Brain. Giugno e Luglio 2024.

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NEET UNA MANO DALL’INTELLIGENZA

ARTIFICIALE

Non studiano, non lavorano e sono demotivati.

L’IA può dare qualche soluzione

I giovani d’oggi

alla ricerca di una identità

Terrorismo e disturbo

post-traumatico da stress

Cosmeticoressia

Un’ossessione delle giovanissime

Con i contributi di Cattolico, Cuomo, Fagiolini, Koukouna, Necci, Pardossi, Piccinni, Pierini, Pinzi, Tundo.

Libri fuori dal tempo e dalle mode

Giuseppe Quaranta

LA SINDROME DI RÆBENSON

Finalista al Premio Calvino 2023

Un esordio coinvolgente e perturbante tra Borges e Labatut

“L’enigma della sindrome di Ræbenson ci consente di avvicinare alcuni dei temi e dei concetti più inattingibili e misteriosi dell’esistenza: l’identità e i confini dell’io, la definizione di malattia mentale e quella di salute, il tema della morte e quello dell’invecchiamento, lo statuto della mente, della memoria e della realtà.

Ed è proprio in questa possibilità, offerta da Quaranta con una poderosa forza lirica e suggestiva, che risiede uno degli aspetti più straordinari del libro”.

Chiara D’Ippolito – L’Indice dei libri del mese

“Giuseppe Quaranta ha il merito di innestare la ‘vertigine’ metafisico-apocalittica di Sebald nel racconto preciso e concretissimo di complicate relazioni sentimentali, in un universo narrativo affollato di personaggi, e micronarrazioni”.

Filippo La Porta – Robinson La Repubblica

“Un viaggio iniziatico nel possibile parossismo di una degenerazione fisica e mentale. E la ricchezza - anche linguistica - del romanzo di Quaranta trova la sua limpida giustificazione in questo viaggio, che raffigura come in un minuzioso - soffocante - trattato, l’atroce senso delle cose inumane”.

Sergio Pent – TuttoLibri, La Stampa

“Un esordio colto, estetico, dal fascino novecentesco”.

Nadeesha Unyangoda - Internazionale

“In questo romanzo, ho trovato tutto ciò che cerco in un libro: una visione vasta sostenuta da una lingua ricca e “letteraria”, il coraggio temerario di affrontare argomenti complessi (e spesso ignorati da una buona parte degli scrittori), una trama solida ma non convenzionale, e una qualità altissima in tutto - dalla scelta dei singoli dettagli all’impianto complessivo”.

Paolo Zardi

NEET in Italia e in Europa: una sfida che indicherà il nostro futuro

L’arrivo dell’estate e la chiusura delle scuole ci offrono un’opportunità unica per riflettere sulla situazione dei giovani NEET (Not in Employment, Education or Training) in Italia e in Europa, cui abbiamo deciso di dedicare questo numero. I NEET rappresentano una sfida significativa per il nostro futuro, una delle poche vere sfide che riguardano il nostro Paese a livello.

Ad oggi in tutta Europa il fenomeno NEET coinvolge circa il 13,5% dei giovani tra i 15 e i 29 anni. Anche se la situazione è migliorata rispetto agli anni della crisi economica del 2008-2013, la pandemia ha nuovamente aggravato il problema. Paesi come i Paesi Bassi e la Svezia registrano tassi molto bassi di NEET, rispettivamente intorno al 5,9% e 6,2%, mentre in paesi come l’Italia e la Romania le percentuali sono significativamente più alte, rispettivamente al 23,7% e al 20,1%. In Italia, i NEET rappresentano una sfida particolarmente significativa. Con un tasso del 14,9%, siamo tra i peggiori in Europa. Questa situazione è ancora più preoccupante nel Sud Italia, dove le opportunità

di lavoro e formazione sono più limitate, e dove il problema è storicizzato.

Le ragioni per cui i giovani diventano NEET sono molteplici. In primo luogo, ci sono barriere educative: molti ragazzi non completano il loro percorso di studi o lo fanno senza acquisire competenze spendibili nel mercato del lavoro. Poi ci sono barriere socioeconomiche, come la povertà e la mancanza di reti di supporto. Inoltre, le disparità di genere giocano un ruolo cruciale: le giovani donne - come emerge chiaramente dal rapporto della Commissione Europea - sono spesso più a rischio di diventare NEET a causa delle responsabilità familiari e delle pressioni sociali.

Le politiche europee, a cominciare da Garanzia Giovani, hanno dimostrato di essere strumenti utili per contrastare il fenomeno; questo programma mira a offrire ai giovani opportunità di lavoro, formazione o educazione entro quattro mesi dalla disoccupazione o dall’uscita dal sistema educativo. Tuttavia, il successo di queste iniziative dipende da come vengono implementate a livello nazionale e locale, e nel nostro Paese le carenze strutturali ed

di Armando Piccinni

ereditarie sono cruciali per una situazione stagnante. A questo punto diventa fondamentale interrogarsi - e di conseguenza mettersi in moto - per fare la differenza. Ma come? Ne parliamo in questo numero, cercando di mettere a fuoco alcuni punti per noi fondamentali. Per prima cosa pensiamo che sia necessario investire nell’educazione, garantendo che tutti i giovani abbiano accesso a un’istruzione di qualità e opportunità di formazione continua. Serve poi creare opportunità di lavoro - poiché le imprese devono essere incentivate a

creare posti di lavoro per i giovani, soprattutto nelle regioni con alti tassi di NEET - supportare le famiglie e promuovere l’imprenditorialità giovanile. È fondamentale ricordare che il problema dei NEET non è insormontabile. Dipende da noi, dalle nostre scelte e azioni quotidiane, creare un futuro migliore per i giovani. Dobbiamo unirci, come comunità e come società, per garantire che nessun giovane venga lasciato indietro. Investendo nel loro futuro, investiamo nel nostro. La sfida è grande, ma non permette sconfitte.

EDITORIALE

NEET in Italia e in Europa: una sfida che indicherà il futuro di Armando Piccinni

PRIMO PIANO

L’IA al servizio dei NEET (Not in Education, Employment, or Training) di Valentina Formica

Brain

Anno IV | N. 6/7 | Giugno/Luglio 2023

Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca

Diffusione: www.fondazionebrf.org

Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca SOMMARIO 3 10 14

Orientamento al lavoro contro l’abbandono scolastico di Martina Gaudino

Direttore responsabile: Armando Piccinni

“Non chiamateci falliti”: storie inedite dei NEET di Martina Gaudino

NEET in Italia e in Europa: un’analisi approfondita di Miriam Capasso

PRIMO PIANO - INTERVISTA

I giovani d’oggi e il loro grido d’allarme per avere un’identità di Flavia Piccinni

L’INCHIESTA

Il fil rouge che lega terrorismo e disturbo post-traumatico da stress di Martina Gaudino

Dominare la paura: la PTSD tra terrorismo e intelligenza artificiale di Martina Gaudino

La cosmeticoressia: una nuova ossessione delle giovanissime di Valentina Formica

CONTRIBUTO

C’è posto per l’intelligenza artificiale in psichiatria? di Antonio Tundo e Roberta Necci

Disturbi di personalità: fenomeno allarmante e in costante espansione di AA. VV.

FONDAZIZONE BRF

Abbattere lo stigma: la divulgazione per una società più inclusiva di Chiara Andreotti

L’evento “Train of the Trainers” all’Università di Heidelberg di Redazione

#PARLIAMONE

“Così col disegno racconto la mia idea di benessere” di Chiara Andreotti

NEUROSCIENZE

Il ritorno della voce grazie all’intelligenza artificiale di Federico Piccinni

Generosità: una questione di sinapsi cerebrali di Sofia Verdini

Il multitasking: un’illusione che penalizza la produttività di Bianca Lupi

Youtuber si trasforma in cane e vuole cambiare ancora di Bianca Lupi

FILM

Anatomia di una caduta: quello che succede oltre la cronaca di Chiara Andreotti

LIBRI

“Riposare è resistere. Un manifesto” di Tricia Hersey di Flavia Piccinni

PODCAST

“Di sana pianta”: un viaggio nel mondo vegetale di Flavia Piccinni

L’IA AL SERVIZIO DEI NEET

(NOT IN EDUCATION, EMPLOYMENT, OR TRAINING)

Così possiamo utilizzare l’Intelligenza Artificiale per Rivelare e Nutrire il Potenziale dei Giovani

di Valentina Formica

Nel tessuto sociale, i giovani rappresentano il nucleo pulsante. Sono la forza trainante dell’innovazione, i guardiani del progresso e i custodi del futuro. Tuttavia, c’è una realtà spesso trascurata, quella dei giovani che si trovano al di fuori del sistema educativo e dell’occupazione, comunemente noti come NEET (Not in Education, Employment, or Training).

Questo segmento di giovani, compreso tra i 15 e i 34 anni, non è coinvolto in alcuna forma di istruzione, lavoro o formazione professionale. La preoccupazione per la loro situazione è crescente in tutto il mondo; infatti, i NEET sono considerati particolarmente vulnerabili, poiché a rischio di disoccupazione a lungo termine, svantaggio economico ed esclusione sociale. L’assenza da percorsi educativi o lavorativi limita notevolmente la loro capacità di acquisire competenze ed esperienze utili per migliorare le proprie prospettive future.

L’Italia, purtroppo, si trova tra i Paesi europei con il più alto numero di NEET. Secondo le rilevazioni dell’ISTAT, a maggio 2023 i NEET tra i 15 e i 34 anni sono risultati circa 5,7 milioni. Questo dato include 4.259.000 giovani tra i 15 e i 24 anni e 1.466.000 tra i 25 e i 34 anni. La percentuale di giovani NEET in Italia si attesta al 19%, seconda solo alla Romania (19,8%). Per affrontare questa sfida, l’Unione Europea ha fissato un obiettivo ambizioso: entro il 2030, il tasso di giovani NEET nei paesi dell’UE non dovrebbe superare il 9%. Mentre alcuni Stati membri hanno già raggiunto questo obiettivo, altri devono ancora lavorare duramente per raggiungerlo.

Il problema dei NEET rappresenta una perdita di potenziale

PRIMO PIANO

L’Italia, purtroppo, si trova tra i Paesi europei con il più alto numero di NEET. Secondo le rilevazioni dell’ISTAT, a maggio 2023 i NEET tra i 15 e i 34 anni sono risultati circa 5,7 milioni. Questo dato include 4.259.000 giovani tra i 15 e i 24 anni e 1.466.000 tra i 25 e i 34 anni. La percentuale di giovani NEET in Italia si attesta al 19%, seconda solo alla Romania (19,8%).

umano e risorse significativa per la società nel suo complesso. Nell’era digitale in cui viviamo, l’Intelligenza Artificiale (IA) si staglia come una potente alleata nel rivoluzionare l’istruzione e l’orientamento professionale. L’IA può essere utilizzata per rivelare e nutrire i talenti latenti dei giovani, aiutando a identificare le inclinazioni e le competenze di ciascun individuo, guidandolo verso percorsi educativi e lavorativi che si adattano alle proprie caratteristiche uniche. La rapida avanzata tecnologica, amplificata dalla pandemia di Covid-19 che ha spinto molte istituzioni verso l’online learning, ha aperto nuovi orizzonti nell’approccio all’educazione. L’IA, in particolare, si è dimostrata cruciale nel fornire esperienze di apprendimento personalizzate, guidando i giovani nel loro percorso educativo e professionale. La digitalizzazione dell’istruzione è un argomento di interesse crescente nella ricerca educativa ed esplora le opportunità offerte dall’accesso ai materiali digitali, dall’apprendi-

mento personalizzato e dall’impatto motivazionale che questo può avere sugli studenti. Uno dei principali problemi del nostro paese, che spesso conduce alla condizione di NEET, infatti è quello della dispersione scolastica. Con il termine dispersione ci si riferisce ad un ampio spettro di casi. Dalla mancata iscrizione a scuola, alla ripetenza di anni scolastici, all’insuccesso, fino all’abbandono scolastico. Accanto ad essi, riconducibili alla dispersione cosiddetta esplicita, esiste anche una condizione di dispersione implicita, per cui il titolo di studio conseguito non corrisponde al raggiungimento di competenze adeguate. Ovvero, ragazzi che terminano il ciclo di studi senza possedere le competenze di base necessarie. I giovani che si trovano in una delle condizioni elencate possono essere più inclini a comportamenti antisociali e meno pronti a inserirsi proficuamente e armonicamente nella comunità, intesa come uno spazio di diritti, di doveri e di responsabilità reciproche. È importante quindi instaurare un processo di valorizzazione e motivazione dei giovani con la realizzazione di interventi personalizzati con forti caratteristiche di inclusione, innovazione e sostenibilità per accompagnare i ragazzi in percorsi formativi e professionali coerenti con le loro aspirazioni per prevenire la dispersione scolastica e l’aumento del numero di NEET.

Cosa rende l’IA così efficace nell’istruzione personalizzata? Innanzitutto, la capacità di analizzare enormi quantità di dati per definire il profilo degli studenti e identificare le loro esigenze individuali. Grazie alla sua capacità di analisi predittiva, può anticipare le esigenze degli studenti e fornire interventi personalizzati per migliorare le loro

prestazioni. Inoltre, può creare materiali di apprendimento su misura per le esigenze individuali, migliorando l’efficacia dell’insegnamento e dell’apprendimento. Questo consente di adattare il percorso di apprendimento ad ogni ragazzo, tenendo conto di competenze, preferenze e obiettivi. Inoltre, l’IA è in grado di fornire feedback immediato e supporto continuo agli studenti. Grazie a tutor virtuali e chatbot, gli studenti possono ricevere assistenza 24/7, rendendo l’apprendimento più flessibile e accessibile.

Uno dei modi in cui l’IA può essere utile ai giovani NEET è attraverso test di valutazione personalizzati. Piuttosto che adottare un approccio “taglia unica”, l’IA può creare test su misura che esaminano le abilità cognitive, le preferenze personali e gli interessi individuali di ciascun individuo. Questi test forniscono una mappa dettagliata delle inclinazioni di un giovane e suggeriscono percorsi di studio o carriera che potrebbero essere più adatti alle loro aspirazioni. Inoltre, l’IA può svolgere un ruolo cruciale nel fornire consulenza personalizzata. Può esaminare le scelte educative e lavorative passate di un individuo, individuare tendenze e identificare opportunità di miglioramento. Questo feedback mirato aiuta i giovani a comprendere meglio le proprie forze e debolezze, guidandoli verso decisioni più informate sul futuro.

Per massimizzare il potenziale dell’IA nell’istruzione personalizzata, è fondamentale considerare anche le soft skills. Queste competenze trasversali, come la comunicazione efficace e il pensiero critico, sono essenziali per il successo professionale. L’IA può essere utilizzata anche in questo ambito, per valutare e sviluppare le soft skills degli stu-

denti. Attraverso l’analisi dei dati comportamentali e la simulazione di scenari interattivi, può valutare le competenze sociali e emotive degli studenti e fornire feedback su come migliorarle.

Tra i diversi elementi che caratterizzano la categoria dei NEET un elemento, spesso emerso in letteratura, che contrassegna questa condizione è l’essere legata a problemi di salute mentale e uso di sostanze. I risultati degli studi finora condotti sono discordanti e variano a seconda del tipo di disagio indagato, ma parlando genericamente l’essere NEET è stato associato ad almeno un problema di salute mentale o di uso di sostanze nel 75% degli studi presenti in letteratura. Pertanto, è cruciale adottare strategie preventive per contrastare la cronicizzazione dei problemi psicologici e dei comportamenti rischiosi tra gli adolescenti, considerando che le risorse tradizionali come famiglia, scuola e sanità non sempre sono sufficienti a rispondere prontamente alle loro esigenze. L’introduzione dell’IA in questo frangente può colmare questo divario, poiché gli adolescenti sono inclini ad abbracciare nuove tecnologie. L’IA può essere utilizzata attraverso chatbot terapeutici, piattaforme per screening psicologico e strumenti di tracciamento dell’umore, offrendo supporto personalizzato e accessibile.

