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CUORE DI CAMPIONE Il “j’accuse“ di Sergio Parisse escluso dalle convocazioni per i Mondiali in Francia AL ROVIGO L’ULTIMO TOP10 TREVISO BILANCI Pavanello e Salvi fanno il punto sulla stagione 181 Giugno 2023 ALLRUGBY RIVISTA MENSILE Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale –70% AUT. N° 070028 del 28/02/2007 DCB Modena Prima immissione 01/02/2007 www.allrugby.it

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Perché Sergio. Di casi come quello di Sergio Parisse è piena la storia dello sport. Nel 2002 Trapattoni, nonostante le insistenze della pubblica opinione, non volle portare Roberto Baggio al Mondiale in Corea e Giappone. Nel 1996, in occasione degli Europei di calcio, il ct della Francia Jacquet lasciò a casa Eric Cantona, reduce dalla sua migliore stagione in Premiership con la maglia del Manchester United. Jacquet disse di non voler alterare gli equilibri della squadra che si era qualificata per la fase finale della manifestazione. Nel 2011 Robbie Deans, un neozelandese, escluse dal gruppo dell’Australia Matt Giteau. Quattro anni dopo, la federazione australiana modificò le proprie regole di selezione per portare Giteau, a 33 anni, alla Coppa del Mondo in Inghilterra, nonostante vestisse all’epoca la maglia (toh!) del Tolone. Nel 2019 Eddie Jones ignorò Danny Cipriani, player of the Premiership di quella stagione.

Insomma niente di nuovo sotto la luce del sole. Se non fosse che in Italia Sergio Parisse rappresenta qualcosa di più di un semplice fatto tecnico.

Cosa della quale Kieran Crowley, nonostante sia ormai nel nostro Paese da più di sette anni, da neozelandese, può anche non essere consapevole.

Proprio per questo, dunque, serviva una mediazione federale. Non un intervento dell’ultima ora, ma un percorso condiviso, in grado di valorizzare l’esperienza di Sergio e la sua personalità, anche mediatica.

Certo, molti storceranno il naso di fronte a questa affermazione: in Nazionale si va per meriti sportivi, non come “premio alla carriera”, cosa che anche Parisse sottolinea nella lunga intervista che pubblichiamo in questo numero.

Ma i meriti tecnici l’ex capitano azzurro li ha mostrati nella finale a Dublino. E dopo quella prestazione, e quelle dell’intera stagione, dire che Sergio non aveva i requisiti per fare parte dei 33 dell’Italia al Mondiale pare un azzardo difficile da sostenere.

Quanto all’aspetto mediatico, solo chi lavora in questo campo sa delle difficoltà del rugby italiano di trovare spazio in televisione e sui quotidiani.

Ed è anche per questo che Allrugby ha sposato con convinzione la causa (ahimè persa…) della partecipazione di Parisse al torneo. Un giocatore che, per la sua storia, per il suo ruolo, per il suo vissuto quotidiano in Francia, per il record che avrebbe potuto siglare con la sesta partecipazione a una Coppa del Mondo, un traguardo che nessuno ha mai raggiunto finora, avrebbe potuto essere un magnifico grimaldello, una splendida vicenda da vivere e raccontare in prospettiva di Francia 2023, dove non saranno certo le partite con la Namibia e l’Uruguay ad accendere i riflettori sull’Italia. Domanda: perché un Paese in cui il rugby fatica a farsi cultura, dobbiamo privarci di un’occasione, di un personaggio, di un contributo di questo valore? Richard Wigglesworth, che da questo mese di giugno fa parte dello staff dell’Inghilterra, ha detto a Allrugby (lo leggete più avanti) che capisce e sostiene le scelte di Crowley, ma se Parisse avesse manifestato un forte desiderio di far parte del gruppo, allora lui lo avrebbe preso in considerazione. Sergio questo desiderio lo ha espresso con forza, ha giocato e fatto meta nella finale di Challenge Cup a Dublino, ha fatto parte, in semifinale, di una squadra che in 14 ha lasciato a zero due terzi della Nazionale italiana attuale. Che altro avrebbe dovuto fare? Miopi, come spesso accade, continuiamo a farci male da soli.

Gianluca Barca

direttore responsabile

Gianluca Barca gianluca.barca@allrugby.it

photo editor Daniele Resini danieleresini64@gmail.com

redazione

Giacomo Bagnasco, Federico Meda, Stefano Semeraro. Collaboratori

Danny Arati, Felice Alborghetti, Alessio Argentieri, Sergio Bianco, Simone Battaggia, Andrea Buongiovanni, Enrico Capello, Alessandro Cecioni, Giorgio Cimbrico, Andrea Di Giandomenico, Mario Diani, Diego Forti, Andrea Fusco, Gianluca Galzerano, Christian Marchetti, Norberto “Cacho” Mastrocola, Paolo Mulazzi, Iain R. Morrison, Andrea Passerini, Walter Pozzebon, Luciano Ravagnani, Roberto “Willy” Roversi, Marco Terrestri, Maurizio Vancini, Valerio Vecchiarelli, Giancarlo Volpato, Francesco Volpe.

fotografie

In copertina, Sergio Parisse ai Mondiali inSudafrica (foto Steve Haag/Fotosportit). Nei riquadri, Matteo Ferro solleva lo Scudetto dopo la vittoria in Finale Top10 (Getty Images); Michele Lamaro e Lorenzo Cannone festeggiano la vittoria contro il Connacht nei quarti di finale di Challenge.

