SBALLO D’ESTATE
Nuove droghe più potenti ed economiche devastano il cervello
Rischio malattie mentali anche con droghe leggere
Il male profondo
Pietrini spiega la psicologia omicida
#parliamone
Il contorno del vero di Disegnisottovuoto
Nuove droghe più potenti ed economiche devastano il cervello
Rischio malattie mentali anche con droghe leggere
Il male profondo
Pietrini spiega la psicologia omicida
#parliamone
Il contorno del vero di Disegnisottovuoto
L’estate è finalmente arrivata, portando con sé un’atmosfera di gioia, libertà e spensieratezza. Per molti di noi, questa stagione rappresenta un periodo di vacanza e relax, ma per chi soffre di patologie psichiatriche, l’estate può rappresentare una sfida. È innegabile che il sole e il caldo possano avere effetti positivi sul nostro umore. L’esposizione alla luce solare stimola la produzione di serotonina, un neurotrasmettitore che regola l’umore e il sonno, contribuendo così a ridurre sintomi di depressione e ansia. Inoltre, le vacanze estive possono essere un’opportunità per staccare dalla routine stressante e dedicarsi al tempo libero e alla socializzazione, entrambi elementi fondamentali per il benessere psicologico.
Tuttavia, per alcune persone che soffrono di patologie psichiatriche, l’estate può rappresentare una sfida. Le alte temperature e l’afa possono essere particolarmente difficili da sopportare per chi soffre di disturbi dell’umore, come il disturbo bipolare, in quanto possono scatenare stati di irritabilità o ipomania. Inoltre, il cambiamento delle abitudini e la mancanza di routine possono peggiorare i sintomi di disturbi dell’ansia e dell’umore, portando a episodi di panico o a una sensa-
zione di instabilità emotiva. Le persone affette da patologie psichiatriche possono anche sentirsi escluse dai momenti di svago e divertimento che caratterizzano questo periodo dell’anno. La pressione sociale per essere felici e spensierati può generare una maggiore sensazione di inadeguatezza e isolamento in chi sta affrontando una battaglia interna contro la propria malattia.
Si tratta dunque di un momento delicato, che indaghiamo in questo numero il cui primo piano è dedicato a un tema che è sempre più necessario affrontare con onestà e consapevolezza. In quest’epoca di social media, infatti, l’immagine di uno sballo sfrenato viene sovente esaltata e amplificata, spingendo molti giovani a sperimentare senza rendersi conto dei rischi connessi. È importante ricordare che l’uso di droghe o l’abuso di alcol possono portare a dipendenza, problemi comportamentali, danni cerebrali e, in alcuni casi, persino overdose fatale. Noi lo facciamo senza moralismi ma con dati alla mano nel corso di queste pagine fra inchieste, interviste e riflessioni che, ci auguriamo, riusciranno a far riflettere su un fenomeno tanto complesso e diffuso nel nostro Paese, quanto sottovalutato.
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EDITORIALE
Estate: gioia e spensieratezza, con qualche insidia per i disturbi dell’umore di Armando Piccinni
PRIMO PIANO
L’estate dello sballo di Carmine Gazzanni
Shottini, mix di alcool superalcolici in discoteca o nelle periferie di Flavia Piccinni
Anno IV | N. 6/7/8 | Giu/lug/ago 2023
Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca
Diffusione: www.fondazionebrf.org
Direttore responsabile: Armando Piccinni
Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca
La parola all’esperto intervista al prof. Andrea Fagiolini
CONTRIBUTO
Alle radici del male la psicologia dell’omicida intervista al professor
Pietro Pietrini di Flavia Piccinni
PRIMO PIANO
Quasi tre suicidi al giorno un dramma silenzioso di Chiara Andreotti
LUCCA IN MENTE
“Lucca in Mente” nelle scuole: i vincitori dei concorsi di disegno racconti e poesie di Chiara Andreotti
CONTRIBUTO
Personalità patologiche un mondo complesso di Antonio Tundo, Anita Parena, Roberta Necci
Effetti dell’ansia nel periodo perinatale di Cristi Marci
L’APPROFONDIMENTO Come riconoscere le demenze e come intervenire di Valentina Formica
#PARLIAMONE
Disegnisottovuoto la matita per inseguire la realtà di Chiara Andreotti
Diventare genitori. Il processo di attaccamento di Alberto Lupi
Paura di essere felici: la cherofobia di Attilio Luppoli
Cervello piccolo, artigli e gobba: ecco l’uomo tra mille anni di Alessandro Righi
Alzheimer, 15 miliardi di costi all’anno per le famiglie di Alessandro Righi
LIBRI
di Cristi Marci
Quella diade inseparabile che lega madre e figlio di Flavia Piccinni
IL PODCAST
Il sesso di oggi passato al microscopio di Flavia Piccinni
IL FILM Lo stereotipo che si fa personaggio di Chiara Andreotti
Viaggio nelle nuove droghe. Più potenti ed economiche di sempre, sono alla base di una nuova, silenziosa e preoccupante epidemia. Che ha effetti disastrosi sul cervello
di Carmine GazzanniAForte dei Marmi, in discoteca, le pasticche passano di mano in mano: costano da cinque a venti euro, promettono uno sballo istantaneo, soprattutto se innaffiate dal giusto drink. Simile la situazione in Costa Smeralda, nei locali del Salento dove si tira l’alba fra musica e divertimento, ma anche sulle spiagge di Rimini e di Milano Marittima.
Il 2023 è l’estate dello sballo. Un viaggio in cui ci si perde a ritmi di bibite alcoliche, hit pop intrise di ritmi sudamericani e droghe. Tantissime, diversissime, droghe.
Il nostro Paese è attraversato silenziosamente da un fiume di droga che scorre da Torino a Palermo, passando da Firenze e Napoli. Se in principio fu l’eroina, adesso la situazione ha smesso di essere semplicemente allarmante, e ha acquisito i toni foschi di un’epidemia.
Gli stupefacenti più noti - ad esempio la cocaina, la marijuana, o la Mdma - sono ormai solo un frammento del complesso mosaico che contraddistingue il presente e che viene scandito dalle designer drug (ovvero un insieme di sostanze calibrate per evitare la classificazione come droga, e riuscire così ad aggirare le norme sulle sostanze illegali), ma anche da ketamina e da mix di psicofarmaci accompagnati dall’abuso di alcol per amplificarne gli effetti.
«Oggi il mercato delle droghe è molto fluido. Da una parte abbiamo una serie di sostanze classiche che spesso sono accompagnate da servizi completi e costosi affinati durante gli anni della pandemia, come il delivery espresso a domicilio, dall’altra una vasta offerta di droghe low cost», spiega Riccardo Gatti, psichiatra e autorità sul tema. Sintetizzando: luogo che vai, droga (e consumatore) che trovi. Un esempio? Nei
Gli stupefacenti più noti - ad esempio la cocaina, la marijuana, o la Mdma - sono ormai solo un frammento del complesso mosaico che contraddistingue il presente e che viene scandito dalle designer drug (ovvero un insieme di sostanze calibrate per evitare la classificazione come droga, e riuscire così ad aggirare le norme sulle sostanze illegali), ma anche da ketamina e da mix di psicofarmaci accompagnati dall’abuso di alcol per amplificarne gli effetti.
sotterranei della stazione di Firenze, Santa Maria Novella, durante un breve passaggio dei giovani spacciatori - tutti con il cappellino da baseball in testa, scarpe da ginnastica alla moda ai piedi e una sigaretta fra le labbra nonostante il divieto di fumo - mi propongono cocaina, marijuana e non meglio identificate pasticche. C’è anche la possibilità di pagare con il POS.
Non molto diverso il copione a Napoli, dove nei pressi di Via Toledo viene praticata l’offerta 2x3, ovvero «la terza dose è in omaggio»; quando spiego di non essere interessati, lo spacciatore - dal marcato accento locale, la t-shit del Napoli campione addosso - sbotta: «E allora cosa ci fai qua?».
Sarebbe possibile scrivere un trattato sui luoghi inscindibili dalla vendita di stupefacenti nella realtà e nella memoria collettiva - da Scampia a Ballarò, dal Pigneto a Rogoredo -, ma di certo sarebbe meno impressionante delle invenzioni continue che la malavita (e i piccoli chimici fai da te) si inventano per attirare nuovi consumatori, e non deludere gli affezionati. Il caso più eclatante arriva da quelli che in molti considerano il cuore pulsante della malavita barese: Japigia. Qui incontro Alex T., 21 anni, che si definisce un «imprenditore del settore» e che racconta la sua intuizione: «Sono attivo 24 ore su 24, e l’ordine si fa via WhatsApp o su Instagram. La prima dose di solito, soprattutto ai ragazzini, la regalo per far capire quanto è buona la mia roba. Dopo tornano, tornano sempre. E quando finiscono i soldi invece di fare credito, perché non si sa mai, accetto di tutto: gioielli, cellulari e anche i buoni pasto o i ticket restaurant di mamma e papà».
I consumatori più ricercati sono i giovanissimi. Perché hanno bas-
si margini di spesa - ma a questo il mercato supplisce costruendo sinteticamente droghe di laboratorio in grado di emulare gli effetti di quelle più costose - ma altissime possibilità di diventare clienti regolari.
«Non esiste un profilo unico di consumatore», commenta il prof. Andrea Fagiolini dell’Università di Siena (un approfondimento nella sua intervista sempre su questo numero). «Le motivazioni e le circostanze variano, ma ci sono delle caratteristiche e dei fattori di rischio relativamente comuni come la necessità di vivere nuove esperienze, sensazioni inaspettate o rompere la routine e così vincere la noia. Caratteristiche
spesso associate a disturbi di personalità».
Il menù delle proposte si dimostra direttamente proporzionale alle necessità e ai luoghi di consumo. Un po’ come emerge dall’ultima relazione dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA): per quanto riguarda gli oppiacei circa il 7,9% degli italiani tra i 15 e i 64 anni ne fa un uso «ad alto rischio». In pratica, quasi una persona ogni dieci. Si va al 6,9% (la media Ue è il 5) per la cocaina; a seguire amfetamine (2,4) e Mdma (2,7). Gli ultimi dati (risalenti al 2020) parlano di 308 decessi indotti dall’utilizzo degli stupefacenti.
Peggio di noi in Europa fanno solo Germania (1.581), Spagna (546) e Francia (465).
«Sempre più giovani sperimentatori si avvicinano a questo mondo», nota Icro Maremmani, fondatore della Società Italiana Tossicodipendenze e da sempre in prima linea sul tema. «Lo fanno per vivere nuove emozioni, usando sostanze che non danno dipendenza e il cui grado di tolleranza non varia del tempo. Il loro uso di droghe è saltuario e ricreativo. Attenzione però: questo non vuol dire che non ci siano complicazioni».
I ragazzi e le ragazze protagoniste di questo viaggio assomigliano tutti a delle Christiane F. meno romantiche e molto più furbe. Spesso vestono alla moda, postano ogni istante della loro vita e non sembrano essere dei dropout. Anzi.
«Siamo davanti a un nuovo mondo di tossicomani. Giovanissimi che si infilano fra le maglie del sistema, e che così non vengono monitorati, portando a un’evidente sottovalutazione nelle stime», aggiunge Maremmani. Nonostante questo, però, i dati raccolti dal dipartimento delle Politiche antidroga - oggi guidato dal sottosegretario Alberto Mantovano - risultano ugualmente allarmanti: tra gli studenti 15-19enni, circa 460mila (18%) hanno assunto una sostanza psicoattiva illegale nel corso dell’ultimo anno, il 10% ha fatto uso di sostanze nell’ultimo mese e il 2,8% ne ha fatto uso più volte a settimana. Esattamente come Clara S., 28 anni, che incontro a Modena durante le giornate novembrine del contestatissimo rave party. «Io non sono una tossica! Sfido chiunque a dimostrare che tutto quello che consumo, e che produco in casa, sia indicato come droga», ironizza da dentro il suo piccolo
Sarebbe possibile scrivere un trattato sui luoghi inscindibili dalla vendita di stupefacenti nella realtà e nella memoria collettiva - da Scampia a Ballarò, dal Pigneto a Rogoredo -, ma di certo sarebbe meno impressionante delle invenzioni continue che la malavita (e i piccoli chimici fai da te) si inventano per attirare nuovi consumatori, e non deludere gli affezionati.
La natura inodore, incolore e insapore è anche la caratterista principale del Ghb o acido gamma-idrossibutirrato, comunemente conosciuto come “Ecstasy liquida” o “droga dello stupro”, gettonatissimo in discoteca o nei cosiddetti “party drugs”. Solo nel 2021 sono state denunciate 123 persone e sequestrati 13 kg e quasi 90 litri di sostanza.
stand, strategicamente posizionato fra un venditore di cocaina (una dose a venti euro) e marijuana (dieci a cartina). Effettivamente sta proprio nello studio della legislazione - e nel talento di porsi leggermente sotto le soglie d’allarme - la capacità imprenditoriale - per citare il barese Alex - di chi decide di aprire un “laboratorio home made”. Anche questa volta, sono sempre i dati a parlare: la trasformazione delle sostanze è così rapida da farsi inseguire (spesso in modo fallimentare) dagli organi di vigilanza. Secondo l’ultimo dato a disposizione, che risale al 2021, sono state riconosciute ulteriori 93 sostanze fino all’anno prima sconosciute. A tal proposito, basti sapere che il monitoraggio del Ministero della Salute prevede 4 tabelle differenti, una per ogni tipologia. Nella prima compaiono oppiacei (come la morfina), cocaina, amfetamine e derivati (eroina e designer drugs), allucinogeni; nella seconda cannabis; nella terza barbiturici; nella quarta benzodiazepine. Solo nella prima tabella compaiono 555 voci differenti. E delle 93 riconosciute nel 2021, 88 sono state inserite proprio in questa categoria. «Sono fotografie che raccontano il passato. Non cambiano solo le droghe, ma anche il modo in cui vengono assunte e i loro effetti mitigati o amplificati. Un esempio è quello delle benzodiazepine: se vengono assunte in modeste quantità hanno effetti disinibenti, spesso sfruttati in associazione ad alcolici», puntualizza ancora Maremmani. Bisogna rilevare che - secondo i più recenti dati Aifa - 17 milioni di italiani fanno uso di psicofarmaci. Più facili da reperire, e con caratteristiche di duttilità a seconda dei dosaggi e dei mix, creano una sorta di legalizzato commercio parallelo dello sballo.
«Da non sottovalutare poi l’utilizzo di sostanze nel chemsex, pratica che ha avuto origine nel Regno Unito e che consiste nel ricorso a specifiche sostanze per favorire la prestazione sessuale ed aumentarne la durata. Non è collegata all’abuso, ma situazionale: si fa uso di droghe o di sostanze legali per rendere l’orgasmo più piacevole, per stimolare l’erezione, per amplificare le sensazioni di piacere», commenta Gatti.
La natura inodore, incolore e insapore è anche la caratterista principale del Ghb o acido gamma-idrossibutirrato, comunemente conosciuto come “Ecstasy liquida” o “droga dello stupro”, gettonatissimo in discoteca o nei cosiddetti “party drugs”. Solo nel 2021 sono state denunciate 123 persone e sequestrati 13 kg e quasi 90 litri di sostanza. Il record assoluto negli ultimi dieci anni. Un fenomeno la cui portata si può intuire da un dato: solo negli ospedali milanesi si contano oltre 70 donne che hanno denunciato abusi di cui poi non ricordavano nulla. Nonostante la pericolosità, il Ghb è facilmente reperibile. Come? Il kit per fabbricarla si trova anche su internet.
Sul tema, prevedibilmente, il web si rivela una miniera, fonte inesauribile anche delle sostanze più alla moda come il captagon. «Si tratta di uno stimolante sintetico che nasce come un farmaco per curare deficit dell’attenzione, depressione e narcolessia. Ben presto ci si accorge che può dare dipendenza, ha anche effetti allucinogeni, e incomincia a circolare clandestinamente a scopo d’abuso. Fino a generare, come sta accadendo adesso, una vera e propria epidemia», riflette il dott. Gatti. Simile la situazione emergenziale prodotta dal fentanyl, farmaco originariamente creato per alleviare
i dolori dei malati oncologici. A San Francisco è ormai allarme sociale dato che i decessi correlati all’uso di stupefacenti - a cominciare proprio dal fentanyl - sono aumentati del 41%. E la situazione non sembra migliore in Italia, dove fioccano denunce per ricette false e furti in farmacia.«La particolarità di questo farmaco - commenta Maremmani - è che a livello cerebrale ha simili effetti dell’eroina. Per cui se ci sono difficoltà a reperire quest’ultima, basta magari un medico o un farmacista poco attento o compiacente per procurarsi una scatola».
