Anno II | N. 2 | Marzo 2021
PROFESSIONE SANITÀ
LONG-COVID: L’ESTENSIONE DELLA PANDEMIA Ha un nome la persistenza dei sintomi del virus in chi è clinicamente guarito. Necessaria l’assistenza psichiatrica. Lettera aperta al Governo
Fumettisti contro lo stigma della malattia mentale
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EDITORIALE
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Il long-covid L’inquietante estensione del Covid-19. Un nuovo e pericoloso nemico di Armando Piccinni
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d un anno dall’inizio della pandemia siamo ancora giornalmente impegnati nella battaglia per contrastare la diffusione del coronavirus. Gli argomenti all’ordine del giorno continuano ad essere il numero dei contagiati, dei tamponi e dei decessi; le strategie di chiusura di servizi ed esercizi pubblici e privati; le strategie di approvvigionamento e di somministrazione dei vaccini. All’orizzonte già scuro si sta profilando una nuova nuvola nera che si avvicina minacciosamente: il long-Covid. “Long-covid” è un termine usato per descrivere sintomi persistenti di malattia in persone che sono “guarite ai test di laboratorio” dal Covid-19, ma che continuano a riportare effetti duraturi dell’infezione o hanno i sintomi usuali per molto più tempo di quanto ci si sarebbe aspettati. In uno studio italiano pubblicato su Jama e condotto su pazienti del policlinico “Gemelli” di Roma, i dimessi da 60 giorni come guariti, nel 32% dei casi avevano la persistenza di uno o due sintomi, e nel 55% di tre o più. Sebbene nessuno dei pazienti avesse febbre o alcun segno o sintomo di malattia acuta, molti riferivano ancora affaticamento (53%), dispnea (43%), dolori articolari (27%) e dolore
toracico (22%). Due quinti dei pazienti riferivano un peggioramento della qualità della vita. Dati raccolti tramite l’app del Regno Unito Covid-19 Symptom Study - che raccoglie informazioni sui sintomi da quasi quattro milioni di utenti, poi analizzati da ricercatori del King’s College di Londra - vanno nella stessa direzione. Uno studio dello “US Centers for Disease Control and Prevention”, ha dimostrato che maggiore era il numero di condizioni croniche preesistenti all’infezione da Covid, maggiore era la probabilità che la risoluzione dei sintomi fosse ritardata. Un quarto degli intervistati di età tra i 18 e i 34 anni ha riferito di non essere tornato al suo solito stato di salute entro 3 settimane dal test negativo. La cifra sale al 47% in quelli di età superiore ai 50 anni. Ma quali sono a questo punto i segni e i sintomi del long-covid? I pazienti sperimentano sintomi multipli che possono coinvolgere i polmoni e altre parti del corpo. Questi possono includere affaticamento, dolori muscolari, debolezza e febbricola; tosse, difficoltà respiratorie e dolore al petto (“bruciore ai polmoni”); cefalea, offuscamento cognitivo (“brain fog”); eruzioni cutanee con
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EDITORIALE
lesioni simili a geloni, ed eruzioni vescicolari o maculopapulari. Le condizioni di salute mentale vengono descritte come effetti psicologici dell’isolamento, sbalzi di umore, ansia anticipatoria, paura per la morte di persone care a causa del virus, ansia, depressione, disturbo post-traumantico da stress. Si stanno accumulando prove secondo cui l’ infezione da SARS-CoV-2 possa anche provocare un deterioramento cognitivo persistente. Un recente studio ha riportato la funzione cognitiva in 84.285 partecipanti al Great British Intelligence Test. Questo studio ha dimostrato che il Covid-19 ha conseguenze per una disfunzione cognitiva prolungata anche in persone che avevano sintomi relativamente lievi e che sono stati gestiti a casa. Per i partecipanti più gravemente colpiti, quelli cioè che erano stati ricoverati in ospedale e avevano richiesto la ventilazione meccanica, lo studio ha trovato una significativa perdita di funzione, equivalente a un declino medio di 10 anni nelle prestazioni cognitive globali tra i 20 e i 70 anni. Il problem-solving linguistico e l’attenzione selettiva visiva erano colpiti in modo particolare. In breve, il Covid-19 sarebbe in grado di causare una perdita persistente della funzione cognitiva, anche in individui che sono stati lievemente colpiti durante l’infezione acuta. Esattamente per quanto tempo questa possa durare è ancora impossibile determinarlo. Possiamo prevedere chi sarà affetto dal long-covid? Stanchezza e mal di testa sono quasi universali nelle persone con long-Covid secondo quanto emerso dall’analisi dei dati della COVID Symptoms Study App. Tre quarti parlano di respiro corto e anosmia disgeusia, con maggiore frequenza nei gruppi di età più avanzata. Circa due terzi hanno tosse persistente, mal di gola, febbre o mialgia. Le persone con più di cinque sintomi nella prima settimana della malattia acuta hanno una probabilità quattro volte maggiore di sviluppare il long-covid rispetto a quelle con meno sintomi. Le cinque “avvisaglie” più predittive di long-covid nella prima settimana di malattia sono affaticamento, mal
di testa, mancanza di respiro, voce rauca e mialgia. Da quello che risulta, il rischio è più frequente nelle donne, nelle persone anziane e in quelle con obesità. Certo è che i pazienti affetti da long-covid si sentono poco compresi. Spesso la loro sintomatologia viene ascritta dai medici esclusivamente a sintomi di ansia o di depressione. Questo ha spinto diversi pazienti a costituirsi in gruppi su Facebook per scambiarsi informazioni e trovare comprensione e conforto. Uno di questi è il “Long Covid Support Group” ed ha già più di 7.000 iscritti nel Regno Unito. In Italia, invece, il gruppo “Long Covid/ Covid-19”, conta circa 1.300 iscritti ed è nato a ottobre 2020. La Fondazione Brf è particolarmente sensibile a questo nuovo tipo di emergenza che coinvolge in maniera centrale la salute mentale. Ha messo a punto uno specifico programma di studio della sintomatologia post-covid e dei rapporti con la fase acuta e con una serie di dimensioni che riguardano lo stato di salute preesistente. Si tratta di uno studio multicentrico osservazionale che ha già ricevuto il consenso alla partecipazione di grandi ospedali italiani. Una partecipazione corale consentirà di ottenere importanti risultati per la comprensione della malattia e della sua evoluzione. A questo proposito la nostra attenzione si è rivolta anche all’insoddisfacente condizione della salute mentale in Italia: i servizi ed i programmi a livello nazionale hanno sofferto per anni di finanziamenti sempre più ridotti ed inadeguati. Una lettera aperta, sottoscritta da professionisti della salute mentale italiana, è stata rivolta al governo di recente istituzione ed in particolare al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al presidente del Consiglio Mario Draghi ed al ministro della Salute Roberto Speranza. Il nostro augurio è che un nuovo vento di potenziamento e di riorganizzazione possa spirare anche sulla psichiatria e la psicologia italiana per un’assistenza più presente ed adeguata alle nuove sfide che anche la pandemia da coronavirus ci sta chiamando ad affrontare.
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Anno II | N. 2 | Marzo 2021
PROFESSIONE SANITÀ
SOMMARIO EDITORIALE
3 Il long-covid. L’inquietante
LONG-COVID: L’ESTENSIONE DELLA PANDEMIA Ha un nome la persistenza dei sintomi del virus in chi è clinicamente guarito. Necessaria l’assistenza psichiatrica. Lettera aperta al Governo
estensione del Covid-19. Un nuovo e pericoloso nemico di Armando Piccinni PRIMO PIANO
11 Autolesionismo e depressione. Giovani vittime predilette della pandemia di Carmine Gazzanni
14 Schiavi o protagonisti del web? di Carmine Gazzanni e Ernesto Daniel Cavallo
Professione Sanità Anno II | N. 2 | Marzo 2021 Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca Diffusione: www.fondazionebrf.org Direttore responsabile: Armando Piccinni Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca
PROFESSIONI
L’INTERVISTA
18 Il bullismo colpisce un adolescente italiano su due di Caterina Brondi
42 Samira, il progetto di radiologia
europeo per sconfiggere il cancro di Antonio Acerbis
44 Ospedali: “scomparse”
L’INIZIATIVA
22 Lettera al Governo
le emergenze addominali di Francesco Carta
L’INCHIESTA
24 Ricercatori di stabilità
46 La pandemia spinge
di Stefano Iannaccone
a consumare cibo made in Italy diAlessandro Righi
ZOOM
28 Monitorare i suicidi
48 “Il Covid non separi
di Nicola Pela
le mamme dai neonati”
RICERCA
32 La psiche nella food addiction
di Antonio Acerbis
di Ernesto Daniel Cavallo
34 Ecco come l’ormone dell’amore
potrebbe contrastare il Covid-19 di Donatella Marazziti
36 Il fumo nuoce gravemente (pure) a muscoli e ossa
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di Alessia Vincenti L’AUTORE
50 Torna in libreria Teresa Ciabatti pronta per il Premio Strega di Flavia Piccinni LIBRI
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54 “Venezia è un pesce”. Anche i luoghi hanno crisi d’identità? di Flavia Piccinni