Fotosportit

Roberto Bregani, pag. 20; John Dickson pag. 73; Andrew Cowie, pag. 56; Gareth Everett, pag. 58; David Gibson, pagg. 2, 22, 55, 59, 72; Steve Haag, pagg. 18, 28; Jaco Marais, pag. 4; Photosport, pag. 21; Daniele Resini, pagg. 14a, 15, 16, 17, 23, 24, 25, 26, 27, 28b, 30, 32, 42, 45, 47, 48, 49, 52, 53, 65, 69, 71.

Getty Images

Malcolm Couzens, pag. 44; Alex Davidson, pag. 60; Federugby, pag. 51, Stu Forster, pag. 29a; Peter Meecham pag. 36; Quinn Rooney pag. 38; Phil Walter pagg. 43, 46.

Altri crediti

Giorgio Achilli, pagg. 10, 11; Benetton Rugby, pag. 40; Maurilio Boldrini, pag. 70; Fondo Tognetti/Allrugby, pagg. 12, 13, 14b; Sergio Pancaldi, pagg. 62, 64.

L’editore è a disposizione degli aventi diritto, con i quali non gli sia stato possibile comunicare, per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani e delle fotografie.

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stampa

L’Artegrafica

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Alemanno
Matteo
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FLASH Doccia irlandese

La meta di Ulupano Junior Seuteni, di La Rochelle, che, poco prima del riposo, ha ridotto a soli 9 punti il distacco fra le due squadre, dopo che il blitz iniziale del Leinster aveva portato i padroni di casa in vantaggio 17-0.Furlong, un pilone, non ha la rapidità per contrastare nell’uno contro uno il trequarti centro avversario. Nella ripresa, la fisicità dei francesi e l’indisciplina del Leinster faranno la differenza nel risultato finale.

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FLASH

La fine della carestia

Erano dodici anni che il Munster non conquistava un titolo internazionale. Tre volte vittoriosa nella Celtic League (2003. 2009, 2011) e due volte campione d’Europa (2006 e 2008) la Red Army, nella finale di URC ha sconfitto a Città del Capo gli Stormers, 19-14, con una meta John Hodnett, trasformata da Jack Crowley, quando mancavano 5’ alla fine. Vittoria a sorpresa per una squadra classificatasi al quinto posto della regular season, ma capace di battere il Leinster in semifinale, e gli Stormers, detentori del titolo, in finale davanti a 2000 tifosi irlandesi volati in Sudafrica per sostenere i propri giocatori.

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numero centoottantuno

CAMPIONATO TOP 10

Pag.8 Rovigo campione

Da “la città in mischia” a una città in difesa.

Pag.12 ... e rimasero in otto

Luciano Ravagnani ripercorre i tanti tentativi effettuati nel corso della storia per trovare una formula adatta al campionato italiano.

J’ACCUSE

Pag.18 Infinito Sergio

Giorgio Cimbrico celebra Sergio Parisse, un giocatore che è stato, e ha reso l’Italia, speciale.

Pag.20 Cuore di Campione

Tutta la delusione di Sergio Parisse che sognava un’altra fine di carriera. Di Gianluca Barca.

Pag.30 Pareri

Tecnici e giornalisti dicono la loro sul “caso” Parisse, qualche perplessità, tanti dubbi.

RUGBY WORLD CUP 2023

Pag.34 Italia, dica trentatrè

Dai quarantasei della rosa allargata, alla squadra definitiva che Crowley porterà in Francia con sé. Ipotesi e punti fermi.

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SOMMARIO

Pag.36 Sud chiama Nord

Il futuro del rugby è già qui, scrive Walter Pozzebon. La battaglia tra gli emisferi si combatte anche sulle regole.

UNITED RUGBY CHAMPIONSHIP

Pag.40 Stabilità e fiducia

Federico Meda fa il bilancio con Antonio Pavanello sulla stagione del Benetton Treviso, tra crescita e ambizioni.

Pag.44 Questione di testa

Julian Salvi spiega dove devono crescere i giocatori italiani: mentalità e convinzione. Di Federico Meda.

Pag.48 Aggiungi un posto all’ala

Ultimo in ordine di tempo ad aver esordito nella Nazionale maggiore, Simone Gesi confessa a Alessandro Cecioni il sogno di un posto nei 33 per il Mondiale.

NAZIONALE U20

Pag.50 Una scelta di vita

Vogliamo e possiamo diventare il meglio di sempre del rugby giovanile italiano, dice David Odiase a Valerio Vecchiarelli. Ai Mondiali in Sudafrica per lasciare il segno.

COPPE EUROPEE

Pag.54 La Rochelle un anno dopo

La squadra di Ronan O’Gara, a dodici mesi di distanza, si è confermata sul tetto d’Europa. Per il Leinster una delusione amara.

Pag.56 Lo stato delle Nazioni

Mario Diani fa il punto sullo stato delle formazioni europee dopo il Sei Nazioni femminile.