L’adozione responsabile dell’IA offre un’enorme opportunità per migliorare la salute mentale degli adolescenti e prepararli per un futuro di successo nel mondo del lavoro, contribuendo a individuare e sviluppare il loro potenziale. Tuttavia, è fondamentale bilanciare l’innovazione tecnologica con la tutela della privacy e la garanzia di interventi umani quando necessario.

La rapida avanzata tecnologica, amplificata dalla pandemia di Covid-19 che ha spinto molte istituzioni verso l’online learning, ha aperto nuovi orizzonti nell’approccio all’educazione. L’IA, in particolare, si è dimostrata cruciale nel fornire esperienze di apprendimento personalizzate, guidando i giovani nel loro percorso educativo e professionale.

ORIENTAMENTO AL LAVORO CONTRO L’ABBANDONO SCOLASTICO

Intervista alla presidente di Indire (Istituto nazionale di documentazione innovazione e ricerca educativa), Cristina Grieco

L’11,5% degli studenti italiani nel 2022 non ha portato a compimento il percorso scolastico, non ha quindi ottenuto il diploma. Il distacco con il resto dell’Unione europea in un decennio si è ridotto da 4,7 punti percentuali a soli 1,9. L’incidenza degli abbandoni è superiore di oltre 4 punti tra i maschi rispetto alle femmine e, sul territorio, sfiora il 18% nelle Isole. E’ questo l’ultimo dato disponibile fornito dal Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Un numero allarmante e che indica come tra i 18 e i 24enni esista un problema reale pur tenendo sempre ben presente che le cause della dispersione scolastica sono molte e dipendono da diversi fattori. Lo ha spiegato a Brain la presi -

dente di Indire, Cristina Grieco, già Consigliera del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, fa parte del gruppo di lavoro della Commissione nazionale Unesco per la riforma del sistema educativo/formativo e del Comitato di Indirizzo della Scuola di Alta Formazione per l’Istruzione. “I numeri sono da considerare in relazione al territorio e al tipo di percorso. In primis, in contesti socio-economici che poi influenzano quello socio-culturale. La ricerca Indire ha dimostrato che la riorganizzazione della scuola come ambiente, spazio e luogo di educazione ha un impatto significativo in termini di riduzione dell’abbandono scolastico” ha detto la presidente.

Fin dalla sua nascita nel 1925, l’Istituto accompagna l’evoluzione del sistema scolastico italiano inve -

stendo in formazione e innovazione e sostenendo i processi di miglioramento della scuola. Oltre alla sede centrale a Firenze, ha tre nuclei territoriali a Torino, Roma e Napoli e propone nuovi modelli didattici, sperimenta l’utilizzo delle nuove tecnologie nei percorsi formativi, promuove la ridefinizione del rapporto fra spazi e tempi dell’apprendimento e dell’insegnamento. Attraverso monitoraggi quantitativi e qualitativi, banche dati e rapporti di ricerca, l’Indire osserva e documenta i fenomeni legati alla trasformazione del curricolo nell’istruzione tecnica e professionale e ai temi di scuola e lavoro.

Il fenomeno dei Neet e quindi dei giovani che non studiano, non lavorano e che non si stanno formando è un tema di grande in -

teresse per l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa: “E’ un fenomeno che esiste da molto tempo e, come sapete, è stato analizzato nel Regno Unito verso la fine del secolo scorso. Nel 2010, l’Unione europea ha adottato il tasso di NEET come indicatore di riferimento sulla condizione lavorativa delle nuove generazioni e come spia del rischio di esclusione sociale. Su questo – ha aggiunto Grieco - il nostro Istituto agisce a supporto delle scuole e degli istituti scolatici attraverso la sperimentazione, la diffusione di buone pratiche e la promozione di azioni di innovazione, che sono al centro dei nostri progetti e delle attività di formazione per i docenti”. Come noto questa fetta della popolazione giovane italiana che

L’11,5% degli studenti italiani nel 2022 non ha portato a compimento il percorso scolastico, non ha quindi ottenuto il diploma. Il distacco con il resto dell’Unione europea in un decennio si è ridotto da 4,7 punti percentuali a soli 1,9.

Cristina Grieco.

“La ricerca Indire ha dimostrato che la riorganizzazione della scuola come ambiente, spazio e luogo di educazione ha un impatto significativo in termini di riduzione dell’abbandono scolastico”.

non studia e lavora attivamente ha un impatto sul futuro dell’intero sistema Paese. Secondo la presidente di Indire si tratta sicuramente di un qualcosa che “va affrontato a livello complessivo, in tutto il nostro sistema. Non riguarda soltanto il settore educativo, ma anche le politiche di orientamento e inserimento al lavoro, le politiche sociali e altro ancora. Il tema principale è formare i giovani e renderli in grado di vivere una vita in modo autonomo e dignitoso”. La professoressa Grieco ritiene che sia però necessario “offrire degli strumenti che consentano

agli studenti di poter completare un percorso di studio già iniziato o definire al meglio le azioni per poter personalizzare o rivedere una scelta compiuta in passato. La scuola ha il dovere di sviluppare competenze di base e competenze più ampie per la vita”.

Anche a questo scopo l’Indire annovera, tra le numerose attività, lo sviluppo di azioni di miglioramento del sistema educativo e scolastico sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo: “Intendiamo facilitare un miglioramento dell’offerta formativa della scuola italiana e dei modelli di scuola, inclusiva e innovativa. Pertanto, lavoriamo promuovendo metodologie didattiche, organizzative di nuovi spazi dell’apprendimento lavorando con docenti e scuole. Rappresentando, attraverso la documentazione delle buone pratiche e le analisi dei fenomeni emergenti, scenari possibili ed efficaci di miglioramento del sistema” ha proseguito ancora la presidente. Altro tema caldo per l’Istituto nazionale è proprio la dispersione scolastica e, a questo scopo, Indire “prende parte al dibattito scientifico internazionale attraverso rapporti stabili con i principali stakeholder, europei e mondiali, che operano nell’ambito delle politiche educative per il 2030 e oltre” e infatti, sempre in ambito internazionale, l’Indire fa parte del Consorzio EUN – European Schoolnet, composto da 33 Ministeri dell’Educazione dei Paesi europei, che promuove l’innovazione nei processi educativi in una dimensione transnazionale. Spetta sempre all’Istituto, infatti, la gestione di Erasmus+, il programma dell’Unione europea per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport per il periodo 2021-2027.

“NON CHIAMATECI FALLITI”: STORIE INEDITE DEI NEET

Reportage

esclusivo

con le storie di ragazze e ragazzi

Non è stato facile intercettarli e neppure convincerli a parlare. Provano vergogna e chiedono di non essere fotografati perché la loro condizione di giovani che non studiano e non lavorano li fa sentire a disagio ma non per questo falliti. Quando “Brain” ha incontrato Marco, Luigi e Isabella in un bar di un quartiere popolare di Roma i ragazzi erano visibilmente agitati. Marco e Luigi sono coetanei, hanno 22 anni e solo qualche giorno di differenza mentre Isabella è la piccola del gruppo, ne ha appena 19 ma ha le idee ben chiare. “Abbiamo finito la scuola e sapevamo di non voler continuare il percorso di studi in università perché il diploma ci è costato non poca fatica, certo speravamo di trovare un lavoro vero che ci consentisse di essere autonomi e invece eccoci qua, a spasso” raccontano Marco e Luigi che per cinque anni sono stati compagni

di banco. Isabella si è diplomata lo scorso anno dopo aver attraversato gli anni del Covid, la Dad e tutto il resto: “Io forse all’università ci vado, mi sto rendendo conto che con il diploma non ci faccio proprio nulla, sempre che non accetti di fare la cameriera massacrandomi da mattina a sera, senza offese per le cameriere però speravo in qualcosa di diverso per me”.

Marco, Luigi e Isabella sono solo tre dei Neet italiani, il termine come sempre preso in prestito dall’inglese indica i “Not in Education, Employment or Training” e quindi giovani che non studiano, non lavorano, non si formano per un lavoro futuro. Secondo gli ultimi dati Istat gli indicatori del benessere dei giovani, in Italia, sono ai livelli più bassi in Europa. Parliamo di una platea di 1,7 milioni di giovani (un quinto di chi ha tra 15 e 29 anni) che non svolge nessuna attività. Un numero più basso rispetto al passato

ma sempre sopra la media Ue di oltre 7 punti. Il fenomeno, come spesso accade, interessa in particolar modo le regioni del Mezzogiorno e le ragazze.

Va inoltre registrata la percentuale di giovani che abbandonano precocemente gli studi tra i 18 e i 24 anni d’età che, sempre secondo dati Istat relativi al 2022 è dell’11,5%, in calo rispetto alla stima del 2021. Il benchmark europeo per il 2030 è fissato al 9% dal nuovo Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore

dell’istruzione e della formazione. L’abbandono prematuro del percorso di studi è un fenomeno che interessa più i ragazzi (13,6%) rispetto alle ragazze (9,1%).

Nel 2012 fecero molto discutere le parole dell’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero che dal palco di Assolombarda, proprio a proposito di Neet, invitò i ragazzi a non essere troppo choosy ovvero schizzinosi, invitandoli ad accettare un po’ tutti i lavori disponibili. Una affermazione che

“Abbiamo finito la scuola e sapevamo di non voler continuare il percorso di studi in università perché il diploma ed eccoci qua, a spasso”.

PRIMO PIANO

Marco, Luigi e Isabella sono solo tre dei Neet italiani, il termine come sempre preso in prestito dall’inglese indica i “Not in Education, Employment or Training” e quindi giovani che non studiano, non lavorano, non si formano per un lavoro futuro.

fece molto discutere e che scatenò una violenta polemica social e politica che ancora oggi, se tirata fuori, è in grado di scaldare gli animi. I tre ragazzi non possono ricordalo, 12 anni fa erano troppo giovani così come sono troppo giovani per quel “bamboccioni” del ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa che, presentando la Finanziaria del governo Prodi II disse: “La manovra contiene misure come l’aiuto di mille euro l’anno previsto per i ventenni-trentenni che prendono casa in affitto: mandiamo i bamboccioni fuori casa”. Sollecitati sul tema però si accodano ai colleghi di qualche anno fa: “Cosa dovrei fare quindi? Prendere tutto quello che capita e smettere di credere ai miei sogni? Non siamo dei falliti, siamo dei ragazzi giovani con delle capacità che però non vengono valorizzate perché questo Paese non ce lo permette” commenta Marco infastidito. Isabella gli fa eco: “E’ incredibile che i politici siano così distanti dalla realtà, pensano davvero che non ci va di fare nulla?”. L’attacco è principalmente diretto al sistema di formazione scolastica che secondo i ragazzi è troppo distante da quello di cui oggi si ha bisogno: “E’ troppo strano pensare di insegnarci qualcosa che possa servire nel mercato del lavoro odierno? Qualcuno ci insegna per esempio a usare i social network correttamente? No, eppure ci si può lavorare” aggiunge Luigi.

Nell’ordinamento scolastico attuale esistono i PCTO, percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, ovvero i progetti che prima andavano sotto il nome di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un’attività obbligatoria che deve essere svolta dagli studenti iscritti alla terza, quarta e quinta superiore. I progetti possono essere svolti presso imprese, aziende, associazioni sportive e di volontariato, enti culturali, ordini professionali e istitu-

zioni. Un’attività che secondo i ragazzi non serve: “Magari muori anche” dice infastidita Isabella facendo cenno ai tristi casi di cronaca che hanno visto protagonisti giovani studenti. “Ce la ricordiamo la storia di quel ragazzo morto durante l’ultimo giorno di stage colpito da una trave, ma che formazione è questa?” chiede Luigi facendo riferimento a Lorenzo Parelli, il ragazzo morto il 21 gennaio 2022 a 18 anni durante lo stage presso un’azienda.

“La scuola oggi non ci prepara al mondo del lavoro ma non credo sia solo un problema di oggi perché abbiamo amici più grandi, fratelli e sorelle che ci sono passati prima di noi e i problemi sono sempre gli stessi. Io, per esempio – ci dice Marco – vorrei lavorare con i social network e vorrei

lavorarci davvero. Mi piacerebbe imparare a creare contenuti, saper gestire gli algoritmi, avere idee che possano sfondare online ma i corsi costano davvero tanto e tanti ragazzi come me non sanno bene cosa fare e quindi si finisce con lo stare fermi, immobili, non mi piace come mi sento e non mi piace vengo percepito all’esterno perché non sono più un bambino”. Anche Luigi è dello stesso parere: “Dopo il diploma ho lavorato in un bar, facevo consegne ed era molto faticoso. Questo non significa che io non voglia stancarmi ma vorrei stancarmi per qualcosa che mi garantisca un futuro, uno stipendio vero, non voglio essere sfruttato, se devo essere sfruttato preferisco non fare nulla e non è che la cosa mi faccia sentire a mio agio”.

La più giovane del gruppo, Isabella, vorrebbe lavorare del campo della moda ed è costretta a scontrarsi con una realtà ancora diversa: “Non credo di essere bellissima, non ho il fisico scolpito delle mie coetanee e quindi non posso iniziare con il pubblicare mie foto sui profili social perché sono fuori canone. Che possibilità ci sono per me? Tutti pensano che oggi sia facile perché la moda curvy sta prendendo piede ma io vorrei avere la possibilità di esprimermi e di essere presa sul serio ma nessuno mi prende sul serio perché sono una ragazzina”.

Le storie di questi tre ragazzi ha un comune denominatore: l’insoddisfazione, un sentimento che sembrerebbe appartenere solo al mondo degli adulti perché è troppo semplice giudicare e pensare che, banalmente, non abbiano voglia di lavorare. “Abbiamo voglia di lavorare, non siamo esperti di economia ma ci pare che l’Italia non sia messa propria bene in termini di opportunità” dice Marco quasi ridendo. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istituto nazionale di statistica per la prima volta dopo anni il numero dei disoccupati italiani è sceso sotto i due milioni, un dato certamente positivo ma di cui i giovani non hanno percezione. Sollecitati su questo dato i tre giovani si sono guardati con aria delusa. “E’ una cosa che però non ci riguarda perché noi siamo ancora qua e senza una possibilità concreta” commenta Isabella. Alla domanda delle domande i ragazzi hanno risposto in maniera compatta: “Cosa chiedereste se aveste la possibilità?”. E’ Marco a rispondere per primo: “Garanzie”. “Bravo” fanno eco gli altri due. “La garanzia di qualcosa che non sia solo una presa in giro, che ci tuteli davvero e che ci consenta di guardare al futuro con un minimo speranza e poi non vorremmo essere giudicati come dei perdigiorno”.

Nel 2012 fecero molto discutere le parole dell’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero che dal palco di Assolombarda, proprio a proposito di Neet, invitò i ragazzi a non essere troppo choosy ovvero schizzinosi, invitandoli ad accettare un po’ tutti i lavori disponibili.

NEET IN ITALIA E IN UE UN’ANALISI APPROFONDITA

Disoccupazione giovanile e inattività: una sfida critica

“Non riesco a trovare lavoro. Dopo decine di porte in faccia ho deciso di lasciare perdere. Avevo pensato perfino di rimettermi a studiare, ma poi…”. La voce di Sabrina Marchi, 24enne di Firenze, si ferma. Il suo sguardo si perde nella stanza della casa di periferia dove vive con i genitori, entrambi impiegati. “Ho perso le energie, e mi sono lasciata andare”, conclude pensierosa. La sua storia è quella di altre migliaia di giovani che sono stati battezzati come NEET.

