Brain. Novembre e dicembre 2024

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SULLE ORME DEI SUICIDI

Da gennaio ad agosto in 408 si sono tolti la vita

Pompili: “Cultura e prevenzione per constrastarli”

De Leo: “Avere dati aggiornati su questo fenomeno”

Familiari che si sentono abbandonati dalle istituzioni

Con i contributi di Gazzanni, Iemma, Piccinni.

Libri fuori dal tempo e dalle mode

Giuseppe Quaranta

LA SINDROME DI RÆBENSON

Finalista al Premio Calvino 2023

Un esordio coinvolgente e perturbante tra Borges e Labatut

“L’enigma della sindrome di Ræbenson ci consente di avvicinare alcuni dei temi e dei concetti più inattingibili e misteriosi dell’esistenza: l’identità e i confini dell’io, la definizione di malattia mentale e quella di salute, il tema della morte e quello dell’invecchiamento, lo statuto della mente, della memoria e della realtà.

Ed è proprio in questa possibilità, offerta da Quaranta con una poderosa forza lirica e suggestiva, che risiede uno degli aspetti più straordinari del libro”.

Chiara D’Ippolito – L’Indice dei libri del mese

“Giuseppe Quaranta ha il merito di innestare la ‘vertigine’ metafisico-apocalittica di Sebald nel racconto preciso e concretissimo di complicate relazioni sentimentali, in un universo narrativo affollato di personaggi, e micronarrazioni”.

Filippo La Porta – Robinson La Repubblica

“Un viaggio iniziatico nel possibile parossismo di una degenerazione fisica e mentale. E la ricchezza - anche linguistica - del romanzo di Quaranta trova la sua limpida giustificazione in questo viaggio, che raffigura come in un minuzioso - soffocante - trattato, l’atroce senso delle cose inumane”.

Sergio Pent – TuttoLibri, La Stampa

“Un esordio colto, estetico, dal fascino novecentesco”.

Nadeesha Unyangoda - Internazionale

“In questo romanzo, ho trovato tutto ciò che cerco in un libro: una visione vasta sostenuta da una lingua ricca e “letteraria”, il coraggio temerario di affrontare argomenti complessi (e spesso ignorati da una buona parte degli scrittori), una trama solida ma non convenzionale, e una qualità altissima in tutto - dalla scelta dei singoli dettagli all’impianto complessivo”.

Paolo Zardi

Perché dobbiamo abbattere lo stigma sui disturbi mentali?

Essere ammalati non è una colpa

Brain di questo mese affronta, nel primo piano, un argomento difficile, scomodo, di cui non vorremmo mai sentire parlare: il suicidio.

Sembra quasi che il solo parlarne ci coinvolga in una storia di dolore, sofferenza, dispiacere. Noi uomini degli anni 20 del 2000 vogliamo stare lontani da tutto ciò che è triste, buio, sfortunato. La nostra è un’epoca dove tutto ciò che non è bellezza, ricchezza, piacere, successo, luccichio, leggerezza viene accuratamente evitato, scotomizzato.

Questi sostantivi descrivono il trionfo della vita, sono i lustrini dell’esistenza.

Il suicidio è la negazione di tutto questo. Tutto questo però non impedisce al suicidio di esistere con tutto ciò che gli gira intorno, dalle premesse, allo svolgimento, all’epilogo.

Ognuno di noi ha dentro di sé un rapporto particolare con l’idea di fine della vita.

Alcuni hanno una sorta di familiarità con questo pensiero e ci convivono e l’accettano come uno delle tante espressioni della vita e della natura. Altri erigono muri di difesa, per tenerla lontana, la minimizzano, la ridicolizzano. La gran parte di noi rifugge il pensiero della morte, lo evita, fa finta che non esista e

che comunque se esiste per il momento non ci riguarda. Anche il solo parlarne ci crea scompiglio e turbamento.

Affrontare la morte è il più grande ed il più terribile sforzo che la mente umana è chiamata a compiere.

Il suicidio è la più estrema delle modalità di affrontare la morte.

In questo numero troverete due bellissime interviste a due illustri studiosi del fenomeno suicidario - Maurizio Pompili e Diego De Leo – che vi indicheranno le dimensioni e descriveranno le problematiche che ruotano intorno al fenomeno. Dalla loro intervista emerge quanto il suicidio sia legato, anche se in modo tutt’altro che esclusivo, alla condizione di malattia mentale. Ci sta particolarmente a cuore, tra i tanti aspetti che devono essere presi in considerazione, lo stigma che avvolge la malattia mentale ed il suicidio. Lo stigma, che riguarda i disturbi mentali, diventa lo stigma del suicidio

La fondazione BRF dalla sua istituzione si è occupata con modalità diverse e differenti iniziative della lotta allo stigma. Il vocabolario Treccani definisce lo stigma come «marchio, macchia, punto». Ed è proprio questo il significato che noi assegniamo alla malattia menta-

di Armando Piccinni

le: il marchio, la macchia. Chi ha un disturbo mentale è marchiato, è macchiato di una “colpa” che rende la sua malattia diversa e più grave di tutte le altre.

Essere affetto da qualsiasi male ci rende oggetto di comprensione e di compianto da parte degli altri. Essere affetto da una malattia mentale ci rende oggetto di vergogna e di ignominia. E’ paradossale come chi abbia un disturbo mentale passi dalla condizione di vittima a quella di carnefice. Deve vergognarsi per essere debole e fragile. Per essere una persona incapace di superare le difficoltà della vita, un essere che cede, si arrende e si abbandona alle vessazioni di un male che non esiste.

Il suicida è la sublimazione di questo concetto di stigma. La persona malata non solo lascia che la malattia possa schiacciare il suo essere ma codardamente si abbandona completamente ad essa e sceglie la via di fuga. Smette di combattere, sceglie di uscire dalla scena della vita.

Personalmente penso che alla base dello stigma verso la malattia mentale ci sia una nostra credenza barbara ed antichissima. Una credenza che affonda le sue radici nell’ignoranza, nel mistero che avvolge quest’organo incredibile e indecifrabile che è il cervello. La conseguenza dello stigma che avvolge i disturbi mentali e che trascina modalità di comportamento primitive, sta nel negare, nascondere e, nel peggiore dei casi, ignorare i disturbi mentali negando la dignità di persone malate a milioni

di persone che, pur soffrendo, sono costrette a tenere segreta e nascosta la loro sofferenza.

L’azione corale che i professionisti della salute mentale, con il sostegno indispensabile delle istituzioni, devono compiere, sta proprio nel “parlare” di malattia mentale e di suicidio.

Diffondere la cultura scientifica sulla natura dei disturbi della mente; spiegare come il cervello sia un organo, al pari degli altri, e come tale al pari di tutti gli altri organi, può ammalarsi; come, al pari di tutti gli altri organi, possa essere curato.

I professionisti della salute mentale, attraverso i media, i contatti con le scuole, con le famiglie, con le associazioni devono contribuire all’abbattimento di questo “macchia” che i disturbi mentali danno come marcatura indelebile.

Fare ciò consentirà di comprendere meglio, svelare, diagnosticare e curare questi disturbi che hanno una diffusione nell’ambito del genere umano molto piu elevata e frequente di quanto si possa pensare: una persona su quattro ne è affetta.

La conseguenza sarà che tante vite umane potranno essere salvate prima che le malattie possano progredire fino al gesto suicidario.

Il trattamento il recupero e l’integrazione delle persone affette da disturbi mentali sarà un grande crescita sul cammino della scienza medica e soprattutto un grande avanzamento sul funzionamento dell’individuo, delle famiglie e della società.

SOMMARIO

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EDITORIALE

Perché dobbiamo abbattere lo stigma sui disturbi mentali?

Essere ammalati non è una colpa di Armando Piccinni

PRIMO PIANO

I dati shock dell’osservatorio suicidi: mai così tanti casi negli ultimi anni di Chiara Andreotti

“Per combattere l’emergenza suicidi servono cultura e prevenzione” di Carmine Gazzanni

Brain

Anno V | N. 6/7 | Novembre/Dicembre 2024

Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca

Diffusione: www.fondazionebrf.org

Direttore responsabile: Armando Piccinni

Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca

De Leo: “Fondamentale avere dei dati aggiornati sul suicidio” di Flavia Piccinni

“Noi familiari, ci sentiamo abbandonati dalle istituzioni” di Chiara Andreotti

L’APPROFONDIMENTO

Il consenso informato nei trattamenti psichiatrici: aspetti legali ed etici di Iulia Iemma

Sì, i fiori possono nascere anche da un terreno calpestato di Chiara Andreotti

NEUROSCIENZE

L’interfaccia neurale, la realtà supera l’immaginazione di Federico Piccinni

L’anuptafobia,

In Italia le malattie neurodegenerative sono la seconda causa di mortalità di Francesco Carta

CULTURA

La seduzione del silenzio: ecco il Silent Reading Party di Iulia Iemma

FILM

Cosa significa gentilezza? Ossessione e fragilità per Lanthimos di Chiara Andreotti

Inside Out 2: ansia e attacchi di panico con gli occhi della Disney di Chiara Andreotti

I DATI SHOCK

DELL’OSSERVATORIO SUICIDI: MAI COSÌ TANTI CASI NEGLI ULTIMI ANNI

Da gennaio ad agosto di quest’anno monitorati 408 suicidi e 417 tentativi

di Chiara Andreotti

Numeri tragicamente impressionanti. Dietro i quali, ovviamente, si nascondono vite spezzate e familiari spesso abbandonati a loro stessi, nel loro dolore. Parliamo dei suicidi in Italia, un vero e proprio “fenomeno” visti i dati raccolti dalla Fondazione Brf. Nel silenzio delle istituzioni, infatti, la nostra Fondazione è l’unica a raccogliere dati che, per quanto sottostimati, tratteggiano un quadro decisamente allarmante. Secondo i numeri raccolti dai nostri ricercatori, infatti, parliamo di un tragico risultato: nel nostro Paese dall’inizio di gennaio al 28 agosto si sono verificati 408 suicidi e 417 tentati suicidi.

L’Osservatorio Suicidi Permanente della Fondazione BRF Onlus nasce in piena pandemia per monitorare gli atti suicidari legati al Covid: personale medico, coloro che avevano perso il lavoro, persone sole e in estrema povertà.

Da allora è emersa la mancanza di uno strumento aggiornato per il monitoraggio della situazione in Italia, e i ricercatori della Fondazione BRF si sono impegnati a fornire aggiornamenti mensili, raccogliendo informazioni dalle notizie di cronaca locali e nazionali.

Lo studio pilota – per quanto abbia solo un valore indicativo e non scientifico – è stato particolarmente apprezzato dalle Istituzioni e in particolar modo dal Ministero della Salute: parliamo, infatti, di numeri preoccupanti e, per questo, da tenere quotidianamente sotto controllo.

Proprio per tale ragione dal primo gennaio 2021 la Fondazione BRF per colmare per quanto possibile il vulnus dei dati mancanti ha deciso di aprire un Osservatorio Suicidi permanente capace di monitorare, in base ad un’attenta analisi delle notizie di cronaca (locali e nazionali), gli atti suicidari tentati e quelli tragicamente conclusi.

Tale monitoraggio è fondamentale, soprattutto in questo periodo di estrema fragilità che spesso non trova alcuna at-

PRIMO PIANO

L’Osservatorio

Suicidi Permanente

della Fondazione

BRF Onlus nasce in piena pandemia per monitorare gli atti suicidari legati al Covid: personale medico, coloro che avevano perso il lavoro, persone sole e in estrema povertà.

tenzione da parte delle Istituzioni. Al di là dei singoli casi, infatti, gli studi scientifici dimostrano che ogni qual volta siamo vittime di pandemie, crisi economiche, emergenze internazionali e cataclismi assistiamo anche a un incremento dei disturbi di natura mentale che possono portare, nei casi più estremi, a idee di autosoppressione. Avere un quadro della realtà aggiornato è vitale per elaborare strategie e soluzioni in risposta a questa silenziosa, strisciante e dolorosa epidemia che colpisce ogni giorno il nostro Paese. Ma cosa ci raccontano i dati? Da notare innanzitutto un picco nel mese di maggio: 77 suicidi, il che significa più di due suicidi al giorno. La zona maggiormente colpita sembra essere il centro Italia, con quasi 200 suicidi nei primi sei mesi dell’anno.

Come sempre si individua una maggioranza di casi nel genere maschile, con un’età media di 43 anni. Anche nel 2024 la categoria più colpita è quella dei detenuti: dopo il 2022, definito annus horribilis, e un 2023 che non è migliorato molto, i primi sei mesi del 2024 segnano 55 suicidi all’interno delle carceri italiane, e altrettanti sono i casi di tentato suicidio segnalati dalla cronaca.

Una situazione a dir poco drammatica che in Toscana è culminata con una rivolta nel carcere di Sollicciano dopo il

suicidio di un giovane di appena 20 anni che si è impiccato a seguito di diverse segnalazioni di malessere che pare avesse già segnalato.

Al momento le autorità stanno eseguendo tutti i controlli del caso, ma questo episodio rimane certamente una fotografia di una situazione che necessita un urgente cambiamento.