Pag.62 Women in rugby

Giacomo Bagnasco racconta la storia di Anna Bonfiglio, classe 2005, promossa in Eccellenza dopo tre anni di stop, con il Calvisano.

Pag.66 La prima vittoria non si scorda mai

Due successi per la U18 femminile al Six Nations Festival. Con il Galles la squadra ha ottenuto il primo successo della sua storia.

Pag.68 In memoria di Giorgio Cimbrico

Pag.71 In libreria

Pag.72 Lo spazio tecnico di Andrea Di Giandomenico

Pag.73 Mani in ruck di Maurizio Vancini

Pag.74 West end di Giorgio Cimbrico

RUBRICHE RUGBY DONNE

Rovigo campione

I rossoblù campioni per la quattordicesima volta. E la città festeggia nonostante le perplessità di patron Zambelli.

di Gianluca Barca

PERONI TOP10 2022/2023

Finale Scudetto, 28 maggio, Stadio Lanfranchi, Parma

Rovigo v Petrarca 16-9 (primo tempo 10-9)

Rovigo una meta (Stavile), una tr (Montemauri), 2 cp (Montemauri), un drop (Montemauri)

Petrarca 3 cp (Lyle)

Arbitro Gnecchi

I CAMPIONI D’ITALIA Bacchetti, Bazan-Velez, Borin, Cadorini, Casado-Sandri, Chillon, Ciccioli, Ciofani, Cosi, Elettri, Ferrario, Ferraro, Ferro, Ghelli, Giulian, Leccioli, Lertora, Linsday, Liut, Lubian, Lugato, Montemauri, Moscardi, Munro, Pomaro, Quaglio, Ratuva-Tavuyara, Ruffato, Sarto, Sironi, Stavile, Steolo, Swanepoel, Theys, Uncini, Van Reenen, Visentin.

ALLENATORI Allister Coetzee (fino al 1 novembre), Alessandro Lodi, Davide Giazzon, Joe van Niekerk.

CAMPIONATO
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AMPIONATO TOP10

Adesso che Rovigo ha conquistato il suo quattordicesimo titolo, battendo in finale, al Lanfranchi di Parma, il Petrarca 16-9, Francesco Zambelli, presidente del club rossoblù, potrà ribadire con ancora maggior forza il concetto già espresso in occasione dell’assemblea societaria di qualche settimana fa: “Da dieci/dodici anni lotto per riportare il Rovigo nell’alto livello. Inutilmente. L’impianto federale ha partorito un “mostro” a due teste. Quei due là (Benetton e Zebre, ndr) sopra e sotto il nulla! A noi del Top 10 deve bastare la soddisfazione di mettere in luce qualche giocatore che quelli sopra vengono a prendersi”.

Alla “città in mischia” (copyright Ravagnani), ai quasi duemila tifosi che domenica 28 maggio avevano seguito la squadra a Parma, tuttavia, battere il Petrarca regala sempre una bella soddisfazione. E se questo scudetto non vale, in assoluto, come quelli degli anni Cinquanta, o degli anni Settanta di Carwyn James, o come quello del treno rossoblù che nel 1988 calò su Roma per la finale del Flaminio contro il Treviso, in ogni caso Rovigo ancora una volta è campione d’Italia, simbolo di un territorio ad alta passione ovale.

La Finale

Il punteggio, 16-9, venticinque punti in totale, con il quale la squadra di Alessandro Lodi ha battuto la formazione padovana è il quinto più basso di sempre in una finale. Meno si era segnato solo

in quella famosa del 1988 (Rovigo- Benetton 9-7), nel 1998 (Benetton-Petrarca 9-3), nel 2008 (Calvisano-Benetton 20-3) e nel 2015 (Rovigo-Calvisano 10-11). L’anno scorso, stesse due finaliste, stesso score complessivo, ma diversa distribuzione dei punti fra le due squadre: Petrarca-Rovigo 19-6.

Anche nel 2022 una meta sola, quella di Nostran su percussione di Spagnolo. Stavolta, guizzo di Stavile, man of the match, dopo touche a 5 metri e spinta da drive.

In finale, la cassa di risparmio prevale sulla banca di investimento a lungo termine.

Match giocato, sì, ad alta intensità emotiva, ma costellato di errori (una quindicina di avanti fra le due squadre, alcuni in momenti topici, soprattutto da parte del Petrarca), e senza la volontà di prendersi grandi rischi, soprattutto nella ripresa: mischie giocate per conquistare un calcio di punizione, mai come piattaforma per un lancio di gioco o un attacco organizzato.

La sintesi di Tebaldi

La fotografia della partita l’ha scattata Tito Tebaldi al momento della sua sostituzione a 10’ dalla fine. L’ex mediano di mischia della Nazionale, al microfono della Rai, non senza un certo di disappunto, ha detto: “Niente di nuovo, siamo qua a prenderci a testate, è una finale, derby d’Italia, non so cosa ci si potesse aspettare di diverso…”.

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Alla fine ha prevalso il cuore di Rovigo che, con coraggio e una difesa arrembante, ha impedito al Petrarca di prendere il sopravvento con le armi più tradizionali del suo gioco: la grande fisicità dei suoi uomini, il drive avanzante, in primo luogo da rimessa laterale. La “città in mischia” per un giorno si è trasformata nella città in difesa. Ognuno con i suoi mezzi e le sue possibilità.