L’acronimo - Not in Employment, Education, or Training - si riferisce ai giovani che non sono occupati, né impegnati in percorsi di istruzione o formazione. Si tratta di un fenomeno ormai centrale nella nostra quotidianità, che ha implicazioni significative per la società e l’economia. Un fenomeno che i dati ci aiutano a comprendere nella sua

complessità. Nel 2022, il 11,7% dei giovani tra i 15 e i 29 anni nell’Unione Europea era classificato come NEET, una diminuzione rispetto agli anni precedenti. Questo trend positivo è visibile in molte nazioni, con Paesi Bassi (4,2%), Svezia (5,7%) e Germania (8,6%) tra i paesi con i tassi più bassi (European Commission). Tuttavia, alcuni paesi continuano a registrare tassi elevati, come Romania (19,8%) e Bulgaria (18,6%). Purtroppo l’Italia presenta uno dei tassi più alti di NEET in Europa.

Nel 2022, il 23,7% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni era NEET, un dato preoccupante che riflette profonde difficoltà strutturali nel mercato del lavoro e nel sistema educativo. Le regioni del Sud, in particolare, mostrano le cifre più allarmanti, con la Sicilia che raggiunge il 37,5% (dati European Commission) e la Calabria con il

33%. Al momento regioni del Nord come il Trentino-Alto Adige si attestano su valori molto più bassi. La differenza di genere è marcata: nel 2023, il 12,5% delle giovani donne europee erano NEET, rispetto al 10,1% dei giovani uomini. In Italia, questo divario è ancora più accentuato: il livello di istruzione influisce significativamente sui tassi di NEET. Coloro con un basso livello di istruzione mostrano i tassi più alti (fino al 31,5% in Romania), mentre i giovani con un’istruzione terziaria hanno tassi molto più bassi (7,8% in media nell’UE).

Per combattere il fenomeno dei NEET, l’Unione Europea ha implementato diverse iniziative, tra cui la “Youth Guarantee” lanciata nel 2013. Questo programma mira a garantire che tutti i giovani riceva -

no un’offerta di lavoro, istruzione continua, apprendistato o tirocinio entro quattro mesi dall’uscita dal sistema educativo o dall’inizio della disoccupazione. In Italia, nonostante gli sforzi, restano sfide significative, in particolare nel migliorare l’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro per i giovani delle regioni meridionali. Il fenomeno dei NEET rappresenta una sfida complessa che richiede un approccio integrato e multilivello. Sebbene ci siano segnali positivi di miglioramento, soprattutto in alcuni paesi europei, l’Italia deve affrontare con urgenza le sue criticità per garantire un futuro migliore ai suoi giovani. A questo proposito diventa necessario portare avanti un’analisi delle cause di questo fenomeno, soprattutto nel nostro Paese.

Le regioni del Sud, in particolare, mostrano le cifre più allarmanti, con la Sicilia che raggiunge il 37,5% (dati European Commission) e la Calabria con il 33%. Al momento regioni del Nord come il Trentino-Alto Adige si attestano su valori molto più bassi.

Per combattere il fenomeno dei NEET, l’Unione Europea ha implementato diverse iniziative, tra cui la “Youth Guarantee” lanciata nel 2013. Questo programma mira a garantire che tutti i giovani ricevano un’offerta di lavoro, istruzione continua, apprendistato o tirocinio entro quattro mesi dall’uscita dal sistema educativo o dall’inizio della disoccupazione.

Le disparità regionali possono essere attribuite a vari fattori. Gioca un ruolo centrale il tessuto economico locale: le regioni meridionali hanno storicamente un minor sviluppo industriale e un’economia maggiormente basata sull’agricoltura e sul turismo, settori spesso caratterizzati da una maggiore stagionalità e precarietà. Non bisogna poi sottovalutare la disponibilità e la qualità delle istituzioni educative e formative, nonché le politiche locali e regionali in materia di occupazione e sviluppo, che possono avere un impatto significativo sui tassi di NEET. Ad esempio, alcune regioni potrebbero avere programmi di sostegno all’occupazione giovanile più efficaci rispetto ad altre. Per ridurre queste disparità, è oggi più che mai necessario sviluppare politiche mirate che considerino le specificità locali. Investimenti in infrastrutture, sostegno alle piccole e medie imprese e la promozione di settori ad alta intensità di lavoro possono contribuire a migliorare la situazione. L’istruzione e la formazione sono strumenti cruciali per ridurre i tassi di NEET. Dati recenti mostrano che i giovani con un livel -

lo di istruzione terziaria hanno tassi di NEET significativamente inferiori rispetto a quelli con un’istruzione inferiore. Nel 2023, il tasso di NEET tra i giovani con istruzione terziaria era del 7,8% nell’UE, rispetto al 12,9% tra coloro con un basso livello di istruzione.

Aumentare le competenze è una strategia fondamentale. Si rivela essenziale investire in programmi di formazione professionale e in percorsi di istruzione che rispondano alle esigenze del mercato del lavoro. Inoltre, promuovere l’istruzione continua e il lifelong learning può aiutare a mantenere aggiornate le competenze dei lavoratori. Le politiche europee, come la “Youth Guarantee”, hanno contribuito a ridurre i tassi di NEET, ma la loro efficacia varia tra i paesi. Affrontare il fenomeno dei NEET richiede un approccio integrato che consideri le disparità regionali, il ruolo cruciale dell’istruzione, le differenze di genere e l’efficacia delle politiche. Investimenti mirati, politiche inclusive e un monitoraggio continuo sono fondamentali per garantire che ogni giovane abbia l’opportunità di costruire un futuro promettente.

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I GIOVANI D’OGGI E IL LORO GRIDO D’ALLARME PER AVERE UN’IDENTITÀ

Intervista al prof. Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario alla Sapienza di Roma

Esiste un senso di inadeguatezza che serpeggia fra gli adolescenti di oggi. È un disagio che si manifesta adesso aggredendo coetanei - come accaduto di recente a Milano e Roma - ora vandalizzando luoghi pubblici, emblematico il caso di Teramo dove a inizio giugno un gruppo di ragazzi ha distrutto un parco giochi. Ma esplode anche attraverso conflittualità fisiche e verbali rivolte a genitori e insegnanti, gesti autolesionisti e, purtroppo, a volte suicidi. «Viviamo in una realtà complessa e frammentata, in cui i ragazzi faticano a trovare loro stessi», riflette Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario alla Sapienza di Roma. Giacca blu e camicia chiara, lo incontro in un assolato pomeriggio romano: ha uno sguardo in perpetuo movimento e un sorriso contagioso,

complici i due incisivi leggermente accavallati; dimostra molti anni meno dei 83 anni ufficiali, e parla con una rara cura. Sceglie le parole con attenzione, corrugando la fronte, e intanto racconta del suo ultimo saggio “I paradossi degli adolescenti” (Raffaello Cortina Editore, pp. 150), in cui guida il lettore nel malessere adolescenziale alimentato dall’attuale società, fra crisi economiche e spirituali. «Essere adolescenti oggi non è facile. Il futuro è abbastanza nebuloso, il mondo del lavoro non offre sicurezze e si moltiplicano le preoccupazioni rivolte al futuro. I nostri ragazzi - prosegue - vivono una realtà che ancora prova a curare le cicatrici della pandemia, colpevole di aver aumentato gli stadi di ansia e di depressione. I nostri adolescenti sono più viziati rispetto al passato, più connessi rispetto al passato, ma irrimediabilmente più soli».

È questo il loro paradosso?

Esattamente. Rispetto a un tempo hanno più opportunità. Sono meno condizionati dai genitori, vivono in gruppo, escono, iniziano le prime esperienze sentimentali e le sperimentazioni anche nella sessualità fin da giovanissimi. Hanno i cellulari, si muovono di più. Ma attraversano un malessere profondo. Che è possibile leggere nei loro occhi.

Da dove nasce questo disagio?

I fattori sono tanti, a cominciare dalla crisi socio-economica che ha travolto il nostro Paese. Sicuramente è poi centrale il ruolo dei genitori. Certo, li lasciano più liberi rispetto a un tempo, ma sovente sembrano inadatti a dare loro un contenimento psicologico. Li mettono troppo al centro dello scenario famigliare, quasi avessero difficoltà a essere madri e padri. Non di rado tengono atteggiamenti

che creano confusione, soprattutto nei divieti mai definiti. Ricordiamo che più del 50% delle famiglie ha un unico figlio, ed è venuto meno il mondo fra fratelli. Oggi i genitori nei confronti dei figli sovente hanno un atteggiamento di idealizzazione e compiacimento che diventa eccessivo, e non sono in grado né di riconoscere le spinte all’autonomia né di mettere i paletti necessari. Come descriverebbe i genitori d’oggi?

Sono apprensivi, spesso non sono in grado di imporre dei limiti. Temono il loro ruolo, e credono di non essere all’altezza. Un genitore dovrebbe essere capace di ascoltare i figli, ma anche di guidarli. A volte, i ragazzi vivono come in una prateria: sono pervasi da troppe ansie, per loro è difficile riuscire a trovare una direzione. L’esempio è fondamentale, non di-

La scuola ormai è antiquata. Non sa fare i conti con gli strumenti digitali. Serve un rinnovamento profondo. Dal 2012, quando gli smartphone si sono diffusi in modo capillare anche tra i più giovani, il mondo è diverso. Il ruolo che i cellulari giocano sulle menti in formazione è innegabile, a cominciare dall’aumento dei disturbi dell’attenzione e dell’ansia.

Massimo Ammaniti.

“I coetanei sono alla base di questo presente molto complicato, dominato dal confronto e dalla competizione. Usando un termine psicoanalitico, il gruppo diventa una specie di «super-io» molto lucido e giudicante, che non fa sconti a nessuno”.

mentichiamocelo. Come pretendere che non stiano al cellulare, se siamo i primi a non staccarcene mai? Poi, comunque, c’è la questione della scuola. Ovvero?

La scuola ormai è antiquata. Non sa fare i conti con gli strumenti digitali. Serve un rinnovamento profondo. Dal 2012, quando gli smartphone si sono diffusi in modo capillare anche tra i più giovani, il mondo è diverso. Il ruolo che i cellulari giocano sulle menti in formazione è innegabile, a cominciare dall’aumento dei disturbi dell’attenzione e dell’ansia. La scuola invece di adattarsi e avere un atteggiamento di confronto risponde con degli imperativi guidati dai voti, da una disciplina anacronistica e una presunta meritocrazia. Strumenti che annullano le esigenze individuali e niente fanno per le diffuse fragilità.

Dal suo osservatorio privilegiato, come vivono gli adolescenti di oggi?

Oggi i ragazzi sono privi di regole. Spesso hanno il sopravvento su questi genitori accondiscendenti, che non sanno più educare, ma cercano di mettersi al loro livello. I nostri ragazzi non hanno più freni inibitori, sia dal punto di vista sociale che sessuale. Il

gruppo, quello degli amici ma anche quello che si sono creati online, è fondamentale per costruire la propria immagine e percezione, traendo valutazioni, conferme o smentite su loro stessi. Ce lo insegna la neurobiologia: il cervello degli adolescenti è particolarmente soggetto alle influenze sociali e culturali degli altri.

Che ruolo giocano i coetanei?

Sono alla base di questo presente molto complicato, dominato dal confronto e dalla competizione. Usando un termine psicoanalitico, il gruppo diventa una specie di «super-io» molto lucido e giudicante, che non fa sconti a nessuno.

Che ruolo giocano in tutto questo gli smartphone?

Sono centrali nell’esistenza di questi ragazzi: hanno sottratto loro molte esperienze, soprattutto per quanto riguarda le relazioni e gli scambi di persona. Elementi fondamentali per la maturazione del cervello che, bisogna ricordarlo, negli adolescenti è particolarmente sensibile agli stimoli sociali, attraverso i quali costruiscono la loro identità. Rapportarsi con il mondo attraverso uno schermo, e non facendo attività insieme ha stravolto i rapporti. Credere che connettersi sia avere una relazione è un’illusione. Una relazione è fatta da sguardi, confronti, regolazione delle emozioni.

Qual è il rischio?

Quello di avere delle nuove generazioni che giocano di meno, si confrontano di meno e sviluppano meno fantasia e immaginazione. Una generazione che scopre il sesso attraverso il sexting, che crea i suoi parametri sociali e sessuali in base a quanto apprende online. Un esempio è quello del corpo: essere filiformi per le ragazze e muscolosi per i giovani è un imperativo, uno stereotipo pervasivo che vive continuamente di confronti con i feticci virtuali.

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IL FIL ROUGE CHE

LEGA

TERRORISMO E DISTURBO

POST-TRAUMATICO DA STRESS

Perché terrorismo e intelligenza artificiale possono scatenare la PTSD?

L’attacco terroristico in Russia e i recenti allarmi bomba in Italia e l’innalzamento dei livelli di allerta nel resto dei Paesi del continente stanno riportando alla mente tempi bui vissuti nel decennio scorso quando lo spettro dello Stato islamico aleggiava sull’Europa seminando ansie e paure nelle popolazioni. Sentimenti, questi, che da un punto di vista medico-scientifico possono rientrare tra le sintomatologie di una patologia ben precisa, la cosiddetta PSTD dall’inglese Post Traumatic Stress Disorder tradotto in italiano come sindrome da stress post-traumatico. Le persone affette da PTSD manifestano tutta una serie di sintomi che oggi sono ben identificabili: difficoltà al controllo delle emozioni, irritabilità, rabbia improvvisa o confusione emotiva, depressione e ansia, ma anche insonnia o una ferrea determinazione a evitare qualunque atto che li costringa a ricordare l’evento traumatico. Altro sintomo particolarmente diffuso secondo l’Istituto Superiore di Sanità è il senso di colpa per essere sopravvissuti o non aver potuto salvare altri individui.

Ne ha parlato a Brain la dottoressa Bianca De Filippis del Centro di Riferimento per le Scienze Comportamentali e la Salute Mentale dell’Istituto Superiore di Sanità. “La PTSD è un disturbo psichiatrico che si scatena in seguito all’esposizione a eventi traumatici. Generalmente di natura violenta o accidentale, gli eventi scatenanti sono vissuti in prima persona o coinvolgono persone care mettendone a repentaglio la vita. Anche l’esposizione indiretta può talvolta essere sufficiente a innescare il disturbo, ma in questi casi sono fondamentali la gravità e la frequenza dell’esposizione” ha

Secondo i dati a disposizione dell’Istituto Superiore di Sanità circa il 4-5% di chi è esposto a un trauma mostra poi una sindrome da stress post-traumatico. Si tratta, nel dettaglio, della metà della popolazione del nostro Paese.

spiegato l’esperta facendo luce sulle diverse possibilità che abbiamo di essere vulnerabili alla sindrome. “E’ particolarmente importante sottolineare il fatto che la predisposizione individuale gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di questa patologia, in quanto solo a una piccola percentuale di persone esposte ai traumi sopra descritti viene successivamente diagnosticato il disturbo” ha chiarito De Filippis. Non è raro, infatti, trovarci di fronte a reazioni completamente diverse rispetto allo stesso evento traumatico. Accade, per esempio, nei casi di perdita di una persona cara con una malattia improvvisa, un incidente stradale che vede coinvolte più persone e che non per questo reagiscono alla stessa maniera. “Nelle persone vulnerabili, infatti, l’esposizione al trauma innesca una sintomatologia complessa, cronica e altamente invalidante che spazia dalla presenza di pensieri intrusivi, alterazioni nella sfera cognitiva, agitazione o ipervigilanza” ha illustrato la dottoressa.

Secondo i dati a disposizione dell’Istituto Superiore di Sanità circa il 4-5% di chi è esposto a un trauma mostra poi una sindrome da stress post-traumatico. Si tratta, nel dettaglio, della metà della popolazione del nostro Paese. Come spiega l’Iss, secondo il National Institute of Mental Health (NIMH) americano, caratteristica del PTSD è il fatto che la vittima rivive ripetutamente l’esperienza traumatizzante sotto forma di flashback, ricordi, incubi o in occasione di anniversari e commemorazioni. Non solo sintomi strettamente legati alla sfera interiore ma anche fisici caratterizzano la sindrome. I pazienti affetti mostrano dolori al torace, capogiri, frequenti problemi gastrointestinali, emicranie e un generale indeboli -

mento del sistema immunitario. Per il National Institute of Mental Health una corretta diagnosi di PTSD arriva quando il paziente manifesta i sintomi caratteristici per un periodo che si spinge oltre un mese dall’evento che li ha scatenati.