Da Nord a Sud, il consumo di stupefacenti si rivela dunque trasversale. Come spiega il dott. Gatti però «Gli osservatori tradizionali ormai sono anacronistici. Fra sondaggi e dichiarazioni di chi si rivolge alle struttura non abbiamo alcuna rappresentanza dei fenomeni nuovi, e questo non ci permette di prevenire le epidemie e di organizzare risposte idonee». Uno spunto di riflessione è quello offerto dall’analisi delle sostanze presenti nelle acque reflue. L’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano svela come, in Italia, la cocaina sia la seconda sostanza più consumata dopo la cannabis. I dati ci parlano di una media di 26 dosi ogni mille abitanti al giorno a Montichiari (Brescia), 23 a Venezia, 21 a Fidenza, 20 a Roma, 19 a Bologna. Per quanto riguarda l’eroina, invece, spicca Perugia (con 12 dosi), seguita da Bologna, Fidenza, Ancona. Inferiori i consumi di metanfetamina - più elevati solo nelle grandi città come Roma, Milano e Bologna - e di ecstasy, i cui primi consumatori sono i triestini. Interessante quanto rivelato poi da uno studio europeo portato avanti su 104 città in 21 Paesi. Milano è quarta per il consumo di ketamina. Almeno per ora.
Ormai esiste una droga per tutte le tasche. Nel 2021, relativamente alla marijuana, i prezzi del traffico oscillano tra 2.363 e 3.347 euro al kg e quelli dello spaccio tra 8 e 11 euro al grammo. Per quanto riguarda l’hashish, in riferimento al canale del traffico e dello spaccio, i prezzi oscillano rispettivamente tra 2.705 e 3.773 euro e tra 10 e 13 euro. I prezzi dell’eroina si differenziano notevolmente in base alla tipologia: il prezzo dell’eroina brown (diamorfina base) oscilla tra 17.727 e 22.594 euro mentre quello riferito allo spaccio tra i 37 e i 45 euro; relativamente all’eroina bianca (cloridrato di diacetilmorfina) si va da 26.870 a 31.896 euro e quelli dello spaccio tra 48 e 59 euro. La cocaina è la sostanza che si caratterizza per i prezzi più elevati: variano tra 35.579 e 41.511 euro nel canale del traffico e tra 73 e 93 euro al dettaglio. Il prezzo medio per 1.000 pasticche di ecstasy, invece, varia tra 7.646 e 9.059 euro, e una singola dose al dettaglio ha un prezzo che oscilla tra 16 e 21 euro. Infine, per quanto riguarda le sostanze stimolanti, i prezzi del traffico relativi alle amfetamine variano tra 6.628 e 7.600 euro, quelli delle metamfetamine tra 10.646 e 11.445 euro e tra 9.799 e 10.799 euro quelli dell’LSD. I prezzi al mercato dello spaccio risultano compresi tra 23 e 28 euro per una dose di amfetamine, tra 26 e 34 euro per metamfetamine e tra 20 e 28 euro per LSD. Un business multimilionario e globale, che riesce a restare sommerso e florido nonostante le tante operazioni antidroga che vengono messe in atto nel nostro Paese. Un dato su tutti: l’ultimo report antidroga relativo al 2021 ha registrato sequestri per 91 tonnellate di stupefacenti (di cui 20 di cocaina).
Lo sballo è sempre più rischioso e tocca sempre più spesso i giovanissimi. Inchiesta nel divertificio del momento
di Flavia Piccinni«Di questi shottini ieri me ne sono fatti dieci. Provalo». Mi dice così Vincenzo mentre in un attimo tira giù l’ennesimo bicchierino di superalcolico. Non ci sarebbe nulla da obiettare, se non fosse che Vincenzo di anni ne ha appena quindici.
E che, prima della fine della nostra conversazione, ne berrà altri sette.
Alle nostre spalle si dipana il caos di Piazza Bellini, cuore pulsante di Napoli e del divertimento, fra studenti dell’Università e delle superiori, che cercano lo sballo a basso costo. Si tratta però di uno scenario comune al nostro Paese. Mutando luogo, infatti, la sceneggiatura resta la medesima: bicchierini di super alcolici a prezzi ridotti, tracannati fino a perdere il control-
lo (e, nei casi peggiori, addirittura i sensi). Durante il fine settimana, poi, basta addentrarsi per le vie e i vicoli del capoluogo campano per rendersi conto di quanto birre e alcolici abbiano prezzi bassissimi: spritz a due euro, shot a uno, cocktail massimo a quattro.
In piazza San Giovanni Maggiore - dove arrivo sempre in compagnia di Vincenzo - un gruppo di ragazzi, di età compresa fra i dieci e i sedici anni, mi racconta che è qui da metà pomeriggio: «Giusto qualche birretta per accendere la serata, e prepararsi ad alzare il livello», spiega Giorgio che di anni ne ha 14. Quando gli domando come facciano a essere serviti, considerato il divieto per legge di vendere alcolici ai minori, sorride: «Ma figurati se qualcuno ti chiede l’età!».
Sono queste le notti brave all’ombra del Vesuvio, così simili a quelle delle periferie e delle metropoli italiane, delle province e dei paesi, dove sempre più giovani iniziano il loro sabato - e una qualsiasi serata fra amici d’estate - con cocktail, birre e shot.
I dati dell’Istituto superiore di sanità (ISS) stimano che nel 2020 quasi il 50% dei ragazzi e il 45% delle ragazze tra gli undici e i 25 anni abbia consumato almeno una bevanda alcolica. Nello specifico, sono 750mila i minorenni tra gli 11 e i 17 anni che hanno consumato alcolici nello stesso anno. Dato ancora più allarmante poiché, alla luce del divieto assoluto di vendita a minori di bevande alcoliche, i valori dovrebbero essere pari a zero. Ma c’è di più: secondo le ultime rilevazio-
ni, i binge drinker - ovvero coloro che letteralmente fanno abbuffate di alcol - tra gli 11 e i 17 anni sono 120mila. Un numero impressionante, che mostra come il fenomeno sia diffuso. Da Sud a Nord.
Un esempio? Nella Capitale, anche in luoghi di ritrovo centralissimi come Trastevere, gli interventi del 118 sono ormai all’ordine del giorno. «La maggior parte dei soccorsi per abuso di alcol - mi spiega un operatore attivo sulle ambulanze capitoline - riguarda proprio minorenni. In alcuni casi è sufficiente una coperta termica e un minimo di attenzione, in altri invece è necessario correre in ospedale e procedere a lavanda gastrica perché si sfiora il coma etilico».
Altrettanto preoccupante la situazione a Genova, dove il sindaco
I dati dell’Istituto superiore di sanità (ISS) stimano che nel 2020 quasi il 50% dei ragazzi e il 45% delle ragazze tra gli undici e i 25 anni abbia consumato almeno una bevanda alcolica.
Un esempio? Nella Capitale, anche in luoghi di ritrovo centralissimi come
Trastevere, gli interventi del 118 sono ormai all’ordine del giorno. «La maggior parte dei soccorsi per abuso di alcol - spiega un operatore attivo sulle ambulanze capitolineriguarda proprio minorenni.
Marco Bucci aveva vietato il consumo di alcolici fuori da bar e dehors dalle 16:00. La decisione ha provocato durissime critiche e manifestazioni, tanto che il Comune ha rivisto l’orario del coprifuoco alcolico, portandolo dalle 22:00 alle 8:00 del mattino.
Situazione ugualmente allarmante neanche a Milano. È sufficiente stazionare davanti alle discoteche più periferiche per trovare orde di ragazzi con bicchieri e bottiglie a seguito. «Non consumiamo all’interno - racconta Sabrina, appena diciottenne, di Rozzano - Ci portiamo tutto dietro: compriamo ai supermercati bottiglie di vodka, gin e poi acqua tonica o limonata. E ci prepariamo i cocktail alla buona, prima di entrare. Così lo sballo è garantito, e la spesa meno di un terzo». È la stessa Sabrina a raccontarmi un episodio che le è rimasto scolpito nella mente: «Qualche mese fa sono andata con i miei amici ad un party in un palazzo occupato di Milano. A un certo punto un tizio, poco più grande di me, si è sentito male e abbiamo dovuto chiamare il 118. Era andato in coma etilico. Si è ripreso solo al mattino, in ospedale, davanti ai genitori imbestialiti».
Infatti - mentre sempre più challenge spopolano su Instagram e TikTok, spesso tragicamente focalizzate sul bere fino a perdere i sensi - i genitori vengono tenuti all’oscuro, e coinvolti solo quando la situazione è fuori controllo. «Da sempre i ragazzi e le ragazze hanno bisogno di varcare i confini dettati dall’autorità per capire cosa succede concretamente e l’alcol è il mezzo più accessibile e socialmente più accettabile. Non dimentichiamoci però che la tutela passa sempre dal buon esempio. Soprattutto con gli adolescenti le parole non valgono nulla mentre
i comportamenti, anche se non sempre nell’immediato, educano profondamente», riflette Alli Beltrame, conselour e autrice di “Arrabbiati per bene” (Mondadori). «Creare occasioni di dialogo sul tema - aggiunge - è importante se si riesce a mantenere la conversazione su dati certi, e non si scade nella sgridata e nella critica, soprattutto generazionale». Spesso però il confronto diretto salta. E altrettanto spesso il passo tra consumo di alcol e quello di sostanze stupefacenti diventa brevissimo.
Torniamo all’inizio del nostro viaggio, a Napoli. Vincenzo, il ragazzo 14enne degli shot bevuti in sequenza, mi fa conoscere il suo gruppo di amici. Ci ritroviamo in un vicoletto che costeggia la piazza in compagnia di altri 5 ragazzi, mentre uno spinello passa di mano in mano. Chiedo le varie età, scoppiano a ridere: «Tutti 14 anni, lui 13», rispondono. Quel lui racconta la sua storia. «Mia madre lavora tutto il giorno, fa le pulizie in un condominio al mattino e il pomeriggio fino a tarda notte sta a casa di una signora anziana che abita sempre in quel palazzo. Mio padre invece è in carcere». E quindi, dice, rimane fuori spesso e volentieri fino a tardi perché, rivolto agli amici, «questa è la mia famiglia».
Di storie così il mondo dello sballo low cost è affollatissimo. Molte rivelano situazioni di abbandono e di fragilità, altre il desiderio di divertirsi fino allo stremo - spendendo il meno possibile - per essere parte di un gruppo. Un gruppo che in questa zona grigia in un attimo si trasforma in branco, come racconta don Salvatore Giuliano, parroco della chiesa di San Giovanni Maggiore che affaccia proprio nell’omonima piazza. «Ho installato delle telecamere di sorveglianza perché non se ne poteva più dei continui atti van-
dalici», racconta. Vedo le immagini insieme a lui. Ci sono ragazzi che abbattono fioriere e le prendono a calci, altri che imbrattano la facciata della chiesa. «E questo non è niente. Il problema è quando, senza rendersene conto, attentano alla loro stessa vita». Parla, don Salvatore Giuliano, di quanto accaduto solo pochi mesi fa, quando un ragazzino, ubriaco, si è spinto fin sul campanile con l’obiettivo di suonare le campane, con la folla di amici che da giù lo incitava. «Nel 2016 - aggiunge - poco lontano da qui un ragazzo di 23 anni si è arrampicato sull’obelisco in piazza San Domenico Maggiore, è caduto ed è morto. Chi ci dice che non potrebbe riaccadere di nuovo?». Per quanto il parroco abbia a più riprese richiesto l’intervento delle autorità, non ha avuto alcun sostegno. «Mi dicevano sempre la stessa cosa: non ci sono pattuglie disponibili. E così ho deciso una volta al mese di aprire le porte della chiesa proprio ai ragazzi. Per parlare, per discutere, per creare dialogo». Con il sostegno di alcune professioniste, i giovani hanno cominciato a parlare e sfogarsi. «Dai loro racconti, la prima tematica che emerge è un gran senso di solitudine. Sono bombardati dai social, sempre connessi, ma in realtà profondamente soli», spiega la psicologa Maria Francesca Cattaneo Della Volta, che qui presta servizio. Una solitudine che provano a spazzare via fra un bicchiere, e un altro, e un altro ancora. Magari con l’obiettivo dello smartphone piantato in faccia. Trangugiando alcol con il desiderio di arrivare allo sballo. «Bevendo non hai modo di pensare. Sembra assurdo», conclude Nazareno, uno dei ragazzi del quartiere, «ma a volte ci vuole più forza a parlare che a stare in silenzio e ubriacarsi».
«Sono danni, quelli legati all’alcol, che possono pregiudicare una vita». Esordisce così il prof. Icro Maremmani, psichiatra ed esperto di dipendenze comportamentali. «Si tratta di danni molto simili a quelli prodotti dalle altre sostanze. La differenza sta nel fatto che l’alcool è più disponibile, si trova addirittura fra le mura domestiche senza alcun costo, quindi è più facile che i giovani vi abbiano accesso». L’elenco degli organi compromessi in modo insanabile dall’abuso è decisamente lungo. A cominciare dal fegato. «Ma sono le conseguenze sul cervello le più preoccupanti», sospira Maremmani. «Conseguenza primaria è un ritardo della maturazione della zona del controllo del cervello che si trova nella corteccia, e che gestisce gli istinti e le passioni. Sono attività presenti nel cervello primordiale, il primo che si sviluppa subito appena nati. L’uso di sostanze durante l’adolescenza rallenta le connessioni che ci sono fra la corteccia, che finisce la sua maturazione fra i 20 e i 30 anni, e il cervello più emotivo e affettivo».
Anche le droghe erroneamente chiamate come minori o leggere aumentano il rischio di sviluppare una malattia mentale
«Le organizzazioni criminali, capitalizzando l’esperienza maturata nella fase pandemica, trasformatasi in un grande laboratorio per l’individuazione di nuove soluzioni per l’efficientamento del traffico, gestiscono le transazioni illecite, sia utilizzando gli schemi operativi tradizionali, sia le soluzioni innovative messe a punto durante la crisi sanitaria». Nota questo il direttore centrale per i Servizi Antidroga, Antonino Maggiore, nel dossier appena pubblicato relativo all’anno 2022. Un dossier che evidenzia come fra internet, corrieri postali e commerciali, nonché l’ausilio delle piattaforme crittografate, il modo di approvvigionarsi di sostanze stupefacenti sia fortemente cambiato.
Nessun cambiamento invece sui fruitori e sulle conseguenze degli utilizzi di stupefacenti, che abbiamo voluto approfondire con il prof. Andrea Fagiolini, psichiatra e professore ordinario presso l’Università di Siena.
Quali sono le conseguenze delle droghe, a cominciare da quelle consumate nei più giovani?
Le conseguenze delle droghe possono essere estremamente dannose, specialmente per i giovani, per i quali l’uso di droghe può causare danni permanenti al cervello, che è ancora in sviluppo, come alterazioni della memoria e attenzione, nonché compromissioni delle altre funzioni cognitive.
Tra quelle più comuni, possiamo ricordare l’aumento del rischio di sviluppare problemi di salute men -
tale come psicosi, disturbi bipolari, ansia e depressione. Anche le droghe erroneamente chiamate come minori o leggere, come la cannabis, aumentano il rischio di sviluppare una malattia mentale negli individui predisposti e generano in moltissimi di coloro che le consumano una sindrome chiamata amotivazionale, caratterizzata da assenza (o riduzione) di interessi, motivazione, capacità progettuale e voglia di sostenere i sacrifici e gli sforzi necessari al raggiungimento di un obiettivo
- ad esempio scolastico o lavorativo - spesso accompagnata da una riduzione dell’attenzione, della memoria e delle capacità di apprendimento. Altri problemi sono relativi alla salute fisica, a seconda del tipo di sostanza utilizzata. Ad esempio, l’uso di droghe può danneggiare il fegato, i denti, i polmoni, il cuore e altri organi vitali. L’uso di droghe iniettabili può inoltre portare a infezioni gravi, come l’HIV o l’epatite C, se le siringhe sono condivise. Non bisogna poi sottovalutare la
Le conseguenze delle droghe possono essere estremamente dannose, specialmente per i giovani, per i quali l’uso di droghe può causare danni permanenti al cervello.
Le nuove droghe sintetiche, chiamate anche droghe di design, sono sostanze create in laboratorio per produrre effetti simili a quelli delle droghe più vecchie, come l’eroina, la cocaina o la cannabis. Queste nuove droghe di sintesi continuano a evolversi e a comparire sul mercato in modo tanto rapido e imprevedibile quanto pericoloso per la salute.
dipendenza fisica e/o psicologica dalla sostanza, che finisce per diventare il principale obiettivo della vita di chi la usa, e i problemi comportamentali, con tendenza ad atti impulsivi e rischiosi, come l’abuso di altre droghe, la guida sotto l’effetto delle droghe o dell’alcol o la tendenza a compiere atti criminali, ad esempio per procurarsi la sostanza. Le conseguenze dell’uso di droghe possono variare a seconda della sostanza utilizzata, della frequenza e della quantità di utilizzo, della predisposizione individuale allo sviluppo di malattia mentale e di altri fattori.
Gli studi si stanno concentrando su droghe sintetiche sempre più diffuse: che cosa comportano?