Rari i momenti di brillantezza nel corso degli 80 minuti della partita: intorno al 13’ uno splendido calcetto dello stesso Tebaldi per De Masi (passaggio non controllato da De Sanctis) e, poco prima, un’incursione per linee dirette, sempre di De Masi; la meta già citata di Stavile e, nel finale, la preparazione (e l’esecuzione, si intende) del drop di Montemauri, consacrazione di un giocatore votato prima della finale come miglior protagonista dell’intera stagione.

Per il pubblico presente sulle tribune del Lanfranchi, sono stati i placcaggi a fare spettacolo più delle giocate palla in mano.

Il Petrarca ha pagato la mancanza di un playmaker di ruolo: Faiva ha avviato le azioni di attacco senza mai riuscire a variare il gioco. E nella ripresa gli otto calci di punizione concessi dalla formazione di Marcato e Jimenez (3 in mischia chiusa) hanno reso la disciplina decisiva. Nel secondo tempo, i campioni carica non hanno messo a segno nemmeno un punto. Un’anomalia con pochi precedenti in finale.

Rugby e televisione

La finale in diretta, in prima serata su Rai2, era stata presentata come un grande spot per il rugby italia -

no. I numeri dell’audience hanno confermato che il pallone ovale in Italia resta una nicchia che va coltivata con grande cura e attenzione. I 409mila spettatori catturati dal match del Lanfranchi replicano, sebbene con altri profili, esattamente la stessa attenzione ricevuta da Scozia v Italia (Sky e TV8), lo scorso 18 marzo, ultima giornata del Sei Nazioni. I dati, perché abbiano un significato, vanno contestualizzati: il 21 maggio, sempre su Rai2, ma in seconda serata (ore 23), Italia v Brasile del Mondiale di calcio U20 aveva avuto 603mila spettatori. Sempre su Rai2, domenica 28 maggio, ma al pomeriggio, il Concorso ippico di Piazza di Siena si era fermato a 387mila.

Il rugby galleggia, in una non meglio definita area di attenzione. Dopo 25 anni di Sei Nazioni forse era lecito aspettarsi di più.

Il mostro a due teste Zambelli ha parlato di “mostro a due teste”, riferendosi al dualismo Top10-Urc.

Il presidente del Rovigo non sbaglia: in Europa nessuno dei paesi che hanno optato per le franchigie (Scozia, Irlanda e Galles) si pone l’obiettivo di mantenere un campionato professionistico di alto livello. Mentre Francia e Inghilterra hanno scelto la via del campionato gestito dalle leghe private di club: la LNR in Francia e la PRL (Premiership Rugby Limited) in Inghilterra.

Queste ultime due competizioni si mantengono principalmente con la vendita dei diritti televisivi e le entrate da botteghino. La Premiership, nel 2022, ave -

Nelle pagine precedenti, Matteo Ferro, capitano del Rovigo, solleva il trofeo che premia la squadra campione d’Italia. Sotto, la meta di Bautista Stavile che alla mezzora del primo tempo ha deciso il match.

A destra, Francesco Zambelli, presidente del club rossoblù, festeggia con i giocatori la conquista del quattordicesimo scudetto del Rovigo.

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va collezionato oltre due milioni di spettatori in totale con un media di 12.841 a partita, il Top14 quest’anno ha raggiunto la media record di oltre 14mila per match. Il ProD2 si è attestato sui 4.500 con il picco di 18.500 nel derby delle Alpi tra Grenoble e Oyonnax. In Irlanda, i club dell’All-Ireland League, vinta

quest’anno dal Terenure sul Clontarf (50-24 in finale, 8.642 spettatori), non ricevono un euro dalla IRFU: la loro è un’attività prettamente ancillare rispetto a quella delle province, il cui percorso è gestito dalle singole branche della Federazione, in sinergia con le direttive centrali.

In Galles, il budget medio di un club della Indigo Premiership è intorno alle 250mila sterline, con una forbice che va da 100mila per i club più piccoli a 400mila per Cardiff e Merthyr. I sei club del campionato scozzese (Fosroc Super Series) sono anch’essi semi-pro, con budget di circa 125 mila sterline, per squadre di 35 giocatori, alle quali la Federazione paga uno staff da circa 65 mila sterline e un direttore commerciale (35 mila sterline)

Non sbaglia quindi Zambelli a mettere l’accento su una realtà come il Top10 (ma in futuro come si chiamerà?), particolarmente esigente sul piano economico, ma privata dalle franchigie (e dall’esodo verso l’estero), come minimo dei cento giocatori migliori. E che anche per la finale, forse complice il giorno e l’ora, non ha raggiunto i quattromila spettatori (duemila provenienti fortunatamente dal Polesine).

Se all’Italia riuscirà la magia, un giorno, di rilanciare il campionato, tramutando l’acqua in vino, sarà un miracolo degno di quelli attribuiti a Nostro Signore. Magari ci riusciremo con otto squadre, come scrive più avanti Luciano Ravagnani.

Intanto Rovigo festeggia, avendo raggiunto Il Petrarca nel numero di scudetti conquistati nell’arco della sua storia.