Altra categoria colpita, al secondo posto dopo i detenuti, sono le forze dell’ordine: sconvolge il caso di Beatrice Belcuore, carabiniera di 25 anni che si è suicidata con la pistola d’ordinanza nella scuola allievi marescialli di Firenze. La famiglia accusa “un sistema gerarchico malato” che crea vittime non solo in coloro che scelgono di porre fine alla loro vita ma anche nei familiari, vittime collaterali di questa fragile struttura.

Questo scenario dipinge un quadro preoccupante che richiede interventi urgenti per prevenire ulteriori tragedie.

È importante quindi, grazie anche all’intervento delle istituzioni, mettere in atto misure di supporto psicologico e sociale e promuovere una cultura di solidarietà per coloro che si trovano in situazioni di difficoltà.

Solo grazie all’impegno della collettività si potrà sperare di invertire questa tendenza e restituire dignità e speranza a chi oggi si sente abbandonato.

“PER COMBATTERE L’EMERGENZA SUICIDI SERVONO CULTURA E PREVENZIONE”

Intervista a uno dei massimi esperti sul suicidio, lo psichiatra Maurizio Pompili

Idati, per quanto a volte lacunosi, sono come sempre un ottimo indicatore per capire l’andamento di un fenomeno. Sono state oltre 7.000 le persone che nel 2023 si sono rivolte a Telefono Amico Italia per gestire un pensiero suicida, proprio o di un caro. Mai così tante e cresciute del 24% rispetto al 2022. «Se poi si pensa che il 29% degli Sos arriva da under 26, il problema assume un rilievo ancora più allarmante», spiega il professor Maurizio Pompili. Tra i massimi esperti a livello internazionale nell’ambito del suicidio, Pompili è professore ordinario di Psichiatria presso la facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma, e direttore UOC di Psichiatria, Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea, Roma. Fa parte dell’International Association for Suicide

Prevention (IASP). Ha ricevuto lo Shneidman Award 2008 dell’American Association of Suicidology per “Contributi eccezionali nella ricerca in suicidologia”. «Bisogna precisare che il suicidio è presente in tutte le fasce d’età, con una tendenza a crescere con l’aumento degli anni. Per entrambi i generi, dunque, la mortalità per suicidio cresce all’aumentare dell’età. Ma ciò che sorprende è – negli ultimi 50 anni circa – l’aumento proporzionalmente maggiore dei suicidi nelle fasce giovanili. Tanto che, nella fascia 15-29 anni, il suicidio è la terza causa di morte a livello globale». Minori più a rischio, insomma. Perché secondo lei?

A riguardo ci sono varie teorie, in realtà. Certamente incide in alcuni casi l’abuso di alcol o quello di sostanze stupefacenti. E poi c’è un altro fat-

tore non trascurabile: i cambiamenti socio-culturali che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Mi spiego meglio. I nostri ragazzi si avvicinano alle fasce adulte più precocemente rispetto a un tempo. Fanno molte più esperienze che anni fa erano “proibite” alla loro età. Si ritrovano, cioè, in situazioni che prima non erano loro appannaggio. E questo può incidere negativamente sulla loro sfera emotiva.

In che senso?

Le emozioni nella fase adolescenziale sono impetuose, spesso incontrollabili. E, quando questo accade, possono prendere il sopravvento, specie in momenti di pesante sconforto. Solo con l’età e la maturità si impara a controllare e “razionalizzare” le emozioni. E dunque fare esperienze già “da adulti” espone i più piccoli a vivere emozioni forti e, come detto, impetuose.

Gli ultimi dati ufficiali disponibili (Istat) ci dicono che nel 2019 si sono suicidate 3.726 persone, uomini in oltre tre casi su quattro. Tuttavia i casi di cronaca fanno pensare che ci sia negli ultimi anni una crescita del fenomeno.

È così?

Purtroppo, come giustamente sottolineava, non abbiamo dati ufficiali aggiornati. E dunque diventa difficile poterlo dire con certezza. Abbiamo però alcuni indicatori importanti. Un primo è quello, ricordato, delle richieste di aiuto pervenute al Telefono Amico. E poi ci sono dati che ci arrivano dagli Stati Uniti, molto più aggiornati dei nostri, secondo i quali ci sarebbe un importante incremento lì in Usa del fenomeno suicidario. È possibile che la stessa cosa stia avvenendo anche in Italia, nonostante uffi-

I nostri ragazzi si avvicinano alle fasce adulte più precocemente rispetto a un tempo. Fanno molte più esperienze che anni fa erano “proibite” alla loro età. Si ritrovano, cioè, in situazioni che prima non erano loro appannaggio. E questo può incidere negativamente sulla loro sfera emotiva.

PRIMO PIANO
Maurizio Pompili.

Si presumeva che il Covid avrebbe portato ad un aumento drammatico per le morti da suicidio durante la pandemia, specie in lockdown. Invece, quello che si è visto, è che nel periodo della pandemia e subito dopo non c’è stato un aumento delle morti.

cialmente disponiamo solo di statistiche ancora pre-pandemiche.

A proposito di pandemia: crede che l’onda lunga del Covid abbia contribuito a questo incremento del fenomeno?

Si presumeva che il Covid avrebbe portato ad un aumento drammatico per le morti da suicidio durante la pandemia, specie in lockdown. Invece, quello che si è visto, è che nel periodo della pandemia e subito dopo non c’è stato un aumento delle morti. Ma le conseguenze di quanto abbiamo vissuto lo vedremo proprio in questi anni: gli effetti sui suicidi non sono mai immediati, ma logorano nel medio-lungo tempo. Anche perché la pandemia ha creato molto spesso situazioni di disagio - dal non avere soldi al perdere lavoro, dall’isolamento sociale fino alla paura di morire - che, su situazioni di fragilità pre-esistente, possono portare a effetti nefasti nel tempo. Detto questo, tuttavia, bisogna precisare un aspetto fondamentale.

Quale?

Il suicidio è un fenomeno multifattoriale: non c’è un’unica causa che lo spiega in maniera diretta. Dunque, la sola pandemia non può essere di per sé causa di suicidio o tentato suicidio. Nonostante si faccia spesso riferimento ai disturbi mentali e psichiatrici, è necessario precisare che sono fattori importanti ma non esclusivi per il rischio di suicidio: fortunatamente la maggior parte delle persone che soffrono di disturbi mentali, con disturbo depressivo maggiore o altro, non si suicida.

Quali possono essere allora i fattori che portano a gesti estremi?

Ce ne sono diversi, potenzialmente. Da eventi avversi all’abuso di sostanze, dall’abuso di alcool fino alle esperienze vissute nell’infanzia. Quello che è importante sottolineare

è che, al di là delle cause, dello stato civile, dell’età, del livello di istruzione e dello status sociale, il soggetto pensa al suicidio quando vive un dolore mentale e una sofferenza che diventa insopportabile. Questo dolore è fatto da emozioni negative che lede l’individuo, lo destabilizza, fino a fargli perdere una visione prospettica positiva nei confronti del futuro.

Cosa possono fare le istituzioni per affrontare tale fenomeno?

Fondamentale è la prevenzione e fare formazione, diffondendo cultura. Quest’ultimo aspetto, spesso sottovalutato, è determinante. Bisogna diffondere una cultura della prevenzione e del riconoscimento precoce. Si agisce di anticipo, ad esempio, facendo formazione nelle scuole e portando avanti una seria e concreta lotta allo stigma che ancora oggi tocca il suicidio. Non si vuole parlare di questo fenomeno, si preferisce evitarlo. E invece bisogna parlarne, affinché tutti siano consapevoli dei rischi e imparino a riconoscerli.

In che modo dovrebbe essere strutturata una seria prevenzione?

Esistono tre tipi di prevenzione, tutte fondamentali. C’è quella primaria che è dedicata a tutta la popola-

zione. In questo caso si mira a divulgare tutte le informazioni adeguate, aumentando così la consapevolezza del fenomeno e indicando quali sono i campanelli d’allarme. C’è poi la prevenzione secondaria, che si dovrebbe fare sui gruppi più a rischio, cioè giovani e anziani. E in questo caso, ovviamente, dovrebbe esserci un’attenzione maggiore, appunto con dei corsi e con una formazione dedicata nelle scuole, ad esempio. Infine, c’è la prevenzione terziaria, rivolta a chi ha già manifestato intenti suicidari. E qui, a seconda dei casi, si interviene con trattamenti psicoterapeutici o, se occorre, farmacologici.

Lei parlava di campanelli d’allarme. Quali sono?

Ce ne sono di diversi. Per esempio: l’individuo inizia a parlare di non farcela più, di non vedere più soluzioni, di non avere più speranza nella vita né nel futuro. Possono avere dei cambiamenti delle abitudini del sonno o dell’alimentazione. Utilizzano droghe o bevono alcool in modo eccessivo, quando invece prima non erano soliti; si allontanano dagli effetti, dagli amici e dalla precedente vita sociale. C’è anche chi inizia a cimentarsi in atti molto pericolosi che mettono a rischio la

vita, propria o degli altri. Ancora, c’è chi mette a posto i propri affari, magari facendo anche testamento; regalando degli oggetti ai quali tengono molto – una collezione, un gioiello – ad un amico o ad un familiare. In questo caso il messaggio implicito è chiaro: “Voglio che questa cosa alla quale tengo, sopravviva a me”. Inoltre, possono verificarsi dei cambiamenti d’umore repentino. Questi sono dovuti al fatto che la persona che pensa al suicidio è molto ambivalente: perché nessuno vorrebbe mai morire, in realtà.

E allora cosa fare quando ci rendiamo conto di uno di questi campanelli d’allarme?

Innanzitutto, se c’è ovviamente un grado di confidenza e di fiducia, fare la fatidica domanda: “Stai pensando al suicidio?”. È una domanda che fa paura, anche per chi la fa. Non è semplice. Ma questa domanda decodifica e accorcia le distanze. Se la persona in crisi si fida di chi pone questa domanda, si apre e confida qualcosa che fino a un attimo prima pensava che non avrebbe mai potuto confidare a nessuno. Il processo di decodifica in questo caso può essere importante, se non vitale.

A quel punto bisogna contattare degli esperti?

Non bisogna mai perdere tempo o credere che si possa risolvere tutto da soli. La coalizione con più figure professionali è spesso determinante. Anzi, bisogna sempre agire con un eccesso di zelo in questi casi. Ma il primo passo, torno a ripeterlo, è entrare in relazione con la persona in crisi. Ancor prima di contattare esperti. Bisogna far sì che la persona si fidi e si affidi. È importante ricordarlo sempre: le persone che pensano al suicidio non vorrebbero morire, ma vorrebbero vivere, ammesso che qualcuno li aiuti a ridurre i livelli di sofferenza, ad avere ancora speranza nel futuro.

Ma le conseguenze di quanto abbiamo vissuto lo vedremo proprio in questi anni: gli effetti sui suicidi non sono mai immediati, ma logorano nel medio-lungo tempo. Anche perché la pandemia ha creato molto spesso situazioni di disagio.

DE LEO: “FONDAMENTALE AVERE DEI DATI AGGIORNATI SUL SUICIDIO”

Le categorie più a rischio. Intervista al professor emerito di psichiatria e studioso di calibro mondiale

di Flavia Piccinni

«Nessuno vuole sentir parlare di morte, tantomeno questa società che non vuole invecchiare». Esordisce così il professor Diego De Leo, professore emerito di psichiatria e unanimemente considerato come uno dei massimi esperti di suicidi al mondo. «La nostra società ha un problema ad accettare la finitudine delle cose. Da una parte si illude di poter creare un’aspettativa di vita fino a cent’anni, dall’altra si convince che il suicidio riguardi solo i malati mentali. Ma questa è una sciocchezza».

Il Covid-19 ha dimostrato l’intrinseca fragilità di noi esseri umani, e il suicidio è diventato uno dei temi centrali del nostro tempo, per

quanto spesso non venga considerato tale.

Durante il 2020, l’anno in cui la pandemia da COVID-19 ha avuto inizio, si è assistito a un notevole clamore mediatico riguardo a un presunto aumento dei suicidi. Tuttavia i dati effettivi hanno dimostrato una sostanziale stabilità nei tassi di suicidio, contraddicendo le previsioni allarmistiche. È importante notare che, sebbene questa stabilità sia un buon segnale, il mantenimento dello status quo dovrebbe comunque essere motivo di preoccupazione.

Sempre più spesso gli esperti evidenziano la necessità di una strategia nazionale, che però sembra molto lontana.

Un impegno a livello nazionale è fondamentale per proteggere la salute mentale della popolazione.

Per questo è necessaria una maggiore coordinazione per affrontare il problema. Ma è fondamentale anche avere dei dati aggiornati, fornire risposte tempestive e gestire al meglio i cluster di suicidi o contagio emotivo. Bisogna poi ricordare che è necessario distinguere tra tentativi di suicidio e suicidi effettivi. I tentativi di suicidio comprendono comportamenti che vanno dalle autolesioni ai gesti dimostrativi e possono variare notevolmente in gravità. La definizione precisa è cruciale per comprendere appieno il fenomeno.

Analizzando i dati dell’Osservatorio suicidi della Fondazione BRF Onlus, emerge come esistano dei settori in cui l’allarme è chiaro. Uno di questi riguarda le forze dell’ordine. Perché?