Le nuove droghe sintetiche, chiamate anche droghe di design, sono sostanze create in laboratorio per produrre effetti simili a quelli delle droghe più vecchie, come l’eroina, la cocaina o la cannabis. Queste nuove droghe di sintesi continuano a evolversi e a comparire sul mercato in modo tanto rapido e imprevedibile quanto pericoloso per la salute. Le droghe sintetiche infatti hanno effetti imprevedibili, proprio perché sono sviluppate in laboratorio con composti chimici sconosciuti, i cui effetti sul corpo e sulla mente sono, almeno nel primo periodo, sconosciuti. Inoltre, molte di queste nuove droghe tendono a generare una fortissima dipendenza, sia fisica che psicologica. Infine, possono causare una serie di problemi fisici, come ipertensione, tachicardia, convulsioni, nausea, vomito, sudorazione, problemi respiratori, reazioni allergiche, danni irreversibili agli organi e altri sintomi che possono essere fatali, soprattutto ma non necessariamente se assunte in alti dosaggi. Molto
frequenti sono anche le alterazioni mentali, con sintomi come deliri, allucinazioni, dissociazione, ansia, depressione, irritabilità, aumento della propensione alla violenza, disturbi del sonno e discontrollo degli impulsi.
Spesso si parla di profili psicologici dei consumatori. Quali sono i principali?
Le motivazioni e le circostanze che portano all’uso di droghe possono essere molto diverse e non esiste quindi un profilo unico per tutti i consumatori di droghe. Tuttavia, ci sono alcune caratteristiche e fattori di rischio relativamente comuni in coloro che usano droghe, come la necessità di cercare nuove esperienze, di sperimentare inaspettate sensazioni o di rompere la routine e vincere la noia. Queste caratteristiche sono spesso associate a disturbi di personalità. Tra i fattori favorenti sono anche inclusi i fattori di stress, che possono spingere alcune persone a utilizzare droghe come mezzo per affrontare o sfuggire ai problemi. Sono inoltre comuni, sia tra le cause che tra le conseguenze dell’uso di droghe, i problemi di salute mentale, sopratutto disturbi bipolari, disturbi psicotici, depressione o ansia, oltre naturalmente al disturbo di personalità che è quasi sempre sempre presente, almeno sottosoglia. Infine, sono spesso presenti alterazioni nella capacità di gestire gli impulsi e una bassa autostima. Naturalmente ogni persona ha una storia unica, e il consumo di droghe può essere influenzato da una combinazione di fattori psicologici - che influenzano tra l’altro la capacità di tollerare le frustrazioni, la noia, il senso di vuoto -, fattori biologici, ambientali e sociali sui quali sarebbe necessario intervenire a livello preventivo, durante l’infanzia e l’adolescenza.
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“Nell’immaginario comune, uccidere un’altra persona è elemento necessariamente indicativo di una devianza dalla normalità. Come potrebbe, infatti, un essere normale uccidere un proprio simile?”
Che cosa nasconde nei suoi abissi l’animo umano, e che cosa ci rivelano i fatti inquietanti di cronaca nera delle ultime settimane? Scoprendo la brutalità dell’omicidio di Giulia Tramontano - uccisa a Milano al settimo mese di gravidanza dal proprio compagno, il barman Alessandro Impagnatiello -, venendo a conoscenza della cieca violenza esercitata sul clochard picchiato a morte a Pomigliano D’Arco, ma anche della reazione a caldo del gruppo dei TheBorderline dopo aver speronato un’altra vettura alla periferia di Roma, e aver appreso della morte di un bambino di cinque anni, è impossibile restare impassibili. Non si può non chiedersi come sia possibile che un orrore così viscerale prenda corpo, e che cosa scatti nella testa di chi quel dolore ha provocato. «Il Male ci accompagna fin dall’alba della nostra esistenza», esordisce il prof. Pietro Pietrini, docente presso gli IMT di cui è stato direttore per anni, e punto di riferimento internazionale sul tema. «Nei versi iniziali del Capitolo quarto del libro della Genesi, laddove si narra del primo omicidio della storia dell’umanità, il Signore si rivolge a Caino, mettendolo in guardia dal Male e dal peccato: Il Signore disse allora a Caino: Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, timshel. Nelle diverse traduzioni della parola ebraica che segue e che chiude il settimo verso – timshel - si rispecchia tutta la fragilità dell’umano agire, sospeso – nelle diverse traduzioni - tra la promessa di controllo “ma tu lo dominerai!”, l’obbligo di controllare l’istinto “ma tu lo dovrai dominare”
Premesso doverosamente che certamente la malattia mentale non spiega tutta la violenza e che la violenza non è inevitabilmente presente nelle patologie psichiatriche, vi sono situazioni in cui il gesto è espressione e conseguenza di una sottostante malattia psichica.
e, infine, la mera possibilità “ma tu puoi dominarlo”. Possibilità che, in quanto tale, comporta anche che tu puoi non dominarlo. È quello che filosofia e neuroscienze cognitive chiamano libero arbitrio. Una discussione ravvivata dai risultati di sofisticate ricerche neuroscientifiche delle ultime decadi. ma che ancora non offre una risposta conclusiva su quanto il nostro agire sia libero o sia condizionato. Nel bene e nel male.
Ogniqualvolta ci troviamo al cospetto di gesti efferati e incomprensibili, come l’episodio della giovane donna incinta uccisa per mano stessa del fidanzato e padre del nascituro, sorge spontanea la domanda se gli assassini sono persone come le altre o se non siano invece intrinsecamente diverse. Lei cosa ne pensa?
Nell’immaginario comune, uccidere un’altra persona è elemento necessariamente indicativo di una devianza dalla normalità. Come potrebbe, infatti, un essere normale uccidere un proprio simile? Ancor di più, quando la vittima è persona amata, la madre dei propri figli? O addirittura il proprio figlio o il proprio padre o la propria madre? Premesso doverosamente che certamente la malattia mentale non spiega tutta la violenza e che la violenza non è inevitabilmente presente nelle patologie psichiatriche, vi sono situazioni in cui il gesto è espressione e conseguenza di una sottostante malattia psichica. Vi sono persone che in preda a psicosi deliranti uccidono il presunto persecutore, o madri che, colpite da depressione post-partum, uccidono il proprio neonato. Questi eventi colpiscono fortemente l’opinione pubblica che non riesce a darsene una spiegazione logica e, sulla spinta emotiva
collettiva, invoca le pene più atroci per il reo. Bisogna uscire dall’ambito della razionalità ed entrare in quello della patologia psichiatrica per comprendere come una psicosi delirante possa spingere una mamma ad uccidere il proprio figlio, nella paradossale convinzione che questo sia l’unico modo per proteggerlo dal male. La nascita di un figlio è evento senza uguali nella vita di coppia ma è al contempo un momento di grande vulnerabilità, che in molte donne diviene clinicamen -
te rilevante fino a portare, in alcune, a vere e proprie psicosi. Vi è ancora molta ignoranza su questi temi e non vi è una sufficiente conoscenza e sensibilizzazione al riguardo. La conoscenza è condizione indispensabile per la prevenzione e la cura. Al di fuori dei reati commessi a causa di una patologia psichiatrica, per i quali il codice prevede il vizio di mente e le conseguenti ripercussioni sull’imputabilità e la pena, i casi che per certi aspetti sfidano ancor di più la nostra comprensione sono
quelli che coinvolgono il vicino di casa, il collega di lavoro, in altre parole, la persona che, fino a quel momento, ci sembrava “normale”. Ma era davvero così?
È possibile delineare personalità di questo tipo?
Da tempo i criminologi tentano di delineare la personalità dell’assassino, alla ricerca di elementi peculiari e predittivi del suo comportamento. Come quando si valuta il rischio di incidente stradale, il miglior predittore di comportamento futuro è il comportamento passato. Dunque, coloro che hanno una storia documentata di alterazioni del comportamento in senso antisociale, con ripetute aggressioni e altri reati violenti, per definizione hanno una pericolosità aumentata, sia essa dovuta o meno ad una sottostante patologia psichiatrica, come sovente è il caso nei disturbi di personalità. Negli altri casi, in particolare per i gravi atti di violenza domestica come il caso recente di Senago, viene frequentemente chiamato in causa il cosiddetto “narcisismo maligno”, che non si sa bene cosa voglia dire. Se si intende un Disturbo narcisistico di personalità, allora questo rientra nelle patologie psichiatriche e, come previsto dalla celeberrima Sentenza della Corte di Cassazione del 2005 (c.d. Sentenza Raso), in quanto tale può rilevare ai fini del vizio di mente. Altrimenti appare nulla di più che un’espressione colloquiale da circolo del dopo-lavoro, un po’ come quando si invoca lo stress per giustificare un malessere che non sappiamo da dove nasca.
Esistono dei campanelli d’allarme per prevenire i gravi episodi di violenza intra-domestica?
La violenza contro le donne è una piaga gravissima che si estende ben
Da tempo i criminologi tentano di delineare la personalità dell’assassino, alla ricerca di elementi peculiari e predittivi del suo comportamento. Come quando si valuta il rischio di incidente stradale, il miglior predittore di comportamento futuro è il comportamento passato.
Va sottolineato che il problema della violenza domestica non si risolve certo solo istruendo le donne a riconoscere situazioni di potenziale o attuale pericolo. Il problema si risolve educando fin da piccoli i nostri ragazzi e le nostre ragazze al rispetto dell’altra persona, e conferendo loro un ruolo paritetico.
oltre i confini del nostro Paese. Se guardiamo le statistiche degli ultimi venticinque anni, mentre il numero di omicidi in Italia si è notevolmente ridotto, il numero di donne uccise è rimasto costante. Questo vuol dire che le misure messe in atto hanno ridotto significativamente i morti tra i maschi, mentre nulla hanno fatto per le donne. Il dato appare immediatamente chiaro se si considera che la gran parte dei maschi viene uccisa da sconosciuti, mentre oltre tre quarti delle donne vengono uccise per mano di un famigliare o di conoscente stretto, non certo dalla criminalità comune. Una donna su due è uccisa dal proprio partner o ex-partner. Purtroppo, i cosiddetti campanelli di allarme appaiono tali solo dopo, con il senno di poi. Prima si tende, anche inconsciamente, a dare una giustificazione anche alle situazioni più incresciose. Ma è sbagliato. L’amore non è possesso dell’altra persona, al contrario. Non è controllo, ma fiducia senza se e senza ma. Spesso sentiamo dire “è tanto geloso perché mi vuole bene”; nulla di più falso. Anche quando non arriva ad essere una vera e propria patologia psichiatrica, la gelosia implica controllo, possesso e manipolazione dell’altra persona. Non ci sono scuse o spiegazioni alternative. Sono relazioni che vanno recise alla radice. Va sottolineato che il problema della violenza domestica non si risolve certo solo istruendo le donne a riconoscere situazioni di potenziale o attuale pericolo. Il problema si risolve educando fin da piccoli i nostri ragazzi e le nostre ragazze al rispetto dell’altra persona, e conferendo loro un ruolo paritetico. Purtroppo, sopravvivono ancora abitudini e condizionamenti discriminanti nella vita quotidiana. Persiste una diversa percezione dei
diritti e dei doveri tra maschi e femmine fin da piccoli. Comportamenti che vengono favoriti e premiati nel maschio sono considerati disdicevoli e scoraggiati, quando non impediti, nella femmina, si pensi alle prime esperienze sessuali. Sono messaggi pericolosi, che in certi casi possono consolidare nel maschio adulto la convinzione di vantare diritti maggiori.
Sempre analizzando i comportamenti raccontati dalla recente cronaca - come il caso di Impagnatiello, o quello dei TheBorderline dopo l’incidente in cui ha perso la vita il piccolo Manuel - ci si rende conto che l’empatia è spesso del tutto inesistente. Che cosa ci può essere nella testa di chi uccide e poi deve fare i conti con la realtà?
Una caratteristica che accomuna la maggior parte, se non la totalità, degli uxoricidi che ho avuto modo di esaminare è la pressoché assoluta mancanza di rimorso. Non solo verso la vittima, ma neppure nei confronti dei figli, che di fatto sono stati privati di entrambi i genitori. Non ricordo qualcuno che sia andato oltre il dispiacersi per se stesso, per le conseguenze che il reato ha comportato per la sua esistenza. Un famoso psichiatra inglese del diciannovesimo secolo, Henry Maudsley, a proposito degli psicopatici scrisse che “così come ci sono persone che non vedono certi colori perché affette da cecità per i colori ed altre che non distinguono un tono musicale da un altro perché prive di orecchio musicale, ve ne sono alcune prive di qualsivoglia senso morale”. Un’osservazione che, fatta quasi un secolo prima dell’avvento delle moderne metodologie di studio del cervello, amplia la discussione sull’interpretazione di quel Timshel del libro della Genesi 4,7.
Ogni 9 ore una persona si toglie la vita. Questo è quanto emerge dai dati raccolti dall’Osservatorio Suicidi (OS) che la Fondazione BRF Onlus porta avanti da oltre tre anni.
Secondo quanto rivelato dall’OS, nei primi sei mesi del 2023 i numeri sono quasi raddoppiati rispetto a quanto emerge dai dati del 2022. Parliamo di 464 suicidi e 391 tentativi di suicidio. Numeri tragici che fotografano la realtà di un Paese che necessita di un intervento immediato per arginare un fenomeno in continua crescita.
Il progetto, nato durante la pandemia, continua a dimostrarsi di fondamentale importanza per le istituzioni per monitorare gli eventi suicidari nel nostro Paese.
Non ci sono ambiti sociali che vengono risparmiati: in famiglia, sul luogo di lavoro e nelle scuole c’è un reale rischio di imbattersi in una persona che mette a repentaglio la propria vita.
Nonostante si riscontri una netta prevalenza di suicidi negli uomini, si evidenzia un’equa distribuzione di casi tra Nord, Centro e Sud Italia, trovando un picco di casi (oltre 150 tra suicidi e tentati) nel mese di marzo.
Tra le storie più recenti ricordiamo quella di Francesco che, appena quattordicenne, si è tolto la vita nella sua abitazione in provincia di Avellino alla vigilia degli esami di terza media. Non è ancora chiara la causa, anche se una delle piste segue una tremenda sfida social molto popolare fra i giovanissimi.
La categoria più colpita però rimane quella dei detenuti. L’OS ha registrato oltre 70 casi tra suicidi e tentati all’interno delle carceri italiane negli ultimi sei mesi. Le condizioni precarie, la carenza di personale e il sovraffollamento sembrano essere tra le cause degli estremi gesti. L’ultimo caso registrato si è verificato a Torino, dove una donna si è impiccata alle sbarre della sua cella a pochi giorni dalla scarcerazione.
Il festival, giunto alla sua terza edizione, mira a combattere lo stigma della salute mentale e ad analizzare il mondo del cervello
Ci sono persone che fanno fatica a riconoscere le proprie emozioni, altre che nonostante gli anni passino non riusciranno mai a catalogarle o tantomeno accettarle.
Poi capita che alcuni, con una facilità estrema, possano non solo comprendere ciò che provano, ma siano capaci di esprimerlo.
Così con il concorso “Lucca in mente” che la Fondazione BRF ONLUS ha indetto anche quest’anno, centinaia di studenti delle scuole primarie e secondarie di primo grado hanno deciso di mettersi in gioco per raccontare le emozioni primarie attraverso disegni, testi brevi e poesie.
La prima edizione aveva portato alla luce gli effetti che il Covid ave -
va lasciato sui più piccoli e con la seconda edizione gli studenti avevano affrontato le loro aspettative per il futuro.
Oggi, con questa terza edizione, decine di classi provenienti da tutta la regione Toscana si sono confrontate con la condivisione senza filtri delle loro emozioni e fragilità.
Ne è emerso un quadro attento e maturo: i bambini dai 6 agli 11 anni con i disegni hanno toccato temi profondi e delicati.
Al terzo posto si è classificata la studentessa Francesca Sargentini che ha rappresentato le emozioni come un’aurea colorata che solo chi esercita una profonda empatia riuscirà a cogliere.
Azzurre Iole Fruzzetti si aggiudica il secondo posto con un vul -
cano di emozioni che è sempre in movimento ed erutta gioia, paura, sorpresa, dolore e tutto quello che si nasconde nel sottosuolo dell’animo umano.
Al primo posto Pietro Manfredini ha realizzato una ragazza che con un soffio allontana i semi dell’ansia, della tristezza, della paura e della rabbia, tenendo ben stretti sullo
stelo del fiore l’amore e la felicità.
Gli elaborati scritti non sono stati da meno: gli studenti delle scuole secondarie di primo grado con i loro testi brevi, poesie e pagine di diario hanno ritratto l’adolescenza di una generazione che sta imparando a conoscere le proprie fragilità e insicurezze.
Al terzo posto si classifica Eva
Bravi, già vincitrice della scorsa edizione, con una poesia che spiega la felicità.
Valentino Lanzafame, secondo classificato, si racconta in rapporto alla sua classe, analizzando il bisogno della nostra società di catalogare ogni essere umano.
Il primo premio va a Beatrice Benincasa e alla sua poesia sulle emozioni: incostanti e non sempre chiare si svelano in rima nelle sue parole.
Una premiazione certamente emozionante quella che è avvenuta a domenica 21 maggio a Villa Bottini, dove in più di centoventi persone tra studenti, insegnanti e famiglie si sono riunite per festeggiare l’iniziativa e la premiazione.
Le emozioni sono strane, non sempre si fanno trovare, non sempre si capiscono perché sembra che spariscano.