Come dicono i proverbi: chi vince festeggia e chi perde si giustifica. Ma soprattutto, in questo caso: chi si accontenta gode (e, in questi giorni, di sicuro, anche Zambelli festeggerà in cuor suo…).

Fate il rugby che vi piace

Gianluca Gnecchi di Brescia è arbitro internazionale. Ha arbitrato la finale scudetto Petrarca v Rovigo. Storicamente un osso.

Gli arbitri internazionali chiamati da anni ad applicare regolamenti a mio parere (ma è solo il mio parere...) cervellotici, se la cavano sempre “facendo la partita” come viene loro indicato: lo spettacolo. Direttori di gioco, non arbitri. Nel derby scudetto mi è parso che Gnecchi, stando nelle regole, abbia invece assecondato la scelta delle squadre di esprimere il loro gioco.

Alla fine: contesa ruvida, aspra ma nessun cartellino; mai ricorso al TMO; nessuna litania del “giocala! giocala!”. Insomma: “Fate il rugby che vi piace”. Un rugby da derby. Bello no. Genuino. Bentornato Rugby. Gnecchi, il migliore in campo. (L. Rav.)

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...e rimasero

Tanti tentativi, nel corso della storia, per dare al campionato italiano una formula adatta alle nostre forze e al nostro territorio. Dal 2024 vi prenderanno parte otto squadre. Sarà la volta buona?

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in otto

di Luciano Ravagnani

A sinistra, Roma v Amatori Milano, sfida principe degli anni Trenta. Il campionato (Divisione Nazionale ) è quello del 1936/37 e si gioca al campo Testaccio, l’11 aprile del ‘37. Aurelio Cazzini cerca il break fra i romani Raffo, Di Bello (sin) e Gastone De Angelis.

Il prossimo TOP10 del nostro rugby sarà un… TOP9. Così ha deciso il 29 aprile scorso (anche se il comunicato stampa riporta il 29 maggio) il governo del nostro rugby alla presa d’atto della rinuncia del Calvisano, che dovrebbe ripartire da una serie inferiore. Non è tutto. Il “governo” ha deciso altresì che dalla stagione 2024-25 il nostro livello “TOP” sarà di 8 squadre, nella sua “formula definitiva”.

Un campionato di vertice del nostro movimento rugbistico a otto squadre è sconosciuto dal 1946-47, cioè dalla ripresa dopo la seconda Guerra Mondiale, quando i tesserati alla rinata FIR non arrivavano a 2000.

Il modello di campionato è quello francese, unico in Europa, ma la “campionite” mutuata dal calcio è la competizione già entrata nel costume dell’agonismo sportivo. Nei paesi britannici l’attività è libera e talmente in contrasto con quella francese (che viene già definita “il vulcano della domenica”), che nei primi Anni Trenta la Francia viene scacciata dal Cinque Nazioni e per rientrare dovrà attendere il Dopoguerra.

Un momento dello spareggio Ambrosiana v Lazio (calzoncini bianchi), a Bologna, nel 1929, vinto dalla squadra di Milano 3-0. Il portatore di palla è sostenuto da Raffo e ostacolato da Bauman. Con il caschetto, a sinistra, Giuseppe Sessa. L’arbitro era il francese Henri Lahitte.

Per trovare un numero così esiguo di club partecipanti è necessario tornare alle origini del campionato (1928-29): due gironi di tre squadre con play off vinto dall’Ambrosiana Milano. Città coinvolte: Roma, Milano, Torino, Bologna, Brescia, Padova. Per regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, Lazio. È qui che è nato il nostro campionato.

Già dal campionato successivo le squadre sono 13, più che raddoppiate. Quattro gironi, play off vinti dall’Amatori Milano, club dominatore fino a metà secolo.

Sui nostri campi si va avanti con il dominio di Milano e Roma (rispettivamente 13 scudetti contro 2 fino alla sospensione a causa della Guerra). In questo periodo (stagione 1932-33) si stabilisce un record che batterà il nostro TOP8 previsto per il 2024-25. Accade, infatti, che al via si presentino soltanto 7 squadre, quattro delle quali “targate” GUF, universitari fascisti: tre di queste ultime, Napoli, Padova e Genova, si ritirano per partecipare ai Littoriali, le “olimpiadi” del regime.

È il periodo della “Federazione Italiana Palla Ovale”, in cui il rugby sa troppo di inglese e viene osteggiato.

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Faema Treviso, campione d’Italia nel 1956, il primo scudetto conquistato dalla formazione della Marca. Da sinistra, in piedi: Feletto, Levorato, Panizon, Peron I, Mestriner, Fantin, Frelich, Milani; accosciati: Carniato, Zucchello, Pavin, Sartorato, Baldan, Foglia I, Biggi II.

Un campionato così malridotto non si ripeterà. Superata la crisi, tornata la FIR, il rugby va avanti con dignità, sempre sull’asse Milano-Roma e con le solite Torino, Bologna, Genova, Padova. Nel 1935 appaiono Palermo e Catania e un anno dopo Parma e Trieste. Quasi tutte scomparse dalla storia moderna del nostro rugby.