Si tratta di una questione preoccupante. Gli agenti di polizia hanno accesso ad armi letali e spesso evitano il supporto psicologico a causa di un codice etico che scoraggia la manifestazione di debolezza. Questo fenomeno richiede una soluzione urgente. Di certo il supporto psicologico dovrebbe essere reso più accessibile.

Anche nelle carceri i dati sono inquietanti.

Il sistema carcerario presenta un elevato tasso di suicidi, che ha raggiunto dati significativi nel 2022. Parliamo di un vero e proprio annus horribilis, in cui si sono verificati 85 suicidi accertati. Un numero enorme che non ha mai avuto pari in passato. Si tratta di un fenomeno legato al sovraffollamento e sottolinea la necessità di riforme e miglioramenti nelle condizioni dei detenuti per prevenire ulteriori tragedie. Bisogna poi notare che nelle carceri una persona dovrebbe essere sorvegliata, quindi dovrebbe essere protetta e dovrebbe avere meno

possibilità di riuscire a togliersi la vita, se non altro per la mancanza di elementi con cui farsi del male. Invece, e purtroppo, le persone riescono ugualmente a trovare una strada per ammazzarsi.

Un’altra emergenza, forse più silente, riguarda il mondo dei giovani.

Molti centri significativi del nostro Paese, penso per esempio al Meyer di Firenze, hanno registrato aumenti nelle ammissioni di giovani che avevano tentato il suicidio o che manifestavano intenzioni suicidarie. Non abbiamo dati specifici sul tema ma è bene ricordare che attualmente in Italia l’età media della persona che si dà la morte per suicidio è intorno ai cinquant’anni, e che protagonisti di questi gesti sono perlopiù anziani di sesso maschile.

Il sistema carcerario presenta un elevato tasso di suicidi, che ha raggiunto dati significativi nel 2022. Parliamo di un vero e proprio annus horribilis, in cui si sono verificati 85 suicidi accertati.

Diego De Leo.

“NOI FAMILIARI, CI SENTIAMO ABBANDONATI DALLE ISTITUZIONI”

Parla

Amina:

“Veniamo messi da parte come sono stati messi da parte i nostri cari defunti”

Il suicidio ha sempre fatto parte della storia dell’umanità: ogni epoca ha dovuto scontrarsi con questo tragico evento, ma mai come nella società odierna tale atto estremo è diventato così sistematico da richiedere attenzione costante.

Per questo da tre anni ormai la Fondazione BRF si è attivata per abbattere lo stigma che grava su questo fenomeno, e lo fa attraverso l’Osservatorio Suicidi: ogni mese, i ricercatori della Fondazione, catalogano gli articoli di cronaca, conteggiando i suicidi e i tentativi di suicidio avvenuti nel nostro Paese.

Ovviamente si tratta di numeri incompleti, che però dovrebbero risvegliare l’attenzione delle autorità e delle istituzioni, portando

ad interventi preventivi per tutelare coloro che hanno perso la speranza e le famiglie che si trovano ad affrontare questo terribile percorso. Sono in tanti a soffrire. Più di quello che si possa pensare. Una di loro è Amina. La madre si è tragicamente tolta la vita. Un macigno che ancora pesa sulla donna. Ed è per questa ragione che ha deciso di dar voce alle sue sofferenze con una lettera dedicata “A quelli che restano”. Una lettera in cui, coraggiosamente, Amina, racconta cosa significhi convivere con la conoscenza ravvicinata del suicidio.

Tutto parte dall’analisi della parola “suicidio”: quali credi siano le implicazioni di questo termine?

La parola suicidio per me è un’ombra, un alone di mistero e

paura, un’entità più che una parola che si porta dietro un tabù, uno stigma, qualcosa di impronunciabile dal momento che passa nella propria mente, qualcosa di cui vergognarsi a pensarlo, a farlo a trovarsi a viverlo come sopravvissuta. Nel 2023 è una di quelle cose che ancora non è accettata, affrontata con la trasparenza, la serenità di tutte le cose della vita. Sembra che a parlarne sia contagioso, che faccia male alla società e che le persone coinvolte facciano bene a non parlarne per non alimentarne una forza malvagia.

Senti mai il peso dello stigma? Sempre. Lo sento dai giornali, da come vengono annunciate le morte suicide e successivamente commentare, dalle persone intorno a me che commentano morti

altrui non sapendo del mio vissuto dandomi conferma che non posso esplicitarlo, da come ci sia una sorta di omertà sul voler specificare cosa abbia portato a una morte e quando è specificato è trattato non come qualcosa di serio da affrontare ma come qualcosa di ingestibile, incontrollabile, da tenere lontano per non esserne contagiati. Non ho mai parlato e non parlo della morte di mia madre perché mi sento giudicata, compatita, e sento giudicare lei, come sento giudicare gli altri come dei folli, dei malati di mente, delle persone che con quel gesto hanno perso la dignità di essere ricordati come tutti gli altri.

Cosa ti ha spinto a scrivere una lettera dedicata, come detto, “a quelli che restano”?

La parola suicidio per me è un’ombra, un alone di mistero e paura, un’entità più che una parola che si porta dietro un tabù, uno stigma, qualcosa di impronunciabile dal momento che passa nella propria mente, qualcosa di cui vergognarsi a pensarlo, a farlo a trovarsi a viverlo come sopravvissuta.

La mia sofferenza da ormai 20 anni, a volte conscia altre inconscia, per qualcosa che non ho potuto elaborare come chiunque può elaborare il lutto nel ricordo rispettoso, condiviso, amorevole. Non poterne parlare mi ha spinto a scrivere e cercare persone che vivono lo stesso dolore e la stessa esclusione.

La mia sofferenza da ormai 20 anni, a volte conscia altre inconscia, per qualcosa che non ho potuto elaborare come chiunque può elaborare il lutto nel ricordo rispettoso, condiviso, amorevole. Non poterne parlare mi ha spinto a scrivere e cercare persone che vivono lo stesso dolore e la stessa esclusione.

Lo dicevi anche prima: tu racconti di non poter parlare né ricordare tua madre. Come hai imparato a convivere con tutto questo?

Non ho imparato. Le fasi sono dimenticarmene per andare avanti e poi avere momenti di profonda depressione, inquietudine, pensieri suicidi a mia volta in una sorta di legame empatico con mia madre, come la sua morte e il suicidio fossero il mio legame con lei e un giorno che io lo voglia o no sarà la mia sorte. È morta a 40 anni e io tra qualche mese compirò 40 anni, la mia unica elaborazione è stata con lei, quando sono lucida so che questi pensieri sono dovuti al fatto che non ho mai avuto la possibilità di elaborare il suo lutto, il mio senso di colpa, il mio legame con lei come se la sua morte vissuta in maniera così privata tra me e lei fosse ciò che ancora ci lega, perché non c’è nessun altro.

Hai trovato sostegno in persone che hanno vissuto il tuo stesso dramma?

Sì, mi hanno scritto altre persone con le stesse identiche problematiche, sole con gli stessi compagni, figli e intimi, che vivono nel silenzio e in una sofferenza privata, avvolti dal senso di colpa e dalla vergogna. Anche loro hanno bisogno di sostegno, condividerlo è già stato un passo ma non è sufficiente. Sto pensando molto a rilento di incontrarci anche se non

ho trovato nessuna figura guida. E dalle istituzioni?

Nulla. L’unica cosa che è accaduta stata un’ambulanza nell’immediato che voleva somministrarmi dei calmanti che ho rifiutato, quel dolore è necessario viverlo tutto. Poi le luci si sono spente. Ho parlato con degli psicologi ma già solo il fatto che fossi così lucida nell’esporlo non gli ha fatto comprendere che ho bisogno di aiuto. Spesso si pensa che sia necessario attuare un sistema di prevenzione che certamente è di primaria importanza. Allo stesso tempo però non esiste alcun tipo di supporto per coloro che si trovano involontariamente a scontrarsi con il suicidio.

Nella lettera definisci te e quelli che vivono lo stesso dramma dei “sopravvissuti”: cosa vi trovate a fronteggiare quotidianamente?

Il silenzio. Il segreto. La vergogna. La paura del suicidio di noi stessi. L’ingiustizia per essere messi da parte noi come i nostri cari defunti.

Tu ha creato una casella email dedicata “A quelli che restano”: cosa è riuscita a raccogliere?

Alcune testimonianze simili alle mie e il bisogno di uscire allo scoperto senza sapere come fare, un dolore persistente e fresco anche dopo tantissimi anni. Poco fa li ho ricontattati per chiedere loro di vederci e capire come aiutarci. Cosa vorresti chiedere alle istituzioni?

Che il tema sia affrontato seriamente con servizi efficaci per la prevenzione dei suicidi e assistenza ai sopravvissuti in modo trasparente e pubblico come parte della società in cui viviamo e non con un approccio medievale intriso di credenze, divinità e misteri.

IL CONSENSO INFORMATO

NEI TRATTAMENTI PSICHIATRICI: ASPETTI LEGALI ED ETICI

Discussione sulle leggi che li regolano e le sfide etiche associate

di Iulia Iemma

Avvocato

“Nel campo delle azioni e di ciò che è utile non c’è nulla di stabile, come nel campo della salute. Non c’è infatti una legge generale per i casi particolari, perché essi non rientrano in nessuna conoscenza tecnica e in nessuna regola fissa, ma spetta sempre a chi agisce tener conto di ciò che è opportuno, come avviene nell’arte e nella medicina.”

Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro II, IV secolo a.C.

Il consenso informato è oggi uno degli argomenti più esaminati nell’ambito della plurisecolare relazione che esiste fra medico e paziente. È sicuramente un tema di estrema importanza e che spesso diviene oggetto di aspri confronti nell’ambito medico-legale con degli arroccamenti da parte della medicina difensiva, che dimentica di come il consenso informato nasca dal processo di libera e consapevole adesione della persona a delle scelte diagnostico-terapeutiche dal cui esito spesso dipende il benessere e la qualità di vita dello stesso. Il consenso informato nei trattamenti psichiatrici, in particolare, rappresenta un tema complesso e delicato, poiché coinvolge la gestione di pazienti che potrebbero avere difficoltà a comprendere pienamente le implicazioni delle loro scelte a causa delle condizioni mentali in cui versano. La sfida principale in questo contesto è bilanciare il rispetto dell’autonomia del paziente con la necessità di proteggere la sua salute e sicurezza. Il termine consenso informato, nelle diverse legislazioni internazionali, ha assunto, nel corso del tempo, aspetti differenti anche da Stato a Stato, ma ciò non toglie che ritroviamo dei principi comuni a tutte le legislazioni, quali: 1) la pre-

Il consenso informato è oggi uno degli argomenti più esaminati nell’ambito della plurisecolare relazione che esiste fra medico e paziente. È sicuramente un tema di estrema importanza e che spesso diviene oggetto di aspri confronti nell’ambito medico-legale

senza di una adeguata informazione data dal medico, 2) la consapevolezza da parte del paziente dei significati dell’atto sanitario che sarà compiuto e 3) la possibilità di revoca del consenso stesso.

La prima forma di codificazione internazionale di regole, riguardanti i diritti umani nell’ambito delle sperimentazioni, risale al Codice di Norimberga del 1947, dove molta attenzione veniva data al valore del consenso informato, alla libertà di scelta e di decisione dell’individuo di sottoporsi a sperimentazione o pratica clinica. La nostra Carta Costituzionale è più orientata a fornire sostanziali indicazioni per tracciare le basi sulla scelta del comportamento che i professionisti debbono tenere in materia di consenso informato. Il consenso informato diventa, quindi, un fattore di espressione della libertà del singolo e si colloca tra i diritti fondamentali riconosciuti dal nostro ordinamento giuridico. Infatti, dal combinato disposto degli art. 13 e 32 della Cost. emerge che la libertà di disporre del proprio corpo è espressione dei valori fondamentali della persona. Le varie norme e sentenze che si sono susseguite negli anni hanno via via delineato quello che è il processo per l’acquisizione del consenso in ambito sanitario. Va citata, ad esempio, la “Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina” meglio nota come “Convenzione sui Diritti dell’uomo e la biomedicina” creata il 4 aprile a Oviedo e ratificata in Italia dalla Legge 145 del 2001. Da evidenziare il nucleo contenuto nel Capitolo II: - Consenso - art. 5 – Qualsiasi intervento in campo sanitario non può essere effettuato se non dopo che

la persona interessata abbia dato il proprio consenso libero e informato. Ogni persona riceve preventivamente un’informazione adeguata in merito allo scopo e alla natura dell’intervento nonché alle sue conseguenze e ai suoi rischi. La persona interessata può liberamente ritirare il proprio consenso in qualsiasi momento.

