe la chiusura di una carriera a dir poco stellare.

A contendergli il posto ci saranno i rappresentanti dell’emisfero sud: gli australiani Angus Gardner e Nic Berry, entrambi in rampa

di lancio per la finale, così come il kiwi Paul Williams e il connazionale, l’oftalmologo Ben O’Keeffe.

Alcune considerazioni riguardano gli assenti: nessun rappresentante di Argentina, Giappone e Isole del Sud Pacifico, oltre che della già nominata Scozia. Per il Galles e l’Italia, un unico assistente nel panel a testa: Craig Evans e il nostro Andrea Piardi.

C’era da aspettarselo? A mio parere si! Dopo Mitrea (oltre 100 presenze come arbitro centrale in partite internazionali), designato tra i giudici di linea nel 2015 in Inghilterra, e dopo il buio totale del 2019 in Giappone, dove nessun ufficiale di gara - arbitro, assistente, TMO, citing commissioner o giudice - fu presente in rappresentanza dell’Italia, l’inserimento del fischietto bresciano va letto come un segno di grande considerazione personale, rafforzata anche dalla recentissima designazione per la finale di Urc, primo italiano a ottenere un riconoscimento internazionale di questa portata.

Tra i TMO, tutti madrelingua British, ecco una novità assoluta dalla decima Coppa del Mondo: un tocco di rosa meritatissimo, con Joy Neville che sarà la prima esponente femminile nella massima competizione ovale del pianeta. Il giusto riconoscimento per lei che una finalissima, quella della Women World Cup, l’ha già diretta sul campo.

Chi sarà al centro dello Stade de France a dirigere l’atto conclusivo è difficile a dirsi. Dipenderà ovviamente da quali squadre ci arriveranno. L’ambìto riconoscimento è già materia di discussione.

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L’arbitro Nika Amashukeli e l’assistente Andrea Piardi.

WEST END WEST END

PERCHÈ NEGARE LA STORIA?

Il revisionismo e il cancellazionismo spirano ormai come una tormenta o un fuoco su cui soffiano ipocriti o ingenui che si fanno coinvolgere.

Dopo l’attacco frontale a “Swing low sweet chariot” e a “Delilah”, razziste e sessiste (come no…), oggi tocca al fondatore o almeno a chi la leggenda attribuisce l’intuizione, la scintilla: William Webb Ellis. Dalla Nuova Zelanda parte l’idea di cambiare il nome della Coppa del Mondo intitolata al vicario che riposa nel cimitero vecchio di Mentone.

Riassumendo: il rugby è cambiato, è diventato professionistico e il simbolo è Jonah Lomu che, “immagina iconica” (il virgolettato non è opera nostra), calpesta Mike Catt e va in meta. E così, Jonah Lomu World Cup. Perché, secondo chi sostiene questa interessante tesi (non è il caso di riportarne il nome), è l’ora di finirla con un rugby nato in una scuola privata, frequentata dalla borghesia britannica.

A questo punto è bene ricordare che la giovane vedova del capitano dei dragoni caduto nella battaglia di Albuera scelse Rugby perché chi aveva residenza entro le dieci miglia dalla torre dell’orologio poteva inviare gratuitamente i suoi pargoli a quell’istituzione. Ma questi sono partico -

lari che oggi non interessano, trascurabili. Meglio intervenire su altri concetti, il professionismo, ad esempio. Allora perché non intitolare la Coppa del Mondo a qualche vecchio eroe di quel rugby proletario e per proletari che era la Rugby League, professionale sin dai suoi esordi, nella tarda età vittoriana? Il fatto di essere disprezzata e tenuta lontana dai signori della Union dovrebbe oggi rivalutarla agli occhi dei revisionisti a tutti i costi. Che sono poi gli stessi che vanno a tirare la vernice sulla statua di Winston Churchill o ignorano che l’abolizione della schiavitù, nell’Impero britannico, fa data dal 1833, grazie a William Wilberforce. Negli Stati Uniti, campioni di democrazia, le cose sono andate in modo molto diverso. E anche oggi… Altre considerazioni: il povero Lomu, che, scomparso a 40 anni, oggi starebbe per raggiungerne 48, è certamente, ahimè, iconico, ma anche il simbolo di un rugby che in una sorta di selezione naturale, sta sempre più escludendo i “normali” di un tempo felice: Barry John, Gareth Edwards, Gerald Davies tanto per rimanere in una parentesi di gesti semplici e magnifici. Lomu è il primo titano che ha inferto al gioco una svolta irreversibile.

Rispetto a tutti gli altri sport, il rugby

ha alcune diversità o peculiarità: porta il nome del luogo dove è nato (se nello Warwickshire nasce un comitato che discute questa antica scelta, siamo fregati…) e ha un inventore non saldo e sicuro come il reverendo Naismith da cui scaturì il basket. E proprio i dubbi, gli interrogativi che investono questa figura lo rendono unico. Persino la statua che il collegio di Rugby ha dedicato a Webb Ellis ha qualcosa di fiabesco, da renderla simile a un’altra statua, quella che a Kensington onora e ricorda Peter Pan. In Gran Bretagna i mondi segreti - da Alice ad Harry Potter - hanno finito per diventare molto reali.

Se si va avanti di questo passo, sorgeranno problemi anche sulla figura di un altro grande appassionato di rugby: il barone Pierre de Coubertin. Un nobile, un privilegiato, uno che aveva un’idea aristocratica dello sport.

Ma ai revisionisti, agli appassionati di cancellazioni (che ricordano i primi estremisti cristiani che diedero l’assalto alla biblioteca di Alessandria), ha mai spiegato nessuno che la storia è un fiume che trasporta ninfee e stronzi, ceste che contengono profeti in fasce e liquami? Provare a negarla è impossibile, ma ha un certo effetto su chi non la conosce e si accoda, entusiasta.

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Passione per la meta

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