L’INTERVISTA
38 I farmacisti pedine fondamentali nella lotta contro il Covid-19 di Carmine Gazzanni
44 Il mangiatore per ricompensa e il cibo di conforto come “bisogno” di Tiziana Stallone IL DIRETTORE RISPONDE
47 Sono insicura, dubbiosa e piena di paure di Armando Piccinni
CINEMA E TV
55 Un mondo distopico per conoscere i sentimenti umani immutabili di Flavia Piccinni IL DIRETTORE RISONDE
57 Irritabile e scontrosa.
Mia figlia è cambiata di Armando Piccinni TITOLI DI CODA
Pandemia, un’occasione
58 da non perdere di Pietro Pietrini
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AUTOLESIONISMO E DEPRESSIONE GIOVANI VITTIME PREDILETTE DELLA PANDEMIA Isolamento, panico, ansia, mancanza di routine. Ecco perché bisogna agire prima che sia troppo tardi
di Carmine Gazzanni
PRIMO PIANO
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eronica (nome di fantasia) ha 17 anni. Tanta paura per il futuro e una buona dose si incertezza anche sul presente, visto cosa abbia voluto dire “vivere il presente” nell’ultimo anno. «A scuola non capisco se ci devo andare o no. Abbiamo ripreso con la didattica in presenza, ma tra scioperi e manifestazioni di fatto non ci siamo mai entrati. Mi sento arrabbiata e destabilizzata», scrive in uno dei tanti portali nati ultimamente che hanno il lodevole obiettivo di raccogliere disagi e lamentele. Un sentimento, questo, più diffuso di quanto si possa credere. «Se è vero che ci sono famiglie contenitive per cui il tempo in casa è stata un’occasione per arricchire i propri rapporti – spiega a Professione Sanità la professoressa Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Movimento Bambino Onlus – è altrettanto vero che per le famiglie disfunzionali o allargate, abituate dunque ad avere rapporti con l’esterno, la situazione drammatica è interamente ricaduta sui più giovani, specie sulla fascia degli adolescenti». Dai 13 anni in su ragazzi e ragazze cominciano ad avvertire l’esigenza di ritagliarsi i propri spazi, di crearsi propri nuclei, nel desiderio graduale di rendersi indipendenti: «Tutto questo – chiosa la professoressa Parsi – è terribilmente mancato in questi mesi». Il vero problema, tuttavia, è che dinanzi all’emergenza – di per sé terribilmente imprevedibile – non siamo riusciti a rispondere a dovere: le principali agenzie educative cui i ragazzi dovrebbero fare riferimento, famiglia e scuola, sono entrate in crisi. E la conseguenza è che «quella che ormai è diventata la terza agenzia educativa, ovvero il web, è diventata la prima, con tutte le conseguenze del caso».
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“Negli adolescenti e preadolescenti, che vivono un’età in cui l’inclusione e l’accettazione nel gruppo di pari è meta essenziale da raggiungere, la chiusura forzata può aggravare quel senso di solitudine piuttosto frequente in fase dello sviluppo”.
PRIMO PIANO
Di fatto, in altre parole, quei canonici riti di passaggio che si vivono in età adolescenziale – il gruppo di amici, i primi amori, le prime sfide e i primi traguardi – si sono frantumati per essere affidati completamente al mondo virtuale. Ad acuire tale situazione ha senz’altro contribuito la DaD (Didattica a Distanza), che ha trovato impreparati tanto gli studenti quanto gli insegnanti, andando a complicare una situazione già di per sé disperata in molti casi. «Negli adolescenti e preadolescenti, che vivono un’età in cui l’inclusione e l’accettazione nel gruppo di pari è meta essenziale da raggiungere, la chiusura forzata può aggravare quel senso di solitudine piuttosto frequente in fase dello sviluppo», spiega uno studio pubblicato alcune settimane fa su Nature. Tutto questo non fa altro che aumentare la propensione all’isolamento con il rin-
chiudersi in camera e passare ore su internet, e la mancanza di contatti fisici con i pari finisce per trasformarsi in un fattore di rischio per conflitti in famiglia. Non solo: «La separazione da chi si prende cura di loro li spinge verso uno stato di crisi che potrebbe aumentare il rischio di disturbi psichiatrici. I bambini che sono stati isolati o messi in quarantena durante altre pandemie hanno avuto più probabilità di sviluppare disturbi acuti da stress, disturbi di adattamento e sofferenza. Alcuni dati indicherebbero che il 30% di loro soddisfi i criteri clinici per il disturbo da stress post-traumatico; anche se è presto per ricavare pareri definitivi». Certo è che vedere o essere consapevoli di componenti della famiglia gravemente malati e affetti da coronavirus, assistere alla morte di persone care o anche pensare alla propria morte per il virus può causare in bambini e adolescenti ansia, attacchi di panico, depressione e altre malattie mentali. A rendere il tutto ancora più drammatico sono la mancanza di routine (fondamentale per il nostro cervello) garantita dal ritmo scolastico, e la paura del contagio, specie se si hanno amici, conoscenti o familiari che hanno avuto il Covid-19. Non è un caso che, secondo uno studio condotto dal professor Li Duan in Cina, ha dimostrato che «l’improvvisa epidemia di Coronavirus (COVID-19) ha avuto un effetto drammatico sulla salute mentale del pubblico, e in particolar modo bambini e adolescenti». Dallo studio è emerso che il 22,28% degli intervistati soffriva di sintomi depressivi. E tra i fattori associali all’aumento dei livelli di depressioni spiccano proprio la dipendenza da smartphone e da internet. A conferma di ciò un articolo pubblicato proprio nel
PRIMO PIANO
2021 da un team guidato dal professor Alheneidi Hasah ha dimostrato una correlazione tra solitudine e uso problematico di internet specie durante il lockdown e le restrizioni per il Covid-19. Nei giorni scorsi anche la rivista scientifica Lancet Regional Health ha pubblicato uno studio condotto da diverse università europee per il quale sono stati utilizzati dati raccolti da 200mila cittadini di Francia, Danimarca, Olanda e Regno Unito e secondo il quale gli effetti del lockdown sulla salute mentale sono allarmanti, soprattutto per i giovani sotto i 30 anni e le persone con problemi psichiatrici pre-esistenti, perché sono loro a vivere i maggiori livelli di solitudine e ansia. Ma per i bambini e ragazzi fino ai 18 anni è anche peggio. «Studi internazionali evidenziano gravi danni nei ragazzi in termini di identità, emotività, educazione, personalità e apprendimento», spiega lo studio, secondo cui si stanno creando «dei vuoti nella formazione, esperienza, socializzazione», mancanze «difficilmente colmabili per la generazione futura». Una generazione persa che rischia di piombare nella solitudine degli hikikomori, fenomeno scoppiato in Giappone ma che conta (sebbene non ci siano dati ufficiali a riguardo) circa 100mila casi anche in Italia. La professoressa Parsi (che ha dedicato un libro al fenomeno già nel 2017, Generazione H) è una delle massime esperte: «Parliamo di ragazzi e ragazze che si chiudono in stanza e lì vivono, isolati completamente dal mondo e legati solo alla rete. Che questo periodo possa portare a un aumento del fenomeno è fuori di dubbio». Un allarme, questo condiviso anche da altri specialisti ed esperti: «Molti hikikomori hanno vissuto un momentaneo sgravio di pressione durante la
quarantena perché è venuta meno l’ansia di dover uscire e confrontarsi – ha spiegato poche settimane fa a Repubblica Marco Crepaldi, psicologo e fondatore dell’Associazione Hikikomori Italia - Ma è stato un beneficio passeggero e illusorio: nel momento in cui si è riaperto, e ancor di più quando la pandemia finirà, la distanza tra questi ragazzi e la società sarà ulteriormente marcata». Un quadro, dunque, profondamente problematico. Da cui, però, è necessario ripartire. Innanzitutto, con aggiornamenti continui e concreti e prevenzione, «parola che in Italia sembra quasi non esista», commenta sarcastica la Parsi. D’altronde il Covid, così come accaduto in altri ambiti, ha scoperchiato un vaso di Pandora forse celato per troppo tempo: «La pandemia ha dimostrato la profonda crisi delle due principali agenzie educative, scuola e famiglia. Da qui bisogna cominciare: occorre ripensare questi due fondamentali centri di formazione». Prevenendo magari la prossima crisi, piuttosto che intervenire quando ormai è troppo tardi.
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Nei giorni scorsi anche la rivista scientifica Lancet Regional Health ha pubblicato uno studio condotto da diverse università europee secondo il quale gli effetti del lockdown sulla salute mentale sono allarmanti, soprattutto per i giovani sotto i 30 anni e le persone con problemi psichiatrici pre-esistenti.
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PRIMO PIANO
SCHIAVI O PROTAGONISTI DEL WEB? Per i ragazzi, pericolo o un’opportunità? Tutto dipende dall’utilizzo della rete
di Carmine Gazzanni e Ernesto Daniel Cavallo
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o sappiamo tutti: l’adolescenza è un periodo fondamentale, caratterizzato da cambiamenti nello sviluppo sociale, fisico e psicologico. Mai come in questo periodo, tra lockdown, restrizioni e il ricorso in alcuni casi massiccio alla DaD (Didattica a Distanza), l’utilizzo di internet e in particolar modo dei social network da parte degli adolescenti è una preoccupazione molto sentita a causa della presenza sempre più incessante degli smartphone. Proprio il fatto che l’adolescenza è un periodo in cui l’assetto cognitivo è in via di formazione, rende tale periodo potenzialmente problematico perché si possono riscontrare elevate incidenze di disturbi del comportamento, di addiction ed anche disturbi psichiatrici. L’altra faccia del tema ci
dice che dopotutto l’uso di internet si è largamente diffuso durante gli ultimi anni: è impossibile ormai farne a meno. La rete permette di connettersi con gli altri ed avere accesso a numerose informazioni in tutti gli ambiti di interesse. Ad ogni modo, l’uso sbagliato della rete può condurre ad una riduzione del benessere psicologico dell’individuo, a fallimenti scolastici e alla diminuzione del funzionamento lavorativo. I genitori d’altra parte seguono le guide canoniche e si preoccupano soprattutto di quanto tempo i figli passano on line, senza prestare attenzione alla domanda fondamentale, ovvero: “Che cosa fanno quando sono online?”. C’è da dire che questa problematica connessa alle nuove tecnologie è vecchia tanto quanto l’uomo ed ha caratterizzato ogni progresso compiuto.