Al consenso informato va, quindi, il merito di aver dato al paziente il diritto (e con esso la responsabilità) di decidere della propria qualità di vita. Infatti, con il consenso informato si stabilisce che “Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente

informato” (art. 35, Codice di deontologia medica). Utile per comprendere lo spirito della norma anche il richiamo alla sentenza della Cassazione, Sez V, 21 aprile 1992, Cass. Pen. che serve, in qualche modo, a delineare la fine della forma del “paternalismo ippocratico” (definiz. del Mori M, Manuale di Bioetica, Le Lettere, 2010); con la suddetta sentenza della Corte di Cassazione nel 1992, si ebbe a configurare nell’operato del chirurgo, che aveva eseguito una parte dell’intervento senza il consenso dell’avente diritto, poi deceduto, il delitto di omicidio preterintenzionale. Il trattamento sanitario effettuato contro la volontà del paziente diviene così un trattamento sanitario

arbitrario. Il consenso informato si basa sulla tesi fondamentale e obbligatoria che il paziente abbia non solo capito la natura della malattia da cui è affetto, i possibili trattamenti, i pro e i contro di ciascuno di essi ma che disponga pure di tutte le informazioni necessarie per orientarsi nel percorso di cura, così da poter assumere una decisione consapevole sul piano diagnostico terapeutico proposto all’interno di una relazione medico paziente basata sulla così detta alleanza terapeutica. Con il consenso informato cambia, pertanto, la legittimazione etico-giuridica e deontologica dell’atto medico e, affinché ciò possa accadere, l’informazione non può ritenersi eseguita se data attraverso la sola lettura e una elencazione di mera burocrazia di tutti i possibili aspetti tecnico-scientifici inerenti al problema di salute dell’utente, essa dovrebbe, rectius deve valutare anche l’aspetto umano con le debite spiegazioni del caso.

Sebbene non esista una specifica norma che regoli in modo univoco il consenso informato (la legge che lo prevede espressamente è la 219/2017) esso, si basa su una serie di fonti normative che ne creano i presupposti, sia dal punto di vista penale che civile e delimitano il fine etico e deontologico di ogni intervento sanitario. Il fondamento giuridico del consenso informato si ritrova, come si diceva poc’anzi, innanzitutto negli artt. 32 e 13 della nostra Costituzione (il primo più inicisivamente) che stabiliscono il diritto alla salute, la volontarietà delle cure e l’inviolabilità della libertà personale, nell’ambito di quest’ultima, la sentenza, n. 471 del 1990 della Corte Costituzionale, ha riconosciuto la libertà di ognuno di disporre del proprio corpo. Le due leggi del 1978, la n. 833 che ha istituito il sistema sanitario nazionale e la n.

La prima forma di codificazione internazionale di regole, riguardanti i diritti umani nell’ambito delle sperimentazioni, risale al Codice di Norimberga del 1947, dove molta attenzione veniva data al valore del consenso informato, alla libertà di scelta e di decisione dell’individuo di sottoporsi a sperimentazione o pratica clinica.

Al consenso informato va il merito di aver dato al paziente il diritto (e con esso la responsabilità) di decidere della propria qualità di vita. Infatti, con il consenso informato si stabilisce che “Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato”.

180 in materia di assistenza psichiatrica, hanno affermato che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato a un trattamento se ciò non è previsto da una legge. Vi è poi una serie di leggi emanate a partire dagli anni ’90 che va nella medesima direzione, un recupero della consapevolezza e della decisionalità da parte del paziente (vanno citati: l’art. 5 della L. n. 135/1990, per la lotta all’AIDS; l’art. 19 del D.M. 15 gennaio 1991, in tema di trasfusioni di sangue e somministrazione di emoderivati; il DM del 27 aprile 1992 nel campo della sperimentazione dei farmaci; il DLgs 230/1995 che prescrive la necessità del C.I. scritto delle persone sottoposte a radiazioni ionizzanti; la L. 675/’96 sulla privacy; la L. n. 145 del 28 marzo 2001 che ha ratificato in Italia la Convenzione europea sui Diritti umani e sulla Biomedicina, (Oviedo 1997)).

Ebbene, l’attuale dibattito relativo all’acquisizione del consenso all’atto medico costituisce uno degli aspetti di maggiore interesse e insieme di difficoltà dell’opera medica complessivamente considerata, in vista delle finalità preventive, terapeutiche nonché riabilitative ad essa connesse. In tale prospettiva anche la prassi clinica psichiatrica, nello specifico, pur considerata nelle sue più varie tipologie terapeutiche tutte, comunque, riconducibili alla definizione di atto medico, non può né deve, discostarsi dalla ricerca dei fondamenti di giustificazione legale e disciplinare dell’esercizio della relativa competenza specialistica. Parlare, quindi, di consenso informato comporta lo sforzo di inquadrarne, definendoli, i presupposti sotto il profilo del nostro ordinamento costituzionale, legale penalistico e civilistico, nonché deontologico, poiché tali principi si riversano, in modo

tutt’altro che marginale, nell’attività del personale medico e paramedico, essendo presupposti essenziali di liceità dell’atto medico. Il principio del consenso informato comparve formalmente per la prima volta sulla scena della giurisprudenza in America nell’anno 1914 (codificato poi solo nel 1947, come abbiamo visto prima, in Europa). La stessa cultura medica italiana aveva avuto nel corso degli anni un approccio nei confronti del tema un po’ generico, approfondito soltanto recentemente, con tutta probabilità sulla spinta della crescita e dello sviluppo della disciplina che nella cultura medica anglosassone degli anni Settanta assunse la denominazione di bioetica.

Si è assistito col tempo a una maggiore attenzione nei confronti dei diritti della persona e della sua dignità, cui corrisponde, in medicina, una più estensiva interpretazione del principio di responsabilità del neminem laedere; ciò induce a considerare, anche nella sensibilità comune, come illecita l’imposizione o l’attuazione di un intervento medico, latamente inteso, per il solo fatto che il professionista di turno ritenga che lo stesso sia necessario o meramente utile in base alla propria competenza e/o autorità. In Italia, il consenso informato, con fondamento nell’articolo 32 della Costituzione e legge 219/2017, si applica anche ai trattamenti psichiatrici, sebbene con alcune eccezioni legate alla protezione del paziente e della collettività. Contemperare queste due esigenze non è, però, sempre facile. La somministrazione di un farmaco neurolettico, ad esempio, potrebbe essere assimilabile a una lesione volontaria quanto ad invasività nella sfera di integrità psico-fisica del soggetto. La fondamentale questione, a tal proposito, è se sia possibile ritenere la differente finalità dei due

atti (quello medico e la lesione volontaria appunto) di per sé sola sufficiente a giustificare l’atto medico, e, pertanto, idonea a sostenere la liceità dell’atto, riconoscendo valore preminente alla finalità di agire per il bene del paziente congiunta alla prassi medica, ovvero se debba intendersi presupposto di tutela del diritto a non vedere menomata la propria integrità psico-fisica altro principio (la salute), pure rintracciabile nell’ordinamento costituzionale.

Si è, infatti, a lungo ritenuto che fosse sufficiente a creare il discrimine tra atto medico e lesione personale la finalità già ritenuta peculiare dell’intervento medico, e cioè il principio della “beneficiabilità”, ritenendosi che per tale prospettiva il sanitario che agisse per il bene di un paziente potesse ritenersi comunque giustificato, qualunque fosse l’esito e l’ambito di intervento della sua azione. È a questo punto che interviene, nel complesso percorso di evoluzione della teoria del diritto e, con tutta probabilità, di pari passo con una maturazione complessiva della coscienza dei diritti civili, una nuova valutazione del bilanciamento tra principi ritenuti di pari valore e dignità nell’esercizio della medicina, rappresentati dalla “beneficialità” connessa all’esercizio e all’autodeterminazione della persona. Ciò rappresenta, comunque, l’unico valido elemento di giustificazione dell’atto medico, il cui fondamento di liceità è rappresentato dall’atto con il quale il paziente pone nella disponibilità del sanitario, nell’ambito del contratto terapeutico e ove egli stesso possa validamente disporne, interessi e beni personalissimi e inalienabili, quali l’integrità psico-fisica, in vista di un altro bene, e cioè la salute. Tornando alla carta costituzionale e all’art. 32 della Costituzione,

come si diceva poc’anzi, esso riassume la duplice valenza collettiva e individuale del bene salute costituzionalmente tutelato in veste di un diritto primario che il cittadino può reclamare (comma 2 dell’art.32 Cost.: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di Legge. La Legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”). L’esercizio di un diritto primario alla salute può pertanto presupporre a fondamento soltanto la libera volontà da parte del legittimo titolare del bene (la persona fisica di maggiore età, capace di intendere e volere). La norma statuisce in relazione all’ordinamento penale (art. 54 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, nè altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”) che ove siano presenti condizioni cliniche tali da configurare lo stato di necessità sia possibile prescindere dall’adesione del soggetto legittimo titolare del bene salute (il cd consenso dell’avente diritto) senza per questo violare la legge (cause di esclusione della punibilità). Da ciò si deduce che volontà di adesione significhi libero convincimento e consapevolezza del titolare del diritto.

La conclusione, alla luce di quanto è emerso, e a cui perviene la dottrina ormai maggioritaria, è che il principio del consenso valido (e cioè informato) ai trattamenti sanitari sia stato inscritto dal legislatore costituente precipuamente nell’art. 32 Cost. e che le successive disposizioni di organi ministeriali non siano che esemplificazioni di tali principi (correttamente) inserentisi in tale solco.

Sebbene non esista una specifica norma che regoli in modo univoco il consenso informato (la legge che lo prevede espressamente è la 219/2017) esso, si basa su una serie di fonti normative che ne creano i presupposti, sia dal punto di vista penale che civile e delimitano il fine etico e deontologico di ogni intervento sanitario.

L’attuale dibattito relativo all’acquisizione del consenso all’atto medico costituisce uno degli aspetti di maggiore interesse e insieme di difficoltà dell’opera medica complessivamente considerata, in vista delle finalità preventive, terapeutiche nonché riabilitative ad essa connesse.

Tale prospettiva interpretativa pone limitazioni non soltanto al medico, ma anche al paziente, perché anche per l’interessato esistono beni non disponibili (art. 5 c.c., nella parte riferentesi agli “atti di disposizione del proprio corpo” da ritenersi non legittimati), ovvero le circostanze (art. 54 c.p.) già richiamate per le quali non è richiesto né al paziente, né al medico, il presupposto del consenso. Come osservato, il fondamento che giustifica la richiesta del consenso è il diritto naturalmente riconosciuto alla libera autodeterminazione degli individui umani; tale scelta può essere autentica soltanto a seguito di preventiva informazione del soggetto cui compete l’assenso agli atti di disponibilità della propria integrità fisica. Ecco allora porsi il problema, nel rapporto medico-paziente che è sbilanciato quanto a reale conoscenza e della relativa competenza tecnica (paradossalmente, soltanto colui che eroga la prestazione, il sanitario, conosce il reale fabbisogno del paziente), di come possa colmarsi una lacuna a tutto vantaggio della parte più debole del rapporto, cioè il paziente. Il principio di autodeterminazione del paziente può effettivamente porsi in azione soltanto se egli sia in grado di valutare rischi e, soprattutto, di formulare preferenze e/o scelte riguardanti alternative terapeutiche. Pertanto, al di fuori degli stati di necessità (art. 54 c.p.), ove il consenso non è neppure richiesto, e delle previsioni ex lege di trattamenti sanitari obbligatori, è dunque il valido consenso dell’avente diritto che può giustificare l’atto di disponibilità dell’integrità psico-fisica del paziente.

I requisiti di validità del consenso, ormai ampiamente acclarati dalla dottrina, consistono nella legittima autorizzazione del titolare del diritto (consenso personale) ovvero dei le-

gali rappresentanti in caso di minori o interdetti, a seguito di adeguata informazione circa natura, vantaggi e probabili rischi di un’opzione terapeutica; si forma così il consenso “personale, libero, informato, immune da vizi”. La domanda che sorge spontanea, naturalmente non differibile, per tutti gli esercenti la professione medica, attiene il quanto e il come dell’informazione. La maggior parte delle esperienze di acquisizione del consenso informato in ambito ospedaliero tende a ricondurre tale parte della prassi medica alla mera compilazione di una modulistica prestampata, talora ampiamente disattesa quanto a possibilità di reale, efficace comprensione del messaggio sanitario da parte del paziente senza trascurare anche possibili conseguenze legali derivanti da assenza o carenza di consenso, o da utilizzazione di un consenso non validamente formato. Giurisprudenza e dottrina ormai concordemente ravvisano le tipologie di reato di violenza privata (art. 610 c.p.) ove, dall’atto illecitamente effettuato non derivi alcun danno per il paziente (si viola soltanto la libertà di quest’ultimo, non la sua integrità psico-fisica), e di reato di lesioni personali dolose, ove dall’intervento effettuato senza consenso del paziente derivi un danno per ciò stesso definito illecito, riconoscendo la volontarietà dell’atto antigiuridico proprio nell’aver intaccato beni di cui non si poteva (per il sanitario) altrimenti disporre se non in presenza del valido consenso del titolare di essi. Ove dall’atto medico-chirurgico effettuato senza valido consenso informato derivi la morte del paziente, si configura il reato di omicidio preterintenzionale. Nella prospettiva del diritto civile (caratterizzato da una eminente finalità riparativa, rispetto alla prospettiva preventiva tipica invece del

diritto penale) un contenzioso che riguardi la responsabilità professionale medica da assenza di consenso, e solo ove si sia verificato il danno alla persona, costituirà uno degli elementi di valutazione equitativa delle sofferenze morali patite del paziente. L’ordinamento costituzionale risulta estremamente esemplificativo nello statuire un fondamentale spartiacque tra trattamenti sanitari volontari, che pure costituiscono la norma nell’intervento medico, e trattamenti sanitari obbligatori; entrambe le tipologie di trattamento debbono comunque garantire il rispetto della libertà e della dignità della persona (art 13, comma 1 della Costituzione: “La libertà personale è inviolabile”); i trattamenti sanitari volontari vengono posti in essere dopo che sia stato acquisito il valido consenso del soggetto titolare del diritto alle cure.