Le emozioni sono tante, nessuna più speciale delle altre, alcune si notano e altre, invece, no.
Le emozioni sono diverse e alcune con il tempo sembrano scomparse non è poi così grave, perché sono dietro una porta chiusa a chiave.
Le emozioni sono speciali, ti mettono le ali, ti insegnano a sognare come un tramonto in riva al mare.
Valentino Lanzafame
25-01-23
Caro Oleg, oggi sarò un po’ più serio del solito perché voglio parlarti di ME.
Mi chiamo Valentino, ho tredici anni e ho cominciato a pensare al mio futuro: che scuola potrei scegliere dopo le medie; so che manca ancora tanto, ma non così tanto. Sono un ragazzo socievole e mi piace fare nuove amicizie. Nella mia vita ho praticato sport diversi, ora faccio arrampicata e devo dire che rispetto a prima mi sento appagato da quello che faccio e dai risultati che ottengo. Io vedo lo sport come un riparo in cui per un’oretta puoi riposare la mente e dopo ripartire più sereno.
Mi piacciono tantissimo gli animali in quanto, a differenza degli umani, agiscono inconsciamente e senza crudeltà, per questo da anni pensavo di smettere di mangiare carne ma genitori e parenti mi sco -
raggiavano, per fortuna invece mia sorella mi ha spronato a fare quello in cui credo e ritengo sia riuscita farmi capire che non tutto quello che i miei dicono sia da seguire alla lettera ma che un pacifico confronto non faccia altro che bene a tutti noi, perché la cose non vanno solo fatte ma anche capite. Devo dire che da quando ho smesso di mangiare carne mi sento meglio con me stesso.
Spesso, quando entro più in intimità con le persone che frequento, mi rendo conto che non tutti la pensano come me, purtroppo noi due lo sappiamo: per poter stare in un gruppo bisogna accettare persone con educazione, ideali e sensibilità diversi. Una situazione del genere si sta verificando proprio nella mia classe.
A scuola, ad esempio, pur di non stare da solo sto con una persona che si definisce misogina.
Io, per non appesantire gli altri, la butto sul ridere anche se non vorrei. Mi domando se ci sia una via di mezzo fra un comportamento sempre coerente ed uno di comodo. So che è la vita e che ci si deve far andar bene quello che c’è ma non mi piace essere condizionato negativamente dalla comunità.
Io proprio non riesco a capire il bisogno umano di catalogare tutto e tutti: perché io devo essere maschio e non solo Valentino? Oppure come posso essere cristiano solo perché mi è stato detto, senza arrivarci con i miei ragionamenti? Grandi domande sì, ma senza grandi risposte.
A volte mi sembra di essere diverso perché altri miei coetanei non si pongono questi problemi.
La più grande virtù secondo me è proprio saper pensare con la propria testa ed io senza i miei pensieri sarei perso.
Ho un po’ paura del futuro perché sento di non avere totale controllo su di esso.
Grazie di avermi ascoltato senza giudicare. Ora devo andare a cena, la mamma mi sta chiamando, meglio non farla aspettare…
A presto Oleg, Valentino
Gallicano, 23/04/2023
Cara felicità, ti scrivo perché vorrei farti capire quanto sei fragile, ma allo stesso tempo molto importante per me.
Le cose da scriverti sono poche, ma, come si dice, “l’essenziale è invisibile agli occhi”!
Da tempo mi chiedevo cosa tu fossi, senza mai trovare una risposta.
Quindi, in questa breve lettera, vorrei solamente dirti che sei come l’alba che biancheggia dorata nel mare del cielo, per poi affievolirsi fino a scomparire nel giorno....
Sei fatta per risorgere dall’infinità del buio che cela la notte e per lucere di bei momenti.
Sei invisibile ai miei occhi, ma ti posso sentir svolazzare dentro di me.
Non sempre sai risplendere di luce propria: certe volte sono io che devo farti brillare nel mio io più profondo!
Per me sei il sole che brucia nel tramonto per poi rinascere all’alba.
Ma, per incontrare l’alba, prima devo correre nel buio, sagomato da un chiarore lunare imperscru-
tabile!
Proprio così: devo attraversare quel buio fatto di insicurezze, paure e fragilità.
In questo buio, spesso, sentivo un perfido brivido di solitudine lacerarmi il cuore! Era tornata a vivere dentro di me! Odiavo quella malinconica solitudine, in cui i miei pensieri venivano risucchiati in un vuoto che mi ritrovavo dentro e che non sapevo riempire nelle giornate di mancata compagnia.
Il silenzio spezzava qualsiasi parola…
La tristezza si dileguava nell’aria, soffocandomi senza lasciarmi un sospiro di spensieratezza…
Un giorno, però, in lontananza, vidi un bagliore che rifletteva sul mio volto. Così andai avanti e, finalmente, uscii da quel buio eterno, per tornare a vivere in quel fascio di luce in cui tu convivi all’unisono con le mie fragilità, paure e insicurezze!
Ecco, finalmente sono riuscita a esprimermi con te!
Mi auguro che tu possa essere sempre la mia luce che illumina il mio cammino di felicità!
La tua cara Eva P.S.
Ricordati di rispondermi! Io sono qui che aspetto…
Il microchip è il modo migliore per ritrovare il tuo amico a quattrozampe in caso di smarrimento.
Se il tuo cane o il tuo gatto non lo hanno ancora, recati dal tuo veterinario o al servizio veterinario pubblico competente per territorio, per identificarlo e iscriverlo in anagrafe degli animali d’affezione!
● Il microchip, obbligatorio per legge per il cane e presto anche per il gatto, è un piccolo dispositivo elettronico che identifica il tuo amico a quattrozampe e lo lega a te in maniera unica. L’identificazione con microchip di cani, gatti e furetti è inoltre obbligatoria per poter acquisire il passaporto europeo, per recarsi all’estero.
● Non temere per la sua salute: l’inserimento del microchip è sicuro e indolore!
● Il certificato di iscrizione nell’anagrafe degli animali d’affezione è la sua “carta d’identità”. Ricordati di portarlo sempre con te!
È un’iniziativa del Ministero della Salute in collaborazione con LAV
La recente tristissima vicenda della dottoressa Barbara Capovani, la psichiatra di Pisa responsabile dell’SPDC dell’AUSL Toscana nord ovest uccisa all’uscita dal lavoro da un ex-paziente a cui aveva diagnosticato un disturbo narcisistico, antisociale e paranoico di personalità, ha portato all’attenzione del grande pubblico un’area delle patologie psichiatriche poco nota e di cui raramente si parla.
Si tratta dei Disturbi di Personalità che hanno una diffusione nella popolazione generale variabile tra lo 0.5 e il 2%, che influenzano in maniera importante le relazioni sociali e che, come vedremo a breve, rimangono spesso non diagnosticati e non trattati.
Prima di entrare nell’ambito della patologia è utile chiarire cosa si intende per personalità. Questo termine indica quel particolare modo di essere di
una persona frutto della combinazione di fattori biologici, come per esempio l’ereditarietà (la genetica), e ambientali, come per esempio il rapporto con i familiari, l’ambiente sociale e culturale in cui la persona è vissuta, le sue esperienze di vita.
Il risultato di questa combinazione è uno specifico e individuale sistema di valori che si esprime nel modo di pensare, di comportarsi, di dare una spiegazione a quello che succede, di relazionarsi con gli altri, di affrontare le esperienze della vita.
Per esempio, c’è chi vuole essere sempre al centro dell’attenzione e chi invece teme il giudizio degli altri e fa di tutto per non esporsi; chi ama stare sempre in compagnia e socializza facilmente e chi invece sta bene in solitudine; chi tiene tutto in ordine e chi si trova a proprio agio nel caos; chi si fida per principio degli altri e chi è sospettoso e vede complotti ovunque.
Ecco quali sono i disturbi di personalità e come condizionano la vita di chi ne soffre e di chi gli è vicino
Cosa differenzia una personalità normale da una patologica?
Le caratteristiche di personalità sopra descritte si collocano lungo un continuum che va dalla massima flessibilità all’estrema rigidità. Quando sono tanto estreme e pervasive da interferire con la capacità di adattarsi alle esperienze della vita e condizionare i rapporti affettivi e lavorativi si parla di Disturbo della Personalità. Disturbo che in genere si manifesta nella tarda adolescenza o nella prima età adulta e si mantiene stabile nel corso della vita.
Chi ne soffre ha una visione di sé e degli altri distorta, poco aderente alla realtà e ha abitudini, comportamenti ed esperienze interiori che si discostano molto da quelle delle altre persone. Inoltre, non è consapevole che c’è qualcosa che non va nel proprio modo di pensare e di comportarsi ma è convinto che la sua insoddisfazione e la sua sofferenza siano oggettivamente causati dalle circostanze e dagli atteg-
giamenti degli altri. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi non pensa di aver bisogno di cure e si rivolge a uno specialista solo se la situazione si complica con un altro disturbo psichiatrico, come depressione o ansia, o con abuso di sostanze. Più spesso sono i familiari a chiedere aiuto per capire cosa accade al proprio caro e come aiutarlo oppure per avere dei consigli su come affrontate la situazione.
Nelle classificazioni ufficiali, come la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali, sono descritti dieci differenti disturbi di personalità raggruppati in tre blocchi (tecnicamente chiamati “cluster”) in base alla presenza di sintomi comuni.
Fanno parte del Cluster A i Disturbi Paranoide, Schizoide e Schizotipico in cui prevalgono i comportamenti “bizzarri”, “strani” o “eccentrici”.
Prima di entrare nell’ambito della patologia è utile chiarire cosa si intende per personalità. Questo termine indica quel particolare modo di essere di una persona frutto della combinazione di fattori biologici, come per esempio l’ereditarietà (la genetica), e ambientali, come per esempio il rapporto con i familiari, l’ambiente sociale e culturale in cui la persona è vissuta, le sue esperienze di vita.
Quando le manifestazioni sono tanto estreme e pervasive da interferire con la capacità di adattarsi alle esperienze della vita e condizionare i rapporti affettivi e lavorativi si parla di Disturbo della Personalità. Disturbo che in genere si manifesta nella tarda adolescenza o nella prima età adulta e si mantiene stabile nel corso della vita.
Chi presenta un disturbo paranoide di personalità è estremamente diffidente verso chiunque, compresi familiari e amici, e interpreta tutto quello che gli altri fanno o dicono come una minaccia o un’offesa nei suoi riguardi. Nelle relazioni sociali è freddo, distaccato ed evita di entrare in confidenza per paura di fornire informazioni che potrebbero ritorcersi contro di lui. Chi ha un disturbo schizoide di personalità si chiude in un proprio mondo di pensieri e fantasie, non accetta le regole sociali, è affettivamente “appiattito” e rimane indifferente a ciò che accade. Evita i rapporti con gli altri e preferisce svolgere lavori solitari e non competitivi. La persona con un disturbo schizotipico di personalità ha comportamenti bizzarri (per esempio, parla in pubblico da solo, ride o gesticola senza motivo), è stravagante nel parlare, vestirsi o confrontarsi con gli altri, ha un modo di pensare inusuale (per esempio crede nella telepatia, nella chiaroveggenza, nella levitazione). Nei rapporti sociali è diffidente e fa fatica ad avere relazioni intime.
Rientrano nel Cluster B i Disturbi Borderline, Antisociale, Istrionico e Narcisistico le cui caratteristiche comuni sono l’impulsività, l’estrema emotività e la drammaticità.
Chi è affetto da Disturbo Borderline di personalità ha una grande reattività agli stimoli esterni, continui e bruschi cambiamenti dell’umore (alterna esaltazione e abbattimento) e dell’autostima (passa da un’idea di sé grandiosa a tematiche autosvalutative), comportamenti impulsivi (promiscuità sessuale, spese compulsive, uso di droghe), esplosioni di rabbia e aggressività verso sé stesso (automutilazioni, progetti di suicidio) e verso gli altri. Ha relazioni sociali molto intense ma instabili e sul piano affettivo all’inizio della relazione idealizza il partner ma poi se ne sente deluso e lo svaluta. Le
manifestazioni del disturbo si amplificano se percepisce la minaccia di un abbandono. Chi presenta un Disturbo Antisociale di personalità non rispetta le norme sociali (per esempio aggredisce, ruba, truffa, tortura gli animali), non prova rimorso per le conseguenze dei propri comportamenti, non considera i diritti degli altri. Nei rapporti di amicizia è incostante e ha difficoltà a portare avanti una relazione affettiva stabile. Spesso è infedele e aggressivo con il partner.
Chi soffre di Disturbo Istrionico di personalità è continuamente alla ricerca dell’attenzione e pur di ottenerla assume atteggiamenti teatrali e provocatori. Se non riesce a catturare l’attenzione può reagire con rabbia, aggressività e mettere in atto tentativi autolesivi spesso “dimostrativi”. Nelle relazioni con gli altri è egocentrico e manipolatore ed è interessato più ad avere riconoscimenti e lusinghe che alla relazione in sé. La persona con un Disturbo Narcisistico di personalità ha una stima di sé grandiosa, è convito di poter ottenere successi straordinari e potere, si aspetta di essere ammirato
e considerato superiore agli altri e tutto questo gli sarebbe semplicemente dovuto. Si mostra egoista, arrogante e presuntuoso ma allo stesso tempo è anche fragile per cui basta una difficoltà, un fallimento, una frustrazione per determinare la perdita di autostima e la comparsa di sintomi depressivi. Nei rapporti interpersonali manca di empatia (cioè ha difficoltà a capire i bisogni degli altri) e tende a sfruttare le relazioni per raggiungere i propri obiettivi. All’inizio di una storia affettiva spesso idealizza il partner ma in un secondo momento ne rimarca i difetti e assume un atteggiamento umiliante e sprezzante.
Il Cluster C include i Disturbi Evitante, Dipendente e Ossessivo-Compulsivo in cui prevalgono ansia e paura.
La persona con Disturbo Evitante di personalità è timida, insicura, è convinta di valere poco e si sente inadeguata in qualsiasi situazione. Vorrebbe avere una vita sociale ma evita i rapporti con gli altri e, soprattutto, di stare al centro dell’attenzione per paura di risultare ridicola ed essere
per questo criticata o umiliata. La persona con Disturbo Dipendente di personalità ha scarsa fiducia in sé stessa, si sente vulnerabile, indifesa, incapace di prendere una decisione autonoma e quindi chiede continuamente consigli e rassicurazioni. Per paura di essere abbandonata, nei rapporti con gli altri è passiva, sottomessa e pur di non rimanere sola tollera partner aggressivi o infedeli. Chi ha un Disturbo Ossessivo-Compulsivo di personalità è alla ricerca di una perfezione che non riesce mai a soddisfare, è estremamente attento ai dettagli, all’ordine e alle regole e non tollera l’incertezza. Qualsiasi decisione, qualsiasi scelta crea così tanti dubbi da causare passività a immobilismo. Le relazioni sono condizionate dall’intransigenza, dalla rigidità, dal bisogno di controllo, dalla difficoltà a dedicarsi realmente agli altri.
Perché parlare dei disturbi di personalità?
Coloro che presentano una personalità patologica spesso non sono consapevoli di soffrire di un disturbo o di avere bisogno di aiuto, conducono una vita che non li soddisfa, hanno difficoltà in ambito lavorativo e le loro modalità di relazione creano disagio e a volte sofferenza in chi ha rapporti con loro.
Parlarne è importante perché un’informazione scientificamente corretta potrebbe far capire a chi non sta bene di aver bisogno di un supporto professionale e a chi gli è vicino cosa c’è dietro alcuni comportamenti e reazioni emotive e come meglio gestirli. Parlarne correttamente significa anche evitare che si crei uno stigma verso queste persone, che sono le prime a subire le conseguenze della loro condizione, tenendo presente che quanto successo a Pisa è un caso estremo che potrebbe non essere giustificato solo da personalità patologica.
Coloro che presentano una personalità patologica spesso non sono consapevoli di soffrire di un disturbo o di avere bisogno di aiuto, conducono una vita che non li soddisfa, hanno difficoltà in ambito lavorativo e le loro modalità di relazione creano disagio e a volte sofferenza in chi ha rapporti con loro.
Icambiamenti biologici e psicologici che avvengono durante la gravidanza comportano profonde e significative modificazioni relative alle rappresentazioni mentali che la madre ha di sé stessa e del futuro bambino. Le quali all’unisono promuovono una riorganizzazione circa la propria identità femminile (Ammaniti et al., 1995).
Il periodo della gravidanza si configura dunque quale delicato momento di transizione, ma ancor più come vero e proprio periodo di crisi maturativa cui può far seguito un incremento della propria vulnerabilità psicologica che spesso e volentieri può tramutarsi in un significativo fattore di stress (Ferrara Mori, 2006. 116). Pertanto indagare in maniera retrospettiva il passato della gestante che si appresta a vivere questa fragile e importante fase di passaggio, risulta fondamentale al fine di inquadrare eventuali fattori di rischio connotati da una forte vulne-
rabilità. Donne che in passato hanno riscontrato una patologia psichiatrica, proprio durante la gravidanza risultano infatti maggiormente a rischio di un nuovo esordio psicopatologico.