PRIMO PIANO
Nell’età classica, ad esempio, Socrate si lamentava di quella che ai suoi tempi era una nuova tradizione, scrivere le cose, perché temeva che avrebbe ridotto la capacità di memoria. Facendo un balzo in avanti arriviamo al dopoguerra, con i dubbi sull’effettiva utilità di uno strumento come la televisione. La stessa identica cosa è accaduta con gli smartphone, i social network e internet. In uno studio condotto dalla Fondazione BRF nel 2019, sono stati esaminati circa 650 studenti di età compresa tra 11 e 20 anni e frequentanti gli Istituti di Istruzione Secondaria, di primo e secondo grado della Garfagnana, Versilia e piana di Lucca. Lo studio è stato progettato per permettere ai ricercatori di confrontare i sintomi legati alla salute mentale e l’immersione nella tecnologia.
I dati hanno dimostrato che oltre un adolescente su cinque tendeva a fare affidamento ad internet come mezzo per fuggire dal reale e far fronte alle proprie emozioni in modo disfunzionale. In altre parole, faceva un utilizzo «non corretto» del virtuale. È interessante notare che il 40,60% dei ragazzi (quasi la metà del campione) avrebbe voluto ridurre la quantità di tempo che passava su internet, ma gli riusciva impossibile farlo. Ma cos’è accaduto nell’ultimo anno a causa anche dell’emergenza che abbiamo vissuto? Il 2020 ha inciso notevolmente sulla vita digitale delle ragazze e dei ragazzi italiani. Oggi 6 adolescenti su 10 dichiarano di passare, in media, più di 5 ore al giorno connessi (in particolare fra le 5 e le 10 ore). Solo un anno fa erano 3 su 10. Un ragazzo su 5 si dichia-
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Mai come in questo periodo, tra lockdown, restrizioni e il ricorso in alcuni casi massiccio alla DaD (Didattica a Distanza), l’utilizzo di internet e in particolar modo dei social network da parte degli adolescenti è una preoccupazione molto sentita a causa della presenza sempre più incessante degli smartphone.
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I meccanismi ipotizzati sono molteplici e comprendono sia un potenziale effetto diretto dei virus (in alcuni studi è stata riscontrata la presenza della proteina Spike nel liquor dei pazienti, commenta ancora la neurologa) che un effetto indiretto attraverso la tempesta citochinica o un’alterazione dei meccanismi di coagulazione.
PRIMO PIANO
ra, poi, «sempre connesso». Sono i dati emersi durante l’evento organizzato dal Ministero dell’Istruzione in occasione del Safer Internet Day 2021, la Giornata mondiale dedicata all’uso positivo di Internet. L’indagine è stata realizzata dal portale Skuola.net, dall’Università degli Studi di Firenze e dall’Università La Sapienza di Roma. In particolare, il 59% degli intervistati ritiene che ci sia stata una crescita degli episodi di cyberbullismo negli ultimi mesi. Un anno fa la quota di coloro che consideravano il fenomeno in aumento era del 20%. L’85% dichiara anche, però, di avere dato a un proprio coetaneo dei consigli sull’uso corretto del web: cresce, quindi, la consapevolezza e la solidarietà tra i ragazzi e le ragazze in Rete. Resta, dunque, la domanda: in un mondo in continua evoluzione è un bene o un male che i nostri giovani passino ore immersi tra social, internet e videogames? «Il punto è innanzitutto capire come i social vengono utilizzati e per quanto tempo – spiega a Professione Sanità il professor Giovanni Biggio, professore ordinario di Neuropsicofarmacologia presso l’Università degli Studi di Cagliari, membro dell’American College of Neuropsychopharmacology, e uno dei massimi esperti in Italia e in Europa di come le nuove tecnologie stiano influenzando il nostro cervello – Ora comunichiamo solo attraverso i social. Prima ci si trovava in piazza, al bar, alla parrocchia. Oggi tutte queste interazioni si stanno riducendo e si comunica tramite chat istantanee. Ciò sta diminuendo la nostra tradizionale capacità interattiva e ovviamente tale situazione influisce sul cervello. Stiamo vivendo una rivoluzione epocale poiché le interazioni sociali stanno cambiando. Si sta strutturando un cervello diverso, non necessariamente peggiore. Semplicemente diverso. Quella attuale è una generazione di transizione».
Dunque, come rivelano diversi studi scientifici, soltanto tra alcuni decenni avremo modo di comprendere l’impatto di questi cambiamenti. Ma è proprio il periodo di transizione che ci rende forti (poiché proiettati a una rivoluzione epocale) e fragili al tempo stesso (poiché oggetto di passaggio). Ecco perché oggi più che mai – e a maggior ragione visto il delicato periodo che stiamo vivendo – occorre
PRIMO PIANO
un’informazione stabile e dare delle regole stabili. Oggi ci sono genitori che danno al bambino di 10 mesi l’iPad o lo smartphone. Dare un telefono a 10 mesi è in ogni caso fuori luogo; se invece il bambino fa le elementari è giusto darglielo ma qualche ora, dopodiché basta. Il problema è che sono sempre più le coppie che casomai danno l’iPad al bambino in culla così sta buono: ma il rischio è che così “sta buono” fino
alle 2-3 di notte e si incorre nel rischio di dipendenza. «A quell’età, invece, il bambino deve dormire; con le nuove tecnologie, invece, si rischia di privarlo del sonno sin da neonato. A quel punto se gli togli il telefono, il bambino piange, strepita, grida, reazioni che invece non si hanno se gli togli un giocattolo», spiega ancora Biggio. In altre parole, tra alcuni decenni probabilmente il cervello si stabilizzerà e saremo molto più solidi anche nell’utilizzo delle nuove tecnologie, ma oggi le persone più fragili e più vulnerabili rischiano di soccombere, di diventare dipendenti a tal punto da preferire il social al sonno, alla vita comunitaria, allo studio. E si rischia di cadere nella trappola (sempre più diffusa) dell’hikikomori. Anche su quest’aspetto il professor Biggio è chiaro: «Quando noi non dormiamo, basta anche solo una notte, accumuliamo nel nostro cervello molecole tossiche come la betamiloide. Parliamo di molecole che per la demenza possono essere determinanti. Quando invece dormiamo, il cervello scarica queste scorie e vengono allontanate. E questa è una delle funzioni fondamentali del sonno, che ripulisce il cervello. Senza sonno si rischia di accumulare un decadimento cognitivo sin dall’età adolescenziale. Tra chi fa le ore piccole, c’è poi chi non regge, chi è più geneticamente più vulnerabile. Immagini che tra le prime cause al mondo nell’attivazione dell’aggressività e della violenza del cosiddetto “bullo”, c’è la deprivazione di sonno». Insomma, i social non sono il male ma, così come ogni altro strumento, dipende dall’utilizzo che se ne fa. Sta a noi dare delle regole e fare in modo che il virtuale (dal latino virtus: potenza, forza) sia un’opportunità e non un rischio.
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Molti pazienti giovani che hanno potuto anche gestire la fase acuta al proprio domicilio riferiscono una sintomatologia di fatica ed esauribilità cognitiva che viene poi confermata alla valutazione oggettiva». Insomma, la foggy brain sembra colpire chi ha altre patologie e chi invece non ne ha, chi è andato in terapia intensiva e chi invece non ci è andato.
L’INTERVISTA
18 PS Mar 2021
IL BULLISMO COLPISCE UN ADOLESCENTE ITALIANO SU DUE Intervista a Michele Sarti, da bullizzato a influencer “Per i miei compagni di classe dovevo morire”
di Caterina Brondi
“S
ono stato vittima del bullismo, per i miei compagni di classe dovevo morire”. Esordisce così Michele Sarti, brasiliano di nascita e lucchese di adozione, studente di legge e attivista. Sarti, che con il suo profilo instagram e facebook conta oltre 40mila follower, ha voluto raccontare la sua storia in occasione della Giornata contro il bullismo “anche per dare forza alle tante ragazze e ai tanti ragazzi, che oggi sono loro vittime del bullismo. Perché ci si sente soli, isolati, senza vedere la via d’uscita. Invece la luce c’è. Il futuro c’è”. Si tratta di una vicenda personale emblematica e rappresentativa di un fenomeno che ogni anno nel mondo tocca 246milioni di bambini e ado-
lescenti. Nel nostro Paese – secondo una recente indagine portata avanti dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) - oltre il 50% dei ragazzi tra gli 11 e 17 anni ha subito episodi di bullismo, e tra chi utilizza quotidianamente il cellulare (85,8%), ben il 22,2% riferisce di essere stato vittima di cyberbullismo. Secondo una rivelazione portata avanti dall’Osservatorio InDifesa di Terre des Hommes e ScuolaZoo su un campione di 8 mila ragazzi e ragazze delle scuole secondarie in tutta Italia le più colpite sarebbero queste ultime: il 12,4% delle giovani ammette di essere state vittima di cyberbullismo, contro il 10,4% dei ragazzi. A chiudere la panoramica arrivano i dati della Polizia Postale, che ha registrato nel 2019 ben
L’INTERVISTA
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Michele Sarti.