“Come abbiamo visto – ha proseguito De Filippis - la PTSD si in -

nesca in seguito all’esposizione diretta ad un evento traumatico, e la sintomatologia non cambia in base alla tipologia di trauma vissuto. La paura di un attacco terroristico di per sé potrebbe scatenare un disturbo d’ansia generalizzato in persone predisposte, piuttosto che PTSD”. Come spesso accade quando ci si

trova dinanzi a qualcosa di nuovo e mai provato prima, chi si rende conto di vivere questa sofferenza interiore cerca una soluzione, una cura, una possibilità per fare ritorno a una vita normale, alla vita pre-trauma. “Ad oggi – ha spiegato ancora la dottoressa De Filippis - il trattamento d’elezione è la terapia cognitivo comportamentale, un approccio psicoterapeutico mirato a insegnare al paziente la gestione dei sintomi caratteristici. Sono stati inoltre approvati diversi trattamenti farmacologici per questa patologia (SSRI), sebbene la loro efficacia sia ancora dibattuta”. Gli SSRI sono inibitori selettivi del reuptake di serotonina e oggi vengono impiegati in diverse circostanze: sia nella terapia della depressione ma anche per attacchi d’ansia, di panico, in caso di depressione post-parto o disturbi della personalità e altre patologie.

Non solo terrorismo ed eventi traumatici. La ricerca nel campo oggi sta sconfinando per far fronte ai nuovi fenomeni del nostro tempo, intelligenza artificiale in testa. Non sarebbe da escludere, infatti, l’insorgenza della sindrome per paura di essere sostituti da una macchina intelligente. “La ricerca si è interessata di questo fenomeno per cercare di comprendere se possa essere un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie stress-correlate in persone predisposte. Come per la paura di attacchi terroristici – ha concluso l’esperta dell’Istituto Superiore di Sanità - ritengo che questo fenomeno possa eventualmente inasprire la sintomatologia in pazienti affetti da disturbi d’ansia, piuttosto che innescare il PTSD per il quale l’esposizione a uno o più eventi traumatici, come abbiamo visto, è una condizione necessaria, anche se non sufficiente”.

“La PTSD si innesca in seguito all’esposizione diretta ad un evento traumatico, e la sintomatologia non cambia in base alla tipologia di trauma vissuto. La paura di un attacco terroristico di per sé potrebbe scatenare un disturbo d’ansia generalizzato in persone predisposte, piuttosto che PTSD”.

DOMINARE LA PAURA: LA PTSD TRA TERRORISMO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Parla la dottoressa Paola Guerra, del Comitato Scientifico Clusit

“Non abbiate paura del dolore, o finirà o vi finirà”. Parole del filosofo e politico romano Seneca che restano sempre di grande attualità. In un periodo storico come quello che stiamo vivendo dove la tecnologia può essere usata come strumento di progresso o come arma terroristica, con più di un conflitto alle porte dell’Europa, la paura è un sentimento più che diffuso e il rischio che prenda il sopravvento nella vita delle persone è reale. Oggi si ha paura di restare vittime di un attentato, di trovarsi a vivere una guerra, di essere spiati o rimpiazzati dall’intelligenza artificiale: paure inimmaginabili fino a poco tempo fa e che possono essere causa di PTSD, Post Traumatic Stress Disorder. Ne ha parlato a Brain la dottoressa Paola Guerra del Comitato Scientifico Clusit (Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica).

“Il terrorismo è una tecnica di combattimento molto sofisticata che si distingue da altre forme di conflitto per il suo intento deliberato di creare caos e terrore nella popolazione attraverso l’uso della violenza o della minaccia di violenza. Lo scopo è di colpire a livello mediatico, e di visibilità generale, per dare grande evidenza alla causa che si vuole sostenere. Nelle azioni terroristiche è molto importante produrre un effetto imitativo per reclutare nuovi simpatizzanti, futuri adepti. È spesso diretto contro civili o infrastrutture critiche e viene generalmente condotto per raggiungere obiettivi politici, religiosi o ideologici”.

Negli ultimi anni, ha chiarito l’esperta, abbiamo assistito ad attacchi rivolti a soft target, luoghi ad alta frequentazione (fiere, mercati, piazze, centri commerciali). “I terroristi possono operare come singoli individui, gruppi, o a volte con il

sostegno o sotto la guida di organizzazioni più ampie. Le attività possono includere, ma non sono limitate a, attentati suicidi, bombardamenti, sparatorie, sequestri di persona e attacchi informatici. Le organizzazioni terroristiche mirano a provocare una reazione repressiva sproporzionata per sfruttarne il vantaggio politico provocando conflitti e minando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni” ha aggiunto.

Il clima di terrore che porta a pensare che possa accadere proprio a noi è un qualcosa che si autoalimenta man mano che questi fatti accadono. “Non abbiamo evidenze concrete di rischio terroristico in Italia, ma, considerati gli scenari mondiali, la situazione, anche nel nostro Paese, è di massima allerta. Il conflitto tra Israele e Hamas ha portato ad aumentare e sottoporre ad osservazione e controllo i siti considerati sensibili, che oggi sono oltre 28 mila. Il Viminale ha parlato di una minaccia fluida e credo che il concetto sia molto efficace per comprendere quanto peso possano avere le situazioni di radicalizzazione estremiste, ideologiche, sociali: pericoli quasi invisibili, non sempre verificabili e accertabili, soprattutto quando le minacce possono arrivare da ‘lupi solitari’, terroristi disposti a tutto che poi possono attivare vaste reti di contatti” ha spiegato la dottoressa.

L’impatto del fenomeno sulla vita delle persone può essere molto importante, lo stress post traumatico ne è un esempio. “La Società Italiana di Psichiatria ha affermato che il disturbo post traumatico da stress, che si manifesta con sintomi cronici persistenti come insonnia e ansia, dopo il Covid-19 può colpire una persona su tre. Proviamo a immaginare quanto possa essere peggiorata la situazione

vista la recrudescenza degli scenari di crisi internazionali. Non dimentichiamo però che il disturbo da stress post traumatico è solo una possibile conseguenza per chi vive un evento traumatogeno: il disagio può manifestarsi in altre forme come depressione, disturbi d’ansia, sintomi somatici non-specifici e, oltre ad effetti cognitivi sulla memoria, l’attenzione e comportamentali come ad esempio, disturbi di adattamento o l’uso di sostanze. Dimentichiamo però quanto straordinaria sia la capacità dell’essere umano di fronteggiare e rifiorire dopo un evento avverso. La risposta più normale e comune ad una criticità è infatti la resilienza, non la patologia. Ci focalizziamo sempre sugli aspetti clinici (che sono assolutamente fondamentali), ma credo sia doveroso e anche affascinante comprendere i processi e le condizioni che favoriscono il recupero del benessere psicologico dopo le avversità”.

“Non abbiate paura del dolore, o finirà o vi finirà”. Parole del filosofo e politico romano Seneca che restano sempre di grande attualità.

“La Società Italiana di Psichiatria ha affermato che il disturbo post traumatico da stress, che si manifesta con sintomi cronici persistenti come insonnia e ansia, dopo il Covid-19 può colpire una persona su tre. Proviamo a immaginare quanto possa essere peggiorata la situazione vista la recrudescenza degli scenari di crisi internazionali”.

La dottoressa Guerra ha voluto chiarire come cerchi continuamente di spiegare, nelle occasioni pubbliche che non è più una questione di ‘prepararsi’ ma di essere sempre preparati: “La differenza è notevole. E il focus deve essere posto soprattutto sulle persone, sulla loro salute e sul loro benessere prima di ritrovarsi a vivere una qualsiasi situazione di emergenza. Stare bene è una prerogativa per poter affrontare un evento avverso senza cadere nel caos organizzativo o nella patologia individuale. Dobbiamo tenere conto che i cambiamenti importanti che stiamo vivendo, con la loro complessità e incertezza, possono pesare psicologicamente sulle persone. E i dati su stress e salute mentale lo dimostrano”.

Per quanto riguarda invece la paura dell’intelligenza artificiale, l’esperta ha innanzitutto chiarito cosa si intende per IA: “E’ la capacità di una macchina di produrre un’intelligenza simile a quella umana per risolvere i problemi. L’intelligenza artificiale è l’opportunità che l’uomo ha per innovare e scrivere il futuro. Potrà dominarci? Non credo, lascio questo tema alle storie di fantascienza. Potremo subirla? Certamente. Sarà fondamentale un solo importantissimo accorgimento: l’approccio etico. Dovremmo lavorare su norme e procedure, gestire al meglio i dati sensibili e gli algoritmi. I software di intelligenza artificiale devono essere progettati in modo trasparente e sicuro e le informazioni che raccolgono devono essere protette da attacchi informatici o manipolazioni. Sarà importante educare all’utilizzo degli strumenti. In tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche sono proprio le regole a consentire lo sviluppo, la costruzione di un futuro in cui l’uomo sarà sempre molto di più di una macchina”.

Resta però la paura legata all’avanzamento tecnologico, una costante nella storia dell’umanità anche se oggi siamo più consapevoli: “Per la prima volta ci sentiamo violati nel profondo: telecamere registrano i nostri spostamenti quasi

ovunque, i supermercati sanno già cosa compreremo, le pubblicità digitali sembra ci leggano nel pensiero, possono essere pubblicati video con la mia immagine e la mia voce. Tutto questo fa paura.

La soluzione? Essere attenti, prudenti, consapevoli; ogni azione che ci viene chiesta sulla sicurezza delle informazioni o sul GDPR

è preziosa; leggere bene i moduli di richiesta dei consensi, verificare continuamente la tutela della privacy e non affidarsi totalmente a coloro che per una fidelity card ci chiedono anche il piano del palazzo in cui abitiamo”. Anche in questo caso lo sviluppo di sindromi mentali come quella da stress post traumatico legata per esempio alla perdita del lavoro richiede un’azione di contrasto. “La storia ci insegna che ogni importante traguardo tecnologico ha comportato un cambio radicale delle strutture e forme sociali dei Paesi. Le macchine che sostituiscono gli uomini ca va sans dire è un luogo comune che spaventa da sempre. In realtà però è proprio la storia ad insegnarci che nei grandi cambiamenti si aprono anche molte nuove opportunità. Alcuni impieghi scompariranno, ma non sono forse scomparsi anche i negozi di sviluppo delle fotografie quando si è passati alle immagini digitali? Quante nuove opportunità di grafica si sono poi create? Naturalmente la formazione continua, l’informazione, la creatività, l’intraprendenza, la resilienza saranno le parole chiave del futuro del mondo del lavoro” ha precisato Guerra.

L’esperta del Clusit ha infine voluto ricordare che è importante “integrare il fatto che gli eventi inattesi accadono e quindi è importante decidere di formarsi, di partecipare ad esercitazioni per apprendere cosa fare e per conoscere e gestire le proprie reazioni fisiologiche ed emotive. In molti paesi del mondo sono diffuse esercitazioni e simulazioni sui protocolli “Run, Hide and Tell”. Nelle nostre attività formative ed esercitative ne parliamo spesso già dal 2015. Questo aiuta a governare la paura e aumentare la consapevolezza”. (M. G.)

La soluzione? Essere attenti, prudenti, consapevoli; ogni azione che ci viene chiesta sulla sicurezza delle informazioni o sul GDPR è preziosa; leggere bene i moduli di richiesta dei consensi, verificare continuamente la tutela della privacy e non affidarsi totalmente a coloro che per una fidelity card ci chiedono anche il piano del palazzo in cui abitiamo”.

LA COSMETICORESSIA: UNA NUOVA OSSESSIONE

DELLE GIOVANISSIME

Utilizzo smodato di cosmetici anche al di sotto dei dieci anni

La società moderna è permeata da ideali di bellezza irrealistici, amplificati dai media e dalla cultura del perfezionismo. Recentemente, nel mondo della bellezza e della cura della pelle, si è manifestato un fenomeno preoccupante: la cosmeticoressia. Questo termine indica l’ossessione crescente di bambine e bambini, persino al di sotto dei dieci anni, per la cura della pelle e l’utilizzo smodato di cosmetici, ispirandosi a modelli proposti da beauty influencer e promossi sui social media.

La diffusione delle beauty routine delle mini-influencer su TikTok ha fatto sì che molte coetanee sentissero la necessità di far parte dello stesso gruppo, spingendole così a recarsi nei negozi di prodotti di bellezza per emulazione. Su Tik Tok numerose preadolescenti e bambine sono

protagoniste di tutorial di skincare in cui mostrano pratiche per l’esfoliazione della pelle, l’applicazione di sieri e creme antietà. Queste giovani sono state battezzate “Sephora Kids”, poiché si aggirano nei negozi del marchio omonimo, chiedendo consigli e provando tester di cosmetici.

Originatosi negli Stati Uniti, il fenomeno si è rapidamente diffuso anche in Italia, coinvolgendo milioni di bambine tra i 6 e gli 11 anni. Attraverso hashtag come #sephorakids, bambine e preadolescenti si trovano a utilizzare una vasta gamma di prodotti cosmetici destinati principalmente agli adulti, tra cui sieri, detergenti esfolianti, maschere e creme antietà. Tuttavia, molti di questi prodotti contengono ingredienti, quali retinolo, esfolianti e peptidi che presentano un rischio significativo per la salute della loro pelle potendo causare arrossa-

menti, gonfiori, pruriti e desquamazione. Al di sotto di una certa età si dovrebbero usare prodotti formulati appositamente per bambini che prendono in considerazione la tipologia di pelle e la salvaguardia del suo microbiota. La pelle preadolescenziale non è definitivamente strutturata poiché si avvia al cambiamento ormonale, con aumento di secrezione sebacea e comparsa di brufoli e imperfezioni. Collagene ed elastina sono robusti in questa fase della vita ma la pelle è comunque sensibile e la barriera cutanea si può facilmente alterare fino ad evidenziare rossori e infiammazioni, specie quando si utilizzano prodotti molto profumati o cosmetici contenenti ingredienti per utilizzi specifici su cuti di età più adulta.

Oltre ai rischi fisici, la cosmeticoressia comporta importanti ricadute psicologiche. La pressione sociale e l’idealizzazione di modelli di bellezza irraggiungibili possono portare le bambine a sviluppare insicurezze legate all’immagine corporea e all’autostima, alimentando un ciclo dannoso di perseguimento della perfezione estetica. L’uso eccessivo di trucco a una giovane età può portare a una scarsa comprensione dei concetti di bellezza naturale e autenticità, influenzando negativamente lo sviluppo dell’identità personale e della fiducia in sé stessi. Si continua, nella teoria, a fare proclami sull’indipendenza e l’autodeterminazione della donna, ma di fatto continuiamo a insinuare nella psiche delle nostre bambine l’idea che la bellezza sia un requisito indispensabile da raggiungere a tutti i costi per una vita felice e di successo. Questa ossessione per l’aspetto fisico, che poi si declina anche in altri ambiti, come quello della magrezza a tutti i costi, porta poi spesso a una percezione distorta dei propri difetti e alla elaborazione mentale di parametri ir-

raggiungibili di perfezione fisica. Le bambine capiscono ben presto che il loro corpo sarà costantemente sotto una sorta di lente d’ingrandimento, tesa a scansionare e giudicare su ogni aspetto. La forte precocità di questo fenomeno è un grande assalto del marketing su menti infantili che non hanno ancora gli strumenti per dare un senso ai gesti che compiono. Se però il gesto si reitera e diventa una cultura è preoccupante perché sancisce un prevalere estremo dell’apparire, e dell’apparire perfetti.

