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EFFETTI DELL’ANSIA NEL PERIODO PERINATALE

La

di Cristi Marcì*

Icambiamenti biologici e psicologici che avvengono durante la gravidanza comportano profonde e significative modificazioni relative alle rappresentazioni mentali che la madre ha di sé stessa e del futuro bambino. Le quali all’unisono promuovono una riorganizzazione circa la propria identità femminile (Ammaniti et al., 1995).

Il periodo della gravidanza si configura dunque quale delicato momento di transizione, ma ancor più come vero e proprio periodo di crisi maturativa cui può far seguito un incremento della propria vulnerabilità psicologica che spesso e volentieri può tramutarsi in un significativo fattore di stress (Ferrara Mori, 2006. 116). Pertanto indagare in maniera retrospettiva il passato della gestante che si appresta a vivere questa fragile e importante fase di passaggio, risulta fondamentale al fine di inquadrare eventuali fattori di rischio connotati da una forte vulne- rabilità. Donne che in passato hanno riscontrato una patologia psichiatrica, proprio durante la gravidanza risultano infatti maggiormente a rischio di un nuovo esordio psicopatologico.

In linea con i contributi di Brockington (Brockington et al., 2006) i quadri clinici che più frequentemente vengono riscontrati durante il periodo perinatale in accordo con il proprio vissuto biologico ed esperienziale, sono i disturbi depressivi e i disturbi d’ansia (O’Hara et., 2014). Secondo alcune ricerche è stato dimostrato che se da un lato una quota fisiologica di ansia sembri preparare la donna al parto e alla fase post natale, di contro nel caso in cui i livelli di ansia assumano una connotazione psicopatologica aumenta il rischio di trasmettere per via placentare il proprio vissuto ansiogeno alla prole (Ammaniti et al., 1995).

Tra questi il rischio maggiore cui può incorrere la primipara, correlato alla presenza di un disturbo d’ansia in gravidanza o di una elevata sintomatologia ansiosa prenatale, vi è quello di riscontrare una depressione post partum. A tal riguardo infatti Robertson (Robertson et al., 2004.,) ha confermato come l’ansia prenatale rispecchi un fattore predittivo di forte rischio per un possibile esordio di depressione nel periodo postnatale, dunque dopo la nascita del bambino.

Un’elevata sintomatologia ansiosa durante la gravidanza può pertanto correlarsi ad un esito negativo durante il parto stesso, evidenziando come possibili outcome negativi al momento del parto siano direttamente proporzionai alle modalità con le quali è stata vissuta l’ansia precedentemente la nascita del bambino.

L’aspetto oltremodo interessante converge sullo stretto rapporto tra la psiche e il corpo e più precisamente, come riportato da Militello (Militello., 2022), su quanto i medesimi pensieri e rappresentazioni esperite durante questo momento di passaggio possano tradursi in risposte biochimiche non solo trasmissibili per via fetale ma pienamente in grado di lasciare una traccia epigenetica prima ancora che avvenga il parto.

Trasmissione intrauterina e sviluppo fetale e neonatale

Prendendo in considerazione le possibili influenze dell’ansia materna che potrebbero ripercuotersi sullo sviluppo del bambino, ad oggi vi sono evidenze a sostegno dello stretto legame che intercorre tra l’ansia prenatale e lo sviluppo del feto. Attraverso la trasmissione intrauterina si evidenzia infatti una diretta correlazione tra quello che viene vissuto dalla madre e il ventaglio delle possibili variabili sia fetali che neonatali, direttamente proporzionali a quanto trasmesso.

Grazie ai contributi di Monk e Kinsella (Kinsella e Monk, 2009) è stata focalizzata l’attenzione sull’asse

Il periodo della gravidanza si configura dunque quale delicato momento di transizione, ma ancor più come vero e proprio periodo di crisi maturativa cui può far seguito un incremento della propria vulnerabilità psicologica che spesso e volentieri può tramutarsi in un significativo fattore di stress ipotalamo ipofisi surrene materno, il quale in rapporto al periodo prenatale e alle rispettive modalità di autoregolazione, può innescare un disquilibrio psicobiologico e ancor più una disregolazione del medesimo asse. Capace di apportare una mancata omeostasi all’interno dello stesso organismo materno.

Un’elevata sintomatologia ansiosa durante la gravidanza può pertanto correlarsi ad un esito negativo durante il parto stesso, evidenziando come possibili outcome negativi al momento del parto siano direttamente proporzionai alle modalità con le quali è stata vissuta l’ansia precedentemente la nascita del bambino.

Esaminando più da vicino il contributo degli autori si è osservato come l’ansia materna sia in grado di influire direttamente sull’asse sopra descritto, provocando alterazioni al livello sanguigno con un conseguente incremento dei livelli di glucocorticoidi, tra cui il cortisolo e altri ormoni dello stress.

Difatti un’elevata concentrazione di cortisolo durante la gravidanza potrebbe risultare decisamente dannosa per il normale sviluppo del feto, rispetto al quale specifici enzimi possono risentire di una alterazione disfunzionale. Più precisamente l’enzima 11-βsteroide deidrogenasi (Glover et al., 2009), collocato nella placenta ne sostiene la regolare funzione in condizioni normali, garantendo così al passaggio del cortisolo la trasformazione in una forma inattiva (Benediktsson et al., 1997) e dunque non nociva per il nascituro. Ciò vuol dire che proprio in base all’omeostasi dell’organismo materno e delle sue modalità di autoregolazione il cortisolo non sempre è capace di inficiare i normali processi interni all’organismo.