460 casi di bullismo con vittima un minorenne (52 avevano meno di 9 anni), il 18% in più rispetto al 2018. “Per questo è necessario parlarne, parlarne, parlarne”, prosegue Sarti, che è stato ospite della Fondazione BRF Onlus in occasione del 7 febbraio. “Portare una testimonianza aiuta sempre chi ne ha bisogno a non sentirsi solo. La mia vicenda è triste, ma piuttosto semplice. Quando avevo quattordici anni, in quarta ginnasio, sono stato pesantemente bullizzato dai miei compagni di classe. I professori erano del tutto assenti, mentre la classe era divisa in due: da una parte c’erano i compagni che stavano zitti, con un comportamento complice da far venire i brividi, dall’altra invece quelli che volevano distruggermi, che
mi incitavano al suicidio, che mi minacciavano… Prendevano anche in giro mia madre, malata di tumore, e tutti i giorni per i nove mesi di scuola mi hanno vomitato addosso di tutto. Era una routine infernale. Ogni mattina, quando arrivavo davanti all’entrata e parcheggiavo la mia bici, mi accoglievano con una pioggia di insulti, domandandomi perché fossi ancora lì, perché non mi fossi ancora impiccato”. Mesi tragici, in cui Sarti si chiude sempre più in se stesso. “Cercavo di isolarmi il più possibile. Ero chiuso in me stesso, non volevo parlarne con nessuno, nemmeno con il mio migliore amico. Poi ad aprile decisi che non potevo andare avanti in quel modo: rivelai tutto ai miei genitori, che restarono
“Quando avevo quattordici anni, in quarta ginnasio, sono stato pesantemente bullizzato dai miei compagni di classe. I professori erano del tutto assenti, mentre la classe era divisa in due: da una parte c’erano i compagni che stavano zitti, con un comportamento complice da far venire i brividi, dall’altra invece quelli che volevano distruggermi, che mi incitavano al suicidio, che mi minacciavano…”.
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“Rivelai tutto ai miei genitori, che restarono letteralmente increduli. Mi dissero di scrivere su un foglio tutte le minacce che ricevevo. Il giorno dopo tornai a casa con un foglio protocollo scritto su tutte e quattro le facciate. Pieno zeppo di offese. Fu una doccia gelata per loro, e una presa di coscienza per me”.
L’INTERVISTA
letteralmente increduli. Mi dissero di scrivere su un foglio tutte le minacce che ricevevo. Il giorno dopo tornai a casa con un foglio protocollo scritto su tutte e quattro le facciate. Pieno zeppo di offese. Fu una doccia gelata per loro, e una presa di coscienza per me”. Da quel momento le cose cambiano. “Mi chiesero perché non ne avevo mai parlato prima con loro, ma non avevo una risposta: ero quasi abituato all’idea, come se non ci fosse via d’uscita. Mi sembrava una condanna che però non capivo. E non capivo neanche perché tutto quello fosse accaduto”. Fortunatamente i genitori prendono in mano la situazione, Michele cam-
bia scuola, rinasce. “Feci subito gruppo, ma l’incubo sembrava destinato a continuare. I miei vecchi compagni di classe provarono a venire diverse volte sotto la nuova scuola per insultarmi, minacciarmi, farmi del male. Ma io avevo fatto gruppo, mi ero integrato, e non avevo più paura. I miei nuovi compagni di classe mi sostennero. Ancora oggi molti dei bulli di un tempo mi seguono sui social, provano a infastidirmi. Quasi non fossero riusciti ad andare avanti. Per fortuna io l’ho fatto e, se potessi tornare indietro, gli parlerei in modo costruttivo. Perché è solo così che si può sconfiggere il bullismo”.
PS Mar 2021 21
Usare non significa abusare. Specialmente quando si parla di farmaci. NUMERO VERDE
800-571661 I farmaci sono importanti per la tua salute ma usati in maniera sbagliata o in dosi errate possono essere dannosi. Segui sempre le indicazioni del medico o del tuo farmacista di fiducia e non fare inutili scorte di medicinali. federfarma
FEDERCONSUMATORI
FEDERAZIONE NAZIONALE CONSUMATORI E UTENTI
22 PS Mar 2021
L’INIZIATIVA
LETTERA AL GOVERNO La Fondazione BRF – Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze sin dall’inizio dell’emergenza Covid-19 ha sottolineato il rischio concreto che, dopo la fase acuta del contagio, potesse scoppiare una seconda crisi, di ordine psichiatrico-psicologica. Una crisi cui stiamo assistendo negli ultimi mesi. Ecco perché occorre, oggi più che mai, farsi carico di questa problematica, prevedendo mezzi, strumenti, risorse necessarie per le persone più fragili, i loro familiari, e i tanti operatori sanitari che si occupano dell’emergenza psichiatrica. Da qui nasce un appello che la Fondazione ha lanciato al ministro della Salute Roberto Speranza, al presidente del Consiglio Mario Draghi e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Una lettera aperta che sta ricevendo sempre più adesioni. Se vuoi sottoscrivere anche tu la lettera, invia la tua adesione alla mail appelloadraghi@fondazionebrf.org
L’INIZIATIVA
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Ill.mo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella Ill.mo Presidente del Consiglio Mario Draghi Ill.mo Ministro della Salute Roberto Speranza
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uesta lettera è stata scritta da un gruppo di psichiatri e psicologi italiani per sottoporre alla Vostra attenzione una problematica di salute che ci sta particolarmente a cuore, che riguarda la pandemia da Covid-19 e che interessa milioni di italiani. Il coronavirus può determinare danni in tutto il nostro organismo, alcuni immediatamente visibili, altri che si manifestano col passare del tempo. Si tratta di danni importanti e pericolosi che riguardano anche il nostro cervello e la nostra condizione mentale. Ad oggi si contano nella letteratura internazionale 5.923 lavori riguardante il rapporto tra Covid-19 e salute mentale (risultato PubMed aggiornato al 23/02/2021) a testimoniare l’importanza del fenomeno. Notizie che riguardano l’incremento della patologia psichiatrica e della violenza domestica, dell’aumento dei tentativi di suicidio e dei suicidi a termine, sono ormai all’ordine del giorno. Lo stato di apprensione e di ansia nella popolazione generato dalla preoccupante situazione economica sta contribuendo a sua volta ad incrementare il numero di soggetti potenzialmente bisognosi di aiuto. Il disagio mentale deve essere affrontato nei suoi differenti versanti: psicologico, psichiatrico e sociale. Tale azione non può essere ulteriormente rimandata.
Questa lettera aperta ha il valore di un appello alle Vostre Persone come massimi Esponenti dello Stato impegnati nella lotta alla pandemia. È importante che i professionisti della salute mentale vengano agevolati nel loro lavoro con programmi e finanziamenti ad hoc. È necessario organizzare e sostenere nuove ricerche sul rapporto salute mentale-Covid-19, specie nello studio delle sequele a lungo termine della malattia. È indispensabile avere il monitoraggio continuo dei gesti suicidari correlati al Covid -19 e al tempo stesso mettere in campo azioni di formazione e prevenzione. La telemedicina in questo ambito potrà avere di certo un compito rilevante. Affinché tutto questo si realizzi nel migliore dei modi possibili, è indispensabile rinsaldare, mediante azioni speciali di coordinamento, connessioni strette tra i differenti ambiti dell’assistenza sanitaria, degli organismi di sostegno sociale, del volontariato e degli enti del terzo settore. Ci appelliamo, dunque, alla lungimiranza del nostro Presidente della Repubblica, professor Sergio Mattarella, all’autorevolezza del Presidente del Consiglio, professor Mario Draghi, e alla competenza del Ministro della Salute, dottor Roberto Speranza, affinché quella che rischia, giorno dopo giorno, di trasformarsi in una pericolosa emergenza sociale e umana, diventi una delle priorità delle azioni di questo governo.
24 PS Mar 2021
L’INCHIESTA
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RICERCATORI DI STABILITÀ I precari della ricerca sanitaria hanno vissuto dei passi in avanti. Ma restano molte criticità di Stefano Iannaccone
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er lavoro fanno ricerca. E per necessità sono alla ricerca costante di un contratto. È il destino dei ricercatori della sanità italiana, considerati un’eccellenza, come testimonia la visibilità dell’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. Ma non è certo l’unico centro in cui ci sono tanti profili di elevata competenza. Qualità a cui non corrisponde una stabilità contrattuale: la precarietà è il marchio distintivo per i circa 3mila ricercatori. E non va meglio sotto l’aspetto salariale: la busta paga si ferma sui 1.500 euro mensili. Tanto da rendere improponibili i paragoni con gli altri Paesi europei, ancora peggio se si parla di Stati Uniti. Va detto che la condizione è migliorata rispetto solo a qualche anno fa. In alcuni casi lo stipendio raggiungeva a malapena i mille euro. È stata l’ex ministra Beatrice Lorenzin a ottenere un cambio di passo. Ma c’è bisogno di ulteriori interventi. La questione è legata alla tipologia contrattuale: medici, biologi, farmacisti sono inquadrati con un contratto di comparto, equiparati dunque a figure tecnico-sanitarie, non quello della dirigenza che avrebbe ben altra remunerazione. Questo genera degli squilibri. La questione è stata spiegata dal sindacato medico Anaoo Assomed: “Negli Irccs esiste una parte sanitaria e una di ricerca. I ricercatori lavorano fianco a fianco con i coloro colleghi, ma hanno un contratto diverso”. Così mentre c’è chi inizia il percorso di carriera con un salario sopra 2.500, il ricercatore, se va bene, ne prende circa mille in meno. Con prospettive incerte. Quando si parla di ricerca sanitaria, il riferimento va agli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs): in totale sono 51 sul territorio italiano, di cui 20 pubblici e 31 privati. La questione lavorativa riguarda quelli pubblici. Agli Irccs vanno aggiunti dieci Izs (Istituti zooprofilattici sperimentali) che contano 90 sezioni diagnostiche periferiche. Tra gli Irccs pub-
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L’anno scorso, in seguito all’applicazione della riforma “piramide della ricerca”, gran parte del personale precario della ricerca impiegato presso gli Irccs e Izs pubblici è stato inquadrato con contratti a tempo determinato di 5 anni, tramite l’istituzione delle figure professionali del ricercatore sanitario e del collaboratore alla ricerca.