I trattamenti sanitari obbligatori attuati per infermità di natura psichica tale da richiedere urgente intervento, sono definiti dalla legge e strettamente individuati quanto a modalità attuative, anche per tali fattispecie la norma indica, comunque, la necessità di porre in essere tutte le modalità atte ad acquisire il consenso dell’interessato. Stante la volontarietà di norma del trattamento, si pongono le problematiche cui sopra accennavamo, data la necessità che chi acconsente al trattamento fornisca il consenso. La valutazione del consenso quale limite iniziale e finale di liceità dell’atto medico, al di fuori dei casi di trattamento sanitario obbligatorio contemplati dal nostro ordinamento giuridico ovvero ad eccezione dei casi nei quali possano legittimamente ravvedersi gli estremi della condizione di stato di necessità, in relazione al disposto dell’art. 54 del c.p., significa, innanzitutto, concentrare l’attenzione sulle caratteristiche, sui

requisiti, che tale consenso debba possedere, affinché ne risulti suffragata la validità. Secondo dottrina e giurisprudenza ormai consolidate, è da ritenersi valido il libero consenso erogato dal soggetto titolare del diritto alle cure, cosciente, debitamente informato, in specifico riferimento al trattamento di cui in causa, ciò che implica, ovviamente, una rinnovata acquisizione del consenso quando si appalesi la necessità di modificare l’indirizzo del trattamento.

Il consenso informato è ovviamente alla base di qualsiasi modalità di intervento anche in campo psichiatrico, e l’assenza di consenso in formato potrebbe rendere non giustificabile sul piano etico una qualsiasi forma di intervento. L’unica eccezione ammissibile potrebbe essere dovuta alla accertata incapacità del paziente a esprimere il proprio consenso. In ogni caso sarebbe preferibile che tale incapacità fosse formalmente riconosciuta da un tribunale. Oggi la definizione di consenso informato nei contesti operativi psichiatrici può essere vista sotto due punti di vista, che esprimono due diversi approcci nei confronti del problema etico in psichiatria. Entrambi questi approcci risentono naturalmente della forte ambiguità che da sempre si correla al concetto di consenso informato, se applicato al contesto dell’agire psichiatrico. Il primo approccio è focalizzato sul principio dell’autonomia della persona come elemento imprescindibile del percorso terapeutico e riabilitativo psichiatrico. Sappiamo che i fondamenti attuali, dal punto di vista medico-legale ed etico, per il consenso informato si basano sul principio dell’autonomia. Il principio dell’autonomia sostiene che tutte le persone sono detentrici di un insieme di diritti, tra i quali sta il principio di autodeterminarsi, anche per quel che

La fondamentale questione è se sia possibile ritenere la differente finalità dei due atti (quello medico e la lesione volontaria appunto) di per sé sola sufficiente a giustificare l’atto medico, e, pertanto, idonea a sostenere la liceità dell’atto, riconoscendo valore preminente alla finalità di agire per il bene del paziente congiunta alla prassi medica.

La conclusione, alla luce di quanto è emerso, e a cui perviene la dottrina ormai maggioritaria, è che il principio del consenso valido (e cioè informato) ai trattamenti sanitari sia stato inscritto dal legislatore costituente precipuamente nell’art. 32 Cost. e che le successive disposizioni di organi ministeriali non siano che esemplificazioni di tali principi (correttamente) inserentisi in tale solco.

riguarda la scelta di curarsi o meno. Del resto anche la Costituzione della Repubblica Italiana, nel titolo II, Rapporti Etico Sociali, lo ricorda all’articolo 32. Lo stesso Codice di deontologia medica nel suo impianto generale a proposito del consenso prevede principi ben chiari (da artt 33 a 39) riassumibili ne: il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato. Il consenso, in forma scritta nei casi in cui, per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica, si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente. Il procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico, che possano comportare grave rischio per l’incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento contro la volontà del paziente. Si è parla, quindi, di capacità di intendere e di volere. Nei trattamenti psichiatrici la valutazione della capacità di intendere e di volere del paziente è cruciale. Secondo la legge, un paziente psichiatrico è considerato capace di fornire un consenso valido se è in grado di comprendere la natura del trattamento e le sue conseguenze. Tuttavia, in situazioni in cui il paziente è incapace di esprimere un consenso valido, ad esempio a causa di una grave patologia mentale, il consenso può essere espresso dal tutore legale o dai familiari. In alcuni

casi, infatti, è necessario andare oltre il paziente stesso che non versa nelle condizioni di ben decidere, tipico il caso dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO). Una delle eccezioni al principio del consenso informato è, infatti, il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), regolato dalla Legge 180 del 1978 (nota come “Legge Basaglia”) e successivamente integrato nella Legge 833 del 1978. Il TSO può essere disposto solo in presenza di tre condizioni: se la persona soffre di un disturbo mentale grave che richiede interventi urgenti, se la persona rifiuta il trattamento e se non ci sono alternative al ricovero ospedaliero. Il TSO deve essere convalidato da un giudice tutelare e ha una durata limitata nel tempo, rinnovabile solo se necessario. Allora in questi casi la persona necessita di una tutela giuridica. Quando un paziente psichiatrico non è in grado di dare il proprio consenso, può essere nominato un amministratore di sostegno, un tutore o un curatore, a seconda del grado di incapacità. Questi soggetti hanno il compito di rappresentare il paziente nelle decisioni riguardanti il trattamento sanitario, sempre nel rispetto del miglior interesse del paziente. Tutto quanto appena richiamato, chiaramente, solleva inevitabilmente interrogativi e confronti che investono gli aspetti etici del consenso informato nei trattamenti psichiatrici. L’etica del consenso informato in psichiatria solleva questioni complesse legate alla debolezza dei pazienti e alla loro capacità di autodeterminazione. L’etica medica si basa su principi fondamentali come l’autonomia, la beneficenza, la non maleficenza e la giustizia. Nel contesto psichiatrico, questi principi devono essere applicati con particolare attenzione: a) autonomia: rispettare l’autonomia del paziente significa

garantire che egli possa prendere decisioni informate riguardo al proprio trattamento. Tuttavia, in psichiatria, alcuni pazienti potrebbero avere una capacità decisionale compromessa a causa della loro condizione mentale, il che rende il processo di consenso informato più complesso; b) beneficenza e non maleficenza: i professionisti della salute mentale devono sempre agire nel miglior interesse del paziente, bilanciando il beneficio del trattamento con i potenziali rischi. È fondamentale che i trattamenti proposti siano effettivamente finalizzati al miglioramento della salute mentale del paziente senza causare danni ingiustificati; c) giustizia: tutti i pazienti devono avere accesso a cure adeguate e rispettose, indipendentemente dalla loro condizione mentale. Il consenso informato deve essere garantito a tutti, con misure specifiche per coloro che presentano difficoltà cognitive o psichiatriche. Dall’analisi di questo scenario vengono fuori ulteriori aspetti, niente affatto trascurabili riguardanti l’autonomia e la protezione del paziente. L’autonomia del paziente è un principio cardine dell’etica medica. Tuttavia, in psichiatria, la protezione del paziente assume un’importanza particolare. I professionisti sanitari devono bilanciare il rispetto della volontà del paziente con la responsabilità di proteggerlo da decisioni potenzialmente dannose, considerando anche i possibili rischi per terzi.

A questo punto divengono fondamentali l’informazione e la comunicazione. Fornire informazioni chiare e comprensibili è una sfida in psichiatria, soprattutto quando il paziente presenta sintomi di disorientamento, paranoia o altre manifestazioni psicopatologiche che possono alterare la percezione della realtà. L’informazione deve essere adattata alle capa-

cità cognitive del paziente e, quando necessario, fornita anche ai familiari o al tutore. Riveste un ruolo fondamentale, in queste dinamiche, la fiducia. La costruzione di un rapporto di fiducia tra il paziente e il terapeuta è fondamentale per il processo di consenso informato in psichiatria. La fiducia consente al paziente di sentirsi al sicuro nel condividere le proprie preoccupazioni e di partecipare attivamente alle decisioni riguardanti il trattamento. Ciò comporta notevoli dilemmi etici, in alcuni casi può sorgere un conflitto tra il diritto del paziente a rifiutare il trattamento e la necessità di prevenire danni gravi. Questo dilemma etico richiede un’attenta riflessione da parte del team clinico, che deve considerare non solo i principi di autonomia e beneficenza, ma anche quelli di giustizia e non maleficenza, visti precedentemente. Traendo un minimo di conclusioni dalla panoramica testé attraversata si può affermare che il consenso informato nei trattamenti psichiatrici è un’area che richiede particolare attenzione sia dal punto di vista legale che etico. In Italia, il quadro normativo offre strumenti per tutelare i diritti dei pazienti, ma la complessità delle situazioni che si presentano richiede ai professionisti della salute mentale di agire con grande sensibilità e competenza. La chiave per gestire efficacemente il consenso informato in psichiatria risiede nella capacità di ascoltare, informare e coinvolgere il paziente nel processo decisionale, sempre nel rispetto della sua dignità e dei suoi diritti. Allo stesso tempo, è fondamentale che i medici e gli operatori sanitari siano ben preparati per affrontare i dilemmi etici che possono sorgere, garantendo che ogni decisione sia presa nell’interesse del paziente e nel pieno rispetto delle normative vigenti.

I requisiti di validità del consenso, ormai ampiamente acclarati dalla dottrina, consistono nella legittima autorizzazione del titolare del diritto (consenso personale) ovvero dei legali rappresentanti in caso di minori o interdetti, a seguito di adeguata informazione circa natura, vantaggi e probabili rischi di un’opzione terapeutica; si forma così il consenso “personale, libero, informato, immune da vizi”.

SÌ, I FIORI POSSONO NASCERE ANCHE DA UN TERRENO CALPESTATO

Intervista a Valeria, ideatrice del progetto @d_tales:

“L’arte può aiutare a sfatare il tabù della salute mentale”

Il disegno ormai è divenuto un linguaggio universale: in una società come la nostra, in cui la tecnologia ha preso in mano le nostre vite, dove i rapporti umani sono filtrati dagli schermi, il potere della rappresentazione diventa ancora più potente. Permette di rappresentare le nostre emozioni, le nostre fragilità, le nostre speranze.

Ed è proprio quello che sta facendo Valeria con il suo progetto @_d.tales: “nasce quasi per gioco”, racconta Valeria a Brain. “Inizialmente il progetto era di realizzare esclusivamente dei disegni che fossero l’illustrazione di ciò che provo, dei miei sentimenti (da qui il payoff, “illustrated feelings”). Con il passare del tempo però le persone hanno cominciato a chiedermi di illustrare anche i loro sentimenti, le loro foto-

grafie e i loro ricordi e così il progetto si è ampliato.”

Come nasce il tuo processo creativo?

Dipende dal tipo di illustrazione. Quando realizzo un disegno che nasce dalla mia creatività, il processo è in realtà molto semplice: questo tipo di illustrazioni sono spesso cose che immagino, situazioni che mi succedono realmente o sentimenti che provo in determinati contesti ed è quindi molto spontaneo trasmetterle in digitale. Cerco di riassumere concetti complessi e delicati come l’amore, la cura, la fragilità in illustrazioni colorate, semplici e quanto più possibili leggere. Quando invece mi chiedono un’illustrazione personalizzata c’è un ulteriore passo da dover compiere, che è quello dell’immedesimarsi nella persona

Illustrazione di @_d.tales.

che sta richiedendo il disegno. Spesso mi chiedono di realizzare un’illustrazione digitale partendo da foto e il sentimento da rappresentare varia a seconda della richiesta: mi capita spesso di ritrarre coppie nella loro quotidianità, famiglie ad eventi particolari quali matrimoni o compleanni, foto di bambini che sono ad oggi adulti e che vogliono conservare un ricordo in maniera particolare. Mi è capitato però anche di illustrare persone care che sono venute a mancare, e in quel caso riuscire ad illustrare

un sentimento di amore ed affetto, sempre con leggerezza, è ancora più delicato.

Ti ritrovi mai ad avere un’idea che non riesci a realizzare come vorresti? Come reagisci?

Mi capita spesso in realtà. L’essenzialità rischia di diventare banalità e il “less is more” sensato e forte non è così facile da ottenere. La prima reazione quando questo accade è quella del famoso “blocco creativo”; non sono più produttiva, non mi sento abbastanza brava, continuo

Questo tipo di illustrazioni sono spesso cose che immagino, situazioni che mi succedono realmente o sentimenti che provo in determinati contesti ed è quindi molto spontaneo trasmetterle in digitale.

Credo che i social siano uno strumento interessante, utile e potente per diversi fini comunicativi, ma bisogna saperli utilizzare nella maniera corretta e soprattutto, quando ci si sente troppo assorbiti da questo mondo patinato, fare un passo indietro e ricollegarsi col mondo reale.

a fare tentativi su tentativi senza riuscire a sbloccarmi. Credo però che questa sensazione sia parte naturale del processo di evoluzione creativa: a molti disegnatori spesso capita che il proprio gusto critico nel giudicare un disegno non sia allineato alle proprie competenze del momento. È una curva che cresce con diversi ritmi nel tempo quindi credo che l’importante sia esserne consapevoli e agire di conseguenza, magari cercando di esprimere il concetto voluto con gli strumenti a disposizione in quel momento.