In linea con i contributi di Brockington (Brockington et al., 2006) i quadri clinici che più frequentemente vengono riscontrati durante il periodo perinatale in accordo con il proprio vissuto biologico ed esperienziale, sono i disturbi depressivi e i disturbi d’ansia (O’Hara et., 2014). Secondo alcune ricerche è stato dimostrato che se da un lato una quota fisiologica di ansia sembri preparare la donna al parto e alla fase post natale, di contro nel caso in cui i livelli di ansia assumano una connotazione psicopatologica aumenta il rischio di trasmettere per via placentare il proprio vissuto ansiogeno alla prole (Ammaniti et al., 1995).
Tra questi il rischio maggiore cui può incorrere la primipara, correlato alla presenza di un disturbo d’ansia in
trasmissione intrauterina quale canale di collegamento tra due mondi in fase di cambiamento
gravidanza o di una elevata sintomatologia ansiosa prenatale, vi è quello di riscontrare una depressione post partum. A tal riguardo infatti Robertson (Robertson et al., 2004.,) ha confermato come l’ansia prenatale rispecchi un fattore predittivo di forte rischio per un possibile esordio di depressione nel periodo postnatale, dunque dopo la nascita del bambino.
Un’elevata sintomatologia ansiosa durante la gravidanza può pertanto correlarsi ad un esito negativo durante il parto stesso, evidenziando come possibili outcome negativi al momento del parto siano direttamente proporzionai alle modalità con le quali è stata vissuta l’ansia precedentemente la nascita del bambino.
L’aspetto oltremodo interessante converge sullo stretto rapporto tra la psiche e il corpo e più precisamente, come riportato da Militello (Militello., 2022), su quanto i medesimi pensieri e rappresentazioni esperite durante
questo momento di passaggio possano tradursi in risposte biochimiche non solo trasmissibili per via fetale ma pienamente in grado di lasciare una traccia epigenetica prima ancora che avvenga il parto.
Trasmissione intrauterina e sviluppo fetale e neonatale
Prendendo in considerazione le possibili influenze dell’ansia materna che potrebbero ripercuotersi sullo sviluppo del bambino, ad oggi vi sono evidenze a sostegno dello stretto legame che intercorre tra l’ansia prenatale e lo sviluppo del feto. Attraverso la trasmissione intrauterina si evidenzia infatti una diretta correlazione tra quello che viene vissuto dalla madre e il ventaglio delle possibili variabili sia fetali che neonatali, direttamente proporzionali a quanto trasmesso.
Grazie ai contributi di Monk e Kinsella (Kinsella e Monk, 2009) è stata focalizzata l’attenzione sull’asse
Il periodo della gravidanza si configura dunque quale delicato momento di transizione, ma ancor più come vero e proprio periodo di crisi maturativa cui può far seguito un incremento della propria vulnerabilità psicologica che spesso e volentieri può tramutarsi in un significativo fattore di stress
Un’elevata sintomatologia ansiosa durante la gravidanza può pertanto correlarsi ad un esito negativo durante il parto stesso, evidenziando come possibili outcome negativi al momento del parto siano direttamente proporzionai alle modalità con le quali è stata vissuta l’ansia precedentemente la nascita del bambino.
ipotalamo ipofisi surrene materno, il quale in rapporto al periodo prenatale e alle rispettive modalità di autoregolazione, può innescare un disquilibrio psicobiologico e ancor più una disregolazione del medesimo asse. Capace di apportare una mancata omeostasi all’interno dello stesso organismo materno.
Esaminando più da vicino il contributo degli autori si è osservato come l’ansia materna sia in grado di influire direttamente sull’asse sopra descritto, provocando alterazioni al livello sanguigno con un conseguente incremento dei livelli di glucocorticoidi, tra cui il cortisolo e altri ormoni dello stress.
Difatti un’elevata concentrazione di cortisolo durante la gravidanza potrebbe risultare decisamente dannosa per il normale sviluppo del feto, rispetto al quale specifici enzimi possono risentire di una alterazione disfunzionale. Più precisamente l’enzima 11-βsteroide deidrogenasi (Glover et al., 2009), collocato nella placenta ne sostiene la regolare funzione in condizioni normali, garantendo così al passaggio del cortisolo la trasformazione in una forma inattiva (Benediktsson et al., 1997) e dunque non nociva per il nascituro. Ciò vuol dire che proprio in base all’omeostasi dell’organismo materno e delle sue modalità di autoregolazione il cortisolo non sempre è capace di inficiare i normali processi interni all’organismo.
Tuttavia, in presenza di elevati livelli di ansia materna si rischia di assistere a quello che gli autori hanno definito down regulation, rispetto al quale la funzionalità del medesimo enzima non solo viene alterata bensì potrebbe ripercuotersi direttamente, e in maniera negativa, sull’ambiente fetale.
A sostegno dello stretto rapporto tra l’ambiente fetale e il vissuto materno Barker, attraverso la fetal programming hypothesis riporta come ad una
forte variazione del mondo intrapsichico e somatico materno corrispondano alterazioni capaci di apportare cambiamenti permanenti e significativi nello sviluppo fenotipico del neonato (Barker, 1995; van den Bergh et al., 2005). Confermando così quanto lo stato emotivo della madre si traduca in sostanze neurochimiche capaci di intaccare la salute fetale e dunque del nascituro.
Secondo, inoltre, la visione proposta da Tanner e Dunkel (2012) la presenza di vulnerabilità psicosomatiche preesistenti inscritte nell’organismo della donna, che affiorano durante la gravidanza, possono innalzare i livelli di cortisolo e produrre effetti disfunzionali sulla funzione placentare con conseguenti ripercussioni sullo sviluppo fetale e sulla sua conformazione.
Il contributo dell’epigenetica in rapporto ai possibili fattori di rischio
Ad oggi l’epigenetica riflette quel campo di studi grazie al quale indagare lo stretto rapporto tra l’individuo e l’insieme di fattori che caratterizzano l’ambiente entro il quale avviene la sua crescita, a partire proprio dal periodo perinatale. In merito alle ripercussioni che lo stato ansioso della madre può avere sul normale sviluppo del feto sono state svolte indagini che hanno confermato quanto la dimensione epigenetica sia utile nel descrivere un processo apparentemente invisibile ma capace di lasciare una traccia in grado di dispiegarsi nel tempo e nella futura crescita del bambino (Non et al., 2014).
Uno studio condotto sui neonati di madri che presentavano una sintomatologia ansiosa (non trattata) rispetto ai neonati di donne sane, ha dimostrato come proprio il background biologico materno abbia effetti circa la metilazione del DNA, i cui livelli si sono dimostrati non solo differenti ma in
grado di influenzare in maniera diretta lo sviluppo neonatale. Grazie a questo studio è dunque possibile ipotizzare in maniera più accurata quanto l’ansia materna prenatale sia capace di favorire la predisposizione nel futuro bambino a sviluppare in maniera precoce un assetto epigenetico disfunzionale in grado di compromettere il suo sviluppo, la sua crescita e dunque le sue future modalità di reazione dinanzi agli eventi di vita significativi (O’Donnell et al., 2012).
Quanto si vuole proporre è dunque la visione della gravidanza come un insieme di grandi cambiamenti tanto intrapsichici quanto biologici, che a livello morfologico/cerebrale si inscrivono nella figura materna. La quale se da un lato è portatrice di un proprio background neurofisiologico ed esperienziale, dall’altro rispecchia il principale canale di comunicazione e di collegamento tra il proprio assetto psicosomatico e quello fetale che porta in grembo.
La vita intrauterina si rivela dunque pienamente sensibile e vulnerabile ai rispettivi mutamenti strutturali e morfologici materni (D’Amore, 2019), che grazie alla visione epigenetica riesce a trasmettere per via placentare i propri pattern neurobiologici, traducibili in un vero e proprio imprinting epigenetico. Nello specifico infatti la figura risulta in grado di trasferire la propria impalcatura psicobiologica pronta a convertirsi nel feto sotto forma sia di una prima architettura cromosomica che di una iniziale modalità espressiva.
Proprio grazie a questa visione la vita fetale risente pienamente di quella materna e ancor più del suo modo di esprimere le emozioni e di autoregolarle. Soprattutto del suo substrato biologico, esprimibile in una secrezione dei neurotrasmettitori pronti a delineare una nuova trama all’interno
del feto. Ciò che risulta interessante è proprio il rapporto che intercorre tra il vissuto materno e la dimensione prenatale (gravidica), rispetto alle quali il feto stesso assorbe pienamente un nuovo linguaggio (materno) e un nuovo modo di stare al mondo (Crews et al., 2014).
Tuttavia, quanto ci si domanda è se il proprio background psicobiologico in fase di trasmissione per via fetale, possa avere un impatto disfunzionale sulla futura prole, determinando così un imprinting disadattivo. Sulla base di quanto sopra introdotto, il proprio passato non solo può essere biologicamente tramandato per via placentare, ma in un’ottica transgenerazionale (Barker, 1995) può incidere sul futuro assetto neurotrasmettitoriale del feto e sulle future modalità di espressione genica, determinando quel processo biochimico definito metilazione, un insieme di processi biochimici in grado di determinare le modalità attraverso le quali verranno espressi o meno i geni della futura prole.
Uno studio condotto sui neonati di madri che presentavano una sintomatologia ansiosa (non trattata) rispetto ai neonati di donne sane, ha dimostrato come proprio il background biologico materno abbia effetti circa la metilazione del DNA, i cui livelli si sono dimostrati non solo differenti ma in grado di influenzare in maniera diretta lo sviluppo neonatale.
Con il termine generico «demenza» si identificano oltre cento diversi tipi di malattie che si manifestano con disturbi di funzioni cerebrali quali il pensiero, l’orientamento, la memoria e il linguaggio. Un mondo complicato, dunque, anche solo per comprenderlo. Ma partiamo col dire che la demenza è una malattia neurodegenerativa che determina una riduzione graduale e irreversibile delle facoltà cognitive. Il principale fattore di rischio per la demenza è l’età. Al di sotto dei 60 anni, il rischio di sviluppare una forma di demenza è estremamente basso, mentre si stima che tra il 4 e il 6% delle persone con più di sessantacinque anni sia affetto da demenza. Nelle persone con più di ottant’anni di età, si ammala circa un soggetto su cinque. In Italia, le persone affette da demenza sono circa un milione. Si stima che negli
anni a venire, con l’aumento della popolazione anziana, il numero dei malati sia destinato a crescere. A causa del rapido invecchiamento della popolazione mondiale, la demenza è diventata un problema in tutto il mondo; la malattia comporta un notevole onere per gli individui e le loro famiglie, nonché per il sistema sanitario.
Esistono diverse tipologie di demenza, come detto, tra cui la demenza vascolare, il morbo di Alzheimer e la demenza a corpi di Lewy. Il morbo di Alzheimer è la forma di demenza più nota e più frequente, giacché interessa il 50% dei casi. La malattia porta il nome del suo scopritore, lo psichiatra Alois Alzheimer, che nel 1906 descrisse per la prima volta la progressiva degenerazione delle cellule nervose nel cervello tipica, appunto, dell’Al -
In Italia le persone affette da questa patologia sono un milione È opportuno indagare dopo che si superano i 60 anni d’età
di Valentina Formica
zheimer. Le cause di questi cambiamenti patologici sono, ad oggi, ancora sconosciute.
Quando raggiunge uno stadio avanzato la demenza può causare una perdita pressoché totale delle capacità cognitive, caratterizzata da incapacità nel riconoscere i propri cari, difficoltà di deglutizione, perdita della capacità di orientamento, etc. Attualmente, è ritenuta una patologia irreversibile, per cui non esiste alcuna cura efficace riconosciuta, ma solo terapie che contribuiscono ad alleviare i sintomi.
I sintomi
Inizialmente, le manifestazioni tipiche della malattia comprendono:
- mancanza d’iniziativa e/o tendenza alla passività;
- lievi o impercettibili difficoltà di calcolo, linguaggio, comprensione e ragionamento;
- oscillazioni dell’umore;
- disturbi mnemonici di lieve entità (dimenticanza di eventi attuali o di nuove informazioni);
- ridotta capacità di orientamento temporale e spaziale.
Durante lo stadio intermedio si aggiungono:
- maggiore instabilità emotiva;
- difficoltà a sbrigare le attività più banali;
- confusione e disorientamento spazio-temporale;
- problemi visivi (difficoltà nel quantificare le distanze e/o nel riconoscere i colori);
- evidenti difficoltà di linguaggio;
- problemi con la memoria a breve e a lungo termine;
- perdita delle abilità cognitive, dalla capacità di apprendimento a quella di giudizio.
L’ultima fase della malattia, la demenza grave, è contraddistinta dalla massiccia compromissio -
Il principale fattore di rischio per la demenza è l’età. Al di sotto dei 60 anni, il rischio di sviluppare una forma di demenza è estremamente basso, mentre si stima che tra il 4 e il 6% delle persone con più di sessantacinque anni sia affetto da demenza.
La diagnosi di demenza può essere difficile a causa del suo esordio insidioso, dei sintomi che assomigliano a una perdita di memoria “normale per l’età” e di una varietà di altri sintomi di presentazione, come ad esempio la difficoltà a trovare alcune parole o a prendere decisioni.
ne delle facoltà intellettuali, dalla perdita del linguaggio, dall’incapacità di riconoscere le persone care e dalla riduzione della mobilità. La persona ha assoluto bisogno di assistenza. In alcuni casi, infine, il soggetto può manifestare sintomi quali urla e aggressività, agitazione, inquietudine, insonnia.
La diagnosi di demenza può essere difficile a causa del suo esordio insidioso, dei sintomi che assomigliano a una perdita di memoria
“normale per l’età” e di una varietà di altri sintomi di presentazione, come ad esempio la difficoltà a trovare alcune parole o a prendere decisioni. Si deve anche considerare la capacità di un individuo di compensare o addirittura negare i propri sintomi nelle prime fasi. La famiglia è molto importante, perché può aver notato difficoltà di comunicazione, di memoria e cambiamenti di personalità o di umore, che il paziente nega.
I medici di base svolgono un ruolo fondamentale nella diagnosi tempestiva della demenza, le diagnosi differenziali includono il deterioramento cognitivo dovuto al normale invecchiamento e la depressione. Fondamentale per una diagnosi tempestiva è la percezione da parte del medico di base dei segnali di allarme. Se i pazienti, i familiari o il medico di base notano segni di una possibile demenza, è necessario avviare una valutazione neuropsicologica approfondita. L’anamnesi raccolta dal paziente e dai familiari e l’esame fisico, integrati da una valutazione neuropsicologica tramite una batteria di test ad hoc costituiscono la base di un primo accertamento. Se si sospetta una demenza, dovrebbe essere poi integrato un esame di laboratorio, ovvero una risonanza magnetica o una TAC, prima che il paziente, se appropriato, avvii terapie farmacologiche (inibitori dell’acetilcolinesterasi) e non farmacologiche (stimolazione cognitiva), che aiutano a ritardare il deterioramento cognitivo e a migliorare la qualità della vita del paziente.
Come abbiamo già detto, con l’avanzare dell’età, aumenta il rischio di sviluppare una forma di demenza. Tuttavia, su alcuni fattori di rischio è possibile influire. Un’alimentazione sana e corretta, molto movimento e partecipazione attiva alla vita sociale aiutano a ridurre il rischio di ammalarsi.
Praticare sport regolarmente riduce il rischio di insorgenza del morbo di Alzheimer o di una diversa forma di demenza. L’attività fisica, infatti, ha effetti positivi sulla pressione arteriosa e sul peso. Fare movimento, inoltre, riduce il rischio
di diabete, e le persone affette da diabete sono più propense a sviluppare un qualche tipo di demenza. È importante, dunque, ritagliare tempo per fare regolarmente attività fisica, da soli, in compagnia di amici o con la famiglia.
Un’alimentazione sana ed equilibrata è importante tanto quanto una regolare attività fisica. Certi alimenti hanno effetti positivi sull’organismo: frutta, verdura, acidi grassi insaturi derivati da oli vegetali (olio di colza o olio di oliva), pesce, carboidrati da farinacei, pane integrale e riso, ad esempio. Meno sani, invece, sono i piatti pronti, la carne rossa, gli acidi grassi saturi (derivati da carne, salumi o prodotti lattiero-caseari molto grassi quali formaggio, panna e burro) e quantità eccessive di sale e zucchero. Facendo attenzione alla vostra alimentazione contribuite a ridurre il rischio di sviluppare una forma di demenza. È ormai noto come esercizio fisico e alimentazione controllata possano aumentare l’espressione di fattori neurotrofici (es. BDNF) agendo così su neuroplasticità e neurogenesi. La corsa, per esempio, può stimolare la proliferazione delle cellule staminali nel giro dentato dell’ippocampo e migliorare la comunicazione tra queste nuove cellule e la regione cerebrale critica per l’apprendimento spaziale e la memoria.
Allenate la mente. Il cervello ha abilità eccezionali. Va, però, tenuto in esercizio: un allenamento mirato aiuta a mantenere il cervello in forma. Imparare una nuova lingua straniera, giocare a carte, suonare uno strumento musicale o imparare una poesia a memoria sono tutti esercizi ideali per la mente e contribuiscono a prevenire la demenza.