L’INCHIESTA
blici, oltre allo Spallanzani, ci sono, il Policlinico San Matteo di Pavia, il Policlinico San Martino di Genova, città in cui ha sede anche il Gaslini. Ma anche l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, l’Istituto Nazionale Tumori Giovanni Pascale di Napoli, l’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari. In sintesi: il top della ricerca biomedica italiana. Qualcosa è stato fatto, si diceva. La riforma Lorenzin ha introdotto il meccanismo della piramide della ricerca, uno strumento che ha reso possibile una piccola, grande rivoluzione: porre fine all’impiego di tipologie contrattuali disparate, su tutte co.co.pro, borse studio e cose simili, in favore della sottoscrizione di contratti a tempo determinato di cinque anni, rinnovabili per ulteriori cinque anni sulla base della valutazione del lavoro svolto. La piramide alla ricerca ha avuto il merito di introdurre dei contratti nuovi sotto questo profilo: prima non era possibile. La riforma, per la sua mole di complessità, ha richiesto tempo: è stata poi messa a regime dall’attuale ministro della Salute, Roberto Speranza. “L’anno scorso, in seguito all’applicazione della riforma “piramide della ricerca”, gran parte del personale precario della ricerca impiegato presso gli Irccs e Izs pubblici è stato inquadrato con contratti a tempo determinato di 5 anni, tramite l’istituzione delle figure professionali del ricercatore sanitario e del collaboratore alla ricerca”, spiegano a Professione Sanità dall’Associazione ricercatori in Sanità Italia (Arsi). I passi in avanti ci sono stati. Ma permangono delle criticità. Uno dei nodi resta la prospettiva futura, ossia l’inserimento nel mondo del lavoro dopo i dieci anni di ricerca. Bisogna infatti spianare la strada a eventuali problemi, perché il rischio è concreto: al termine del percorso, questi professionisti potrebbero trovarsi in un limbo privo di certezze, in un’età non più giovanissima, tra 45 e i 55 anni. “Le nuove generazioni sono particolarmente colpite: ed è quasi ovvio che poi decidano
di andare via, in Paesi dove sono valorizzati oltre che meglio retribuiti”, osserva Alberto Spanò, dell’Anaao Assomed. Un’altra criticità “è l’inclusione nei nuovi contratti anche dei colleghi che sono stati esclusi dalla riforma per cavilli normativi e lo sblocco dei concorsi per i nuovi ingressi”, sottolineano dall’Arsi. Per questa la richiesta si muove su due fronti: l’istituzione della figura del ricercatore a tempo indeterminato e l’aumento dei finanziamenti per la ricerca. “Difatti - riferisce l’associazione dei ricercatori - nel decreto rilancio sono stati previsti aumenti nei finanziamenti solo per Cnr ed Università”. E fin qui nulla in contrario. Il punto è che così si vanfiiano gli sforzi di ricerca negli Irccs dove si lavora a “nuove terapie e cure volte al miglioramento della salute pubblica”. Il giudizio Spanò è anche più severo: “I ricercatori sono stati grandi protagonisti di questa vicenda pandemica. Mentre altri profili professionali sono stati giustamente riconosciuti come attori fondamentali di questa fase, i ricercatori sono stati in buona parte ignorati”. Il discorso diventa ancora più doloroso, quando si vede che molti ricercatori italiani sono all’estero, potando le loro competenze altrove. In questo senso basta ascoltare qualche talk show o sfogliare le pagine dei giornali per scoprire che il top della ricerca negli istituti stranieri porta la firma di professionisti italiani. Risulta, peraltro, difficile realizzare una mappatura di quanti siano “scappati” oltre i confini. Perché questa può maturare in vari passaggi della vita da ricercatore. Ma, al di là dei vari aspetti, resta il problema centrale: la scarsa valorizzazione, economica e di stabilità, delle professionalità favorisce le partenze. Per questo viene rivolto un appello al governo e in particolare al ministro Speranza: “Il patrimonio, rappresentato dai nostri ricercatori è enorme e non va disperso. Per evitare che ciò accada c’è la necessità di rendere la ricerca italiana più competitiva”, sintetizzato dall’Arsi.
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28 PS Mar 2021
MONITORARE I SUICIDI Dati fermi al 2017. Così nasce l’Osservatorio Suicidi della Fondazione BRF
di Nicola Pela
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n’estremità della cintura dell’accappatoio avvolta attorno al collo e l’altra legata al termosifone del bagno. Così ha perso la vita la piccola di soli 10 anni di Palermo il 20 gennaio scorso. Vani sono stati i tentativi di rianimarla in attesa dell’arrivo del 118. Un altro episodio molto simile, ma con finale - grazie al cielo - differente è avvenuto in una scuola elementare nell’alto leccese, dove una bimba di appena 9 anni ha tentato di impiccarsi nei bagni. Le maestre sono riuscite a salvarla in tempo, allertate da alcune compagne di classe. Il fil rouge che unisce queste drammatiche vicende è una quanto mai macabra sfida sull’app Tik Tok, la cosiddetta “blackout challenge”, che prevede il soffocamento autoindotto per il maggior tempo possibile. Diversa situazione quella verificatasi a Roma, quartiere Trieste, nei primi giorni di febbraio, dove una
giovane assistente di volo di venticinque anni si è gettata dal balcone. Una storia tragica, resa ancora più dolorosa dal sospetto concreto che al profondo stato di depressione in cui versava la ragazza possa aver contribuito in qualche modo anche il licenziamento avvenuto negli ultimi giorni di lockdown, da parte della compagnia aerea per la quale lavorava.
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Queste sono solo alcuni delle tante, troppe storie di persone che sono arrivate al limite. Coinvolgono tutte le fasce della società, alle prese con forme di isolamento sociale e una crisi economica senza precedenti. Come raccontato anche dai fatti di cronaca sopracitati, tra le fasce più colpite da un elevato livello di ansia e forte disagio psichico ci sono
gli adolescenti in età scolastica: con la sospensione ad interim delle lezioni in aula, in favore di una DaD (Didattica a Distanza) che ha sostituito il contatto con i compagni e l’instaurarsi di nuove amicizie fra i banchi, l’isolamento sociale persistente di cui ancora non si vede una fine precisa ha prodotto stati di panico e forte inquietudine. Un’altra categoria particolarmente colpita è quella dei lavoratori che, per caratteristiche proprie della loro mansione, non sono potuti andare in smart working e, in alcuni casi non così rari, hanno perso il lavoro a causa delle restrizioni per contenere la pandemia. La lontananza dalle famiglie di origine può aver acuito in maniera drammatica le difficoltà di soggetti in questi particolari momenti di fragilità, come il recente caso di una giovane insegnante che ha tentato il suicidio perché da tre mesi non riusciva a tornare in Sicilia dalla sua famiglia. Studi scientifici hanno dimostrato come in periodi di epidemie, crisi economiche e situazioni fortemente emergenziali, si manifesti un sensibile aumento delle patologie direttamente correlate al disturbo della psiche che, non di rado, possono condurre ad autolesionismo o tentativi di suicidio. La Fondazione BRF ha, dunque, deciso di indagare la delicata questione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, andando ad aggiornare una statistica ferma ormai a tre anni fa. Secondo l’annuario ISTAT del 2020, nel 2017 in Italia si sono osservati 3.940 suicidi. Impossibile, invece, conoscere i tentativi messi in atto per porre fine alla propria vita. I dati raccolti fino ad oggi dall’Osservatorio mostrano un trend in preoccupante crescita: dall’inizio del 2021 al 6 febbraio si sono verificati 53 suicidi, mentre i tentativi di porre fine alla propria vita sono stati 40. Considerando che
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Secondo l’annuario ISTAT del 2020, nel 2017 in Italia si sono osservati 3.940 suicidi. Impossibile, invece, conoscere i tentativi messi in atto per porre fine alla propria vita. I dati raccolti fino ad oggi dall’Osservatorio mostrano un trend in preoccupante crescita: dall’inizio del 2021 al 6 febbraio si sono verificati 53 suicidi, mentre i tentativi di porre fine alla propria vita sono stati 40.
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L’Osservatorio Suicidi della Fondazione BRF Onlus, il cui progetto pilota è già stato lanciato durante la prima ondata della pandemia, ha già avuto una significativa risonanza tra i numerosi media locali (La Nazione e Il Tirreno), nazionali (Repubblica, Corriere della Sera, L’Espresso) e internazionali (BBC, The Guardian).
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nel caso di minorenni spesso la notizia non viene data sui giornali per volere della famiglia, si può capire quale sia la vastità del fenomeno. L’Osservatorio Suicidi della Fondazione BRF Onlus, il cui progetto pilota è già stato lanciato durante la prima ondata della pandemia ed ha già avuto una significativa risonanza tra i numerosi media locali (La Nazione e Il Tirreno), nazionali (Repubblica, Corriere della Sera, L’Espresso) e internazionali (BBC, The Guardian), ha lo scopo di monitorare quotidianamente il numero di suicidi e tentativi di suicidio con un’accurata analisi quotidiana delle notizie di cronaca (lo-
cale e nazionale), colmando l’evidente gap in materia. Siamo infatti convinti che solo un monitoraggio costante su questo grave fenomeno possa dare alle istituzioni gli strumenti per predisporre azioni programmatiche per mettere in atto misure preventive. I dati raccolti, ovviamente, devono essere visti in un’ottica il più possibile giornalistica e non scientifica; tuttavia, sono ugualmente preoccupanti e, per questo, da tenere quotidianamente sotto controllo. Potete consultare liberamente i dati raccolti ogni giorno dall’Osservatorio Suicidi andando sul sito www. fondazionebrf.org.