Qual è il tuo rapporto con i social?

Di amore e odio, come credo quasi tutti. Credo che i social siano uno strumento interessante, utile e poten-

te per diversi fini comunicativi, ma bisogna saperli utilizzare nella maniera corretta e soprattutto, quando ci si sente troppo assorbiti da questo mondo patinato, fare un passo indietro e ricollegarsi col mondo reale. Soprattutto Instagram, che al contrario di altri social, comunica quasi totalmente per immagini, mi è sempre piaciuto e l’ho sempre utilizzato. Per D.tales in particolare mi aiuta a trovare nuove persone interessate a ciò che faccio, ed ovviamente questo genera una sensazione positiva perché ti senti apprezzato ed ascoltato quando vedi che ciò che pubblichi genera interesse. Al contrario è frustrante quando invece lavori molto ad un contenuto per poi avere un feedback scarso. In quei casi inizialmente ci rimango male, ma passa quasi subito perché se ho sentito la necessità di realizzare e pubblicare quel disegno è perché avevo bisogno di esprimere qualcosa in particolare e non mi aspetto che tutti ci si ritrovino o anche semplicemente siano allineati a ciò che provo in quel momento.

Senti mai il bisogno di staccare?

Ogni tanto è proprio una necessità quella di staccare. Capita soprattutto nei periodi di forte stress, che sia emotivo o “fisico”, dove sento che la mia produttività cala e in quei momenti è totalmente inutile forzare la mano. Allora mi prendo una pausa, per poter far sedimentare il “rumore” e tornare a disegnare con serenità. Molti miei disegni toccano però anche questo tema, proprio perché penso sia importante parlare di quanto sia importante rispettare i propri tempi e spazi emotivi.

Credi che i social per come sono oggi impattino molto su come percepiamo il nostro benessere psicofisico?

Sicuramente i social non mostrano quasi mai la realtà in maniera og-

Valeria “@_d.tales”.

gettiva. Questo genera un continuo confronto con gli altri che ci porta a pensare che la vita altrui sia sempre perfetta e meravigliosa quando chiaramente quello che vediamo è solo una fetta (e spesso editata) di quello che succede. Il consiglio in generale è quello di cercare di tenere a mente quanto più possibile che questo confronto è illusorio, per tornare ad avere il contatto con la realtà che ci permette di valutare oggettivamente il nostro stato di benessere.

Pensi che le notizie di questi ultimi mesi acutizzino la sensazione di impotenza di fronte al tema della guerra?

Quello che temo più che altro è che il continuo flusso di notizie negative (tra radio, televisione, social) generi un senso di abitudine, oltre che di chiara impotenza. Fa paura come certe notizie siano veramente terrificanti, ma ormai purtroppo così frequenti, che quasi non gli si dà il giusto peso, come se stessero accadendo in un’altra dimensione. Non ho una risposta al “e quindi cosa dovremmo fare?” ma sicuramente il tema della guerra è sempre qualcosa che lascia rabbia, impotenza e tristezza.

Come credi che l’arte possa contribuire alla consapevolezza e alla comprensione della Sindrome da Stress Post Traumatico nella società?

La Sindrome da Stress Post Traumatico è qualcosa che segna profondamente l’individuo. Credo che l’arte, grazie al suo linguaggio universale, possa aiutare ad avvicinarsi alla comprensione di quello che questa situazione significa. Tramite l’arte si riescono ad esprimere svariati concetti riassunti in una sola tela, un po’ come l’individuo che soffre di Sindrome da Stress Post Traumatico è avvolto da un vortice di sensazioni ed emozioni tutte insieme, che lo por-

tano a quella determinata situazione di disagio. Basti pensare per esempio a Guernica: con un solo quadro, gigantesco, Picasso è riuscito a ritrarre l’orrore della guerra in tutte le sue sfaccettature, trasmettendo le sensazioni di chi ha vissuto quell’evento in prima persona e permettendo a chi non lo ha fatto di immedesimarsi in quella situazione. L’arte ha questo potere, quello di farti vivere emozioni e sensazioni tramite immagini, suoni o sculture.

I fiori che crescono dalla terra calpestata sono di forte impatto: come è nata la tua idea e cosa hai voluto esprimere?

L’effetto che volevo dare era proprio quello di impatto, di trauma. L’impronta profonda sul terreno è un’allegoria per il trauma, in questo caso subito dal piccolo seme che ci stava sotto. Il fatto che da questa sia nato comunque un fiore vuole essere un messaggio di speranza: la Sindrome da Stress Post Traumatico è un disagio molto pesante, che può essere però affrontato con l’aiuto di professionisti, per permettere all’individuo di rifiorire dopo la tragedia.

Hai mai sperimentato delle reazioni inaspettate o intense alle tue illustrazioni, magari anche attraverso i social?

Mi è capitato di essere sorpresa da alcune reazioni rispetto a delle illustrazioni che ho pubblicato. Come dicevo prima mi capita molto spesso di illustrare ciò che provo, che siano sentimenti postivi o negativi. È capitato più di una volta che io pubblicassi un disegno “negativo”, che magari affrontava il tema dell’autostima o temi vicini ad esso, e le persone commentassero raccontando la loro esperienza, o mi scrivessero in privato per dirmi il loro punto di vista. Questo ovviamente mi fa molto piacere perché́ dietro le illustrazioni ci sono io,

Ogni tanto è proprio una necessità quella di staccare. Capita soprattutto nei periodi di forte stress, che sia emotivo o “fisico”, dove sento che la mia produttività cala e in quei momenti è totalmente inutile forzare la mano. Allora mi prendo una pausa, per poter far sedimentare il “rumore” e tornare a disegnare con serenità.

La Sindrome da Stress Post Traumatico è qualcosa che segna profondamente l’individuo. Credo che l’arte, grazie al suo linguaggio universale, possa aiutare ad avvicinarsi alla comprensione di quello che questa situazione significa.

una persona con giorni sì e giorni no come tutti. Capita anche che mi mandino dei video dove amici o famigliari ricevono in regalo un’illustrazione D.tales personalizzata: mi sorprende sempre e mi riempie il cuore di gioia quando vedo che manifestano commozione, felicità o divertimento!

In che modo in generale tuteli la tua salute mentale?

Essendo una persona dal carattere generalmente ansioso, quando sento che sto perdendo il controllo della mia situazione di serenità mentale, cerco di pensare in maniera il più possibile razionale. Questo non è per nulla facile se i fattori in gioco sono per me importanti, o parecchi tutti insieme o se non riesco a togliermi il pensiero. Le soluzioni che solitamente funzionano sono diverse: come dicevo il cercare di razionalizzare ansie e paure per affrontarle in maniera logica e senza farmi sopraffare dall’emotività, ma anche più semplicemente staccare (se possibile) per un po’ da ciò che mi genera stress mentale concentrandomi su altro, come lo sport, le attività all’aria aperta o altri hobby che coltivo oltre al disegno.

Come si riflette il tuo stato psicologico sul tuo lavoro?

Il mio stato psicologico influisce molto sul mio lavoro. Quando mi sento “bloccata”, e sento il bisogno di staccare, percepisco che la mia condizione migliora se mi dedico ad altre attività che mi “distraggono”, ma che in realtà contribuiscono ad aumentare e migliorare il flusso di idee e creatività. Il mio lavoro, così come tutti i lavori creativi, difficilmente è a comando; se il mio stato psicologico del momento non è ideale per lavorare cerco di lasciar passare il momento e riprendere non appena ritrovo l’equilibrio per esprimere al meglio i concetti in grafica.

Al contrario quando invece sono felice, piena di energie o comunque rilassata mi lascio semplicemente guidare da ciò che provo in quel momento.

Quali sono i tuoi progetti futuri e cosa ti auguri per te e per la nostra società?

Mi auguro che si riesca a prendere consapevolezza, per davvero, di quello che stiamo vivendo. Non è mai troppo tardi per agire: non è mai troppo tardi per fermare una guerra, non è mai troppo tardi per salvaguardare il pianeta, non è mai troppo tardi per rendersi conto della fortuna che abbiamo ad oggi con gli strumenti in nostro possesso; dobbiamo riuscire ad utilizzarli nel modo giusto. Per quanto riguarda il mio piccolo mi auguro, sempre tramite D.tales, di riuscire a sensibilizzare su tematiche importanti e delicate, cos ì come mi avete dato la possibilità di fare oggi. Chiaramente oltre a questo mi piacerebbe in generale rafforzare ancora maggiormente quello che è il progetto D.tales, magari avviando anche ulteriori collaborazioni e chissà, magari un giorno addirittura un punto vendita fisico. L’idea di avere uno spazio tutto mio dove poter esprimere al meglio le mie illustrazioni sarebbe un sogno!

Con queste riflessioni Valeria si unisce alla squadra di #Parliamone, trasformando così una campagna di sensibilizzazione in un motto da ripetere quando tutto sembra non avere una soluzione.

Per chi vive con una patologia mentale, la sensazione di solitudine e abbandono può essere opprimente, dunque #Parliamone diventa anche una via d’uscita per ricordarci che ricercare il benessere è un diritto di ogni persona.

L’INTERFACCIA NEURALE LA REALTÀ SUPERA

L’IMMAGINAZIONE

Ecco perché

e

come la Brain-computer interface potrà essere il futuro dell’interazione

di Federico Piccinni

L’interfaccia neurale nota come BCI, Brain-computer interface, potrà mai diventare il futuro dell’interazione tra uomo e computer? Nell’immaginario comune - che spazia dal cinema alla letteratura - la fantascienza ha descritto ampiamente l’interazione tra macchina e uomo da molti anni. Un esempio sono personaggi che abbandonano la loro umanità per diventare degli ibridi capaci di controllare computer con la mente e che si ritrovano provvisti di arti e organi artificiali in grado di andare oltre le capacità fisiche terrene. In questo momento siamo ben lontani da tale scenario, ma sicuramente negli ultimi anni si sono fatti grandi passi avanti, sopratutto in aiuto di persone con disabilità.

Ma di cosa stiamo parlando nello specifico? L’interfaccia neurale consiste nell’applicazione di elet -

trodi a contatto con il tessuto nervoso che permettono la registrazione dei segnali elettrici celebrali e la conseguente interpretazione. L’utilizzo va dal controllo di dispositivi elettronici all’ambito clinico per la terapia di varie patologie. Parliamo dunque di un campo ampio di applicazione, tanto che molte start-up stanno implementando lo sviluppo di nuove tecnologie come Synchron, che tra i suoi investitori vanta Bill Gates e Jeff Bezos. Una delle principali innovazioni portate avanti da Synchron riguardano l’impianto mini-invasivo Stentrode, stent endovascolare metallico ricoperto da elettrodi in platino progettato per creare un bypass digitale tra cervello e dispositivi di assistenza allo scopo di migliorare lo stile di vita dei pazienti paralizzati. Si tratta di un impianto considerato altamente sicuro e con minimi effetti indesiderati. In Au -

stralia sono già stati effettuati trial sugli esseri umani, e al momento non si sono registrati effetti avversi. I pazienti interessati sono anzi riusciti a controllare gli impulsi attraverso un computer e sono stati in grado di comunicare.

Esempio delle potenzialità di questo sistema è quello che si può riscontrare in un paziente affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica che, dopo l’operazione, è stato capace di controllare un iPad, potendo così comunicare nonostante la patologia.

Altra azienda che ha fatto parlare di sé è Neuralink dell’impren -

ditore, proprietario di Tesla e di X, Elon Musk. L’azienda, infatti, a maggio 2023 ha avuto da parte dell’FDA, la possibilità ad effettuare i primi studi clinici sull’uomo.

Anche in questo caso lo sviluppo di tecnologie per persone disabili è il principale focus dell’azienda, ma Musk fa sapere tramite X (ex Twitter) che in un futuro non troppo lontano saranno possibili integrazioni sempre più performanti, anche con l’intelligenza artificiale. E così quel futuro che oggi ci appare lontanissimo, tanto minuziosamente descritto dai film di fantascienza, sarà sempre più reale.

L’interfaccia neurale consiste nell’applicazione di elettrodi a contatto con il tessuto nervoso che permettono la registrazione dei segnali elettrici celebrali e la conseguente interpretazione.

L’ANUPTAFOBIA, SEMPRE PIÙ SINGLE A RISCHIO SINDROME “BRIDGET JONES”

La

neurologa:

“Il rischio oggi è che venga sottodiagnosticata”

di Alessia Vincenti

In Italia oggi i single (il 33,2% della popolazione) superano le famiglie (ferme al 31,2%), secondo l’ultima rilevazione Istat, ma solo per un terzo degli italiani essere single è davvero una scelta, contro oltre il 60% che dichiara di essere condizionato da altri fattori, in primis lo stress e l’insicurezza lavorativa, come rivela il 35mo Rapporto Italia di Eurispes. La scelta di essere single dunque «è, in sempre più casi, il risultato di una ricerca spasmodica del”’partner perfetto” che si traduce puntualmente in un nulla di fatto, poiché impossibile’». Così Maria Cristina Gori, neurologa e psicoterapeuta, nel nuovo corso di formazione realizzato per Consulcesi dal titolo Anuptafobia: la paura di rimanere soli, altrimenti conosciuta come sindrome di Bridget Jones. Come spiega l’esperta all’AdnKronos, «la crisi economica, i disa -

stri naturali, la pandemia, le guerre e la crisi climatica, stanno mettendo alla prova il nostro equilibrio psichico, alimentando in sempre più persone stati di ansia, depressione», oltre che a «paure per molti aspetti ancora fortemente sottovalutate come quella della solitudine, della morte e della malattia. Si tende così - aggiunge Gori - a trovare rifugio e consolazione nella relazione romantica, o meglio nella ricerca spasmodica di questa, finendo col passare da una relazione ad un’altra senza mai sentirsi realmente “interi”, come la storia della “mezza mela” erroneamente ci insegna».