Tuttavia, in presenza di elevati livelli di ansia materna si rischia di assistere a quello che gli autori hanno definito down regulation, rispetto al quale la funzionalità del medesimo enzima non solo viene alterata bensì potrebbe ripercuotersi direttamente, e in maniera negativa, sull’ambiente fetale.

A sostegno dello stretto rapporto tra l’ambiente fetale e il vissuto materno Barker, attraverso la fetal programming hypothesis riporta come ad una forte variazione del mondo intrapsichico e somatico materno corrispondano alterazioni capaci di apportare cambiamenti permanenti e significativi nello sviluppo fenotipico del neonato (Barker, 1995; van den Bergh et al., 2005). Confermando così quanto lo stato emotivo della madre si traduca in sostanze neurochimiche capaci di intaccare la salute fetale e dunque del nascituro.

Secondo, inoltre, la visione proposta da Tanner e Dunkel (2012) la presenza di vulnerabilità psicosomatiche preesistenti inscritte nell’organismo della donna, che affiorano durante la gravidanza, possono innalzare i livelli di cortisolo e produrre effetti disfunzionali sulla funzione placentare con conseguenti ripercussioni sullo sviluppo fetale e sulla sua conformazione.

Il contributo dell’epigenetica in rapporto ai possibili fattori di rischio

Ad oggi l’epigenetica riflette quel campo di studi grazie al quale indagare lo stretto rapporto tra l’individuo e l’insieme di fattori che caratterizzano l’ambiente entro il quale avviene la sua crescita, a partire proprio dal periodo perinatale. In merito alle ripercussioni che lo stato ansioso della madre può avere sul normale sviluppo del feto sono state svolte indagini che hanno confermato quanto la dimensione epigenetica sia utile nel descrivere un processo apparentemente invisibile ma capace di lasciare una traccia in grado di dispiegarsi nel tempo e nella futura crescita del bambino (Non et al., 2014).

Uno studio condotto sui neonati di madri che presentavano una sintomatologia ansiosa (non trattata) rispetto ai neonati di donne sane, ha dimostrato come proprio il background biologico materno abbia effetti circa la metilazione del DNA, i cui livelli si sono dimostrati non solo differenti ma in grado di influenzare in maniera diretta lo sviluppo neonatale. Grazie a questo studio è dunque possibile ipotizzare in maniera più accurata quanto l’ansia materna prenatale sia capace di favorire la predisposizione nel futuro bambino a sviluppare in maniera precoce un assetto epigenetico disfunzionale in grado di compromettere il suo sviluppo, la sua crescita e dunque le sue future modalità di reazione dinanzi agli eventi di vita significativi (O’Donnell et al., 2012).

Quanto si vuole proporre è dunque la visione della gravidanza come un insieme di grandi cambiamenti tanto intrapsichici quanto biologici, che a livello morfologico/cerebrale si inscrivono nella figura materna. La quale se da un lato è portatrice di un proprio background neurofisiologico ed esperienziale, dall’altro rispecchia il principale canale di comunicazione e di collegamento tra il proprio assetto psicosomatico e quello fetale che porta in grembo.

La vita intrauterina si rivela dunque pienamente sensibile e vulnerabile ai rispettivi mutamenti strutturali e morfologici materni (D’Amore, 2019), che grazie alla visione epigenetica riesce a trasmettere per via placentare i propri pattern neurobiologici, traducibili in un vero e proprio imprinting epigenetico. Nello specifico infatti la figura risulta in grado di trasferire la propria impalcatura psicobiologica pronta a convertirsi nel feto sotto forma sia di una prima architettura cromosomica che di una iniziale modalità espressiva.

Proprio grazie a questa visione la vita fetale risente pienamente di quella materna e ancor più del suo modo di esprimere le emozioni e di autoregolarle. Soprattutto del suo substrato biologico, esprimibile in una secrezione dei neurotrasmettitori pronti a delineare una nuova trama all’interno del feto. Ciò che risulta interessante è proprio il rapporto che intercorre tra il vissuto materno e la dimensione prenatale (gravidica), rispetto alle quali il feto stesso assorbe pienamente un nuovo linguaggio (materno) e un nuovo modo di stare al mondo (Crews et al., 2014).

Tuttavia, quanto ci si domanda è se il proprio background psicobiologico in fase di trasmissione per via fetale, possa avere un impatto disfunzionale sulla futura prole, determinando così un imprinting disadattivo. Sulla base di quanto sopra introdotto, il proprio passato non solo può essere biologicamente tramandato per via placentare, ma in un’ottica transgenerazionale (Barker, 1995) può incidere sul futuro assetto neurotrasmettitoriale del feto e sulle future modalità di espressione genica, determinando quel processo biochimico definito metilazione, un insieme di processi biochimici in grado di determinare le modalità attraverso le quali verranno espressi o meno i geni della futura prole.

Uno studio condotto sui neonati di madri che presentavano una sintomatologia ansiosa (non trattata) rispetto ai neonati di donne sane, ha dimostrato come proprio il background biologico materno abbia effetti circa la metilazione del DNA, i cui livelli si sono dimostrati non solo differenti ma in grado di influenzare in maniera diretta lo sviluppo neonatale.

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