RICERCA
32 PS Mar 2021
LA PSICHE NELLA FOOD ADDICTION Lo studio della Fondazione BRF su dipendenza da cibo e comorbidità psichiatriche
di Ernesto Daniel Cavallo
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l concetto che gli alimenti, in particolare quelli altamente appetibili, possono essere oggetto di dipendenza è stato intensamente dibattuto fin dal 1956, quando il professor Theron Grant Randolph propose per la prima volta il termine Food Addiction (Dipendenza da Cibo, ndr) come «un modello comune di sintomi descrittivamente simili a quelli di altri processi di dipendenza». La Dipendenza da cibo è caratterizzata da sintomi psicologici e comportamentali di dipendenza simili a quelli che si manifestano nei tipici disturbi legati alle sostanze. Questi includono l’impulso a consumare la suddetta sostanza d’abuso e i conseguenti effetti fisiologici “da astinenza” se l’assunzione di cibo viene interrotta o ridotta. La ricerca sulla Food Addiction è però ostacolata dalla mancanza di una definizione formale di questa condizione, evidentemente distinta da altre dipendenze comportamentali o dai disturbi ali-
mentari. Le recenti tendenze come l’aumento dell’obesità, il cambiamento delle abitudini alimentari e la prevalenza delle malattie mentali, hanno suscitato l’interesse della comunità scientifica verso una corretta classificazione e costruzione della Food Addiction. In particolare, l’evidenza di meccanismi neurobiologici difettosi condivisi, così come la frequente comorbidità tra disturbi alimentari, disturbi dell’umore e i disturbi legati alle dipendenze, potrebbero indicare non solo una ridefinizione della Food Addiction come un vero e proprio disturbo mentale, ma anche una revisione della dicotomia tra dipendenze “da sostanze” e comportamentali. Facciamo qualche esempio. Nei pazienti obesi, in cui la dipendenza da cibo è significativamente espressa, esiste una forte correlazione tra la condizione fisica e una maggiore prevalenza di molti disturbi psicologici tra cui disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e rischio di suicidio.
RICERCA
Risultati simili sono stati ottenuti per la popolazione adolescente dove, anche nelle sue prime fasi, livelli più elevati di sintomi di Food Addiction sono direttamente proporzionali a una maggiore tendenza a sperimentare effetti negativi (bassa autostima, depressione e ansia). Livelli più elevati di depressione e ansia sono stati anche osservati in individui con diagnosi di BED (binge eating disorder, cioè disturbo da alimentazione incontrollata) con almeno modesti sintomi di “dipendenza da cibo”. L’aumento del consumo di cibi altamente appetibili e le sbagliate abitudini alimentari possono essere adottate per diminuire il disagio psicologico o smorzare le risposte fisiologiche allo stress, fungendo così da possibile meccanismo di “coping” (strategie di adattamento) per lo stress o l’umore basso. Per concludere, come emerge dallo studio condotto dalla Fondazione BRF e pubblicato sulla rivista Eating and Wei-
ght Disorders - Studies on Anorexia, Bulimia and Obesity, il concetto di Food Addiction è ancora un argomento controverso: sebbene non sia formalmente riconosciuto dal DSM-5, è stato ampliamente descritto in letteratura. Allo stesso modo però, è ancora oggetto di dibattito se la dipendenza da cibo sia un disturbo categorico o una dimensione psicopatologica. Sebbene la Dipendenza da Cibo possa essere considerata un modello peculiare di comportamento alimentare che può essere diagnosticato con criteri categorici, i ricercatori della Fondazione sottolineano come potrebbe anche essere interpretata nel senso di una dimensione in comorbididà con disturbi d’ansia o dell’umore. Altrimenti, sottolinea ancora BRF, potrebbe essere considerata una sorta di costrutto trans-nosologico esistente in diversi domini psicopatologici, sovrapponendosi ai disturbi legati alle sostanze, affettivi e alimentari.
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L’aumento del consumo di cibi altamente appetibili e le sbagliate abitudini alimentari possono essere adottate per diminuire il disagio psicologico o smorzare le risposte fisiologiche allo stress, fungendo così da possibile meccanismo di “coping” (strategie di adattamento) per lo stress o l’umore basso.
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34 PS Mar 2021
ECCO COME L’ORMONE DELL’AMORE POTREBBE CONTRASTARE IL COVID-19 Lo studio pubblicato su Clinical Neuropsychiatry: “Si misurino i livelli di ossitocina nei pazienti affetti dal coronavirus”
di Donatella Marazziti
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se fosse l’ossoticina, l’ormone dell’amore, una delle chiavi per combattere la pandemia da Covid-19? Pochi sanno, infatti, che i soggetti più colpiti dal coronavirus sono proprio quelli caratterizzati da bassi livelli di questo ormone che, tra le altre cose, è un potente anti-infiammatorio sistemico che non deprime il sistema immunitario, e di cui si dispone in grandi quantità e a basso costo. Nulla vieterebbe, dunque, di somministrarlo come terapia. L’interessante tesi è stata avanzata qualche mese fa all’interno della rivista Clinical Neuropsychiatry dalla sottoscritta insieme agli autori degli altri articoli pubblicati sulla rivista: Phuoc-Tan Diep, Benjamin Buemann, Kerstin Uvnäs-Moberg.
RICERCA
Attualmente non esistono spiegazioni convincenti sulla morbilità e mortalità associate alla pandemia da Covid-19. Per questo motivo le strategie terapeutiche sono perlopiù empiriche, derivate da esperienze con virus correlati come quello della SARS, o di supporto vitale nei casi più gravi. La momento sono stati autorizzati degli studi clinici controllati con farmaci antivirali o altri che, come tali, richiedono tempi tecnici lunghi. Intanto, ogni giorno assistiamo alla perdita di vite umane. La nostra ipotesi parte da alcune semplici osservazioni che riportiamo di seguito: 1. Il coronavirus colpisce soprattutto gli anziani; 2. Colpisce gli
uomini più delle donne; 3. Colpisce soprattutto soggetti che hanno altre patologie; 4. Infine, gli afro-americani. L’ossitocina è un ormone peptidico prodotto nell’ipotalamo che svolge funzioni molteplici sia nel cervello che negli organi periferici. Se alcuni decenni fa le sue attività sembravano limitate alla facilitazione del parto e della lattazione, studi seguenti hanno evidenziato come svolga un ruolo chiave nella socializzazione tanto che viene definito l’ormone dell’amore. Variazioni nei livelli di ossitocina potrebbero spiegare in parte la gravità diversa dell’ infezione da Covid-19 rilevata nei soggetti sopramenzionati, tutti caratterizzati da bassi livelli di ossitocina. Pertanto riteniamo che queste considerazioni rappresentino un valido motivo per proporre la somministrazione di ossitocina come terapia nei pazienti Covid-19. L’alta mortalità di questi soggetti è infatti dovuta una esagerata riposta infiammatoria che porta a sindrome respiratoria acuta (ARSD) a danni multiorgano generalizzati. È interessante sottolineare come l’ossitocina sia potente anti-infiammatorio sistemico che, al contrario dei glucocorticoidi, non deprime il sistema immunitario, e stimola i linfociti e i processi riparativi dell’organismo. Va anche aggiunto che l’ossitocina è usata come induttore del parto in tutti gli ospedali del mondo, per cui è facilmente disponibile, è a bassissimo costo, e non provoca che effetti collaterali irrilevanti. Riteniamo, dunque, che basterebbero poche settimane innanzitutto per misurare i livelli di ossitocina nei pazienti Covid-19, con diversi livelli di gravità; e poi per implementare studi clinici controllati per verificare l’effettiva efficacia dell’ossitocina stessa nei pazienti più gravi.
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L’ossitocina è un ormone peptidico prodotto nell’ipotalamo che svolge funzioni molteplici sia nel cervello che negli organi periferici. Se alcuni decenni fa le sue attività sembravano limitate alla facilitazione del parto e della lattazione, studi seguenti hanno evidenziato come svolga un ruolo chiave nella socializzazione tanto che viene definito l’ormone dell’amore.
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36 PS Mar 2021
IL FUMO NUOCE GRAVEMENTE (PURE) A MUSCOLI E OSSA L’89% degli ortopedici conferma i gravi danni al sistema muscolo-scheletrico. Ma solo il 61% dei cittadini ne è consapevole
di Alessia Vincenti
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he il fumo faccia male non è una novità. Che sia dannoso per il nostro cuore e per i nostri polmoni è un fatto noto. Meno noto, invece, è il fatto che a essere danneggiati sono anche muscoli e ossa. Smettere di fumare, ridurre l’abitudine o trovare delle strategie alternative al consumo quotidiano di tabacco e sigarette è fondamentale anche per salvaguardare la salute di muscoli e ossa e, più in generale, del sistema muscolo-scheletrico. Secondo una ricerca dell’Istituto Ixè condotta per conto della SIOT (Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia), l’89% degli specialisti ortopedici conferma che il fumo provoca gravi danni anche al sistema muscolo-scheletrico. Questo dato cala notevolmente se consideriamo l’opi-
nione pubblica: solo il 61% dai cittadini maggiorenni conosce questo effetto negativo, percentuale che sale di un punto tra i pazienti ortopedici (il 62%) e al 64% tra i fumatori. Una distanza, dunque, che deve invitare a riflettere anche sui compiti dell’informazione. Secondo l’indagine, condotta parallelamente su un campione di oltre 800 cittadini maggiorenni (fumatori e non), su circa 350 medici specialisti ortopedici e su un campione di circa 100 pazienti ortopedici, le maggiori conseguenze sull’apparato muscolo-scheletrico derivanti dal fumo conosciute dai cittadini sono la degenerazione delle cartilagini, un maggior rischio di infezioni in caso di interventi chirurgici, tempi più lunghi nella riparazione di fratture, lesione ai
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tendini. Non solo, il 61% dei cittadini è al corrente che il fumo provoca anche un maggior rischio di osteoporosi, con conseguente aumento del numero di fratture. Inoltre, il fumo incide profondamente sul processo di guarigione delle patologie muscolo-scheletriche e degli interventi chirurgici. Lo conferma il 92% degli ortopedici intervistati, ma poco più di una persona su due (il 57%) conosce questa conseguenza. Consapevolezza che migliora, ma di poco, tra i fumatori (59%) e tra i pazienti ortopedici (61%). Nonostante tale scenario, tuttavia, solo nel 33% dei casi il consenso informato che gli specialisti presentano ai propri pazienti trattano le complicanze da fumo, mentre il 63% dei pazienti afferma di aver ricevuto domande sulle proprie eventuali abitudini da fumo in sede di colloquio, a fronte di un 23% che sostiene di non averne ricevute. Allo scopo di sensibilizzare maggiormente sia la categoria di specialisti, sia i pazienti, la SIOT ha stilato un decalogo sui rischi del fumo sul sistema muscolo scheletrico e le possibili strategie del contenimento dei danni da fumo. Oltre ad evidenziare e sottolineare i maggiori rischi derivati dall’abitudine al fumo, il decalogo identifica una strategia di contenimento dei danni. Tra queste l’opportunità di valutare attentamente, du-
rante il colloquio, le abitudini da fumo del paziente; l’impegno da parte degli ortopedici ad adeguare il consenso informato, allertare i pazienti dei rischi ed invitarli a smettere di fumare, soprattutto in vista di un intervento; informare il paziente che avesse difficoltà a smettere di fumare circa le possibili strategie alternative come la possibilità di rivolgersi ad un centro specializzato in terapia farmacologica o di supporto psicologico o di informarlo sulla disponibilità di prodotti alternativi senza combustione, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. Quali ad oggi i rimedi validi? Secondo quanto emerge dalla ricerca Ixè, un medico su tre (il 29%) ha insistito affinché il paziente fumatore smettesse di fumare, mentre il 48% degli specialisti ha invitato il proprio paziente a ridurne il consumo in caso non si fosse riuscito a smettere. Solo il 14% dei medici non avrebbe affrontato l’argomento. Inoltre, oltre uno specialista su due (il 52%) ha suggerito ai propri pazienti un metodo per smettere o ridurre l’abitudine da fumo. Tra questi sono stati suggeriti l’uso della sigaretta elettronica o tabacco riscaldato (17% dei casi riportati), l’adozione di una terapia sostitutiva della nicotina (17%), farmaci (12%), centro antifumo (9%), agopuntura (8%).