Se è umano desiderare di trovare un partner con cui realizzare un progetto di vita insieme, la condizione di “disaccoppiati” - si legge in una nota - può diventare una vera e propria paura, al limite dell’ossessione, l’anuptafobia appunto (dal latino “anupta”, ossia “senza nozze”). Co -

munemente nota come la sindrome di Bridget Jones - nome della protagonista di una serie di romanzi - è una paura intensa e irrazionale che colpisce tendenzialmente, più le donne che gli uomini, specialmente fra i 30 e i 40 anni poiché «legata principalmente a quel retaggio culturale secondo cui le donne in questa età dovrebbero trovare marito e metter su famiglia». Ma anche, illustra Gori, «abbandoni, tradimenti, rifiuti… possono gravare sul senso di inadeguatezza che conduce all’anuptafobia».

Nonostante la sua rilevanza clinica, l’anuptafobia - che può causare anche seri problemi di salute mentale, attacchi di panico e depressione - rimane ancora sottodiagnosticata, a volte “scambiata” erroneamente

per dipendenza affettiva, altre per ansia, depressione, ossessioni e ruminazioni. «Per questo - sottolinea l’esperta - è importante formare non solo gli specialisti ma anche medici di medicina generale e gli altri professionisti della salute su campanelli d’allarme e sintomi psichici. Non necessariamente fornire aiuto a chi manifesta sofferenza psichica - prosegue - deve tradursi nell’indirizzare verso lo psicoterapeuta, non solo almeno e ovviamente dipende dalla gravità. Ma a volte è proprio la solitudine e l’isolamento a causare malessere, e anche semplicemente suggerire attività come la partecipazione a circoli, un nuovo o il completamento di un percorso formativo, da parte dei medici di famiglia potrebbe fare la differenza».

Se è umano desiderare di trovare un partner con cui realizzare un progetto di vita insieme, la condizione di “disaccoppiati” può diventare una vera e propria paura, al limite dell’ossessione.

Scena tratta dal film “Il diario di Bridget Jones” (2001).

IN ITALIA LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE SECONDA CAUSA DI MORTALITÀ

Il 23 novembre a Roma il primo Congresso nazionale su Salute

Mentale e Neuroscienze

Il 23 novembre si è tenuto, presso il Centro Congressi Roma Eventi, il primo Congresso nazionale su Salute Mentale e Neuroscienze intitolato “Innovazione Terapeutica in Neurologia e Psichiatria attraverso la Neuromodulazione Non-Invasiva”. L’evento ha rappresentato una occasione unica di aggiornamento per i professionisti del settore medico-scientifico interessati alle più recenti innovazioni in neurologia e psichiatria. In un contesto storico in cui la salute mentale e il benessere del cervello sono riconosciuti come elementi fondamentali per la qualità della vita, il congresso ha offerto un’opportunità di confronto tra esperti nazionali e internazionali impegnati nella gestione di patologie psichiatriche e neurologiche e di condizioni di disagio psicologico.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le patologie del sistema nervoso sono responsabili del

10% del carico globale di malattia; un dato destinato a crescere con l’invecchiamento della popolazione, in particolare nei Paesi industrializzati. In Italia, le malattie neurologiche sono la principale causa di disabilità e la seconda causa di mortalità. A fronte di oltre 1,2 milioni di persone affette da Alzheimer e circa 400.000 pazienti con morbo di Parkinson, si registrano anche preoccupanti tendenze in ambito psicologico e psichiatrico: oltre 3 milioni di italiani soffrono di depressione, mentre disturbi d’ansia e attacchi di panico colpiscono il 5% della popolazione. Circa 3 milioni di persone, soprattutto adolescenti e giovani adulti, convivono con disturbi del comportamento alimentare. Questi dati sottolineano l’urgenza di strategie terapeutiche e preventive sempre più avanzate e personalizzate. Il congresso affronterà queste sfide, esplorando soluzioni innovative per rispondere all’aumento delle malat-

tie neurodegenerative e dei disturbi mentali.

“È fondamentale considerare la salute mentale e neurologica come un continuum - afferma Graziella Madeo, neurologa e direttrice dell’Unità di Neuromodulazione e Ricerca Clinica di Brain&Care Group e responsabile scientifico del congresso -. Le malattie neurologiche sono una delle principali sfide globali in termini di salute pubblica, influendo profondamente sulla qualità della vita e sui sistemi sanitari. È tempo di affrontare queste sfide con nuove strategie e strumenti innovativi”. L’evento è organizzato da Brain&Care Rese-

arch Foundation in collaborazione con Letscom3 ed è patrocinato da numerose istituzioni accademiche e professionali quali l’Università degli Studi di Ferrara, l’Università di Verona, l’Ordine dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano, la Società Italiana di Psicologia e Neuroscienze Cognitive, il Consiglio Nazionale degli Psicologi, l’Assessorato alle Politiche Sociali e alla Salute, e l’Ordine dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione. Il programma della giornata prevede una sessione dedicata alle ultime innovazioni nella

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le patologie del sistema nervoso sono responsabili del 10% del carico globale di malattia; un dato destinato a crescere con l’invecchiamento della popolazione, in particolare nei Paesi industrializzati.

“È fondamentale considerare la salute mentale e neurologica come un continuumafferma Graziella Madeo, neurologa e direttrice dell’Unità di Neuromodulazione e Ricerca Clinica di Brain&Care Group e responsabile scientifico del congresso -. Le malattie neurologiche sono una delle principali sfide globali in termini di salute pubblica, influendo profondamente sulla qualità della vita e sui sistemi sanitari”.

neuromodulazione non-invasiva, con particolare attenzione alla sicurezza nei trattamenti per bambini e adolescenti con disturbi del neurosviluppo e con un focus sulle prospettive future della TMS e di altre tecniche di neuromodulazione. Numerosi studi scientifici e clinici dimostrano l’efficacia della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) nel trattamento di numerose patologie psichiatriche e neurologiche, specialmente quando integrata in percorsi terapeutici multidisciplinari.

La personalizzazione dei trattamenti sarà un altro tema centrale con un focus sugli approcci terapeutici basati sui profili neurobiologici dei pazienti per una gestione ottimale dei sintomi neuropsichiatrici. Il pomeriggio sarà dedicato all’integrazione delle tecniche di neuromodulazione nella pratica clinica, con un focus su patologie complesse come il Long COVID e i disturbi alimentari, nonché sull’impiego della realtà virtuale nei trattamenti terapeutici. Il congresso si concluderà con una

Innovative Perspective Lecture, che offrirà una visione sul futuro delle tecnologie digitali in ambito terapeutico, evidenziando le sfide e le opportunità in un panorama in continua evoluzione. Un momento chiave dell’evento sarà la presentazione della Italian Society of Non-Invasive Neuromodulation and Neurotechnology (ISNeT), una nuova realtà scientifica che nasce per promuovere la collaborazione interdisciplinare e lo sviluppo di tecniche avanzate di neuromodulazione non-invasiva e neurotecnologie. “ISNeT rappresenta una rete di condivisione e scambio di conoscenze tra i maggiori esperti in materia, un network di professionisti altamente qualificati che condividono un interesse comune per l’innovazione nella neuromodulazione non-invasiva e nelle neurotecnologie”, spiega Giacomo Koch, professore ordinario di Fisiologia Università di Ferrara, direttore Laboratorio di Neuropsicofisiologia Sperimentale della Fondazione Santa Lucia di Roma e coordinatore scientifico del congresso.

LA SEDUZIONE DEL SILENZIO: ECCO IL SILENT READING PARTY

Ua nuova oasi di benessere e sano intrattenimento letterario

di Iulia Iemma

Il silenzio è un elemento sempre più potente nella nostra vita quotidiana, anche se da molti spesso sottovalutato o, peggio, negato.

L’assenza di qualsivoglia suono può disorientare e in alcuni casi persino spaventare, ma qualcosa sta cambiando, visto che il desiderio di tranquillità è diventato negli ultimi tempi un’esigenza sempre più pressante. In un mondo di grandi sollecitazioni esterne il silenzio è un antidoto naturale allo stress, ci permette di rallentare, di respirare profondamente e di rilassarci. È come una pausa rigenerante per la mente e il corpo.

Allora sempre più spesso ci si industria per accedere a nuove frontiere di benessere, allontanandosi dalla frenesia e dall’interazione digitale ed è in queste pieghe che nasce un fenomeno inaspettato e affascinante che sta prendendo spazi sempre maggiori: il Silent Reading Party.

Un evento sociale unico che com-

bina l’intimità della lettura solitaria con la presenza silenziosa di altri appassionati di libri, offrendo un rifugio tranquillo dalla tumultuosa vita moderna. Ma cos’è esattamente un Silent Reading Party e perché sta conquistando cuori e menti in tutto il mondo? Immaginate di entrare in una stanza accogliente, circondati da persone immerse nella lettura, il leggero fruscio delle pagine sfogliate e una quiete rilassante che avvolge l’ambiente. Ecco il Silent Reading Party, un’occasione per celebrare l’arte della lettura in silenzio, permettendo ai partecipanti di godere di un’atmosfera condivisa senza la necessità di conversare con il proprio vicino.

La celerità con cui i Silent Reading Party si stanno diffondendo, guadagnando popolarità, è impressionante e accade a tutte le latitudini. È in atto una vera e propria conquista del fenomeno da parte di un numero sempre maggiore di persone. L’idea è semplice

e, al contempo, potente e geniale: spegnere i dispositivi elettronici (cellulari, pc), riunirsi in uno spazio condiviso per leggere insieme e in silenzio, creando un’atmosfera corale di calma e concentrazione. Non ci sono discorsi da fare, - anche se non è detto che dopo non ci si possa intrattenere e, quindi, cogliere l’occasione di nuove conoscenze – nemmeno conversazioni ad alta voce o presentazioni o interazioni sociali rumorose, niente musica assordante, solo il piacere della lettura con il suono gradevole della carta, dei fogli che girano e un’atmosfera quasi contemplativa.

Questi eventi possono svolgersi - e sta accadendo - in vari luoghi, dai bar e caffetterie alle biblioteche, dalle case private ai parchi o spazi pubblici o ancora agli spazi culturali. C’è chi, nel nord Europa, lo ha organizzato addirittura in una chiesa sconsacrata, creando un’atmosfera intima e tranquilla, potendo portare con sé anche coperte,

comodi cuscini, usando la luce soffusa delle candele o di lampade, creando insomma un ambiente rilassante e confortevole.

L’idea di leggere in compagnia, ma in silenzio, può sembrare controcorrente o, quanto meno, poco intuitiva, ma è proprio questa combinazione che rende il Silent Reading Party così originale e per certi versi rivoluzionario.

Il concetto di Silent Reading Party è nato come una risposta alla frenesia della vita moderna e alla costante distrazione digitale. In un’era in cui siamo sempre iperconnessi e spesso sovraccarichi di stimoli con una infodemia fuori controllo, il Silent Reading Party offre una pausa dalla velocità della comunicazione e dall’interazione sociale che nella stragrande maggioranza dei casi è obbligata. Questa bolla di tempo condiviso consente ai partecipanti di immergersi completamente nei loro libri, godendo di una compagnia silenziosa, una lettura senza interruzioni, senza

L’assenza di qualsivoglia suono può disorientare e in alcuni casi persino spaventare, ma qualcosa sta cambiando, visto che il desiderio di tranquillità è diventato negli ultimi tempi un’esigenza sempre più pressante.

Ma cos’è esattamente un Silent Reading Party e perché sta conquistando cuori e menti in tutto il mondo?

Immaginate di entrare in una stanza accogliente, circondati da persone immerse nella lettura, il leggero fruscio delle pagine sfogliate e una quiete rilassante che avvolge l’ambiente.

notifiche o schermi luminosi. Il fenomeno nasce negli Stati Uniti come risposta all’alienazione causata dagli smartphone. Uno dei primi eventi di questo genere è stato organizzato nel 2009 a Seattle da Christopher Frizzelle, editore di The Stranger, un settimanale alternativo. Da allora, il concetto si è diffuso in diverse città del mondo, tra cui New York, Londra, e Tokyo, ognuna delle quali ha adattato l’evento al proprio contesto culturale e alle proprie preferenze locali. L’Italia sta dando la sua risposta, i primi eventi a Napoli, Bari, Sulmona, Roma e altre città. La diffusione di questi incontri in diversi centri e con altre culture dimostra la loro versatilità e il loro appeal universale. Ogni Silent Reading Party è unico, influenzato a volte anche dal luogo, dalla comunità e dai libri che i partecipanti scelgono di portare. Tuttavia, tutti condividono lo stesso spirito di pace e di connessione attraverso la lettura.