Dopo l’interruzione per la guerra (“saltano” due campionati), si riprende a gironi, con play off tra sud e nord. Nel 1946 vince l’Amatori, nel 1947 la Ginnastica Torino. Si torna al girone unico. Serie A, 10 squadre. La ripresa è stata faticosa. In sei anni la FIR ha avuto 5 presidenti, un commissario, due reggenti. La Roma è la più pronta ad affrontare il girone unico a dieci squadre e per due volte (1948 e 1949) vince lo scudetto.

È la Roma di Paolo Rosi che trova nel Rovigo l’avversario più tenace, ma porta anche un rugby di sostanza non privo di fantasia e di un certo raziocinio derivante da tecnici sudafricani. La Roma, comunque, dovrà attendere fino al 2000 per vincere un nuovo scudetto, contro l’Aquila.

Nel Dopoguerra, infatti, c’è la grande novità delle “provinciali”, alcune (Parma, Rovigo) già affacciatesi prima dell’interruzione. Fatto è che, dopo il bis della Roma, tocca al Parma, quindi al poker del Rovigo (1951-1954), poi ancora a Parma e quindi (1956) alla prima squadra sponsorizzata d’Italia: Faema Treviso.

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A questo punto (non ricordo un motivo specifico), la FIR, che ha per presidente il romano Mauro Lais, decide di mutare formula, allargando il campionato a dismisura: si comincia con 4 gironi di 7 squadre con play off finali. La qualità generale ovviamente diminuisce e comincia la “striscia” delle Fiamme Oro, la squadra della polizia che è di stanza a Padova e arruola un po’ il meglio da tutta Italia. Ne esce una sorta di “semiprofessionismo in stellette”: già troppo per il dilettantismo anche delle migliori provinciali. Le “Fiamme” fanno il loro esordio nel 1957, non arrivano ai play off (vince il Parma sul Cus Torino), ma paiono pronte per gli anni successivi. Dal 1958 al 1961 infatti fanno un poker di scudetti superando, nelle rispettive finali, il Milano e L’Aquila e, in due mini gironi finali, Rovigo e Treviso. Esperienza deludente questi mega-campionati? Forse. Fatto è che dal 1962 (presidente il livornese Carlo Montano) si torna al girone unico, ora Eccellenza, a 12 squadre. Durerà 20 anni, riempiti da 7 scudetti del Petrarca, 5 del Rovigo, 3 de L’Aquila, 2 della Partenope Napoli, uno di Fiamme Oro, Brescia e Treviso. Poi, un periodo interlocutorio a due gironi e play off fino al 1987 (predominio Petrarca, 4 titoli), quindi la grande svolta della gestione Mondelli: formule varie ma play off finali in campo neutro. Non pochi contestano, ma una finale Benetton v Rovigo, al Flaminio di Roma, accontenta un po’ tutti (Rovigo che vince,

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Tito Lupini (a sinistra) e Guido Rossi, avversari in prima linea nella finale Rovigo v Treviso, a Bologna, nel 1989.

soprattutto, compresi i viaggiatori del “treno rossoblù”), anche i perdenti trevigiani decisi difensori della nuova formula.

Ovviamente il campionato incide sugli orientamenti tecnici. Adesso importante è arrivare ai play off. Il girone unico costringe a vincere più che si può, ora basta vincere il tanto che qualifica per le partite decisive. Poi, comunque, la parte finale si infiamma e con la sfida fra Rovigo e Benetton, giocata a Bologna l’anno successivo, la formula trova il via libera definitivo.

Il match di Bologna, vinto dal Benetton 20-9, risulta qualcosa di epico; un inatteso ritorno con la memoria allo spareggio Petrarca v Rovigo (Udine 1977), preceduto dai 18mila dell’Appiani per un altro decisivo Petrarca v Rovigo. I dati, non ufficiali, della finale di Bologna danno 17mila spettatori al Dall’Ara (15.200 paganti). Da Rovigo un vero e proprio esodo. Ma tutti i play off del 1989 sono stati un successo. Trovo annotati in una vecchia agenda i biglietti venduti a borderò (cioè ufficiali) per le varie partite: Quarti: Benetton v Parma, 1.038 paganti a Monigo; 350 a Parma; Rovigo v Petrarca, 3.120 al Battaglini,

2.970 a Padova; Mediolanum v Catania, 192 al Giuriati, ingresso gratuito a Catania; Scavolini v San Donà, 1.580 all’Aquila, 410 a San Donà. Semifinali: Benetton v Scavolini, 2424 a Treviso, 1.740 all’Aquila, spareggio a Treviso, 2.942 paganti. Mediolanum v Rovigo, 732 a Milano, 3.459 a Rovigo. Cifre non straordinarie in assoluto, comunque significative. Quasi 24 mila paganti tra semifinali (spareggio escluso) e finale, nel “nostro piccolo” non sono trascurabili. Tanto meno di questi tempi, nel 2023, nei quali regge fortunatamente il binomio PadovaRovigo (cosa resterebbe al nostro rugby senza il derby veneto in fatto di pubblico e incassi?). Il Monigo a volte pieno per il Benetton? Certo, è un fatto. Ma il Benetton è largamente competitivo e ha più o meno la consistenza (a volte superiore) della Nazionale di Crowley. I trevigiani capiscono e, quando è il caso, affollano il loro stadio. I 2.942 paganti per lo spareggio con L’Aquila nel 1989 non sfigurano con le tribune ricolme di una partita di cartello dell’URC attuale. Dal 1988 i play off finali non sono stati più messi in discussione, anche se la formula finale è stata più volte ritoccata ed è mutato anche il numero dei club nel -