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Il fumo incide profondamente sul processo di guarigione delle patologie muscolo-scheletriche e degli interventi chirurgici. Lo conferma il 92% degli ortopedici intervistati, ma poco più di una persona su due (il 57%) conosce questa conseguenza. Consapevolezza che migliora, ma di poco, tra i fumatori (59%) e tra i pazienti ortopedici (61%).
L’INTERVISTA
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I FARMACISTI PEDINE FONDAMENTALI NELLA LOTTA CONTRO IL COVID-19 Intervista al presidente della Fofi Andrea Mandelli: «Il ruolo del farmacista in futuro cambierà. Dovrà partecipare alla presa in carico del paziente»
di Carmine Gazzanni
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n sentito ringraziamento a tutti i farmacisti «per la grande prova di impegno e abnegazione» mostrata durante l’emergenza Covid-19 e che continuano a dimostrare. Un plauso speciale ai 26 colleghi che hanno pagato con la vita la lotta alla pandemia: «il loro sacrificio è un esempio altissimo e nobile dei valori della nostra professione». Ma anche tante proposte per il futuro perché il ruolo del farmacista vivrà nuove evoluzioni: «non deve limitarsi alla dispensazione dei farmaci, che resta indispensabile, ma
deve partecipare alla presa in carico del paziente, in particolare quello affetto da patologie croniche». Questo è l’ampio quadro tracciato dall’onorevole Andrea Mandelli, presidente della Fofi (la Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani), in esclusiva a Professione Sanità. Presidente, partiamo da principio: quali sono stati e sono i principali problemi che i farmacisti, impegnati sin da subito in prima linea contro il Covid, hanno dovuto affrontare? Difficile distinguere i problemi per gravità: si è trattato di entrare
L’INTERVISTA
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Andrea Mandelli.
improvvisamente in una dimensione completamente nuova. Ci si è dovuti organizzare immediatamente per garantire l’accesso alle farmacie in piena sicurezza per i cittadini ma anche per i farmacisti, in un momento in cui i dispositivi di protezione erano irreperibili per tutti. All’emergenza mascherine, poi, si è affiancata quella dei geli disinfettanti e qui da subito abbiamo messo i farmacisti in condizione di poterli produrre nei laboratori galenici. Poi hanno cominciato a scarseggiare le bombole per l’ossigenoterapia domiciliare, soprattutto nelle zone più colpite come la provincia di Bergamo. Questi sono gli aspetti che i giornali hanno trattato ampiamente, ma meno si è considerato, per esempio, che gli ambulatori di medicina generale erano ben poco accessibili e ottenere le prescrizioni di farmaci era diventato molto difficile. Come si è rimediato?
Con la dematerializzazione delle ricette, e se il sistema ha funzionato lo si deve ai farmacisti, che hanno provveduto a stampare decine di migliaia di promemoria sulla base del Numero di ricetta elettronica comunicato al paziente. Se non si è mai interrotta l’assistenza farmaceutica lo si deve quindi ai farmacisti di comunità, come conferma il rapporto dell’AIFA ma anche una ricerca della European House presentata all’ultima edizione di Meridiano sanità. I farmacisti di comunità sono stati i professionisti sanitari territoriali sempre accessibili: di giorno e di notte, la domenica e durante le feste. Quanto alle strutture del SSN, i farmacisti ospedalieri hanno fatto l’impossibile perché non venissero mai a mancare farmaci e presidi. Quali sono stati i principali cambiamenti che ha potuto osservare nel settore durante la pandemia? Come riporta la ricerca che cita-
“Ci si è dovuti organizzare immediatamente per garantire l’accesso alle farmacie in piena sicurezza per i cittadini ma anche per i farmacisti, in un momento in cui i dispositivi di protezione erano irreperibili per tutti. All’emergenza mascherine, poi, si è affiancata quella dei geli disinfettanti e qui da subito abbiamo messo i farmacisti in condizione di poterli produrre nei laboratori galenici”.
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“La politica professionale della FOFI è improntata a un’evoluzione del ruolo del farmacista, che non deve limitarsi alla dispensazione dei farmaci, che resta indispensabile, ma deve partecipare alla presa in carico del paziente, in particolare quello affetto da patologie croniche. Si tratta di una popolazione di 14 milioni di italiani che non può certo essere assistita basandosi esclusivamente sull’ospedale, che deve entrare in campo di fronte a un aggravamento non per gestire il paziente stabilizzato”.
L’INTERVISTA
vo prima, la professione ha reagito cercando di innovare e di adattare la pratica professionale alla situazione di emergenza, e c’è stato un sempre maggiore riconoscimento del pubblico del ruolo fondamentale svolto dalla nostra professione. Si è anche rafforzata tra i colleghi la consapevolezza che il farmacista può e deve assicurare alla popolazione un numero sempre maggiore di prestazioni e servizi: dalla telemedicina al supporto all’aderenza terapeutica, agli screening. È il modello della farmacia dei servizi che la Federazione ha proposto fin dal 2006. La sperimentazione di questo modello a livello regionale, finanziata con 56 milioni di euro, avrebbe dovuto essere avviata proprio nel momento in cui è scoppiata la pandemia. Ma stiamo operando perché riparta non appena le condizioni lo permetteranno. Quindi crede che la pandemia che stiamo vivendo cambierà il modo di intendere il lavoro dei farmacisti? Senz’altro. È indispensabile se vogliamo un’assistenza territoriale efficiente, efficace e basata sulla prossimità. Come ho detto, la politica professionale della FOFI è improntata a un’evoluzione del ruolo del farmacista, che non deve limitarsi alla dispensazione dei farmaci, che resta indispensabile, ma deve partecipare alla presa in carico del paziente, in particolare quello affetto da patologie croniche. Si tratta di una popolazione di 14 milioni di italiani che non può certo essere assistita basandosi esclusivamente sull’ospedale, che deve entrare in campo di fronte a un aggravamento non per gestire il paziente stabilizzato. Ma non c’è soltanto la cronicità. In che senso? I farmacisti, in paesi come il Regno Unito, l’Irlanda, la Francia o il Portogallo hanno un ruolo fondamentale nelle campagne vaccinali, quelle
contro l’influenza stagionale e non soltanto. In Inghilterra oggi in centinaia di farmacie si sta praticando la vaccinazione contro il Covid-19: è una mossa indispensabile se si vuole coprire rapidamente milioni di cittadini. Abbiamo ottenuto, con l’ultima Legge di Bilancio, che anche i farmacisti italiani possano praticare le vaccinazioni sotto la supervisione del medico. Stiamo aspettando che siano disponibili i vaccini che non richiedano modalità di conservazione complesse e possano esser usati sul territorio, ma nel frattempo già migliaia di colleghi hanno frequentato e stanno frequentando i corsi di formazione necessari. Questa rivoluzione copernicana dell’assistenza sul territorio, ovviamente, richiede una sempre più stretta collaborazione interprofessionale: medico di medicina generale, infermiere, farmacista e gli altri operatori sanitari dovranno agire in sinergia, ognuno per le proprie competenze, mettendo al centro il paziente. A che punto crede sia la campagna di vaccinazione per i farmacisti? In molte Regioni, per esempio Lombardia e Sicilia, le vaccinazioni dei colleghi che lavorano in strutture aperte al pubblico, farmacie ed esercizi di vicinato, sono già cominciate e, possiamo dire, la macchina organizzativa si è avviata, pur con le difficoltà immaginabili. I colleghi ospedalieri, invece, vengino vaccinati assieme agli altri professionisti delle strutture del Servizio sanitario. In tutta Italia gli Ordini provinciali si sono attivati per raccogliere le adesioni di professionisti e mettere le Regioni in condizione di organizzarsi. Quali sono state le risposte alle tante problematiche che la Fofi ha garantito in questi mesi? Abbiamo costantemente monitorato la situazione, segnalando tutte le
L’INTERVISTA
criticità che si presentavano sia a livello regionale sia a livello nazionale e abbiamo costantemente informato tutti i farmacisti italiani di quanto stava avvenendo sul piano organizzativo e scientifico, così da metterli in condizione anche di informare il pubblico nel modo più corretto. E abbiamo formulato tempestivamente proposte per ovviare a criticità che avevamo previsto per tempo. Come nel caso della vaccinazione antinfluenzale: già prima dell’estate avevamo avvertito il Ministero che le aziende produttrici non erano in grado di fornire alle farmacie le dosi – circa un milione che a ogni campagna vengono messe a disposizione della popolazione attiva che non rientra nelle categorie a rischio coperte dal SSN. Com’è noto, abbiamo ottenuto che una quota, peraltro non sufficiente, dei vaccini acquistati dalle Regioni fosse ceduta alle
farmacie. Una situazione che non deve ripetersi, e difatti abbiamo già chiesto alle case farmaceutiche di cominciare ad accettare gli ordini d’acquisto delle cooperative dei farmacisti per la campagna dell’anno prossimo. Che messaggio sente di dover mandare ai farmacisti? Innanzitutto devo ringraziarli per la grande prova di impegno e abnegazione che hanno dato e continuano a dare. Un’abnegazione che 26 colleghi hanno pagato con la vita, colpiti dalla Covid-19 mentre lavoravano al servizio della collettività. Il loro sacrificio è un esempio altissimo e nobile dei valori della nostra professione e che il Paese non può e non deve dimenticare. La Federazione continuerà a operare perché il farmacista assuma un ruolo sempre più centrale nel processo di cura, a vantaggio della professione ma soprattutto della salute della collettività.