Partecipare a un Silent Reading Party è semplice e accessibile a tutti. Di solito, gli organizzatori annunciano l’evento sui social media o attraverso newsletter dedicate. I partecipanti sono invitati a portare un libro di loro scelta o, dove possibile, ad acquistarne uno in loco per poi trovare un posto comodo dove sedersi. Alcuni eventi forniscono bevande e snack, creando un ambiente ancora più accogliente. I partecipanti si siedono insieme, ciascuno con il proprio libro preferito in un’atmosfera soffusa. Non c’è nemmeno l’obbligo di leggere; chiunque può partecipare anche solo per godersi l’atmosfera tranquilla. Il silenzio è la regola, e questo crea un senso di comunità e condivisione tra gli amanti della lettura.

Non ci sono regole rigide, ma chiaramente la presenza di alcune linee guida comuni che includono lo spegnere o silenziare i dispositivi elettronici, ri-

spettare il silenzio altrui, essere pronti a immergersi nella lettura per un periodo di tempo che è lasciato agli organizzatori stabilire e che può variare da una alle tre ore. Il tutto con conseguenti e indiscutibili benefici che possono trarsi e che vanno al di là di una semplice forma di diversa socializzazione. Alcuni vantaggi, come confermato da esperti del settore, sono ad esempio il miglioramento della concentrazione e della comprensione. La lettura in un ambiente silenzioso e privo di distrazioni favorisce una maggiore concentrazione e una migliore comprensione del testo. Questo ambiente aiuta a immergersi profondamente nel libro, facilitando un’esperienza di lettura più ricca e gratificante. Indiscutibile anche la riduzione dello stress. Numerosi studi hanno dimostrato che la lettura

è un’attività rilassante che può ridurre significativamente i livelli di tensione. Partecipare a un Silent Reading Party amplifica questo effetto, offrendo un ambiente calmo e accogliente. Non trascurabile la connessione comunitaria. Nonostante la mancanza di conversazione, i partecipanti ai Silent Reading Party sviluppano un forte senso di appartenenza. Condividere lo spazio con altri amanti della lettura crea un legame basato su interessi comuni e su un’esperienza collettiva di tranquillità. La pausa digitale, infine; in un’epoca di continua connessione digitale, questi eventi offrono una preziosa opportunità per disconnettersi dai dispositivi elettronici e riconnettersi con la dimensione tangibile e intima dei libri.

Non c’è dubbio che il Silent Reading Party rappresenti un fenomeno

in crescita e un’evoluzione delle tradizionali forme di socializzazione, combinando la solitudine contemplativa della lettura con l’aspetto comunitario della condivisione di uno spazio. In un’epoca dominata dal web e dalla comunicazione frenetica, come si diceva poc’anzi, stanchi di essere costantemente bombardati da informazioni e distrazioni, eventi di questo tipo offrono un rifugio di pace e riflessione. Non solo, ma costituiscono occasioni virtuose per chi la lettura vuole proprio comprenderla; sempre più persone, infatti, stanno scoprendo, attraverso un primo approccio curioso, lo stesso valore dei libri. E se si guarda ai numeri del mercato editoriale italiano la cosa non può che essere vista con grande favore. Infatti, nonostante i numeri in alcuni casi facciano impensierire, va detto che c’è una forma di resilienza. Da alcuni dati presi dal web “la percentuale di persone che ha letto almeno un libro per piacere, ossia al di fuori di contesti quali scuola e lavoro, è calata dell’1% passando dal 40,85 al 39,1% nel 2022. La media si assesta sui quattro libri l’anno. E mentre i lettori sono sempre meno, l’editoria di romanzi o saggistica, nel 2022, valeva circa 1.670 miliardi di euro, con un calo del 2,3% rispetto al 2021. Negli ultimi anni della pandemia, pare che gli italiani abbiano comprato, secondo stime ISTAT, 13 milioni di libri in più. Nel 2023, ad esempio, le vendite ammontavano a 1697 miliardi di euro, con una crescita dello 0,8% rispetto al 2022. Le librerie fisiche restano le preferite dai consumatori. Gli acquisti online, infatti, si sono ridotti del 41,5% e il 14% dei libri in commercio oggi è autopubblicato” (fonte Adnkronos)

Se sei un amante dei libri, quindi, in cerca di un modo nuovo e rilassante per trascorrere il tempo, un Silent Reading Party potrebbe essere l’esperienza perfetta per te.

Ecco il Silent Reading Party, un’occasione per celebrare l’arte della lettura in silenzio, permettendo ai partecipanti di godere di un’atmosfera condivisa senza la necessità di conversare con il proprio vicino.

COSA SIGNIFICA GENTILEZZA? OSSESSIONE E FRAGILITÀ PER LANTHIMOS

La

ricerca dell’approvazione, tema principale

di quest’ultima opera, è sempre presente nella filmografia del regista

Dopo il grande successo di “Povere Creature!” il re -

gista greco Yorgos Lanthimos torna al cinema con “Kinds of Kindness”, una pellicola che sembra fare l’occhiolino alle sue prime opere.

La ricerca dell’approvazione, tema principale di quest’ultima opera, è sempre presente nella filmografia di Lanthimos: che si tratti di compiacere un genitore severo o di trovare l’anima gemella, oppure ancora di guadagnarsi il favore di una sorta di divinità.

Una ricerca, questa, che scende nella profondità dell’animo umano spesso con violenza, dolore, talvolta accarezzando la morte, il tutto condito da una sana dose di ironia grottesca.

In “Kinds of Kindness” Lanthimos racconta tre episodi con R.M.F. (un personaggio quasi invisibile) come file rouge.

La prima storia vede come protagonista Robert, un uomo con una vita apparentemente perfetta: una moglie affettuosa che gli prepara la spremuta per colazione, una casa piena di oggetti preziosi come la racchetta di McEnroe e il casco di Senna, un buon lavoro.

Questa vita perfetta è manovrata in ogni singolo dettaglio dal suo capo, che prevede persino le ore di sonno e i chili che Robert deve prendere.

Il buon Robert sembra sguazzare felice in questo mare di regole finché non gli viene imposto di uccidere un uomo (R.M.F.).

Segue poi il racconto del matrimonio di Liz e Daniel, una coppia che si ritrova (grazie all’intervento di R.M.F.) dopo la temporanea scomparsa di Liz in un naufragio. Al ritorno dell’amata moglie, la depressione in cui Daniel era sprofondato viene rapidamente sostitu -

ita dal sospetto che Liz non sia la vera Liz a causa di alcuni dettagli tranquillamente giustificabili ma che agli occhi di Daniel sembrano incomprensibili.

Inizia così una febbrile rincorsa al compiacimento da parte di Liz, che crede di dover soddisfare ogni insensata richiesta di Daniel.

L’ultima storia segue la missione di Emily e Andrew, due adepti di una setta, alla ricerca del loro nuovo messia.

Le indicazioni sono chiare: una struttura fisica ben definita, una gemella morta e la capacità di riportare alla vita.

Le prove delle candidate di Emily vengono fatte nell’obitorio (sul cadavere di R.M.F.) ma non danno risultati.

La frustrazione inizia a farsi sentire: le regole ferree come bere solo l’acqua arricchita dalle lacrime dei guru o avere rapporti sessuali esclusivamente con i santoni, la mancanza della famiglia abbandonata diventano per Emily il motore ossessivo della ricerca di questa guida spirituale.

Lanthimos riesce a raffigurare tutti i livelli dei personaggi dal più superficiale al più profondo: ne emergono fragilità, preoccupazioni e ossessioni insite nell’essere umano.

Mentre i personaggi sono concentrati nel raggiungimento del proprio obiettivo, rapiscono gli spettatori più di quanto essi vogliano ammettere, forse perché seppur non volendo il processo di immedesimazione coglie nel segno.

Cosa significa quindi quella gentilezza, o meglio la benevolenza del titolo? È solo una piacevole assonanza che nulla ha da spartire con il vero significato del film? Oppure si tratta una ricer-

ca spasmodica dei protagonisti, che ricercano ripetutamente il favore di qualcuno ottenendo solo disprezzo? Tre storie legate da un labile filo conduttore, ma che raccontano diversi spaccati di umanità che non possono lasciare indifferenti.

D’altronde Lanthimos non è nuovo alla ricerca dell’elemento capace di sconvolgere lo spettatore: che si parli di morte, di amore o di sesso, temi sempre centrali nella sua poetica, la visione dei suoi film sarà sempre un viaggio difficile da comprendere ma certamente indimenticabile.

La ricerca dell’approvazione, tema principale di quest’ultima opera, è sempre presente nella filmografia di Lanthimos: che si tratti di compiacere un genitore severo o di trovare l’anima gemella, oppure ancora di guadagnarsi il favore di una sorta di divinità.

INSIDE OUT 2: ANSIA E ATTACCHI DI PANICO CON GLI OCCHI DELLA DISNEY

Anche in questa seconda pellicola emerge la necessità di spiegare le emozioni in modo chiaro e semplice ai più piccoli

Dopo quasi dieci anni di attesa, tornano al cinema la piccola Riley e tutte le sue emozioni con “Inside Out 2”, il nuovo lungometraggio d’animazione prodotto da Disney Pixar e diretto da Kelsey Mann.

Con l’ultima pellicola avevamo lasciato Riley nella nuova casa, dopo che nella sua testa tutte le emozioni primarie, in particolare Gioia e Tristezza, avevano compreso l’importanza di condividere i ricordi della bambina.

Oggi Riley ha 13 anni ed è pronta a lasciare le scuole medie per il liceo, l’hockey va alla grande e con le sue migliori amiche si prepara a partecipare ad un campo estivo che potrebbe valerle l’ammissione nella nuova squadra del liceo.

Gioia e tutte le altre emozioni sono molto fiere della loro bambina, che negli anni ha formato quello che chiamano “Senso di sé”, ovvero la base della sua personalità partendo dai suoi ricordi,

tutti felici ovviamente con lo zampino di Gioia.

La mattina della partenza per il campo estivo però, la mente di Riley si sveglia sottosopra a causa dell’arrivo della pubertà e con essa una nuova gamma di emozioni: Ansia, Invidia, Imbarazzo ed Ennui (Noia).

L’equilibro che era stato faticosamente raggiunto viene sconvolto dagli schemi di Ansia, che progetta di far entrare Riley in squadra grazie alla pianificazione costante e al controllo di tutti gli scenari possibili che Riley potrebbe incontrare.

Con le vecchie emozioni che lasciano il quarter generale, la mente di Riley è nelle mani di Ansia, che come il migliore dei cattivi, anche se inconsapevolmente, tesse la sua ragnatela intorno alla mente della ragazzina portandola a dubitare di tutto e di tutti, inclusa sé stessa.

La storia si snoda quindi intorno alla ricerca disperata del “Senso di sé” originario che Ansia ha disperso, con le

vecchie emozioni che devono affrontare un viaggio nella mente in subbuglio, e alla spasmodica ricerca di approvazione di Riley, la cui vita viene manipolata da Ansia.

Tutte le sue vecchie convinzioni, che costituivano il suo “Senso si sé” (Sono una brava persona, sono una brava amica, sono una brava figlia), vengono sostituite dai ricordi provocati da Ansia, e quindi “Se vincerò la partita i miei genitori saranno fieri di me” oppure “Se entrerò nella squadra non rimarrò da sola”.

Non si tratta più di consapevolezze, ma di insicurezze, di condizioni che lei reputa necessarie alla felicità.

Anche in questa seconda pellicola emerge la necessità di spiegare le emozioni in modo chiaro e semplice, così che anche i più piccoli possano vedere rappresentate le loro sensazioni e le loro fragilità, senza mai lasciare da parte il divertimento.

Introdurli a un’emozione come l’ansia, agli attacchi di panico, vederli rappresentati sullo schermo come mai prima d’ora è certamente un grande traguardo.

Un’unica amarezza però rimane sulla fine: era davvero necessario rappresentare Ansia come un cattivo?

Chiaramente per Ansia è fondamentale programmare ogni singola azione per escludere tutti gli scenari catastrofici, ma fare di lei un vero e proprio villain potrebbe essere rischioso per un bambino.

Le musiche, i colori, le inquadrature ricordano in pieno il supercattivo dei cine-comics che vuole attuare il suo piano di conquista del mondo.

Nonostante la riappacificazione finale e la creazione di un “Senso di Sé” più complesso e sfaccettato adatto ad una persona più adulta, un dubbio rimane: continuare a fare dell’ansia un aspetto negativo non significa fare un passo indietro?

La consapevolezza di ascoltare l’ansia è qualcosa che la nostra società sta lentamente guadagnando e concludere una storia destinata ai più piccoli spiegando che l’ansia esiste ma che dobbiamo imparare metterla in un angolo remoto della nostra mente e utilizzare la gioia per calmarla è quantomeno riduttivo.

Un vero peccato e un’occasione mancata visto l’enorme successo che continua ad avere la pellicola: a questo punto non rimane che sperare in un terzo capitolo finalmente all’altezza.

Dopo quasi dieci anni di attesa, tornano al cinema la piccola Riley e tutte le sue emozioni con “Inside Out 2”, il nuovo lungometraggio d’animazione prodotto da Disney Pixar e diretto da Kelsey Mann.

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