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Carlo Caione capitano della Rugby Roma premiato al termine della finale del 2000. A destra il presidente della formazione romana, Renato Speziali.

la prima fase. Variazioni anche per la finalissima (dal campo neutro, 1988-2010, al campo della migliore qualificata nella regular season, fino all’attuale ritorno al neutro). Conclusa nel 1992 a Padova la rivalità veneta con un Treviso v Rovigo da 10mila spettatori, gli incassi al botteghino sono andati decrescendo fino al balzo del 2000, con la finale Roma-L’Aquila al Flaminio (stimati 15.600 spettatori). L’arrivo delle franchigie nel 2010 ha tolto di mezzo il tifo trevigiano e frenato quello di Viadana che cresceva bene. La finalissima dal 2011 al 2022, caratterizzata da ripetuti scontri Calvisano-Rovigo, ha avuto presenze padovane o rodigine 10 volte su 12 ma ha sempre viaggiato tra Calvisano e il Veneto, con due sconfinamenti nella sorprendente Prato.

Poco, troppo poco per le esigenze di crescita del nostro rugby. Territorio poco esteso, abitanti pochi, esplosione di altri sport (il volley femminile di Conegliano fa 5.000 a partita al Palaverde di Villorba), il triangolo Veneto-Emilia-Lombardia “disturbato” dal -

le franchigie che sono agli ultimi posti per spettatori nel nuovo URC e - a mio parere - sono più un freno che uno stimolo.

Otto squadre dal prossimo anno su che basi opereranno? Ci saranno incentivi? Praticamente il totale dei loro budget (ma c’è chi li definisce e li controlla?) sarà pari a un club medio del Pro2 francese. Apprendo che il comitato delle Landes (Mont de Marsan) in Francia conta 8 mila tesserati su 450 mila abitanti, l’equivalente sarebbe 24.000 per la sola provincia di Brescia, che è fra le più sportive d’Italia. Un sogno. TOP a parte, presidiare il territorio più fertile appare più che mai l’unica soluzione. E quindi, sperare.

Otto squadre (una stagione regolare da 14 giornate, solo 3 mesi e mezzo di campionato!) potrebbe essere la formula buona. Dal 1948, cioè in 75 anni, sul campionato italiano di vertice i vari Consigli federali ci hanno messo le mani, variando numeri e formule, ben 28 volte. Tutte documentate. Come diceva Nino Manfredi? “Fusse ca fusse la vorta bbona…”.

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Craig Green attacca palla in mano in Benetton v L’Aquila dei primissimi anni Novanta. Si riconoscono, da sinistra: Stefano Bettarello, Fulvio Di Carlo, Stefano Rigo e Massimo Mascioletti.
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INFINITO SERGIO

Davanti a un pubblico di universitari, a Princeton, Alì creò la più breve poesia della letteratura americana: “Io, voi”. Davanti a un gruppo di eccitati giornalisti, a Firenze, dopo il test contro il Sudafrica, Sergio Parisse fece ancora meglio: quel “Sì” alla domanda “è stata la più grande vittoria del rugby italiano?” risultò come la più sintetica e appassionata delle interviste. Sergio aveva il volto fermo e gli occhi frementi. In quella vittoria vedeva il riscatto di un bilancio numerico in rosso, di sconfitte onorevoli o meno, di una vita pericolosa, a volte feroce, di parole mai vuote. “Nessuno credeva in noi, nelle nostre chances”, disse a Edimburgo, dopo il secondo successo che a quel tempo era anche il secondo esterno nella storia del nostro secolo breve nel 6 Nazioni. E quando parla, a Sergio si spiana un sorriso che è buono e astuto, dolce e sulfureo. Giunti nel “cortile dell’addio”, è possibile azionare il migliore degli strumenti non scientifici a disposizione, il caleidoscopio: piccoli sassi colorati che si mischiano a immagini della nostra coscienza, della sua coscienza di quarantenne e che, tutti assieme, formano il corpus del ricordo, della memoria, dei giorni che abbiamo vissuto grazie a lui, perfetto modello per Prassitele, per Lisippo, e capace, stagione dopo stagione, di progredire in dialettica, in analisi, di essere master and commander, di saper scuotere i suoi uomini con una gran bestemmia all’uscita dello spogliatoio di St Denis (riportata senza reticenze sull’Equipe e conservata, in piccolo ritaglio, nel portafoglio di chi sta stendendo questi minuti “memoires”), di voler deliziare con numeri di alta scuola quando da quell’Ercole ci si poteva aspettare soltanto forza, abnegazione, sacrificio, lotta.

E così Parisse ha inventato la “parissina”, il passaggio rapido dietro la schiena, ha provato la magia del drop che avrebbe provocato un sussulto tellurico allo Stade de France, ha affinato, anno dopo anno, quelli che oggi vengono definiti skills, sino a pareggiare in bravura un’apertura, un mediano di mischia: un calcetto per servire l’ala che deve solo raccogliere e depositare

oltre la linea. Al Mayol il Benetton l’ha provato subito, sulla sua pelle.