Non trascuriamo, inoltre, come queste tendenze possano amplificare le fragilità dei giovani appartenenti agli strati economicamente svantaggiati della società, che all’interno di questa alterata scala valoriale di riferimento rischiano di non ritenersi non “all’altezza” di coetanei in grado di investire budget consistenti nell’acquisto di questi prodotti.

Per contrastare questo fenomeno, è fondamentale l’intervento degli adulti, inclusi familiari e insegnanti. È importante educare le bambine sull’importanza di una cura di sé equilibrata, che non si concentri solo sull’aspetto esteriore, ma includa anche la salute mentale. Promuovere attività che rafforzino l’autostima e l’accettazione di sé, come l’arte, lo sport e il volontariato, può contribuire a creare un ambiente positivo e supportivo per le giovani. Inoltre, è essenziale sensibilizzare le famiglie, le scuole e la società nel suo complesso sull’importanza di una comunicazione responsabile sui social media e sulla necessità di adottare una visione critica nei confronti degli ideali di bellezza irrealistici. Dobbiamo incoraggiare le giovani a godere della loro età e a rispettare i tempi naturali di crescita, senza cedere alle pressioni esterne di conformarsi a standard inappropriati.

Per contrastare questo fenomeno, è fondamentale l’intervento degli adulti, inclusi familiari e insegnanti. È importante educare le bambine sull’importanza di una cura di sé equilibrata, che non si concentri solo sull’aspetto esteriore, ma includa anche la salute mentale.

C’È POSTO PER L’INTELLIGENZA

ARTIFICIALE IN PSICHIATRIA?

La medicina è un potenziale e promettente campo di applicazione dell’IA

di Antonio Tundo e Roberta Necci

Istituto di Psicopatologia – Roma

Intelligenza artificiale: cosa è e che ruolo ha in medicina?

L’Intelligenza Artificiale (IA) è la capacità di un software o di dispositivi digitali di svolgere alcune funzioni simili a quelle del cervello umano come apprendere, ragionare, risolvere problemi, progettare e creare. Già oggi utilizziamo alcune applicazioni dell’IA (un esempio per tutti, il riconoscimento facciale dei nostri smartphone), ma le sue potenzialità stanno crescendo vertiginosamente grazie alla disponibilità di dispositivi sempre più potenti, alla grande quantità di dati da inserire (i così detti big data) e allo sviluppo di algoritmi e connessioni sempre più elaborate (cioè delle istruzioni che i dispositivi utilizzano per processare questi dati). Ed è così che non passa giorno senza sentire parlare, a volte con entusiasmo, più spesso con preoccupazione, di come l’IA stia cambiando e sempre più cambierà la nostra vita.

La medicina è un potenziale e promettente campo di applicazione dell’IA a partire dalla diagnostica campo in cui gli specialisti hanno iniziato a utilizzarla per leggere ecografie, TAC, risonanze magnetiche, mammografie, gastro-colonscopie ed elettrocardiogrammi dichiarando nel referto di essersi avvalsi di questo strumento. Ulteriori possibili applicazioni, in fase di sviluppo, riguardano la chirurgia (interventi mediante robot assistiti dall’IA sarebbero più precisi e meno invasivi), la medicina generale e specialistica (l’IA può aiutare i medici nella diagnosi e nella scelta del farmaco più adatto alla persona aumentando le probabilità di risposta e riducendo il rischio di effetti collaterali) e la sanità pubblica (l’IA può contribuire alla prevenzione delle malattie infettive e a riconoscere le persone a rischio di sviluppare specifiche patologie).

L’Intelligenza

Artificiale (IA)

è la capacità di un software o di dispositivi digitali di svolgere alcune funzioni simili a quelle del cervello umano come apprendere, ragionare, risolvere problemi, progettare e creare.

E’ immaginabile l’uso dell’intelligenza artificiale in psichiatria?

C’è molto scetticismo sulla possibilità che un giorno l’IA possa trovare un’applicazione in psichiatria perché il percorso seguito per fare diagnosi in questa disciplina è molto diverso da quello del resto della medicina.

In medicina, infatti, la diagnosi si basa su sintomi obiettivi e sui risultati degli accertamenti di laboratorio (analisi) e strumentali (ecografia, risonanza magnetica, elettrocardiogramma, ecc.). Si tratta di dati oggettivi che un programma è in grado di confrontare rapidamente con milioni di informazioni analoghe memorizzate (big data e biomarker, di cui parleremo più avanti) per dare una risposta al quesito posto dal clinico (diagnosi, gravità, possibile evoluzione, probabilità di risposta a una cura, ecc.). In psichiatria, al contrario, la diagnosi si basa su sintomi, sul racconto di vissuti, sui comportamenti e sulle reazioni emotive durante la visita, sulla relazione medico paziente e su molti altri aspetti (sguardi, gestualità, modo di parlare per fare qualche esempio) che contribuiscono a chiarire il quadro ma che difficilmente possono essere trasformati in dati oggettivi e analizzabili da un programma.

Da qui lo scetticismo. A prima vista, infatti, sembrerebbe irrealistico pensare che l’IA, uno strumento “freddo”, possa dare un contributo alla diagnosi e alla cura delle malattie mentali.

Ma solo a prima vista perché, come vedremo nella prossima sezione, con informazioni diverse da quelle utilizzate tradizionalmente, ciò che sembra irrealistico potrebbe non esserlo più.

Cosa potrebbe consentire l’uso dell’intelligenza artificiale in psichiatria?

Al momento ci sono tre strumenti

che possono aggiungere dati oggettivi, e quindi utilizzabili dall’IA, per supportare la diagnosi e il trattamento dei disturbi mentali.

Gli smart device. Quei congegni elettronici “intelligenti” dotati di sensori (cellulari, orologi, occhiali, braccialetti, cerotti, magliette) che autonomamente rilevano dati e li inviano a una rete informatica. Si tratta di dati biometrici come ore di sonno, quantità di attività fisica svolta, tempo di esposizione alla luce, frequenza e caratteristiche del battito cardiaco, caratteristiche dell’andatura, frequenza della respirazione, dieta e calorie consumate. Queste informazioni sono dati aggiuntivi preziosi, in molti casi vere e proprie “spie”, per valutare lo

stato emotivo di una persona che gli specialisti cercano di ricostruire durante la visita in base ai ricordi della persona e dei suoi familiari. Ma spesso i ricordi sono incerti e poco precisi mentre le registrazioni degli smart device danno informazioni oggettive, continuative e certe attraverso grafici dettagliati.

Inoltre gli smart device, mediante apposite applicazioni, possono raccogliere anche informazioni sul comportamento online della persona (durata e frequenza dell’uso dello smartphone, intonazione e ritmo della voce durante le telefonate, analisi delle espressioni facciali e visive e dei contenuti audio e video postati sui social).

Infine, gli smartphone possono essere utilizzati anche per la compilazione periodica (quotidiana o settimanale) di questionari di auto-valutazione per registrare l’eventuale presenza di sintomi d’ansia, depressione ecc.

Big data e biomarker sono gli altri due strumenti, che la psichiatria condivide con il resto della medicina, Si tratta di quella enorme massa di dati contenuti nei grandi archivi medici (cartelle cliniche dei sistemi sanitari nazionali, degli ospedali, dei centri clinici e di ricerca) e delle assicurazioni (big data) e dei risultati delle ricerche di tipo biologico (analisi genetiche e di laboratorio, elettroencefalogramma, risonanza magnetica cerebrale, ecc.) condotte su persone con disturbi mentali (biomarker). Una volta introdotti nel sistema, i dati vengono elaborati e confrontati con quelli della persona in cura e possono dare una risposta ai quesiti posti dallo specialista.

Questi dati elaborati dall’IA a cosa potrebbero essere utili in psichiatria?

Negli ultimi anni diversi studi hanno cercato di indagare se i dati provenienti dagli smart device, dai big data e dai biomarker ed elaborati dall’IA possono dare un aiuto concreto nella diagnosi e nel trattamento delle patologie psichiatriche più comuni, in particolare nei disturbi dell’umore (depressione e disturbo bipolare).

Gli studi si sono concentrati sulla possibilità di:

- riconoscere le persone a rischio di sviluppare questi disturbi nella popolazione generale;

- supportare gli psichiatri nella diagnosi e nella valutazione del rischio di suicidio;

- contribuire alla scelta di una cura personalizzata.

a) Riconoscimento delle persone a rischio

C’è molto scetticismo sulla possibilità che un giorno l’IA possa trovare un’applicazione in psichiatria perché il percorso seguito per fare diagnosi in questa disciplina è molto diverso da quello del resto della medicina.

Attraverso l’analisi dei biomarker, e in particolare delle caratteristiche dell’elettroencefalogramma, l’IA sembrerebbe in grado di fornire informazioni aggiuntive sulla risposta ai più comuni antidepressivi e alla psicoterapia cognitiva, su chi non risponderà a due o più cicli con antidepressivi (in questi casi tecnicamente si parla di depressione resistente) e a quali cure è più sensibile chi presenta una depressione resistente.

Combinando i dati biometrici, quelli relativi alle espressioni facciali e visive e l’analisi dei contenuti audio e video postati sui social (registrati dagli smart device) l’IA è in grado di identificare con un’elevata accuratezza (95% dei casi) chi, tra adolescenti e giovanissimi, può sviluppare o presenta già sintomi di ansia o depressione o ha idee di suicidio. Attraverso l’attivazione di una specifica applicazione, in presenza di un rischio di suicidio il sistema invia un messaggio di allerta ai familiari e, se previsto, alla struttura specialistica di riferimento. L’analisi dell’attività motoria e delle caratteristiche dell’andatura, rilevate con gli smart device, consente inoltre di riconoscere le persone con alto rischio di sviluppare un disturbo bipolare nella popolazione generale.

Attraverso l’elaborazione dei dati socio-demografici, clinici, genetici e di laboratorio l’IA può predire con una buona accuratezza (fino all’80% dei casi) chi tra le donne in gravidanza svilupperà una depressione dopo il parto.

Se questi risultati preliminari dovessero essere confermati da ricerche più ampie l’IA potrebbe essere uno strumento di prevenzione per riconoscere le persone a rischio di sviluppare un disturbo dell’umore o condotte suicidarie e orientare risorse economiche e umane su queste piuttosto che sulla popolazione generale.

b) Supporto alla diagnosi

L’IA sembrerebbe in grado sia di individuare un disturbo depressivo e un disturbo bipolare e distinguere queste due patologie tra di loro sia di differenziare queste due patologie da altre che hanno sintomi almeno in parte simili (quella che tecnicamente si chiama “diagnosi differenziale”).

Per la diagnosi e la diagnosi differenziale l’IA utilizza i biomarker

(risonanza magnetica, risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogramma, analisi di laboratorio e test genetici) o le informazioni degli smart device (comportamento online e risultati dei questionari di auto-valutazione).

Inoltre, attraverso l’analisi dei dati sociodemografici e clinici potrebbe predire chi, nella popolazione generale e tra le persone che soffrono di un disturbo dell’umore, è a rischio di compiere tentativi di suicidio.

Avere delle informazioni in più, come quelle che l’IA sembrerebbe fornire, sarebbe utile per gli psichiatri perché spesso, soprattutto all’inizio del percorso terapeutico, anche clinici esperti possono avere dubbi sulla diagnosi (i ricordi lacunosi e la presenza di patologie con manifestazioni simili non aiutano) o nella valutazione del rischio di suicidio (a volte negato o minimizzato).

Anche in questo caso, comunque, siamo ai primi passi e servono ulteriori verifiche prima che l’IA entri a pieno titolo come strumento di supporto alla diagnosi in psichiatria.

c) Selezione della cura

Attraverso l’analisi dei biomarker, e in particolare delle caratteristiche dell’elettroencefalogramma, l’IA sembrerebbe in grado di fornire informazioni aggiuntive sulla risposta ai più comuni antidepressivi e alla psicoterapia cognitiva, su chi non risponderà a due o più cicli con antidepressivi (in questi casi tecnicamente si parla di depressione resistente) e a quali cure è più sensibile chi presenta una depressione resistente.

La possibilità di personalizzare le cure con l’aiuto dell’IA è un’ipotesi interessante ma ancora tutta da dimostrare perché gli studi su questo argomento sono assolutamente insufficienti.

Intelligenza artificiale: lo psicoterapeuta del futuro?

Il rapido progresso dell’IA sta generando prospettive inedite anche nell’ambito della psicoterapia dove si cominciano ad utilizzare chatbot (programmi progettati per simulare una conversazione con l’essere umano) per gli interventi psicoterapeutici. Le attuali applicazioni prevedono sia sedute di integrazione alla psicoterapia condotta da un terapeuta umano, sia un sostegno psicologico o un percorso di mindfulness, sia una vera e propria psicoterapia a orientamento cognitivo comportamentale.

L’uso di un dispositivo, per quanto smart, come psicoterapeuta sta suscitando un grande dibattito tra psichiatri e psicologi, e nella comunità scientifica. Alcuni sono favorevoli e sottolineano quanto si tratti di uno strumento terapeutico alla portata di tutti (un abbonamento mensile a un chatbot costa pochi dollari), con un’accessibilità che nessun terapeuta umano può garantire (qualsiasi ora, qualsiasi giorno, tutto l’anno), disponibile anche per chi vive in zone isolate, che garantisce l’anonimato e che, non trattandosi di una persona, permette di sentirsi non giudicato, con maggiore libertà di espressione e dunque più a proprio agio.

Altri, la maggior parte, sono contrari e sottolineano che: non ci sono studi sull’efficacia e sulla sicurezza di questi interventi (soprattutto in caso di situazioni critiche come idee di suicidio), l’accessibilità totale potrebbe creare una dipendenza psicologica, la macchina non tiene conto del linguaggio non verbale (atteggiamento fisico, contatto visivo, pianto ecc.) e, soprattutto, non è in grado di stabilire una relazione umana, autentica, empatica e di dare risposte personalizzate.

Sebbene siano allo studio numerose potenziali applicazioni dell’IA in psichiatria, a nostro parere per ora solo i dati oggettivi (ore di sonno, attività fisica svolta, tempo di esposizione alla luce, frequenza e caratteristiche del battito cardiaco, della respirazione, dell’alimentazione) rilevati dagli smart device potrebbero trovare una reale utilizzazione pratica a breve. Si tratta infatti di informazioni già oggi ampiamente disponibili (chi non ha uno smartphone?) e utili per dare allo specialista degli elementi in più a integrazione dei criteri che abitualmente utilizza per la diagnosi e per monitorare l’andamento di alcuni sintomi tra una visita e l’altra. E’ ancora tutta da confermare la possibilità che l’IA possa supportare gli psichiatri nella scelta della terapia mentre desta molte perplessità l’uso dei chatbot per la psicoterapia.

In ogni caso, quando parliamo di intelligenza artificiale applicata alla psichiatria ci riferiamo sempre a uno strumento a supporto e non in sostituzione dello specialista umano.

L’IA è un mezzo sofisticato in grado di raccogliere, mantenere in memoria ed elaborare un’enorme quantità di informazioni e, se richiesto, di confrontarle rapidamente con i dati della persona in cura per contribuire alla soluzione di particolari dubbi di diagnosi e (forse) di terapia.

Ma prima di essere utilizzato su larga scala richiede che vengano risolti moltissimi problemi ancora in sospeso soprattutto di natura etica, di garanzia della protezione dei dati personali e di natura legale.

Problemi che riguardano tutte le applicazioni dell’intelligenza artificiale ma che sono particolarmente rilevanti quando si tratta di gestire dati sensibili relativi alla salute mentale delle persone.

L’uso di un dispositivo, per quanto smart, come psicoterapeuta sta suscitando un grande dibattito tra psichiatri e psicologi, e nella comunità scientifica. Alcuni sono favorevoli e sottolineano quanto si tratti di uno strumento terapeutico alla portata di tutti.

