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ALLE RADICI DEL MALE LA PSICOLOGIA DELL’OMICIDA

Intervista Al Professor Pietro Pietrini

“Nell’immaginario comune, uccidere un’altra persona è elemento necessariamente indicativo di una devianza dalla normalità. Come potrebbe, infatti, un essere normale uccidere un proprio simile?”

Che cosa nasconde nei suoi abissi l’animo umano, e che cosa ci rivelano i fatti inquietanti di cronaca nera delle ultime settimane? Scoprendo la brutalità dell’omicidio di Giulia Tramontano - uccisa a Milano al settimo mese di gravidanza dal proprio compagno, il barman Alessandro Impagnatiello -, venendo a conoscenza della cieca violenza esercitata sul clochard picchiato a morte a Pomigliano D’Arco, ma anche della reazione a caldo del gruppo dei TheBorderline dopo aver speronato un’altra vettura alla periferia di Roma, e aver appreso della morte di un bambino di cinque anni, è impossibile restare impassibili. Non si può non chiedersi come sia possibile che un orrore così viscerale prenda corpo, e che cosa scatti nella testa di chi quel dolore ha provocato. «Il Male ci accompagna fin dall’alba della nostra esistenza», esordisce il prof. Pietro Pietrini, docente presso gli IMT di cui è stato direttore per anni, e punto di riferimento internazionale sul tema. «Nei versi iniziali del Capitolo quarto del libro della Genesi, laddove si narra del primo omicidio della storia dell’umanità, il Signore si rivolge a Caino, mettendolo in guardia dal Male e dal peccato: Il Signore disse allora a Caino: Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, timshel. Nelle diverse traduzioni della parola ebraica che segue e che chiude il settimo verso – timshel - si rispecchia tutta la fragilità dell’umano agire, sospeso – nelle diverse traduzioni - tra la promessa di controllo “ma tu lo dominerai!”, l’obbligo di controllare l’istinto “ma tu lo dovrai dominare” e, infine, la mera possibilità “ma tu puoi dominarlo”. Possibilità che, in quanto tale, comporta anche che tu puoi non dominarlo. È quello che filosofia e neuroscienze cognitive chiamano libero arbitrio. Una discussione ravvivata dai risultati di sofisticate ricerche neuroscientifiche delle ultime decadi. ma che ancora non offre una risposta conclusiva su quanto il nostro agire sia libero o sia condizionato. Nel bene e nel male.

Premesso doverosamente che certamente la malattia mentale non spiega tutta la violenza e che la violenza non è inevitabilmente presente nelle patologie psichiatriche, vi sono situazioni in cui il gesto è espressione e conseguenza di una sottostante malattia psichica.

Ogniqualvolta ci troviamo al cospetto di gesti efferati e incomprensibili, come l’episodio della giovane donna incinta uccisa per mano stessa del fidanzato e padre del nascituro, sorge spontanea la domanda se gli assassini sono persone come le altre o se non siano invece intrinsecamente diverse. Lei cosa ne pensa?

Nell’immaginario comune, uccidere un’altra persona è elemento necessariamente indicativo di una devianza dalla normalità. Come potrebbe, infatti, un essere normale uccidere un proprio simile? Ancor di più, quando la vittima è persona amata, la madre dei propri figli? O addirittura il proprio figlio o il proprio padre o la propria madre? Premesso doverosamente che certamente la malattia mentale non spiega tutta la violenza e che la violenza non è inevitabilmente presente nelle patologie psichiatriche, vi sono situazioni in cui il gesto è espressione e conseguenza di una sottostante malattia psichica. Vi sono persone che in preda a psicosi deliranti uccidono il presunto persecutore, o madri che, colpite da depressione post-partum, uccidono il proprio neonato. Questi eventi colpiscono fortemente l’opinione pubblica che non riesce a darsene una spiegazione logica e, sulla spinta emotiva collettiva, invoca le pene più atroci per il reo. Bisogna uscire dall’ambito della razionalità ed entrare in quello della patologia psichiatrica per comprendere come una psicosi delirante possa spingere una mamma ad uccidere il proprio figlio, nella paradossale convinzione che questo sia l’unico modo per proteggerlo dal male. La nascita di un figlio è evento senza uguali nella vita di coppia ma è al contempo un momento di grande vulnerabilità, che in molte donne diviene clinicamen - te rilevante fino a portare, in alcune, a vere e proprie psicosi. Vi è ancora molta ignoranza su questi temi e non vi è una sufficiente conoscenza e sensibilizzazione al riguardo. La conoscenza è condizione indispensabile per la prevenzione e la cura. Al di fuori dei reati commessi a causa di una patologia psichiatrica, per i quali il codice prevede il vizio di mente e le conseguenti ripercussioni sull’imputabilità e la pena, i casi che per certi aspetti sfidano ancor di più la nostra comprensione sono quelli che coinvolgono il vicino di casa, il collega di lavoro, in altre parole, la persona che, fino a quel momento, ci sembrava “normale”. Ma era davvero così?

È possibile delineare personalità di questo tipo?