Anche i contatti sociali possono dare un valido contributo alla ridu -
zione del rischio di demenza. Trovatevi con amici e famigliari, parlate e ascoltate, mantenete una vita sociale attiva e dedicate tempo alle persone a voi care. Con la giusta combinazione di attività fisica, allenamento mentale e rapporti sociali resterete giovani nel corpo, nello spirito e nella mente.
Campanelli d’allarme È opportuno sapere che quando si supera la mezza età, tra i 60 e i 65 anni, il cervello umano va incontro a un naturale processo di involuzione: diventa più piccolo di volume, perde alcuni neuroni e non è più efficace come un tempo nel trasmettere i segnali nervosi. Tutto ciò, però, non significa soffrire di demenza, anche se alcuni disturbi potrebbero farlo pensare. Quando, però, dimenticare cessa di essere un fatto normale e si converte in un sintomo di demenza? Perché si possa sospettare l’insorgere della malattia, devono essere presenti più segnali d’allarme e tutti devono denotare un cambiamento rispetto al passato.
I sintomi della demenza senile subiscono un peggioramento graduale, che è strettamente dipendente dalla progressiva morte delle cellule nervose cerebrali.
In genere, l’evoluzione sintomatologica della demenza senile è un percorso a tre stadi: iniziale, intermedio e avanzato. I sintomi più caratteristici della demenza senile allo stadio iniziale sono:
- vuoti di memoria che pesano sulla vita quotidiana. Le persone affette da un’incipiente demenza hanno problemi di memoria a breve termine. Possono, ad esempio, dimenticare un accordo preso il giorno prima, o non ricordare dove hanno messo questo o quello. Può succedere che cerchino di masche -
È opportuno sapere che quando si supera la mezza età, tra i 60 e i 65 anni, il cervello umano va incontro a un naturale processo di involuzione: diventa più piccolo di volume, perde alcuni neuroni e non è più efficace come un tempo nel trasmettere i segnali nervosi. Tutto ciò, però, non significa soffrire di demenza, anche se alcuni disturbi potrebbero farlo pensare.
I sintomi della demenza senile subiscono un peggioramento graduale, che è strettamente dipendente dalla progressiva morte delle cellule nervose cerebrali. In genere, l’evoluzione sintomatologica della demenza senile è un percorso a tre stadi: iniziale, intermedio e avanzato.
rare la propria smemoratezza. i sentono spaventate da questi cambiamenti di cui non capiscono la ragione e in parte si vergognano della propria smemoratezza;
- disorientamento spaziale e temporale. Le persone affette da demenza hanno problemi via via crescenti a orientarsi. Ecco allora che non sanno più arrivare in un dato luogo sebbene conoscano bene la zona. In genere, manifestano difficoltà a guidare l’auto o a orientarsi in posti nuovi. Anche la dimensione temporale è fonte di confusione;
- difficoltà a compiere azioni quotidiane e attività note. Spesso, le persone affette da demenza hanno difficoltà a utilizzare oggetti che maneggiavano quotidianamente, quali il telecomando della televisione, la lavatrice, il computer o il distributore automatico di biglietti. Oppure, smettono di eseguire i pagamenti con regolarità e puntualità perché improvvisamente trovano la procedura troppo difficile. Occorre più tempo per svolgere compiti familiari e gli errori si verificano con più frequenza.
- difficoltà ad organizzarsi o a risolvere i problemi. Le persone che soffrono di Alzheimer o di un’altra forma di demenza fanno via via più fatica a organizzare e programmare le attività quotidiane. I passi per preparare un pasto (fare la spesa, cucinare, servire in tavola) o organizzare una gita (consultare gli orari dei mezzi, comprare i biglietti, ecc.) creano d’un tratto difficoltà enormi.
- problemi di linguaggio. Tra i sintomi della fase iniziale del morbo di Alzheimer o di una forma diversa di demenza vi sono anche le difficoltà di linguaggio: la persona è incapace di esprimersi con chiarezza e in modo fluido. Dimentica
parole comuni o non riesce a terminare le frasi. Nel corso della malattia diventa sempre più taciturna e tende a evitare la conversazione.
- cambiamenti della personalità e comportamenti inadeguati. È normale che con l’età e nel corso di tutta l’esistenza, anche il nostro modo di comportarci cambi e si evolva. La demenza, tuttavia, provoca cambiamenti particolarmente profondi ed evidenti. Ad esempio, rende la persona irrequieta o apatica. Alla base di trasformazioni del genere può esserci la consapevolezza di stare perdendo il controllo sulla propria vita. Le persone affette da demenza tendono a mostrare, inoltre, comportamenti insoliti o inadeguati. È il caso, ad esempio, del nonno che, anziché la solita tavoletta di cioccolato, mette nelle mani del nipotino una banconota da cento.
- svogliatezza e riduzione dei rapporti sociali (umore a volte basso e principio di depressione). Il lavoro in giardino, che prima dava tanta gioia, viene abbandonato, la partita serale a carte viene disdetta e la passeggiata con il cane si fa sempre più rara. Di fronte alle crescenti sfide che la vita quotidiana comporta, le persone affette da demenza perdono la motivazione e la voglia di dedicarsi ai propri hobby. Trascurano i rapporti sociali e per vergogna si chiudono sempre più in sé stesse. -
problemi di logica e di calcolo;
- difficoltà nel comprendere nuovi concetti.
Riconoscere da subito i sintomi iniziali e rivolgersi tempestivamente a uno specialista è fondamentale per poter diagnosticare in tempi brevi la patologia e stopparne o rallentarne il decorso.
Il potere che una matita e un foglio hanno di definire e cambiare la società e il mondo che ci circonda è da sempre indiscutibile. Sono in molti quelli che lo hanno compreso e forse lo sa anche Angelica che, nonostante definisca i suoi disegni dei piccoli “scarabocchi”, ha una community che raccoglie diverse migliaia di persone con cui condivide piccoli estratti della sua vita.
Angelica, che da qualche anno ormai si fa chiamare sui social “disegnisottovuoto”, racconta così il suo inizio con l’illustrazione: “Tra il 2016 e il 2017 ho iniziato a scarabocchiare i miei pensieri, le mie paure e le emozioni su carta, a caso, senza nessuna aspettativa. Era un modo per esternare cosa provavo e renderlo vero, dargli un contorno e anche il coraggio di affrontarlo. Difatti, i miei sono scarabocchi su
temi che mi riguardano ma niente di pretenzioso”.
La sua pagina Instagram, che conta oltre 32.000 followers, è una raccolta di schizzi, frasi e vignette che raccontano cosa significa rapportarsi con le proprie emozioni, talvolta anche con un pizzico di ironia. Come è naturale che sia, con un seguito simile la pressione rischia di diventare troppa, anche se Angelica spiega come abbia trovato il modo di vivere con serenità il rapporto di condivisione: “Ci scambiamo opinioni, consigli e parliamo di temi per me molto importanti. Sondaggi e post, spunti di riflessione sono un modo per rimanere in contatto con loro”.
Anche l’influenza che spesso è legata all’utilizzo dei social per Angelica è impregnata di ottimismo: “I social mi mettono ansia da prestazione, dentro e fuori disegnisotto -
“I social mi mettono ansia da prestazione. Sembra non ci sia spazio per tutti, invece è importante utilizzarli come uno spazio sicuro”
di Chiara Andreotti
vuoto. Sembra non ci sia spazio per tutti, invece è importante utilizzare i social come uno spazio sicuro, di condivisione e di normalizzazione”. Anche quando si parla di salute mentale infatti i social sono fondamentali: “Sdoganare, normalizzare, scardinare, decostruire. I social sono veloci, le parole e i contenuti sono immediati e perciò possiamo farne buon uso” continua Angelica spiegando l’aiuto che queste piattaforme possono fornire per abbatte -
re lo stigma che grava sulla salute mentale.
Angelica, per esempio, racconta come ha affrontato il periodo di pandemia: “Ho iniziato il mio percorso di terapia durante il primo lockdown, in chiamata. Non è stato facile, chiudersi nelle mura di casa in un ambiente dove non volevo essere, con la paura per quello che sarebbe potuto succedere. Sono grata di aver preso coraggio e aver chiesto aiuto”.
“Tra il 2016 e il 2017 ho iniziato a scarabocchiare i miei pensieri, le mie paure e le emozioni su carta, a caso, senza nessuna aspettativa”.
La rivoluzionaria ricerca al Bambin Gesù di Roma
di Antonio Acerbis
Caratterizzazione genetica molecolare e farmaci mirati alla base della cura personalizzata. I risultati dello studio dell’Ospedale Pediatrico della Santa Sede pubblicati su Therapeutic Advances in Medical Oncology.
Una terapia sperimentale accresce l’aspettativa di vita dei bambini affetti da un tumore cerebrale molto aggressivo e inoperabile: il glioma diffuso della linea mediana. La sopravvivenza media di questi piccoli pazienti passa da meno di 12 mesi dalla diagnosi a circa 24. Il risultato arriva da uno studio clinico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, tra i primi Centri a livello internazionale ad aver sperimentato una cura basata sulla caratterizzazione genetica molecolare del tumore di ciascun paziente coinvolto nella ricerca e sull’uso di farmaci ‘target’, cioè mirati. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Therapeutic Advances in Medical Oncology.
I gliomi della linea mediana
I gliomi diffusi della linea mediana sono tumori tipici dell’età pediatrica caratterizzati, per oltre il 90%, da mutazioni della proteina H3K27M. A questa si associano altre anomalie genetiche che possono variare da caso a caso. Si sviluppano nelle strutture mediane del cervello, tra le quali il ponte, la parte del tronco encefalico che regola funzioni vitali come il respiro e l’attività cardiaca. Questi tumori sono molto aggressivi, tendono a diffondersi rapidamente e a infiltrarsi in profondità. A causa della loro sede, non possono essere asportati chirurgicamente.
In Italia vengono diagnosticati circa 20-25 casi pediatrici all’anno
Lo studio per il trattamento sperimentale dei “gliomi del ponte” è stato condotto dal team multidisciplinare di Neuro-Oncologia (clinici, chirurghi, patologi, biologi) del Bambino Gesù. La ricerca è durata 4 anni e ha coinvolto 25 pazienti di età compresa tra i 5 e i 14 anni.
di gliomi localizzati nel ponte, con un picco d’incidenza tra i 5 e i 10 anni di età. La sopravvivenza media è molto bassa (9 -12 mesi) e meno del 2% dei bambini sopravvive a 5 anni dalla diagnosi, nonostante i trattamenti radio e chemioterapici che costituiscono la terapia standard. Contro questo genere di tumori, purtroppo, non è stata ancora individuata una cura efficace.
La terapia sperimentale personalizzata
Lo studio per il trattamento sperimentale dei “gliomi del ponte” è stato condotto dal team multidisciplinare di Neuro-Oncologia (clinici, chirurghi, patologi, biologi) del Bambino Gesù. La ricerca è durata 4 anni e ha coinvolto 25 pazienti di età compresa tra i 5 e i 14 anni.
La terapia sperimentale si è basata sullo studio delle caratteristiche genetiche del tumore di ogni singolo paziente incluso nella ricerca: porzioni di tessuto tumorale ottenute tramite biopsia sono state analizzate alla ricerca di anomalie genetiche che potessero essere il bersaglio di farmaci già disponibili. Questa fase di indagine genetica sui tumori è stata possibile grazie a tecnologie di Next Generation Sequencing (NGS) per la diagnosi molecolare avanzata, disponibili nei Laboratori di Diagnostica dell’Ospedale.
In base ai risultati di laboratorio, oltre alla terapia standard, a 9 bambini su 25 è stato possibile somministrare in un secondo momento anche farmaci ‘target’, cioè diretti contro le specifiche mutazioni individuate nel loro tumore. Nei pazienti trattati con la terapia personalizzata non sono stati rilevati effetti collaterali gravi e la sopravvivenza media è passata da meno
di 12 mesi dalla diagnosi a circa 24 mesi.
«La combinazione di terapia standard e farmaci mirati ha portato a risultati mai ottenuti prima nel trattamento di questa terribile forma di cancro» spiega la dott. ssa Angela Mastronuzzi, coordinatrice dello studio e responsabile di Neuro-Oncologia, struttura del Dipartimento di Oncoematologia, Te -
rapia Cellulare, Terapie Geniche e Trapianto Emopoietico diretto dal prof. Franco Locatelli. «Per i gliomi H3K27M alterati oggi non esiste una cura - prosegue Mastronuzzima questi tumori possono esprimere altre anomalie genetiche contro cui abbiamo delle armi. Consentire ai bambini malati di vivere più a lungo significa dare loro una chance in più per beneficiare di nuovi
trattamenti via via disponibili o di trial clinici nei quali aggiungere già in prima linea le medicine target. Tutto questo è stato possibile grazie alla stretta collaborazione del team multidisciplinare di Neuro-Oncologia e in particolare del dott. Andrea Carai, neurochirurgo e della dott. ssa Sabrina Rossi anatomo-patologa, che hanno permesso di ottimizzare il percorso di questi pazienti».
Limiti e prospettive dello studio
Lo studio del team di medici e ricercatori del Bambino Gesù, sebbene condotto su un piccolo gruppo di bambini, ha dimostrato che le cellule tumorali di gran parte dei gliomi diffusi della linea mediana esprimono diverse alterazioni genetiche. Contro alcune di queste mutazioni sono già disponibili farmaci mirati. I risultati della ricerca evidenziano quindi l’importanza di procedere con biopsia e caratterizzazione molecolare del tumore per disegnare un piano terapeutico che dia maggiori chance di sopravvivenza ai pazienti rispetto alla somministrazione della sola terapia standard.
Lo studio è stato sostenuto dall’Associazione “Il coraggio dei Bambini” e, per la sua rilevanza scientifica, nel mese di ottobre 2022 è stato premiato come migliore presentazione orale al Congresso Nazionale AIEOP - Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatrica.
La ricerca scientifica verso una cura efficace intanto prosegue su più fronti: all’Ospedale Pediatrico della Santa Sede è in fase di autorizzazione da parte degli enti regolatori un nuovo trattamento dei tumori cerebrali con cellule CAR-T geneticamente modificate coordinato dal professor Franco Locatelli.
Lo studio del team di medici e ricercatori del Bambino Gesù, sebbene condotto su un piccolo gruppo di bambini, ha dimostrato che le cellule tumorali di gran parte dei gliomi diffusi della linea mediana esprimono diverse alterazioni genetiche. Contro alcune di queste mutazioni sono già disponibili farmaci mirati.
Lo sappiamo bene ed esiste dalla notte dei tempi: la relazione genitore-bambino è una componente fondamentale per lo sviluppo di quest’ultimo in quanto costituisce il suo mondo affettivo e sociale, determina la struttura delle sue difese e porta alla formazione di rappresentazioni riguardanti le aspettative rivolte alle relazioni con gli altri. La famiglia si presenta come nucleo all’interno della quale si intrecciano fattori di rischio e fattori protettivi che influenzano lo sviluppo dell’infante e risulta quindi di primaria importanza analizzare le molteplici situazioni che si pongono come l’origine di numerosi disturbi, tra cui la depressione.
In tale analisi è importante considerare diverse dinamiche che determinano la molteplicità di situazioni che il bambino si trova a vivere, dinamiche che sono pre -
senti ancor prima che il bambino arrivi nel nucleo familiare, come il vissuto della genitorialità.
La genitorialità non coincide con la nascita di un figlio, ma anzi è il risultato di un lungo processo di elaborazione e riorganizzazione delle proprie esperienze di vita e dei propri vissuti.
Diventare genitori comporta anche un processo definito il “lavoro del lutto” che implica la rinuncia al ruolo di bambino che si ricopriva con i propri genitori e il doversi identificare con questi ultimi per poter svolgere la funzione genitoriale. Al bambino, il genitore delega una parte dei suoi desideri e bisogni infantili attraverso meccanismi di identificazione proiettiva, non necessariamente patologici, ma che, anzi, solitamente permettono lo stabilirsi dell’empatia e favoriscono lo sviluppo psichico del bambino.
Quando si diventa genitori e quali sono i comportamenti da evitaredi Alberto Lupi
Il “lutto dello sviluppo” implicato nella genitorialità reca in sé la possibilità, quindi, di generare depressività, determinando lo sviluppo di una conflittualità genitoriale che dipende dall’elaborazione dei lutti della propria infanzia, cioè quelli riguardanti un oggetto realmente perduto e quelli che implicano invece un oggetto fantasmatico.
Le dinamiche genitoriali
I vissuti legati alla genitorialità sono molto complessi e possono portare all’insorgere di diverse problematiche, infatti, Palacio Espasa descrive quattro tipi di dinamiche genitoriali, tra cui si evidenziano in particolare due tipologie patologiche: la genitorialità masochistica e la genitorialità narcisistico-dissociata.