DISTURBI DI PERSONALITÀ FENOMENO ALLARMANTE

E IN COSTANTE ESPANSIONE

Uno dei principali fattori che contribuiscono all’aumento del fenomeno è l’evoluzione della società moderna

di Alessandro Cuomo, Despoina Koukouna, Mario Pinzi, Simone Pardossi, Matteo Cattolico, Caterina Pierini, Andrea Fagiolini

Università di Siena, Dipartimento di Medicina Molecolare e Dipartimento Assistenziale Integrato di Salute Mentale e Organi di Senso

Negli ultimi decenni, c’è stata una crescente consapevolezza e attenzione verso i disturbi di personalità, e ciò non è dovuto solo a una maggiore sensibilità verso la salute mentale, ma anche a un’effettiva crescita nell’incidenza di tali disturbi. L’aumento dei disturbi di personalità rappresenta una tendenza preoccupante che richiede una comprensione approfondita e azioni concrete per affrontarla. Uno dei principali fattori che contribuiscono all’aumento dei disturbi di personalità è l’evoluzione della società moderna. Le aspettative e le pressioni per il successo personale sono diventate sempre più intense, creando un ambiente in cui il narcisismo e l’ipercompetitività possono prosperare. I social media, con il loro focus sull’immagine e sull’approvazione esterna, hanno anche giocato

un ruolo significativo nell’accentuare il narcisismo e l’ansia da prestazione.

La crescente competitività in ambito accademico e lavorativo, insieme alle pressioni sociali per conformarsi agli standard culturali dominanti, possono creare stress e ansia diffusi. Questi fattori possono contribuire allo sviluppo di disturbi di personalità, in particolare quelli legati al Cluster B, come il disturbo narcisistico di personalità.

Anche i modelli familiari e le esperienze educative possono influenzare lo sviluppo dei disturbi di personalità. Ambienti familiari disfunzionali, traumi infantili e mancanza di supporto emotivo possono aumentare il rischio di sviluppare disturbi di personalità.

Studi hanno anche suggerito che i disturbi di personalità possono avere una componente genetica e biologica.

Anomalie nelle regioni cerebrali coinvolte nella regolazione delle emozioni e dei comportamenti possono contribuire alla suscettibilità a tali disturbi.

Riconoscere precocemente i segni dei disturbi di personalità e intervenire tempestivamente è fondamentale per prevenire complicazioni future e migliorare la qualità della vita dei pazienti. Ciò richiede un impegno collettivo da parte della comunità, inclusi professionisti della salute mentale, educatori, genitori e individui stessi.

Già nel 400 a.C. Ippocrate teorizzava l’influenza di quattro umori corporei sul comportamento umano, un’idea precursoria dei moderni tratti di personalità. La prima descrizione che più si avvicina a quello che oggi è noto come un disturbo di personalità risale al XVIII secolo quando Pinel coniò l’espressione “Maine sans delire” descrivendo una serie di pazienti

dotati di normale comprensione, giudizio, memoria e percezione che però si comportavano in modo irrazionale con agiti impulsivi, violenti, inspiegabili e ingiustificabili.

Il grande cambiamento nella sistematizzazione dei disturbi di personalità arrivò con la pubblicazione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) nel 1952. Già dalla prima edizione e in seguito con le successive revisioni, il DSM ha affinato e categorizzato i disturbi di personalità in gruppi e tipi specifici, basandosi su criteri più empirici e meno teorici.

Attualmente il DSM divide i disturbi di personalità in tre gruppi principali (Cluster) riconoscendo 10 disturbi di personalità differenti.

Questi cluster sono categorizzati sulla base di tratti e comportamenti simili che tendono a presentarsi insieme.

Uno dei principali fattori che contribuiscono all’aumento dei disturbi di personalità è l’evoluzione della società moderna.

La crescente competitività in ambito accademico e lavorativo, insieme alle pressioni sociali per conformarsi agli standard culturali dominanti, possono creare stress e ansia diffusi. Questi fattori possono contribuire allo sviluppo di disturbi di personalità, in particolare quelli legati al Cluster B, come il disturbo narcisistico di personalità.

Numerosi studi hanno evidenziato un aumento significativo nei tassi di diagnosi soprattutto nel Disturbo Narcisistico di Personalità (NPD) e nel Disturbo Borderline di Personalità (BPD). Secondo i dati del National Institutes of Health, il BPD colpisce circa il 1.6% della popolazione adulta negli Stati Uniti, con stime che arrivano fino al 5.9% per le forme più lievi. Similmente, la prevalenza del NPD è stimata intorno all’1% della popolazione generale, con punte più alte in certi contesti clinici.

Il disturbo Borderline di Personalità

Il termine “borderline” fu introdotto per la prima volta negli anni 30 da Adolph Stern, psichiatra americano, per descrivere quei pazienti che presentavano sintomi che non erano né tipicamente psicotici né tipicamente nevrotici, ma piuttosto appartenevano a una sorta di area intermedia o “zona di confine” tra le due, evidenziando così la loro posizione unica nel panorama dei disturbi mentali.

Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) è una condizione psichiatrica complessa caratterizzata da una instabilità pervasiva delle emozioni con comportamenti impulsivi e conflittualità nellerelazioni interpersonali caratterizzate da repentini passaggi dall’ ipervalutazione al disprezzo. Le persone affette da BPD sperimentano intense fluttuazioni emotive e lottano con un profondo senso di vuoto e con la paura dell’abbandono compiendo spesso atti autolesionistici.

Le manifestazioni cliniche del BPD sono varie e spesso si sovrappongono con altri disturbi psichiatrici, il che rende la diagnosi una sfida.

Il BPD influisce significativamente sulla qualità della vita dell’individuo, limitando la capacità di completare la formazione scolastica, mantenere un impiego stabile e sviluppare relazioni personali durature. Le fluttuazioni emotive e i comportamenti impulsivi possono portare a ripercussioni legali, finanziarie e sociali gravi, compromettendo spesso la stabilità personale e quella delle persone vicine.

Uno degli aspetti più allarmanti del BPD è l’elevato rischio di suicidio che presenta un tasso significativamente più alto rispetto alla popolazione generale.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità

Il Disturbo Narcisistico di Personalità (NPD) è una condizione complessa che si manifesta attraverso tratti di grandiosità, un incessante bisogno di ammirazione e una marcata mancanza di empatia. Il DSM-5 identifica nove criteri specifici per diagnosticare il NPD, richiedendo che un individuo ne soddisfi almeno cinque. Tra questi si evidenziano la grandiosità e l’esigenza di costante approvazione.

Negli anni psichiatri e psicologi

hanno esplorato il narcisismo patologico, identificando principalmente due forme: il narcisismo “overt” (o grandioso) e il narcisismo “covert” (o vulnerabile). Nonostante entrambi appartengano al disturbo narcisistico questi due gruppi si distinguono per le loro espressioni e dinamiche interne.

Il narcisismo overt è quello più facilmente riconoscibile, con individui che ostentano un senso esagerato della propria importanza e un’evidente sicurezza in se stessi, spesso senza fondamenta solide. Questi individui tendono a cercare posizioni di rilievo e desiderano essere sempre al centro dell’attenzione. Accanto alla loro apparente sicurezza si trova inoltre un profondo disinteresse per il benessere altrui che può sfociare in comportamenti arroganti e prepotenti.

Il narcisismo covert, invece, è più sottile e difficile da identificare. Le persone con questo tipo di narcisismo possono apparire timide o modeste, ma internamente sono tormentate da insicurezza e da un intenso bisogno di ammirazione e validazione. Sono estremamente sensibili alle critiche e possono reagire con rabbia e tristezza profonda quando si sentono trascurate o sottovalutate.

Vi sono molte ipotesi riguardo al ruolo dell’ambiente socio-culturale dei nostri giorni e del suo contribu-

to nell’incrementare l’insorgenza dei disturbi di personalità e, in particolar modo, il Disturbo Borderline e il Disturbo Narcisisitico.

Il ruolo della Società Moderna

Come accennato sopra, la società moderna spesso impone aspettative elevate in termini di successo accademico, professionale e personale. Queste aspettative possono generare un’estrema pressione, particolarmente nei giovani, che possono contribuire nel generare instabilità emotiva e ipersensibilità alle critiche a causa dell’intensa paura di fallire e di non essere all’altezza.

Inoltre, anche l’uso massivo dei social media può esacerbare il bisogno di approvazione costruendo un’ immagine idealizzata di sé, ipersensibile alle critiche.

Piattaforme come Instagram, Facebook e Twitter offrono un palcoscenico globale dove le persone possono autopromuoversi e cercare costantemente approvazione e adorazione. Il numero di “like”, “followers” e “condivisioni” può diventare un indicatore del proprio valore personale, alimentando un “narcisismo digitale” che può portare a una ridotta capacità di stabilire relazioni sane e soddisfacenti determinando diminuzione dell’empatia e della solidarietà.

La società moderna premia sem-

Già nel 400 a.C. Ippocrate teorizzava l’influenza di quattro umori corporei sul comportamento umano, un’idea precursoria dei moderni tratti di personalità. La prima descrizione che più si avvicina a quello che oggi è noto come un disturbo di personalità risale al XVIII secolo quando Pinel coniò l’espressione “Maine sans delire”.

Il grande cambiamento nella sistematizzazione dei disturbi di personalità arrivò con la pubblicazione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) nel 1952. Già dalla prima edizione e in seguito con le successive revisioni, il DSM ha affinato e categorizzato i disturbi di personalità in gruppi e tipi specifici, basandosi su criteri più empirici e meno teorici.

pre più comportamenti narcisistici. La cultura dell’individualismo e del successo personale a tutti i costi spinge le persone a mettere se stesse al centro dell’attenzione, spesso a discapito delle relazioni interpersonali e della compassione verso gli altri. Questo ambiente sociale favorisce lo sviluppo di tratti narcisistici e può portare alla cristallizzazione di un disturbo di personalità.

La componente ereditaria e il proprio vissuto

Oltre ai fattori ambientali numerosi studi hanno indicato come i disturbi di personalità di Cluster B abbiano una significativa componente ereditaria.

Studi di associazione del genoma e analisi di linkage hanno identificato alcuni geni candidati e associati al BPD soprattutto coinvolti nei sistemi serotoninergici e dopaminergici. Alcuni polimortfisimi genici, maggiormente presenti in specifici disturbi di personalità, risultano infatti associati a tratti di impulsività e aggressività. Tuttavia, questi risultati non sono universali e suggeriscono una complessa interazione poligenica.

Ricerche di neuroimaging hanno inoltre mostrato che i pazienti con BPD presentano anomalie nelle regioni cerebrali associate alla regolazione delle emozioni e al controllo degli impulsi, come l’amigdala, il cingolo anteriore e la corteccia prefrontale, con evidenza alla risonanza magnetica funzionale di una iperattività dell’amigdala e a una ridotta attività della corteccia prefrontale; tale dato può spiegare la difficoltà nel controllare le emozioni e i comportamenti impulsivi.

Infine, è importante sottolineare come esperienze traumatiche durante l’infanzia, quali abuso fisico, emotivo o sessuale, negligenza nell’accudi-

mento, perdita precoce di un genitore e altre forme di abbandono siano comuni tra coloro che sviluppano disturbi di personalità e in particolare il BPD andando ad influenzare lo sviluppo e la capacità di regolare le emozioni e gestire lo stress.

Trattamento dei Disturbi di personalità

Non esistono farmaci specificamente approvati per i disturbi di personalità, tuttavia, gli interventi farmacologici possono essere utili per gestire i sintomi specifici o comorbidità. Per il Disturbo Borderline di Personalità gli stabilizzatori dell’umore come e gli antipsicotici atipici sono spesso prescritti per mitigare l’instabilità emotiva e ridurre i comportamenti impulsivi.

Per il Disturbo Narcisistico di personalità il trattamento farmacologico è meno definito a causa della mancanza di studi specifici. Tuttavia, non è infrequente trattare questi pazienti con farmaci antidepressivi per trattare sintomi comorbidici o stabilizzatori dell’umore per moderare possibili fluttuazioni dell’umore o comportamenti aggressivi.

Per entrambi i disturbi la psicoterapia risulta di primaria importanza:

Per il Disturbo Borderline di Personalità la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) è considerata uno degli approcci più efficaci. La DBT si concentra sulla regolazione emotiva, la tolleranza allo stress, e il miglioramento delle abilità interpersonali.

Per il Disturbo Narcisistico di personalità la psicoterapia si concentra principalmente sulla comprensione e gestione delle dinamiche del sé e delle relazioni interpersonali. Tuttavia, la ricerca è ancora limitata, e la necessità di trattamenti personalizzati è cruciale.

Importanza della Riconoscimento Precoce e dell’Intervento

Riconoscere i segni di disagio mentale nelle sue fasi iniziali è fondamentale non solo per prevenire l’escalation dei sintomi, ma anche per assicurare un intervento tempestivo che può radicalmente migliorare la qualità della vita dei pazienti.

La comprensione e la classificazione dei disturbi di personalità hanno subito significative evoluzioni negli ultimi anni, con trattamenti sempre più specifici e affinati che offrono migliori prospettive di recupero. La chiave per un approccio efficace risiede nella capacità di sensibilizzare e educare non solo i professionisti della salute mentale, ma anche la comunità più ampia, inclusi educatori, genitori e i giovani stessi.

Un intervento precoce non solo

mitiga i sintomi prima che diventino più radicati e distruttivi, ma supporta anche lo sviluppo di competenze relazionali e di auto-regolazione efficaci, consentendo ai giovani di proseguire in un percorso di crescita più sano, aumentando la possibilità di raggiungere i propri obiettivi personali, accademici e professionali.

Intercettare e trattare questi disturbi fin dalle prime manifestazioni di disagio previene lo sviluppo di patologie ad essi correlate come la depressione, i disturbi d’ansia e l’abuso di sostanze.

La continua evoluzione nella comprensione di questi disturbi e l’implementazione di strategie educative e terapeutiche adeguate sono pertanto prioritari per migliorare sostanzialmente la vita di questi individui e delle loro famiglie.

La continua evoluzione nella comprensione di questi disturbi e l’implementazione di strategie educative e terapeutiche adeguate sono pertanto prioritari per migliorare sostanzialmente la vita di questi individui e delle loro famiglie.

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ABBATTERE LO STIGMA LA DIVULGAZIONE PER UNA SOCIETÀ PIÙ INCLUSIVA

L’impegno della Fondazione BRF per avvicinare l’opinione pubblica al mondo della salute mentale

Se una persona rimane coinvolta in un incidente e deve subire un intervento oppure scopre di avere una malattia degenerativa, la società si stringe intorno al paziente e alla famiglia per mostrare supporto e comprensione.

Quando una persona dichiara di avere una patologia mentale, di soffrire di ansia, depressione o disturbi alimentare ecco che la società si allontana.

La sensazione di solitudine e abbandono che spesso sperimenta chi soffre di una patologia della mente è strettamente legata allo stigma che da sempre pesa sulla salute e sul benessere mentale.

Un fenomeno appunto che non si presenta per nessun’altra patologia.

Allora perché accade?

Il concetto di stigma correlato alla salute mentale venne evidenziato per la prima volta dal sociologo canadese Erwin Goffman che identifica tre diverse forme in cui si manifesta: istitu-

zionale, sociale e interiorizzato.

Si parla di stigma istituzionale in relazione alle leggi che limitano i diritti dei pazienti psichiatrici.

Lo stigma sociale invece si identifica in stereotipi diffusi che generano pregiudizi e discriminazioni, da qui arriva l’esclusione dalla società.

Infine, lo stigma interiorizzato fa riferimento alla percezione che la persona malata ha di se stessa.

L’ultimo aggiornamento del “Rapporto annuale sulla Salute Mentale” evidenzia che nel nostro Paese nel 2022 sono state più di 750.000 le persone che hanno richiesto assistenza dai servizi; nell’Unione Europea invece sono circa 9 milioni gli adolescenti che riscontrano un problema legato alla salute mentale.

L’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, dichiara che una persona su quattro nel corso della propria vita sperimenterà un disturbo mentale, il che significa che guardandoci intorno

FONDAZIONE

mentre camminiamo per strada sono davvero molte le persone che potrebbero stare vivendo una situazione di disagio.