Da tempo i criminologi tentano di delineare la personalità dell’assassino, alla ricerca di elementi peculiari e predittivi del suo comportamento. Come quando si valuta il rischio di incidente stradale, il miglior predittore di comportamento futuro è il comportamento passato. Dunque, coloro che hanno una storia documentata di alterazioni del comportamento in senso antisociale, con ripetute aggressioni e altri reati violenti, per definizione hanno una pericolosità aumentata, sia essa dovuta o meno ad una sottostante patologia psichiatrica, come sovente è il caso nei disturbi di personalità. Negli altri casi, in particolare per i gravi atti di violenza domestica come il caso recente di Senago, viene frequentemente chiamato in causa il cosiddetto “narcisismo maligno”, che non si sa bene cosa voglia dire. Se si intende un Disturbo narcisistico di personalità, allora questo rientra nelle patologie psichiatriche e, come previsto dalla celeberrima Sentenza della Corte di Cassazione del 2005 (c.d. Sentenza Raso), in quanto tale può rilevare ai fini del vizio di mente. Altrimenti appare nulla di più che un’espressione colloquiale da circolo del dopo-lavoro, un po’ come quando si invoca lo stress per giustificare un malessere che non sappiamo da dove nasca.

Esistono dei campanelli d’allarme per prevenire i gravi episodi di violenza intra-domestica?

La violenza contro le donne è una piaga gravissima che si estende ben oltre i confini del nostro Paese. Se guardiamo le statistiche degli ultimi venticinque anni, mentre il numero di omicidi in Italia si è notevolmente ridotto, il numero di donne uccise è rimasto costante. Questo vuol dire che le misure messe in atto hanno ridotto significativamente i morti tra i maschi, mentre nulla hanno fatto per le donne. Il dato appare immediatamente chiaro se si considera che la gran parte dei maschi viene uccisa da sconosciuti, mentre oltre tre quarti delle donne vengono uccise per mano di un famigliare o di conoscente stretto, non certo dalla criminalità comune. Una donna su due è uccisa dal proprio partner o ex-partner. Purtroppo, i cosiddetti campanelli di allarme appaiono tali solo dopo, con il senno di poi. Prima si tende, anche inconsciamente, a dare una giustificazione anche alle situazioni più incresciose. Ma è sbagliato. L’amore non è possesso dell’altra persona, al contrario. Non è controllo, ma fiducia senza se e senza ma. Spesso sentiamo dire “è tanto geloso perché mi vuole bene”; nulla di più falso. Anche quando non arriva ad essere una vera e propria patologia psichiatrica, la gelosia implica controllo, possesso e manipolazione dell’altra persona. Non ci sono scuse o spiegazioni alternative. Sono relazioni che vanno recise alla radice. Va sottolineato che il problema della violenza domestica non si risolve certo solo istruendo le donne a riconoscere situazioni di potenziale o attuale pericolo. Il problema si risolve educando fin da piccoli i nostri ragazzi e le nostre ragazze al rispetto dell’altra persona, e conferendo loro un ruolo paritetico. Purtroppo, sopravvivono ancora abitudini e condizionamenti discriminanti nella vita quotidiana. Persiste una diversa percezione dei diritti e dei doveri tra maschi e femmine fin da piccoli. Comportamenti che vengono favoriti e premiati nel maschio sono considerati disdicevoli e scoraggiati, quando non impediti, nella femmina, si pensi alle prime esperienze sessuali. Sono messaggi pericolosi, che in certi casi possono consolidare nel maschio adulto la convinzione di vantare diritti maggiori.

Da tempo i criminologi tentano di delineare la personalità dell’assassino, alla ricerca di elementi peculiari e predittivi del suo comportamento. Come quando si valuta il rischio di incidente stradale, il miglior predittore di comportamento futuro è il comportamento passato.

Va sottolineato che il problema della violenza domestica non si risolve certo solo istruendo le donne a riconoscere situazioni di potenziale o attuale pericolo. Il problema si risolve educando fin da piccoli i nostri ragazzi e le nostre ragazze al rispetto dell’altra persona, e conferendo loro un ruolo paritetico.

Sempre analizzando i comportamenti raccontati dalla recente cronaca - come il caso di Impagnatiello, o quello dei TheBorderline dopo l’incidente in cui ha perso la vita il piccolo Manuel - ci si rende conto che l’empatia è spesso del tutto inesistente. Che cosa ci può essere nella testa di chi uccide e poi deve fare i conti con la realtà?

Una caratteristica che accomuna la maggior parte, se non la totalità, degli uxoricidi che ho avuto modo di esaminare è la pressoché assoluta mancanza di rimorso. Non solo verso la vittima, ma neppure nei confronti dei figli, che di fatto sono stati privati di entrambi i genitori. Non ricordo qualcuno che sia andato oltre il dispiacersi per se stesso, per le conseguenze che il reato ha comportato per la sua esistenza. Un famoso psichiatra inglese del diciannovesimo secolo, Henry Maudsley, a proposito degli psicopatici scrisse che “così come ci sono persone che non vedono certi colori perché affette da cecità per i colori ed altre che non distinguono un tono musicale da un altro perché prive di orecchio musicale, ve ne sono alcune prive di qualsivoglia senso morale”. Un’osservazione che, fatta quasi un secolo prima dell’avvento delle moderne metodologie di studio del cervello, amplia la discussione sull’interpretazione di quel Timshel del libro della Genesi 4,7.

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