Kalòs kay agathòs, bello e buono, secondo l’estetica coltivata dagli scultori prima menzionati, e sintesi di una personalità a più dimensioni: la nascita argentina che ha lasciato tracce nelle sue cadenze verbali, il radicamento nella terra del padre (che il destino ha strappato di recente), la lunga avventura, durata diciotto stagioni, nel campionato più ispido del mondo, gli anni in cui è capitato di vederlo scendere in campo con una maglia coperta di lilium, perfetti per ricoprire una poltrona del Secondo Impero, al tempo delle Folies ovali inventate da Max Guazzini. In questa parentesi ha rivelato, anno dopo anno, scontro dopo scontro, l’aspetto di un Conan senza la fisionomia deturpata dall’aggressività.

Sergio è stato un Sansone alla rovescia: quando, ancora giovanissimo, sono caduti anche gli ultimi ciuffi e la sua testa è diventata uno specchio, la sua forza, il suo impatto sono aumentati, sino a scuotere le colonne dei templi avversari. E così, in questo viaggio che non ha una direzione precisa, capita di ritrovarlo con un’espressione ancora ingenua, a Canberra 2003: aveva vent’anni e John Kirwan l’aveva fatto esordire un anno prima contro gli All Blacks. Un predestinato che non ha tradito, che non si è perso per strada, che ne ha percorso tanta da portarlo da La Plata a Treviso, a Parigi e ora in riva al Mediterraneo, a Tolone, dove si rivelò la giovanile genialità di un altro predestinato, Napoleone Bonaparte.

Il rugby degli omaggi, del tempo di regali, dello World XV contro gli Amici di Sergio, Barbarians per un giorno, è finito per sempre. Non c’è più tempo, non c’è più un giorno libero, forse, è triste dirlo, non c’è più interesse per questi pomeriggi deliziosamente cruenti.

Dare a Sergio il sesto mondiale, scrivere l’alfa e l‘omega offrendogli un posto contro i Neri del mondo dabbasso è quanto merita. Il numero 8 tracciato orizzontalmente significa infinito.

Sergio Parisse chiude una carriera che avrebbe meritato - merita - il sesto Mondiale.
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di Giorgio Cimbrico
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CUORE DI CAMPIONE

“Non sottovalutare il cuore di un campione”. Rudy Tomjanovich, allenatore degli Houston Rockets, lo disse a proposito di Hakeem Olajuvon dopo la vittoria della sua squadra nell’NBA. Ma la frase sembra inventata per Sergio Parisse che, a quasi quarant’anni, a Dublino ha dimostrato ancora una volta le sue qualità e le sue ambizioni.

“Papà, gioco titolare!”. La voce di Sergio, arrivò a casa Parisse, a Buenos Aires, nel cuore della notte argentina. Erano i primi di giugno del 2002. Dall’altra parte della cornetta, Sergio senior, che di rugby qualcosa sapeva, avendo vinto lo scudetto con la maglia de L’Aquila una trentina di anni prima, non poté far altro che balbettare: “ma Kirwan è impazzito…!?”. Mai entusiasmi troppo facili da parte del padre per il giovane figliolo.

Cominciava così, a Hamilton, in Nuova Zelanda, la carriera internazionale di Sergio Parisse, allora diciottenne, una promessa assoluta del rugby italiano.

Una promessa mantenuta, al punto che molti sognavano di vederlo concludere la sua spettacolare avventura di giocatore, il prossimo 29 settembre a Lione, al Mondiale.

Il cerchio da chiudere

Un cerchio perfetto, da chiudere ventun anni dopo l’esordio, nel modo più spettacolare: di nuovo di fronte agli All Blacks, i quali, chissà, magari, prima del fischio d’inizio all’OL Stadium, gli avrebbero riservato un’haka speciale.

Sergio alla sua sesta Coppa del Mondo, un record forse ineguagliabile perché di carriere così lunghe, a livello internazionale, andando avanti ce ne saranno sempre meno.

Alt, stop, basta fantasticare, si torna alla realtà più amara. Sergio senior se n’è andato pochi mesi fa, gli è stata risparmiata questa polemica stucchevole. Se fosse ancora tra noi forse, oggi come allora, si domanderebbe se qualcuno è impazzito quaggiù: Parisse nemmeno convocato per il primo raduno estivo dell’Italia. Ci sono ben 46 giocatori, praticamente tutti, fuorché l’ex capitano. “Io controllo solo quello che è che nelle mie possibilità” - dice Sergio-. “Quest’anno, tra coppa e Top14, ho giocato più di 1.200 minuti, venti partite, almeno quindici da titolare. Credo di aver parlato con i fatti, di aver dimostrato quello che posso fare. Da 22 anni, ho una media di 23 partite per stagione e, a quasi 40 anni, finirò ancora una volta molto vicino a quei numeri. Ho vinto la Challenge Cup con il Tolone, giocando per 71 minuti e segnando una meta”.

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Sergio Parisse, 142 presenze in maglia azzurra, 94 da capitano, compirà 40 anni il prossimo 12 settembre. Nella foto piccola, a Hamiton, nel giugno 2002, il giorno dell’esordio in Nazionale, con il caschetto giallo di fronte a Jonah Lomu.

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