Come possiamo contrastare quindi questa distanza che si crea all’interno della società? E come possiamo facilitare la vita di chi soffre di una patologia mentale?

Affrontare ogni forma di stigma significa promuovere una cultura di accettazione e supporto, evidenziando l’importanza della divulgazione: parlare apertamente di salute mentale, condividere le proprie esperienze, è il primo passo per trasmettere un messaggio positivo che non lascia spazio alla vergogna nell’affrontare la malattia.

È infatti necessario ricordare a chi sta affrontando questo percorso che chiedere aiuto non deve essere visto come una debolezza, ma come un segno di forza.

Diventa quindi di essenziale la condivisione: parlare delle proprie esperienze permette a chi soffre di non sentirsi solo di fronte al problema, creando uno spazio sicuro in cui sarà possibile abbattere il pregiudizio e trovare il giusto sostegno.

Ma come possiamo ridurre l’isolamento, quella bolla di silenzio che sperimenta il paziente psichiatrico? Concentrare l’attenzione sulla discussione riguardo la salute mentale gioca un ruolo cruciale nel percorso di recupero del paziente, supportando in questo modo anche i familiari che vivono la malattia di riflesso. Nonostante i continui progressi che stiamo facendo, lo stigma rimane, tanto che sono anche molti coloro che si rifiutano di accettare la propria malattia o ammettere di frequentare sedute di psicoterapia.

È necessario quindi adeguare il linguaggio e favorire le rappresentazioni nei media che rendono giustizia alla situazione, senza ripetere stereotipi dannosi.

La Fondazione BRF ONLUS da più di dieci anni, oltre ad occuparsi di ricerca scientifica, porta avanti un progetto di divulgazione che va ampliandosi anno dopo anno: insieme BRAIN, il festival “Lucca in mente” vuole approfondire il concetto di benessere psicofisico grazie al contributo di personaggi noti dal mondo della cultura, della scienza e del giornalismo, proprio per dar voce all’esperienza diretta e coinvolgere il pubblico in una discussione che nel periodo che stiamo vivendo è divenuta indispensabile.

La collaborazione con le scuole del territorio cresce grazie al progetto di divulgazione e educazione alle emozioni che ha coinvolto diverse classi secondarie della Provincia di Lucca: studenti e insegnanti si sono messi in gioco direttamente per scoprire le emozioni e con esse le problematiche che possono derivarne, come ansia, depressione o disturbi alimentari; con l’aiuto di una psichiatra specializzata hanno analizzato le possibili cause scatenanti e i metodi per contrastare i disturbi.

I progetti di divulgazione della Fondazione BRF sono tanti e vanno espandendosi ogni giorno con l’obiettivo di creare un ambiente in cui la salute mentale sia trattata con lo stesso rispetto e la stessa considerazione della salute fisica.

Nonostante i continui progressi che stiamo facendo, lo stigma rimane, tanto che sono anche molti coloro che si rifiutano di accettare la propria malattia o ammettere di frequentare sedute di psicoterapia.

L’EVENTO “TRAIN OF THE TRAINERS” ALL’UNIVERSITÀ DI HEIDELBERG

Le attività della Fondazione BRF con un consorzi di partner europei nell’ambito del programma ERASMUS+ di Redazione

Nel corso dei giorni 16 e 17 aprile, l’Università di Heidelberg, in Germania, ha ospitato, nell’ambito del progetto Glide-19, l’evento “Train of the Trainers”, al quale hanno partecipato anche i ricercatori della Fondazione BRF. Questo incontro, dedicato alla promozione e al perfezionamento del corso “Glide-19”, ha permesso ad oltre 20 professionisti della salute provenienti da varie parti d’Europa, di riunirsi ad Heidelberg per due giorni intensi di attività interattive e di esplorazione del corso “Glide-19”. Questo corso rappresenta un’iniziativa all’avanguardia sviluppata da un consorzio di partner europei nell’ambito del programma ERASMUS+, con l’obiettivo di fornire un percorso formativo mirato ai professionisti operanti nel vasto ambito della sanità. Fondato su un mix di materiali all’avanguardia e attività pratiche

coinvolgenti, il corso si propone di potenziare le capacità dei professionisti sanitari per affrontare efficacemente le complessità di potenziali nuove pandemie. Approfondendo le esperienze cruciali e le lezioni apprese dalla pandemia da COVID-19, il corso affronta quattro pilastri fondamentali nella gestione delle emergenze sanitarie: prevenzione, trattamento, riabilitazione e supporto alla salute mentale.

Il corso è stato sviluppato grazie all’impegno collaborativo di professionisti sanitari provenienti da diversi ambiti, che lavorano in uno dei quattro partner del progetto: Fondazione BRF (Italia), Fundacion Intras (Spagna), Università di Heidelberg (Germania) e Università di Maastricht (Paesi Bassi).

Articolato in una struttura di nove moduli, ciascuno disegnato con cura per favorire esperienze di apprendimento complete, il corso Glide offre un viaggio multidisciplinare attraverso

le complessità della gestione di un’emergenza pandemica. Dai concetti fondamentali offerti nel Modulo 1 all’esplorazione approfondita del supporto alla salute mentale del Modulo 7, ogni modulo rappresenta un mattoncino nella crescita professionale dei partecipanti.

Ciascun modulo mixa contenuti teorici e applicazioni pratiche. I partecipanti non solo acquisiscono conoscenze teoriche attraverso testi, slide e video, ma vengono anche sfidati ad applicare ciò che imparano attraverso quiz, riflessioni e casi clinici. Il culmine del percorso è segnato dal Modulo 9: Valutazione Finale e Integrazione delle Conoscenze, dove i partecipanti sono invitati a sintetizzare ciò che hanno imparato e dimostrare padronanza del materiale del corso.

Durante l’evento “Train of the Trainers”, i professionisti coinvolti hanno analizzato approfonditamente tutti i moduli per apprezzarne i punti

di forza e segnalare ai creatori del corso i punti di debolezza, contribuendo così a perfezionarlo prima della sua distribuzione effettiva. Inoltre, una serie di attività interattive legate alla comunicazione medico-paziente, medico-caregiver e medico-comunità hanno impegnato i partecipanti nel secondo giorno di training. Ciascun partecipante ha anche appreso come trasferire le conoscenze acquisite ad altri interessati (colleghi, organizzazioni affiliate, ecc.) così da massimizzare l’impatto del corso.

Sei un professionista della salute e vuoi partecipare all’attività pilota del nostro corso?

Potrai accedere gratuitamente a tutti i contenuti sviluppati e completarli nel lasso di tempo che preferisci, il corso è online. Alla fine, otterrai un certificato di partecipazione!

Se vuoi partecipare o se hai bisogno di maggiori informazioni scrivici a: info@fondazionebrf.org.

Il corso è stato sviluppato grazie all’impegno collaborativo di professionisti sanitari provenienti da diversi ambiti, che lavorano in uno dei quattro partner del progetto: Fondazione BRF (Italia), Fundacion Intras (Spagna), Università di Heidelberg (Germania) e Università di Maastricht (Paesi Bassi).

“COSÌ COL DISEGNO RACCONTO LA MIA DEA DI BENESSERE”

Intervista all’illustratrice Aurora Ravasi

Da anni la Fondazione BRF

Onlus porta avanti la campagna #Parliamone: artisti, illustratori e fumettisti collaborano donando una delle loro opere per promuovere il benessere psicologico.

A volte dimentichiamo l’enorme potere delle immagini, per questo con queste illustrazioni vengono create T-shirt, felpe e altri gadget acquistabili sulla piattaforma www.worthwearing. org in modo che ogni storia raccontata possa superare limiti e distanze e avvicinare chi si sente solo e abbandonato.

Al team di #Parliamone si aggiunge oggi Aurora Ravasi, (@lolasillu su Instagram) che con le sue illustrazioni dal gusto fiabesco e dai colori tenui è riuscita ad incantarci.

“La passione per l’illustrazione è cresciuta con me” racconta Aurora “Il disegno è sempre stato il mio modo di comunicare e ha sempre avuto un

valore fondamentale. Sono cresciuta ad albi illustrati, matite colorate e film d’animazione in stop motion, appena ho iniziato a disegnare non ho mai smesso. Ho avuto la possibilità di coltivare a livello professionale questa passione e la ritengo un’immensa fortuna.”

Come nasce il tuo processo creativo?

Il mio processo creativo tendenzialmente inizia con una fase di studio e ricerca visiva e di suggestioni, parto con il ragionare sul messaggio che voglio comunicare e sulle atmosfere che voglio ricreare. Dopodiché passo alla fase di schizzo in cui inizio a studiare spazi e forme, per poi arrivare alla fase di realizzazione dell’esecutivo vero e proprio.

Ti ritrovi mai ad avere un’idea che non riesci a realizzare come vorresti? Come reagisci?

Certo, mi capita spesso di partire

con un’idea e trovarmi davanti un risultato diverso, negli anni ho imparato ad accettarlo come un punto di forza perché è bello che a volte seguire l’istinto e la tua stessa mano ti porti ad ottenere risultati inaspettati.

Qual è il tuo rapporto con i social?

Con i social ho un rapporto scostante nel senso che ora come ora sono un mezzo potente e funzionale per comunicare sia a livello lavorativo che personale e quindi sono fondamentali nella vita di ogni giorno. Dall’altra parte mi rendo conto che tante volte diventarne dipendenti è facilissimo e sono la prima a perderci più tempo di quello che vorrei.

Senti mai il bisogno di staccare?

Assolutamente, ho la necessità vera e propria di staccarmi dal telefono e dimenticarlo almeno per un po’.

Credi che i social per come sono oggi impattino molto su come percepiamo il nostro benessere psicofisico?

Sì, penso che in questi ultimi anni in modo particolare l’effetto “vetrina sulle vite degli altri” che ci sembrano perfette sui social abbia un impatto non da poco sul nostro benessere psicofisico, alterando la percezione della nostra vita e di conseguenza causando un senso di costante insoddisfazione. Trovo però che i social possono essere una risorsa preziosa per veicolare messaggi importanti anche nell’ambito della sensibilizzazione sul benessere psicofisico.

Quali pensi possano essere le difficoltà che i giovani di oggi riscontrano in un mondo in cui tutto è a portata di tutti?

Penso che una delle difficoltà più grande per un giovane stia paradossalmente proprio nel riuscire a decodificare questa infinita quantità di informazioni, stimoli e possibilità riuscendo a trovare la propria strada. Una piantina che prova a crescere: cosa hai voluto rappresentare?

Ho voluto rappresentare qualcosa di delicato ma allo stesso tempo coraggioso nel crescere in un ambiente che non sempre è favorevole, una piantina come le passioni e i desideri che meritano di essere coltivati.

Cosa credi sia necessario per rendere la nostra società aperta e rispettosa verso le insicurezze e le paure dei più giovani?

Per comprendere paure e insicurezze ci vorrebbe un po’ più di ascolto e sensibilità creando una vera e propria cultura dell’attenzione nei confronti della tutela della salute mentale

“Il mio processo creativo tendenzialmente inizia con una fase di studio e ricerca visiva e di suggestioni, parto con il ragionare sul messaggio che voglio comunicare e sulle atmosfere che voglio ricreare”.

Illustrazione di Aurora Ravasi.

“Con i social ho un rapporto scostante nel senso che ora come ora sono un mezzo potente e funzionale per comunicare sia a livello lavorativo che personale e quindi sono fondamentali nella vita di ogni giorno. Dall’altra parte mi rendo conto che tante volte diventarne dipendenti è facilissimo e sono la prima a perderci più tempo di quello che vorrei”.

e del benessere psicofisico in generale. Durante i tuoi anni scolastici hai mai sperimentato l’insicurezza tipica relativa al futuro?

Assolutamente, comprendere ciò che davvero sia giusto per il proprio futuro non è semplice e tuttora mi trovo spesso a mettere in discussione quello che faccio e come lo faccio domandandomi se sia la scelta giusta.

In che modo in generale tuteli la tua salute mentale?

Cerco innanzitutto di ascoltarmi e prestare attenzione a come mi sento, dando valore ad ogni emozione positiva e negativa che sperimento. Sto cercando di imparare ad accettare ogni sfaccettatura del mio carattere lavorando sui lati che vorrei migliorare.

Come si riflette il tuo stato psicologico sul tuo lavoro?

Mi stupisce ogni volta quanto il mio stato psicologico effettivamente si rifletta sul mio lavoro, specialmente parlando di disegno. Ogni emozione

che provo, tensione, entusiasmo, rabbia, gioie e paure passano direttamente al foglio, nel bene e nel male.

Quali sono i tuoi progetti futuri e cosa ti auguri per te e per la nostra società?

Ho qualche piccolo-grande sogno nel cassetto che in futuro spero di poter realizzare tra cui la pubblicazione di un albo illustrato che prima o poi vorrei mettere in pista. L’augurio che vorrei per me e per la nostra società è quella di riuscire a lasciare più spazio alla gentilezza e all’attenzione ai piccoli dettagli che non sono piccoli ma fanno la differenza.

Una riflessione, quella di Aurora, che porta alla luce l’importanza dell’ascolto in modo che tutti, in particolare i giovani che stanno cercando il loro posto nella società, riescano ad esprimersi riducendo i giudizi e promuovendo la coesione e la comprensione reciproca.

Illustrazione di Aurora Ravasi.

IL RITORNO DELLA VOCE GRAZIE ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Come la tecnologia sta ridand la parola a chi l’ha persa

di Federico Piccinni

Un recente studio ha dimostrato come l’intelligenza artificiale (IA) possa restituire la capacità di parlare a chi l’ha persa a causa di ictus o altre condizioni debilitanti. Questa ricerca è stata condotta principalmente dall’Università di San Francisco (UCSF) e dall’Università di Berkeley, mostrando risultati promettenti con l’uso di impianti cerebrali e avatar digitali. Emblematiche le storie di Pancho e Ann. Pacho è un uomo che ha perso la capacità di parlare dopo un ictus a 20 anni, e che è riuscito a recuperare la voce grazie a un impianto cerebrale.

Un dispositivo che cattura i segnali elettrici nel cervello associati ai movimenti dei muscoli necessari per parlare e li decodifica in tempo reale in parole o frasi (MIT Technology Review) (Intelligent Living). Altrettanto interessante la vicenda di Ann, una donna colpita da un ictus che l’ha lasciata paralizzata e incapace di parlare. Ann ha partecipato a uno studio dove un impianto cerebrale simile a quello impiantato in Pancho ha permesso di tradurre i suoi pensieri in discorsi e espressioni facciali attraverso un avatar digitale. Questo avatar non solo replica la sua voce ma anche le sue emozioni, rendendo la comunicazione più naturale e completa (Berkeley Engineering). Diventa impossibile non riflettere dunque sulle tecnologie e innovazioni del nostro tempo.

Il cuore di queste tecnologie è infatti costituito da elettrodi impiantati nel cervello che catturano segnali elettrici specifici, associati ai movimenti di labbra, lingua e mandibola. Questi segnali vengono poi decodificati da algoritmi di IA per ricostruire il discorso. La tecnologia ha dimostrato di poter decodificare fino a 78 parole al minuto con una precisione

Il cuore di queste tecnologie è costituito da elettrodi impiantati nel cervello che catturano segnali elettrici specifici, associati ai movimenti di labbra, lingua e mandibola.

del 75%, utilizzando un vocabolario di oltre 1000 parole (MIT Technology Review e Nature). Una caratteristica innovativa di questo sistema è la capacità di gestire il bilinguismo. L’IA può distinguere tra le diverse configurazioni neurali associate a ciascuna lingua, permettendo a persone come Pancho di comunicare efficacemente in più lingue. Si tratta di un passo avanti significativo rispetto ai precedenti sistemi monolingui, che mostra come il cervello possa utilizzare aree corticali sovrapposte per diverse lingue (Intelligent Living).