La genitorialità masochistica è caratterizzata da lutti basati sul senso di colpa e prevede due tipo -
logie di casi: nel primo caso i neo genitori hanno avuto a loro volta dei genitori con forti tendenze depressive e sono stati vissuti come figli “difficili”; nel secondo caso i genitori hanno vissuto i propri genitori come indegni, abbandonici e tendono ad essere molto protettivi nei confronti del proprio figlio. Allo stesso tempo si identificano con il genitore indegno, a cui hanno rivolto le proprie accuse in passato, sottomettendosi al bambino, all’aggressività che proiettano su di lui, mossi dal bisogno di espiazione masochistica. Tali genitori possono favorire l’insorgere, nel proprio figlio, di alcuni fenomeni patologici come disturbi dell’autostima, causati dall’atteggiamento sottomesso che assumono nei confronti dei genitori, determinando una trasmissione intergenerazionale della depressività. Inizialmente il bambino presenta vissuti di grandio -
Diventare genitori comporta anche un processo definito il “lavoro del lutto” che implica la rinuncia al ruolo di bambino che si ricopriva con i propri genitori e il doversi identificare con questi ultimi per poter svolgere la funzione genitoriale.
Le identificazioni proiettive su cui si basano i conflitti della genitorialità narcisistica-dissociata sono unidirezionali e deformanti rispetto all’immagine del bambino e sono caratterizzate dalla proiezione di immagini negative di se stessi, che assumono per il bambino il carattere di persecutorietà.
sità veicolati dalle identificazioni proiettive del genitore, portando a comportamenti molto difficili e tirannici, ma tale grandiosità lascia poi spazio alle immagini svalorizzanti che si rafforzano negli scambi con i genitori “vittime”.
Le identificazioni proiettive su cui si basano i conflitti della genitorialità narcisistica-dissociata sono unidirezionali e deformanti rispetto all’immagine del bambino e sono caratterizzate dalla proiezione di immagini negative di se stessi, che assumono per il bambino il carattere di persecutorietà. La conflittualità genitoriale viene negata e coperta da immagini parentali positive, non conflittuali, assumendo così un narcisismo di base di tipo distruttivo e generando nel bambino disturbi dell’attaccamento. Tali genitori, con le loro identificazioni proiettive patologiche, deformano l’immagine del figlio e lo sommergono di immagini negative del loro passato. L’interazione tra madre e figlio, in particolare, diventa molto problematica a causa dell’atteggiamento materno rifiutante e distanziante, generando vissuti di frustrazione e pericolo nel bambino, che tenderà a difendersi da ciò tramite meccanismi tipici dell’Io narcisistico primario. Il bambino si identificherà con l’immagine di rifiuto, trasmessa dalla madre, e tale immagine diventa il nucleo fondante della sua struttura psichica, generando profonde difficoltà nell’attaccamento tra madre e bambino. Inevitabilmente gli scambi fisici tra madre e bambino, fondamentali per lo sviluppo emotivo, non riescono ad essere piacevoli e a dare il via a tutte le funzioni fondamentali per un corretto funzionamento psichico, determinando l’insorgenza dei disturbi dell’umore (Palacio Espasa, 2004).
Il sistema di attaccamento
Il punto vero della questione è che l’attaccamento è un sistema motivazionale innato e biologicamente adattivo, caratterizzato da tre elementi fondamentali: la ricerca di vicinanza al caregiver, l’effetto “base sicura” (il legame che permette al bambino di sentirsi capace di esplorare l’ambiente e di trovare conforto nei momenti di ansia) e la protesta per la separazione.
Il sistema di attaccamento, da un punto di vista evoluzionistico, permettendo di mantenere e sollecitare la prossimità alla figura di riferimento, aumenta le probabilità di sopravvivenza del bambino, data la sua scarsa autonomia e le sue capacità limitate.
Il sistema di attaccamento del bambino, tuttavia, si intreccia con quello del genitore, predisponendo quest’ultimo a determinate risposte e dinamiche nell’accudimento; la qualità di tali risposte determinerà la formazione nel bambino di quelli che Bowlby chiama “Modelli Operativi Interni”. Questi ultimi sono delle mappe rappresentazionali che si costruiscono attraverso le interazioni tra bambino e caregivers; in base alle risposte di questi ultimi, si creeranno nel bambino una serie di aspettative, immagini di sé e assunti che guideranno le relazioni. Il bambino, in questo modo, diviene capace di usare questo sistema rappresentazionale per predire il proprio e altrui comportamento e quindi gli stili di interazione e regolazione degli affetti che si consolidano nel corso dello sviluppo; saranno dei prototipi per i successivi processi di mediazione che consentiranno di instaurare relazioni sociali e di mantenere un senso di sicurezza nelle situazioni stressanti.
Avete mai sentito parlare di cherofobia? Vi sembrerà strano ma esiste anche la paura di essere felici. Certo, nella nostra società, la felicità è considerata l’obiettivo da conseguire per dimostrare a se stessi di condurre una vita di successo. Eppure diversi studi recenti hanno dimostrato come alcune persone tendano ad avere un’idea negativa della gioia o, addirittura, paura di essa. Si tratta della cherofobia, costrutto psicologico con il quale si fa riferimento all’avversione alla felicità che alcuni individui manifesterebbero attraverso l’evitamento attivo.
All’interno della ricerca, due sono i principali filoni che hanno cercato di inquadrare il fenomeno della cherofobia: culturale e clinico.
Secondo l’approccio culturale, come spiega il sito specialistico StateOfMind, esisterebbero notevoli differenze nel modo in cui le diverse culture concepiscono la felicità e, per questo, la cherofobia non rappresenterebbe un problema clinico quanto un diverso modo di rapportarsi alla felicità. Ciò riguarda soprattutto l’oriente. In occidente, invece, visto che la felicità è una conquista di cui l’uomo è in gran parte responsabile, chi non riesce ad ottenerla potrebbe sentire di aver sperimentato uno dei fallimenti più dolorosi possibili. E
qui subentra l’approccio clinico.
Secondo alcuni autori, l’avversione alla felicità potrebbe essere concettualizzata come una forma di disturbo d’ansia, in cui l’individuo manifesterebbe agitazione per la partecipazione attiva a contesti gioiosi e per la produzione di stati d’animo positivi. Ma per quale ragione? Semplice: gli individui felici sono proprio coloro che temono possano accadere episodi nefasti. Dato che, nella loro concezione, la felicità è intrinsecamente seguita da condizioni negative, le persone cherofobiche preferiscono vivere in uno stato emotivo neutro.
E allora resta la domanda: come intervenire sulla cherofobia? Non essendo inquadrata come una psicopatologia franca, la cherofobia non è ancora stata oggetto di trial clinici che ne definiscano il trattamento d’elezione. Tuttavia, la psicoterapia cognitivo-comportamentale sembra essere l’approccio più indicato per questo tipo di problematica, quando invalidante. Attraverso la ristrutturazione cognitiva, le strategie di rilassamento e gli interventi di esposizione a eventi che provocano la felicità, la persona può essere aiutata a mettere in dubbio le proprie credenze irrazionali e ad accettare il fatto che la felicità non è necessariamente conseguita da esperienze catastrofiche.
Tra mille anni l’essere umano sarà gobbo, avrà mani come artigli, un collo basso e spesso, tre palpebre per occhio e anche un cervello più piccolo. Inoltre avrà dimensioni inferiori e probabilmente sarà anche meno “prestante” dal punto di vista intellettivo. L’uomo andrà incontro a una vera e propria trasformazione, condizionata e veicolata dall’uso della tecnologia nelle nostre vite.
Sarebbe questo l’aspetto dell’uomo tra mille anni secondo la ricerca commissionata dalla compagnia telefonica Toll Free Forwarding. Dall’elaborazione 3D è venuta fuori “Mindy”, la donna del 3000, che dovrebbe mostrare la rappresentazione degli effetti della tecnologia sull’evoluzione, o per molti aspetti involuzione, del corpo umano. Postura e gestualità ripetitive, ad esempio, sono soltan -
to due degli elementi condizionati dalla tecnologia che in un lontano futuro potrebbero rendere l’uomo diverso da come è oggi. Gli adattamenti vantaggiosi per la vita digitale che emergono casualmente, infatti, potrebbero “fissarsi” nelle popolazioni e dunque essere tramandati di generazione in generazione.
In un articolo per Health Matters, il dottor K. Daniel Riew del New York-Presbyterian Orch Spine Hospital, ha spiegato esattamente cos’è: «Quando lavori al computer o guardi il telefono dall’alto in basso, i muscoli della nuca devono contrarsi per tenere la testa alta. Più guardi in basso, più i muscoli devono lavorare per mantenere la testa alta. Questi muscoli possono diventare eccessivamente stanchi e doloranti guardando i nostri smartphone e tablet o trascorrendo la maggior parte della nostra giornata lavorativa al computer».
Gli effetti della tecnologia sull’uomo non riguarderanno soltanto la postura ma arriverebbero a modificare anche direttamente le nostre funzioni cerebrali. Con una serie di studi a lungo termine che cercano di stabilirne l’impatto completo, nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato le radiazioni degli smartphone come «possibilmente cancerogene per l’uomo (qui avevamo scritto delle possibili conseguenze degli smartphone sul cuore per i portatori di pacemaker riportate dall’Iss).
Gli effetti potrebbero essere più rilevanti in particolarmente sui bambini, in quanto i loro crani meno sviluppati sono più sottili e
assorbono fino a tre volte più radiazioni rispetto ai cervelli adulti. Per questo il cranio dell’essere umano del 3000 potrebbe essere leggermente più spesso, così da proteggere il cervello, che però nel frattempo potrebbe rimpicciolirsi.
Secondo quanto emerso da un recente studio internazionale del Dartmouth College di Hannover, il cervello del genere Homo sarebbe di dimensioni più ridotte rispetto a circa 3mila anni fa e in futuro potrebbe diventare ancora più piccolo a causa dello sviluppo, è l’ipotesi, della cosiddetta “intelligenza collettiva”, veicolata attraverso la comunità e la tempesta di informazioni ricevute tramite gli smartphone.
Sarebbe questo l’aspetto dell’uomo tra mille anni secondo la ricerca commissionata dalla compagnia telefonica Toll Free Forwarding.
Circa 700mila persone in Italia sono affette da malattia di Alzheimer; questa forma di demenza, che rappresenta la terza causa di morte in Europa e una della principali cause di disabilità su scala globale, costa inoltre circa 15,6 miliardi di euro l’anno, l’80% dei quali sostenuti direttamente dai pazienti e dalle loro famiglie. Sono alcuni dei dati emersi nel corso del convegno “Alzheimer e neuroscienze: una priorità per il Paese”, che si è tenuto alla Camera dei Deputati alcune settimane fa. L’incontro segue, peraltro, la nascita dell’Intergruppo Parlamentare per le neuroscienze e l’Alzheimer. «L’obiettivo principale è accendere una luce su queste patologie, non solo per l’incremento che si è registrato come conseguenza dell’aumento dell’età demografica nel nostro Paese, ma per tutti gli effetti che comportano queste patologie non solo sul paziente ma anche sui familiari», ha
affermato Annarita Patriarca, deputata e co-promotrice dell’Intergruppo parlamentare per le neuroscienze e l’Alzheimer. «Per noi è necessario riuscire a garantire per tutto il territorio nazionale un’omogeneità di accesso a cure di qualità e soprattutto un sistema di cure domiciliari che funzioni bene su tutto i territori nazionale». «Pensiamo di lavorare in modo tale di portare in questo campo quelle che sono le indicazioni della scienza e delle associazioni dei pazienti», ha aggiunto Beatrice Lorenzin, senatrice e co-promotrice dell’Intergruppo parlamentare per le neuroscienze e l’Alzheimer. «Cercheremo di intervenire sull’organizzazione delle reti territoriali, sull’organizzazione della diagnostica, sulla formazione di un sistema regolatorio che sia in grado di sostenere l’impatto dei nuovi farmaci che arriveranno, sulla formare dei medici di medicina generale che devono essere coloro che ci permet-
tono di arrivare ai pazienti quando la malattia è in stadio precoce», ha concluso Lorenzin.
Sulla questione, intanto, anche la comunità scientifica continua ad interrogarsi. Anche per l’Alzheimer, come già avvenuto per il cancro, più che un farmaco risolutivo è probabile che in futuro si disporrà di un cocktail di farmaci per controllare la malattia. È l’ipotesi del presidente eletto della Società Italiana di Neurologia Alessandro Padovani. «Da trent’anni si lavora su farmaci anti-amiloide e negli ultimi anni è più evidente che lavorare su questo meccanismo può essere una strada per rallentare o stoppare malattia, se presa molto in anticipo», spiega Padovani. Uno di questi farmaci nei giorni scorsi ha ricevuto l’approvazione definitiva da parte della Fda americana. «Io, però,
non credo che sarà solo questa la terapia per l’Alzheimer», ha aggiunto il neurologo. «Bisogna tenere conto che ci sono molte persone che non sono curabili con questi farmaci, ma vi sono tante sperimentazioni in atto che mi fanno credere che in futuro ci sarà un cocktail di farmaci che, come avvenuto per il cancro, permetterà di controllare la malattia». In attesa di nuove terapie efficaci, è importante «non aspettare: ai primi sintomi bisogna sottoporsi a una visita da un geriatra o da un neurologo, per giungere prima possibile a una diagnosi», ha sottolineato Padovani. «Alla politica, invece, chiediamo che ci sostengano nella realizzazione di una rete assistenziale e sociale che non lasci queste persone a cercare soluzioni che spesso non riescono a trovare», ha concluso.
“Per noi è necessario riuscire a garantire per tutto il territorio nazionale un’omogeneità di accesso a cure di qualità e soprattutto un sistema di cure domiciliari che funzioni bene su tutto i territori nazionale”.
Quando leggiamo attiviamo una serie
di ingranaggi psichici e neurobiologici
di Cristi Marcì*
*Psicologo Specializzando in Psicoterapia Psicosomatica Operatore Perinatale
Tirocinante Psicologo Psicoterapeuta presso AUSL Toscana Sud Est
Consultorio Viale don Giovanni Minzoni Siena
Durante la lettura siamo spesso inconsapevoli dei numerosi processi che questa semplice attività comporta, degli ingranaggi psichici e neurobiologici che non solo vengono coinvolti ma che all’unisono promuovono una vera e propria omeostasi (Hebb, D. O., 1949).
Nel medesimo istante nel quale siamo assorti dalla trama del nostro libro, la nostra architettura cerebrale risente in maniera procedurale di cambiamenti morfologici, epigenetici e non ultimo di tipo strutturale (Militello, C., 2022).
Le lettere che ci apprestiamo a leggere, decifrare e spesso a conoscere per la prima volta, risentono di una vera e propria concatenazione di micro-funzioni che a partire dal sistema visivo (Dehaene, S., 2009), si riflettono a livello somatico ed emotivo.
Un’occhiata al sistema visivo
Le parole e il testo scritto coinvolgono prima di tutto il sistema visivo, nello specifico infatti l’elaborazione vera e propria di quello che leggiamo inizia nella fovea, il centro della retina, dove avviene una prima elaborazione, nonché un primo riconoscimento delle lettere.
All’interno della retina i rispettivi neuroni (Cajal, S., 1913), ivi posizionati, operano un’accurata dissezione delle lettere per poi successivamente ricostruirle e procedere infine con il riconoscimento delle stesse (Dehaene, S., 2009).
Pertanto, durante questa fase primaria, si assiste ad un’estrazione delle parti costituenti delle parole (tra cui i grafemi, le sillabe e le radici di parole) dopo la quale entrano in gioco due canali fondamentali: quello fonologico e quello lessicale. Se il primo consente di
Le parole e il testo scritto coinvolgono prima di tutto il sistema visivo, nello specifico infatti l’elaborazione vera e propria di quello che leggiamo inizia nella fovea, il centro della retina, dove avviene una prima elaborazione, nonché un primo riconoscimento delle lettere.
convertire la sequenza di lettere in suoni del linguaggio, il secondo viceversa, permette di accedere ad un dizionario mentale entro il quale è conservato il significato acquisito in precedenza.
La parola dunque fa il suo ingresso a partire di nostri occhi, nello specifico attraverso la retina, depositandosi non solo, sul suolo mnestico e semantico di quanto è stato acquisito in passato, ma al contempo su una serie di distinti fotorecettori. Quest’ultimi, infatti, provvedono a riconoscere l’immagine della parola letta per eseguire subito dopo la decodifica, ossia il riconoscimento stesso.
Quanto risulta affascinate è proprio l’interconnessione tra più distretti organico-cerebrali, specializzati in specifiche funzioni, tra questi figurano non solo il sistema visivo ma anche e soprattutto il linguaggio e la memoria (Schurz, M., Radua, J., 2014).
Entrambe, infatti, presiedono all’immagazzinamento di quelle parole nuove con le quali entriamo a contatto attraverso la lettura e che una volta sedimentate altro non aspettano se non di essere riconosciute e riutilizzate nel tempo.
Sotto il profilo neurobiologico, la lettura si presenta dunque quale vera e propria attività ricca di fattori tra loro interconnessi, in grado di promuovere un rafforzamento delle strutture sinaptiche che sovente adoperiamo a nostra insaputa mentre leggiamo.