Questi progressi aprono nuove possibilità per la riabilitazione e la

comunicazione assistita. Le applicazioni future potrebbero includere l’adattamento di questi sistemi per diverse lingue e dialetti, rendendoli accessibili a una popolazione globale. Inoltre, potrebbero essere utilizzati in contesti educativi e lavorativi per supportare la comunicazione di persone con disabilità (Berkeley Engineering). Pare ormai chiaro come la combinazione di neuroscienze avanzate e tecnologie di intelligenza artificiale promettano di rivoluzionare il campo della riabilitazione linguistica, migliorando significativamente la qualità della vita per chi ha perso la capacità di parlare.

GENEROSITÀ: UNA QUESTIONE

DI

SINAPSI CEREBRALI

La scienza può davvero spiega l’origine del comportamento generoso?

La generosità, un comportamento che da sempre affascina filosofi e scienziati, sembra avere radici profonde nel nostro cervello. Un recente studio condotto dalle Università di Oxford e Birmingham ha rivelato che una regione specifica del cervello, la corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC), è strettamente legata alla nostra propensione ad aiutare gli altri. Questo studio, pubblicato su Nature Human Behaviour, fornisce nuove informazioni su come il nostro cervello elabora decisioni altruistiche e di condivisione.

La corteccia prefrontale ventromediale è nota per il suo ruolo nel processo decisionale e nella regolazione delle emozioni. Lo studio ha mostrato che l’attivazione di questa area cerebrale è correlata a comportamenti generosi. In particolare, i ricercatori hanno osservato che quando i partecipanti prendevano decisioni altruistiche, come donare denaro a una causa benefica, si verificava un aumento dell’attività nella vmPFC. Questo suggerisce che la generosità potrebbe essere, almeno in parte, guidata da processi neurali che regolano il nostro benessere emotivo e la valutazione delle ricompense. Un aspetto interessante della ricerca è l’idea che la generosità possa essere influenzata dalla neuroplasticità, ovvero la capacità del cervello di riorganizzarsi formando nuove connessioni sinaptiche. La formazione di nuovi ricordi e l’apprendimento di nuovi comportamenti, come l’altruismo, coinvolgono la modifica delle si-

napsi esistenti e la creazione di nuove. Questo processo è cruciale per l’adattamento e l’evoluzione dei comportamenti sociali e ha numerose implicazioni per la salute mentale. Comprendere le basi neurali della generosità potrebbe infatti avere importanti implicazioni per la salute mentale. Ad esempio, potrebbe aiutare a sviluppare nuove terapie per disturbi come la depressione e l’ansia, dove i pazienti spesso sperimentano una ridotta capacità di provare piacere o di connettersi con gli altri. Stimolare l’attività nella vmPFC attraverso tecniche come la terapia cognitivo-comportamentale o l’uso di neurofeedback potrebbe potenzialmente migliorare questi sintomi, promuovendo comportamenti più altruistici e socialmente connessi.

In conclusione, la generosità non è solo un atto di volontà, ma un comportamento radicato profondamente nelle strutture neurali del nostro cervello. Questo studio apre nuove strade per comprendere come promuovere il benessere e la coesione sociale attraverso l’altruismo.

di Sofia Verdini

IL MULTITASKING: UN’ILLUSIONE CHE PENALIZZA LA PRODUTTIVITÀ

Una riflessione allargata sul tempo che stiamo vivendo Fra idiosincrasie e ossessione dal lavoro

Il multitasking è spesso considerato una competenza essenziale nel mondo moderno, dove la velocità e l’efficienza sono molto apprezzate. Tuttavia, studi recenti dimostrano che il multitasking potrebbe essere non così positivo. Anzi, sarebbe responsabile a lungo andare di un ridimensionamento della produttività e di un aumento dei livelli di stress.

Insomma, il Multitasking sarebbe una trappola e un’illusione. Perché? Scopriamolo insieme. Quando tentiamo di gestire più compiti contemporaneamente, il nostro cervello deve continuamente passare da un’attività all’altra. Questo processo, chiamato “switching cost,” consuma risorse cognitive e tempo, riducendo la nostra capacità di concentrarci profondamente su una singola attività.

Secondo uno studio pubblicato su Psicology Today, il multitasking può ridurre la

produttività del 40% e abbassare il quoziente intellettivo temporaneamente di 10 punti. Lavorare su un compito alla volta, in modo concentrato, è molto più efficace. Questo approccio, noto come “single-tasking,” permette di completare le attività con maggiore precisione e velocità. Secondo uno studio della Stanford University, le persone che praticano il single-tasking hanno prestazioni migliori nei test di memoria e mostrano una maggiore capacità di attenzione rispetto ai multitasker.

Per rallentare il ritmo e migliorare la produttività, è così essenziale adottare alcune strategie pratiche. In primo luogo, prioritizzare le attività: ovvero iiziare la giornata identificando le tre attività più importanti e dedicare a queste il tempo necessario senza interruzioni. Poi, pianificare pause regolari: prendere brevi pause durante la giornata lavorativa può aiutare a mantenere alta la concentrazione e ridurre lo stress.

Non bisogna poi sottovalutare quanto sia importante eliminare le distrazioni: creare un ambiente di lavoro privo di distrazioni, come notifiche sul telefono o rumori di sottofondo, può infatti migliorare significativamente la capacità di concentrazione. Nonostante la tentazione di fare più cose contemporaneamente, il multitasking è spesso controproducente. Focalizzarsi su un compito alla volta e adottare strategie per gestire il tempo e le distrazioni può migliorare significativamente la produttività e il benessere mentale.

di Bianca Lupi

YOUTUBER SI TRASFORMA IN CANE E VUOLE CAMBIARE ANCORA

Apparenza, social network e il delirio chirurgico del nostro pianeta. Cosa ci insegna questa storia

In Giappone esiste uno youtuber che si chiama Toco. Recentemente Toco ha speso 14.000 euro per trasformarsi in un Border Collie, ma dopo la sbronza di social e di articoli che lo hanno visto protagonista in tutto il mondo ha recentemente dichiarato di voler cambiare ancora. Nonostante la sua passione per i cani, ha spiegato, vivere come uno di loro si è rivelato difficile: a quanto pare gli altri cani lo evitano e la sua condizione fisica è complicata. Ora Toco sta così valutando la possibilità di trasformarsi in un altro animale, come un panda, un orso, una volpe o un gatto. Per quanto possa sembrare una fake news, si tratta di una vicenda completamente reale. Una storia che sottolinea i limiti delle trasformazioni estreme e la chirurgia estetica nel soddisfare bisogni psicologici profondi. La vicenda di Toco mette infatti in luce una questione rilevante nel campo della chirurgia estetica: la capacità di questa di modificare l’aspetto fisico può portare a risultati sorprendenti, ma non riesce a risolvere i problemi psicologici sottostanti.

L’illusione di poter cambiare radicalmente la propria vita attraverso una trasformazione fisica può portare a una continua ricerca di nuove modifiche, senza mai raggiungere una vera soddisfazione. La chirurgia estetica può trasformare i corpi, creare una molteplicità di forme e apparenze, ma non può colmare vuoti emotivi o psicologici.

L’autostima e l’accettazione di sé richiedono un lavoro interiore che va oltre la semplice modifica dell’aspetto esteriore. Le storie come quella di Toco ci ricordano che la ricerca della felicità e del benessere deve partire da un equilibrio tra mente e corpo, e che spesso le soluzioni ai problemi più profondi non si trovano nell’apparenza, ma nella comprensione e nell’accettazione di sé stessi. (B. L.)

ANATOMIA DI UNA CADUTA QUELLO CHE SUCCEDE OLTRE LA CRONACA

Il racconto cinematografico di Justine Triet lo racconta vincitore del Festival di Cannes e candidato a cinque Premi Oscar

Sappiamo benissimo cosa rende una morte sospetta un grande caso di cronaca nera, chiac-chierato in lungo e in largo tra web e televisione. Conosciamo anche le dinamiche giornali-stiche che caratterizzano questi eventi e che toccano in qualche modo le vite di chi rimane coinvolto.

Ma cosa si nasconde dal lato solo in pochi vedono? Cosa si consuma nelle aule della giu-stizia e dietro le porte di casa?

Justine Triet lo racconta con “Anatomia di una caduta” vincitore del Festival di Cannes e candidato a cinque Premi Oscar.

Dopo una vita passata a Londra, Sandra, suo marito Samuel e il figlio Daniel, si trasferisco-no in una baita immersa nelle Alpi francesi, vicino a Grenoble.

Quando Samuel viene trovato morto nella neve a causa di un trau -

ma cranico le indagini si concentrano prima sulla caduta accidentale da una finestra, poi sulla moglie Sandra.

Il caso vuole che l’unico testimone che potrebbe scagionare Sandra sia proprio il figlio Da-niel, ipovedente a causa di un vecchio incidente.

Così Sandra, una scrittrice di successo, si trova costretta a raccontarsi davanti alla giuria in una lingua che non la rappresenta, mettendo a nudo il rapporto conflittuale con il marito.

D’altro canto, Daniel, scopre nei mesi del processo che la sua famiglia non era quella che credeva e che i suoi genitori non avevano certo un rapporto semplice, ma una relazione fatta di tradimenti e recriminazioni iniziate proprio dopo il suo incidente.

Sandra tenta di convincere una giuria scettica sostenendo l’ipotesi

del suicidio, ricordando che il marito, frustrato da una vita che reputava inconcludente di fronte ai successi della mo-glie, aveva già tentato di togliersi la vita con una overdose di medicinali.

Una storia fatta di lunghi dialoghi pregni di significato, che sono valsi alla regista e sceneggiatrice Triet la vittoria del Premio Oscar come Miglior Sceneggiatura Originale Il ritratto che il film fa dei due coniugi non fa sconti a nessuno, entrambi responsabili di aver lasciato che la loro relazione scivolasse alla deriva, Sandra e Samuel vengono rappresentati anche come estremamente umani, con le naturali debolezze che emergono soprattutto nei giorni difficili.

Sandra Hüller, candidata all’Oscar come Miglior Attrice Protagonista, ritrae una donna tal-mente algida da risultare antipatica a tutti i compaesani, ma che lascia trasparire le sue emozioni solo nei momenti con il figlio.

“Anatomia di una caduta” non analizza solo la morte di un uomo, ma è una indagine di una relazione al capolinea, consumata dal senso di colpa e dal risentimento; non è un giallo in cui lo spettatore deve indovinare chi è il colpevole, ma cede a chi osserva tutti gli strumenti per giudicare, capire e forse risolvere.

“RIPOSARE È RESISTERE UN MANIFESTO” DI TRICIA HERSEY

Oppressione, resistenza e cuscini per sonnellini

di Flavia Piccinni

D“Riposare è Resistere. Un Manifesto”

Tricia Hersey

Atlantide Edizioni (€ 18.50)

eve essere fatto qualcosa riguardo al modo in cui questo mondo è strutturato. Lo sa bene Tricia Herseyartista e poetessa americana - che firma “Riposare è Resistere. Un Manifesto”, appena pubblicato da Atlantide Edizioni (pp. 208, € 18.50). Il libro - ben lontano dalla mera provocazioneesplora una nozione radicale secondo cui il riposo non è solo un atto personale di cura di sé, ma una forma di resistenza politica. Hersey - fondatrice del Nap Ministry, organizzazione che studia e promuove il riposo come forma di resistenza, offrendo spazi comunitari ed esperienze di riposo collettivo - sostiene che la cultura del lavoro incessante perpetuata dal capitalismo e dalla supremazia bianca abbia privato gli individui, in particolare le comunità marginalizzate, del loro diritto intrinseco al riposo e al sogno.

Ed è così che firma questo manifesto in cui intreccia narrazione persona-

le, teoria politica e riflessioni spirituali, sfidando i lettori a considerare il riposo come una forma di resistenza contro l’oppressione sistemica. Posiziona il riposo, Hersey, come un contrappeso necessario alle forze disumanizzanti della cultura della produttività, esortando a un disimpegno metafisico e spirituale dalla cultura del lavoro no-stop, pur navigando fisicamente le sue esigenze. Insomma: reclamare il proprio corpo e il proprio tempo è un atto essenziale di sfida e autoconservazione, un modo per salvarsi. Da soli.

Il libro, molto apprezzato per il suo messaggio appassionato e convincente dal pubblico, è stato accolto con entusiasmo dalla critica che ne ha esaltato il potenziale provocatorio e trasformativo, che punta a esortare i lettori a ripensare il proprio rapporto con il riposo e la produttività. In conclusione, “Riposare è Resistere” ci sfida a immaginare radicalmente il riposo come un diritto fondamentale e un mezzo per resistere ai sistemi oppressivi. E si fa promemoria tempestivo. Imperativo da tenere a mente nelle ossessive - e spesso inconcludenti - giornate di un trantran mirato a una produzione cieca, e insensata.

Libri fuori dal tempo e dalle mode

Nicola Brami Melinoe vestita di zafferano

Enea è un giovane professore di matematica la cui esistenza si divide tra il lavoro, l’amore ormai abitudinario per Lorna, le partite di tennis con gli amici e il rapporto distaccato con il fratello maggiore Nicola, scrittore di successo. La sua vita cambia quando una mattina, telefonando a casa, a rispondere è qualcuno dalla voce identica alla sua e che sostiene di essere lui. È quello il momento in cui nella mente di Enea nasce un pensiero tanto impossibile quanto spaventoso: al mondo esiste un suo doppio, qualcuno dal suo stesso aspetto, che vive nella sua stessa casa, insegna nella sua scuola e lo sostituisce sul campo da tennis. Intanto, mentre Nicola rivela a Enea di essere affetto da una malattia mortale, quest’ultimo viene a conoscenza di rituali esoterici a cui il fratello aveva partecipato in passato, guidati da Melinoe, una ragazza che pare possedere una conoscenza antica, al di là dell’umano, e i cui effetti sembrano, misteriosamente, ri- percuotersi fino a oggi... Nicola Brami scrive un libro ipnotico, allo stesso tempo sensuale e vivido, come un sogno oscuro che invece di svanire al mattino si fa sempre più reale, e che dentro di sé cela la pìù vertiginosa e terrificante delle domande: chi sono io?

“DI SANA PIANTA”: UN VIAGGIO

NEL MONDO VEGETALE

Il podcast di Stefano Mancuso esplora l’intelligenza delle piante e il nostro rapporto con la natura

Perché le piante ci affascinano così tanto?

Che cosa custodiscono di così misterioso?

Come è possibile - sempre che lo sia - decifrarne i segreti?

Sono queste alcune delle domande cui Stefano Mancuso prova a dare risposta con “Di Sana Pianta” (Chora Media con A2A Life Company), un viaggio affascinante attraverso il mondo delle piante, che ci offre una prospettiva unica e spesso trascurata sul regno vegetale. A dare voce a questa storia epocale è Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale di fama internazionale, che utilizza la sua vasta conoscenza e la sua passione per le piante per raccontare storie sorprendenti e poco conosciute.

Ogni episodio, della durata media di circa 16 minuti, è dedicato a un particolare aspetto del mondo vegetale, che Mancuso esplora con rigore scientifico e abilità narrativa. Si passa dall’analisi dell’”albero più solitario”, l’acacia del Tenerè, alla resilienza degli alberi Hibakujumoku, sopravvissuti alle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki.

Un elemento distintivo del podcast è la capacità di Mancuso di collegare le caratteri-

stiche delle piante a temi più ampi e universali. Come spiega nel primo episodio, la vita sulla Terra è resa possibile dalla presenza delle piante, che costituiscono l’87% della biomassa vivente, un dato che sfida il nostro antropocentrismo e ci invita a riconsiderare il nostro rapporto con l’ambiente. Come sostiene Mancuso, “la vita del pianeta dipende dalla presenza delle piante” e questo podcast ci aiuta a comprendere quanto sia vitale e urgente preservare questa fondamentale parte del nostro ecosistema. (F. P.)

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