Il ruolo della regione occipitale-temporale sinistra
Situata nella parte sinistra del nostro emisfero, questa regione riflette un valido ponte di collegamento tra il sistema visivo e l’analisi linguistica, in funzione dei quali
analizza le immagini in entrata segnalandone il contenuto e le rispettive caratteristiche (Dehaene, S., 1995). Sulla base di diversi studi condotti, il neurofisiologo Petersen (Petersen S., 1988), ha confermato quanto questa regione sia fondamentale nel segnalare le parole e le lettere con le quali entriamo a contatto.
E che gradualmente verranno analizzate più nel dettaglio da altri distretti incaricati nel decodificarne il significato. Più nel dettaglio la regione occipitale temporale ventrale, si attiva solo in presenza di parole scritte, svolgendo dunque come principale funzione, quella del riconoscimento visivo delle parole scritte ma non di quelle pronunciate.
Nondimeno le parole che ci apprestiamo a leggere si traducono in segnali elettrochimici prodotti dalle regioni destra e sinistra della retina per poi convergere verso la regione della forma visiva delle parole, la quale (essendo collocata nella regione sinistra del cervello) si attiva a prescindere dalla provenienza destra o sinistra della fovea (Baron, S, Noemi., 2022).
Il ruolo della lettura nell’apprendimento
Educare alla lettura quindi non solo riflette una sana attività, bensì consente la fioritura graduale di un’impalcatura neuronale traducibile in nuovi collegamenti sinaptici (Stiefel, K. 2016), attraverso i quali la memoria e l’apprendimento vengono cablati contemporaneamente ad altre funzioni cognitive tra cui: l’attenzione, la percezione e il linguaggio (Dehaene, S., 2009). Quello che sin dai primi anni di vita viene dunque promosso è una vera e propria potatura sinaptica, attraverso la quale consolidare il buon funzionamento dei diversi distretti cerebrali (Militello, C., 2022), i quali attivandosi ripetutamente nel tempo aumentano di conseguenza le probabilità di espressione. Non solo dei circuiti già attivati in precedenza, ma ancor di più di quelli ancora inespressi (Siegel, J. D. 2001).
Secondo il contributo di Stanislas Dehane, imparare a leggere comporta principalmente il coinvolgimento simultaneo di due sistemi cerebrali: il sistema visivo del riconoscimento delle forme e le aree del linguaggio. Grazie ad ambo i sistemi le tappe di apprendimento si caratterizzano per la fase pittorica, fonologica ed ortografica. Per quanto all’apparenza semplici, tuttavia queste medesime tappe
Sotto il profilo neurobiologico, la lettura si presenta dunque quale vera e propria attività ricca di fattori tra loro interconnessi, in grado di promuovere un rafforzamento delle strutture sinaptiche che sovente adoperiamo a nostra insaputa mentre leggiamo.
Leggere pertanto, promuove il reclutamento di più distretti cerebrali che a lungo termine possono rivelarsi veri e propri strumenti per salvaguardare le proprie capacità mnestiche, aumentando di contro quelle empatiche, immaginarie, relazionali ed intrapsichiche.
evolutive evidenziano quello che le neuroscienze definiscono neurogenesi ippocampale (Kempermann, G., 2011), grazie alla quale le emergenti ramificazioni neuronali conferiscono non solo le basi per l’apprendimento, bensì quella plasticità neuronale capace di apportare cambiamenti morfologici; sia a partire dalle prime fasi di vita, sia in età adulta.
Se infatti le prime due fasi fungono da veri e propri approcci iniziali e di natura esplorativa, quella ortografica promuove l’automatismo nel riconoscimento delle parole. Nondimeno proprio questo concetto (automatismo Monguzzi, F., 2021) evidenzia sempre più quanto la flessibilità e la plasticità neuronali (Bergmann, O, Spalding, K, L., 2015), siano i capisaldi di uno stile di apprendimento in grado di accompagnare il lettore dalla tenera età sino alla vita adulta. Proprio a partire dalla regione occipitale temporale sinistra.
Leggere pertanto, promuove il reclutamento di più distretti cerebrali che a lungo termine possono rivelarsi veri e propri strumenti per salvaguardare le proprie capacità mnestiche, aumentando di contro quelle empatiche, immaginarie, relazionali ed intrapsichiche (Dehaene, S., 2022). Nondimeno essa può riflettere pienamente uno stile di vita traducibile in un bagaglio biologico in grado di apportare modifiche epigenetiche all’interno del nostro organismo.
Cosa conosciamo mentre leggiamo?
Durante questa semplice attività, che come si è visto parte dal sistema visivo, quello con cui maggiormente entriamo a contatto è una “alterità” (Recalcati, M., 2019),
ossia il riflesso di una trama differente da quella quotidiana rispetto alla quale, spesso e volentieri, convergono le nostre percezioni e le nostre rappresentazioni in maniera ripetitiva e cristallizzata. Nello specifico, sotto il profilo psicosomatico,
Morelli parla di un “atteggiamento diverso, del tutto nuovo” (Morelli, R., 2021), grazie al quale l’attenzione sembra orientare la nostra concentrazione e le nostre energie verso una nuova coscienza. Di conseguenza ciò che più risulta affascinate è lo stretto rapporto che intercorre tra la lettura e l’apprendimento di una nuova modalità di stare al mondo, attraverso la quale acquisiamo nuovi linguaggi. Se a livello morfologico ed organico avviene una nuova potatura sinaptica (Cajal, S., 1913), nonché la formazione di nuove reti neuronali, sotto il profilo neurobiologico non è escluso ipotizzare la presenza di nuove modificazioni inerenti le modalità di espressione genica (Militello, C., 2022).
Quanto si apprende sembrerebbe essere dunque un nuovo automatismo linguistico, in grado di riverberarsi in maniera procedurale a livello neuronale, psicosomatico e comportamentale. Un nuovo linguaggio della coscienza, grazie al quale valorizzare il netto equilibrio tra ciò che implicitamente abbiamo acquisito e ciò che, proprio attraverso la lettura, possiamo inizialmente immaginare per poi renderlo concreto. Apprendendo dunque una nuova visione sia di noi stessi sia del nostro modo di muoverci nel mondo, scardinando peraltro quegli automatismi comportamentali che oggi giorno James Hillman avrebbe definito “unilaterali” (Hillman, J., 2019).
Una madre e un figlio. Sono questi i protagonisti dell’esordio di Francesco Serino, grossetano classe 1978, libraio. Con “Patrizia 1965” appena pubblicato dalla casa editrice romana Atlantide (pp.304, 24 euro), accompagna il lettore della diade per eccellenza. Il romanzo si concentra nel raccontare la storia di una mamma che per motivi di salute non può più essere né la madre né la professionista che è stata per tutta la vita, e di un figlio che si trova a fare i conti con una realtà che improvvisamente si mostra completamente differente rispetto a quanto vissuto, e immaginato, fino a quel momento.
Serino costruisce una serie incredibile, e spesso ironica se non addirittura grottesca, di episodi che mettono davanti alla sua nuova vita il giovane protagonista. Al centro di tutto il rischio di un “pignoramento mobiliare coatto” scoperto da una raccomandata destinata alla madre. E la decisione di intervenire, per nasconderle tutto, per non farla mortificare, per cercare “di salvare ciò che può essere salvato”.
E dunque ecco uno studente universitario alle prime armi che si trova costretto a recuperare i crediti dovuti alla madre, fra mutui, stipendi e personaggi che Vengono da un passato non troppo lontano e portano con loro storie incredibili. In fin dei conti, “Patrizia 1965” racconta una vita spezzata, che trova nei legami familiari e nello specifico in quelli di madre-figlio un’essenza capace di dare corpo e profondità alla vita. Grande merito va al suo autore e alla sua capacità
“PATRIZIA 1965”
Francesco Serino Atlantide, 2023 304 pagine, 24 euro
di raccontare. Francesco Serino ha infatti un dono raro: una struggente, sincera, originalissima voce. Un modo di scrivere, dunque, avvolto nella morbidezza, alimentato con tenerezza e generosità. E che accompagna il lettore in una storia famigliare che difficilmente potrà essere dimenticata.
«Il sesso senza amore è un’esperienza vuota, ma tra le esperienze vuote è tra le migliori». Notava così Woody Allen, e sembrano queste parole calzare perfettamente ai tempi di oggi, in cui “di sesso si parla molto, ma si fa poco”. A dirlo è un’esperta del campo, Valeria Montebello, giornalista e podcaster, on air sulle più importanti piattaforme con “È solo sesso” (Chora Media, ogni giovedì) che segue al successo de “Il sesso degli altri” (2022, sempre Chora Media). In ogni puntata Montebello, attiva sui social e abile traduttrice di trend internazionali, accompagna l’ascoltatore nel “più vecchio dei peccati da commettere nel più nuovo dei modi” (come spiegava Charles Bukoswski). «Si trattacontinua Montebello - di una specie di bestiario del sesso contemporaneo, una serie di monologhi tragicomici su vari temi, dalle parole nuove che entrano nel dizionario del dating a comportamenti che cambiano a causa delle nostre vite sempre più digitali».
Trovando le parole, si trovano i concetti. Ti chiedo allora di accompagnarci in un breve viaggio nel nuovo lessico. Una puntata, per esempio, l’hai dedicata al red flag. Ovvero?
Le bandiere rosse che devi identificare quando stai iniziando a frequentare qualcuno, ci sono milioni di video sui social con persone che elencano le proprie. Variano da cose molto serie tipo picchiare qualcuno per strada a cose triviali
come ordinare la pizza con l’ananas. Ogni motivo è buono per buttare nell’umido una persona.
E poi?
Bimbo: bionda. Tinta. Bocca piena di filler. Gloss sulle labbra. Trucco glitterato. Rosa. Confetto. Seno rifatto. Sedere pure, se possibile. Vestiti molto attillati e corti. Unghia lunghissime con sopra fiorellini, disegnini, paillettes. Una Barbie, ma molto più sexy. Sono ragazze che pensano che mostrare la propria sensualità non sia contraddittorio con l’essere intelligenti. E anche che si può voler essere solo un corpo. E pure questa è una scelta femminista.
Ci sono due lemmi che mi sembrano imperdibili. Il primo: Situationship. Cosa significa?
Sesso con incontri più o meno regolari. Non esiste altro. No amicizia, tantomeno amore o sentimento. Affetto, forse, un po’? Assolutamente no! È quello che c’è fra la coppia e un semplice date occasionale. Finisce sempre in modo tragico: uno dei due è preso, l’altro soffre.
E Microcheating?
Prima esisteva un solo tradimento, quello base, fisico, con varie gradazioni. Oggi, con i social, le app di dating, le reaction, esistono milioni di micro-tradimenti diversi. E non c’è ancora nessuna regola stabilita. Quindi ti viene da chiederti: quanti micro-tradimenti ci vogliono per configurare un tradimento intero? 5? 8? Al decimo like alle tette di un’altra lo lasci? Al terzo sexting extraconiugale la cacci di casa? Nessuno lo sa.
Atteso, chiacchierato e discusso sin dalle primissime immagini, il film su Barbie scritto e diretto da Greta Gerwig (Lady Bird, Piccole Donne) è diventato un fenomeno di massa ben prima di approdare nelle sale cinematografiche. I social sono stati invasi da una campagna marketing che ha dell’incredibile, tanto che solo nel primo giorno la pellicola ha incassato oltre 2 milioni di euro solo in Italia, segnando un nuovo record.
Già dal primo trailer era evidente che non sarebbe stata una frivola commedia sulla bambola più iconica di sempre, ma che nascondeva qualcosa di più profondo: così, omaggiando Kubrick, il monolite di “2001: Odissea nello spazio” diventa una gigantesca Barbie in costume da bagno pronta a trasformare l’immaginario delle bambine di tutto il mondo.
È proprio con questa scena che viene presentata la Barbie. Arrivata per distruggere i bambolotti che
consentivano alle bambine di giocare solo a fare la mamma, ha uno scopo ben preciso: insegnare loro ad essere chiunque desiderino.
Così ogni mattina Barbie si sveglia nella sua casa dei sogni con la consapevolezza di aver creato un mondo dove la parità e la libertà delle donne è diventata un’assodata realtà.
Barbieland è un parco giochi immenso, tutto rosa e lustrini, dove le Barbie vivono ogni dì il giorno più bello di sempre mentre Ken è “soltanto Ken”, come a dimostrare la sua utilità solo in funzione di Barbie. La vita fantastica della nostra Barbie protagonista, chiamata semplicemente Barbie Stereotipo per incarnare la bambola dell’immaginario comune, viene stravolta quando i suoi piedi sempre sulle punte crollano piatti a terra, compare la cellulite e nella sua mente fanno capolino pensieri di morte. Preoccupata che il suo mondo si distrugga, capisce che l’unico modo per torna -
re alla vita perfetta è quello di andare nel mondo reale per aiutare la bambina che sta giocando con lei ad essere di nuovo felice. Inizia così un viaggio verso il mondo reale in cui Barbie, accompagnata da Ken, si accorge che gli ideali di femminismo che era convinta fossero ormai radicati non sono così reali e che la bambola in sé è vista più come un ostacolo all’accettazione femminile che un supporto alla realizzazione personale. D’altro canto Ken comprende come nel mondo reale sia l’uomo a detenere il potere. E così per la prima volta non si sente inutile ma visto e ascoltato, tanto da decidere di importare il patriarcato (parola che non capisce realmente e che ridicolizza suo malgrado nel corso della storia) nel mondo di Barbie. Barbie Stereotipo, portata sullo schermo da una credibilissima Margot Robbie (The Wolf of Wall Street, Tonya), incarna ovviamente gli ideali di perfezione dettati dalla Mattel con la creazione di Barbie, ma affronta anche sentimenti sconosciuti: paura, ansia, depressione la accompagnano in un difficile percorso di riscoperta e di accettazione.
Se tutte le altre Barbie hanno un ruolo nella società in cui vivono (Presidente, Dottoressa, Scrittrice), lei è solamente Barbie Stereotipo e questa mancanza di un obiettivo nella sua vita la mette davanti a scelte sempre più difficili. Un film divertente e profondo allo stesso tempo, intriso di riferimenti alla cultura pop che strizzano l’occhio a generazioni diverse, un mix perfetto tra The Truman Show, Il mago di Oz e Toy Story, un road movie per parlare di femminismo a tutti in maniera necessaria per quanto didascalica,
una satira della società patriarcale in cui viviamo nel mondo reale e del suo opposto a Barbieland. La regista Greta Gerwig ha spiegato di essere interessata “a storie dove la questione essenziale non è se la tua vita è confermata e dipende da qualcuno che ha scelto te. Ci sono molti altri problemi esistenziali in ballo e queste sono le storie che mi interessa trattare.” Questa volta, dopo due pellicole interessanti ma che non hanno colto pienamente nel segno quali i suoi precedenti film, possiamo dire che ci è riuscita per davvero.
Già dal primo trailer era evidente che non sarebbe stata una frivola commedia sulla bambola più iconica di sempre, ma che nascondeva qualcosa di più profondo.
Da qualche tempo ormai l’Intelligenza Artificiale è diventata tema di discussione anche tra i non addetti ai lavori. Al di là degli aspetti etici o di quelli tecnologici, il punto nodale del dibattito è sempre lo stesso: potrà mai l’Intelligenza Artificiale superare quella Naturale?
La questione non è di poco conto, non fosse altro perché, come prima cosa, richiede di chiarire cosa si intenda per intelligenza. Per la verità, non esiste una definizione univoca e condivisa. I filosofi preferiscono parlare di ragione, intelletto o razionalità, come della facoltà generale di comprendere la realtà e risolvere problemi, qualcosa dunque che accomuna tutti gli esseri viventi, dall’organismo più semplice all’essere umano. Per ogni essere vivente, infatti, la vita è un test di intelligenza. In questa prospettiva, secondo Popper, tanto l’ameba, organismo di una sola cellula, quanto Einstein usano la stessa strategia per risolvere un problema, per quanto ovviamente a livelli diversi. Entrambi procedono per congetture e confutazioni (trial and error), ma mentre per l’ameba compiere un errore significa soccombere, per Einstein significa poter confutare una teoria e fare quindi un passo in avanti. La differenza
sta nel fatto che l’essere umano non si identifica con la sua teoria, non è la sua teoria, ma al contrario la teoria è un oggetto che egli può consapevolmente esaminare e criticare. E imparare dagli errori, tanto che lo scienziato va in cerca dell’errore. È così che progredisce la conoscenza.
Per la psicologia, intelligenza significa apprendere termini nuovi, elaborare modelli astratti della realtà, comunicare concetti complessi, pianificare azioni e così via. In sintesi, imparare, ragionare, risolvere problemi. Una definizione operativa di intelligenza usata spesso in psicologia è quella di abilità cognitive generali. Posta in questi termini, l’intelligenza comincia ad assumere la veste di entità definibile e misurabile. Requisito indispensabile per poter studiare un qualsivoglia fenomeno con il rigore proprio del metodo scientifico e ottenere risultati attendibili.
Prima che il dibattito su Intelligenza Artificiale vs Naturale prendesse il sopravvento, l’intelletto umano si è chiesto per decadi e decadi se intelligenti si nasca o si diventi, insomma, l’intramontabile dilemma Nature vs Nurture. Ma di questo parleremo prossimamente.
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