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“Devo ringraziare i farmacisti per la grande prova di impegno e abnegazione che hanno dato e continuano a dare. Un’abnegazione che 26 colleghi hanno pagato con la vita, colpiti dalla Covid-19 mentre lavoravano al servizio della collettività. Il loro sacrificio è un esempio altissimo e nobile dei valori della nostra professione e che il Paese non può e non deve dimenticare.
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42 PS Mar 2021
SAMIRA, IL PROGETTO DI RADIOLOGIA EUROPEO PER SCONFIGGERE IL CANCRO Partito il piano d’azione per assicurare ai cittadini Ue l’utilizzo di strumentazioni nucleari di alta qualità. Ecco di cosa si tratta
di Antonio Acerbis
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n piano d’azione europeo per sconfiggere il cancro puntando sulle ultime scoperte nel campo della radiologia. È questo l’obiettivo che si vuole raggiungere con “Samira”, il programma strategico per le applicazioni mediche delle radiazioni ionizzanti. Il piano migliorerà il coordinamento nell’Ue, garantirà che le tecnologie radiologiche e nucleari continuino ad essere utilizzate a vantaggio della salute dei cittadini dell’Ue e contribuirà alla lotta contro il cancro e altre malattie, sottolinea l’esecutivo comunitario. Il piano d’azione è il primo seguito che viene dato al piano europeo di lotta contro il cancro, adottato dalla Commissione il 3 febbraio. La Com-
missaria per l’Energia Kadri Simson ha commentato: «L’attuale pandemia ha ricordato a tutti noi l’importanza della salute e la necessità di fare tutto il possibile per accrescere il benessere dei nostri cittadini. L’uso medico sicuro della tecnologia radiologica e nucleare è uno strumento molto utile tra quelli di cui disponiamo e sta già recando benefici a centinaia di milioni di pazienti in tutta l’Europa. Questo piano d’azione garantirà che l’Ue continui a essere il leader mondiale nell’offerta di radioisotopi per uso medico e nello sviluppo della radiologia diagnostica e terapeutica, applicando nel contempo i più elevati standard di qualità e sicurezza». Stella Kyriakides, Commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare, ha aggiunto: «Grazie al piano europeo di
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lotta contro il cancro agiremo per migliorare lo screening dal punto di vista quantitativo e qualitativo e, perché ciò sia possibile, occorre una tecnologia radiologica sicura e di alta qualità. La diagnostica per immagini (imaging, ndr) è indispensabile per l’individuazione e la diagnosi precoce del cancro e oltre la metà dei pazienti oncologici è sottoposta a radioterapia. È un elemento onnipresente nella vita dei malati di cancro. Il piano d’azione Samira è il primo risultato da noi conseguito nell’ambito del piano europeo di lotta contro il cancro ed è un ottimo esempio di collaborazione tra le comunità dell’energia, della sanità e della ricerca». Nel dettaglio, il piano d’azione Samira garantisce che i cittadini dell’Ue abbiano accesso, in campo medico, a tecnologie radiologiche e nucleari di alta qualità nel rispetto dei massimi standard di sicurezza. Il piano definisce azioni e misure in tre settori fondamentali: garantire l’offerta di radioisotopi per uso medico, migliorare la qualità e la sicurezza delle radiazioni in medicina e agevolare l’innovazione e lo sviluppo tecnologico delle applicazioni mediche delle radiazioni ionizzanti. La Commissione darà il via a un’iniziativa europea che riunirà i centri specializzati nei radioisotopi (ERVI - European Radio-
isotope Valley Initiative) al fine di mantenere la leadership mondiale dell’Europa nell’offerta di radioisotopi per uso medico e contribuire ad accelerare lo sviluppo e l’introduzione di nuovi radioisotopi e metodi di produzione. E i prossimi step? La Commissione avvierà un’iniziativa europea sulla qualità e sicurezza delle applicazioni mediche delle radiazioni ionizzanti, per garantire che gli usi diagnostici e terapeutici di queste ultime negli Stati membri siano in linea con gli standard più elevati. Inoltre, creerà sinergie tra il programma Euratom di ricerca e formazione e il polo tematico “Sanità” del programma di ricerca dell’Ue “Orizzonte Europa” attraverso lo sviluppo e l’attuazione di una tabella di marcia della ricerca per le applicazioni mediche della tecnologia nucleare e radiologica. Si procede, dunque, a passo spedito. Nella consapevolezza che i prossimi traguardi nel campo della radiologia potranno rappresentare un importante snodo nella lotta a malattie in molti casi letali. Com’è stato sottolineato da diversi ricercatori, siamo dinanzi a un esempio lampante di cosa possa significare collaborazione nell’ambito della ricerca e della scienza in ambito europeo.
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Nel dettaglio, il piano d’azione Samira garantisce che i cittadini dell’Ue abbiano accesso, in campo medico, a tecnologie radiologiche e nucleari di alta qualità nel rispetto dei massimi standard di sicurezza.
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di Francesco Carta
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n allarme che non deve passare inosservato. Anche perché arriva da una delle categorie di medici da sempre in prima linea in fatto di emergenze. Le urgenze addominali si sono ridotte del 25-30% mentre le forme gravi sono aumentate del 20-30%. È quanto è successo negli ospedali italiani la scorsa primavera, durante i mesi della prima ondata pandemica. E il motivo è presto spiegato: le persone avevano paura di andare in ospedale, per via del Covid-19. E questo anche se avevano sviluppato un’appendicite, una diverticolite, una colecistite o addirittura una perforazione intestinale, tutte urgenze di chirurgia addominale. «Nei mesi di marzo e aprile - ricorda il professor Gabriele Sganga, Direttore della UOC chirurgia d’Urgenza e del Trauma della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS - al Gemelli, si è assistito a una riduzione del numero delle urgenze addominali in Pronto Soccorso: meno urgenze, ma più gravi clinicamente
e radiologicamente. Tali urgenze addominali spesso erano così severe da impedirci di poterle portare subito in sala operatoria, se non dopo averle stabilizzate prima, in terapia intensiva o in reparto. In molte occasioni abbiamo dovuto adottare delle terapie conservative (antibiotici e drenaggi percutanei), prima della terapia chirurgica definitiva. Molti interventi abitualmente semplici, come per esempio quelli di ernia inguinale arrivavano talvolta anche dopo una settimana dalla comparsa del problema, quando ormai l’ernia era “strozzata”, ovvero quando l’ansa intestinale incarcerata si era ischemizzata e non potevamo far altro che asportarla, anche in pazienti giovani”. E lo stesso discorso vale anche per molte colecistiti e diverticoliti che arrivavano circondate da gravi raccolte ascessuali. Insomma tutte le urgenze chirurgiche hanno subito un upgrading in termini di gravità. Perché i pazienti, impauriti dal pericolo del contagio non si recavano in ospedale, se non quando la situazione era ormai precipitata.
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OSPEDALI: “SCOMPARSE” LE EMERGENZE ADDOMINALI L’allarme dei chirurghi: durante il primo lockdown operazioni ridotte del 25-30%. Le persone non vanno nei reparti per paura del Covid
La questione, ovviamente, ha riguardato pressoché tutta Italia. Secondo i dati raccolti dal Gemelli, si è assistito come detto a un crollo del 25-30% delle urgenze addominali nella prima fase della pandemia, rispetto agli anni passati. «Arrivare tardi in ospedale con un’urgenza addominale come l’appendicite, la colecistite, la diverticolite - ammonisce il professor Sganga - significa sviluppare una forma complicata, che porta ad interventi chirurgici più complessi, a un allungamento dei tempi di degenza e in generale a rischiare di più. Per questo raccomandiamo di non esitare a venire in ospedale in presenza di un mal di pancia che peggiora rapidamente, ancor più se accompagnato da febbre. Quell’addome va subito visitato da un medico o da un chirurgo per verificare la presenza di segni di peritonismo, cioè di una infezione dentro l’addome che è quasi sempre di competenza chirurgica. Se una parte, o peggio tutto l’addome non è trattabile, è duro come il legno e offre resistenza alla palpazio-
ne, se c’è febbre, magari accompagnata da nausea e vomito, non bisogna perdere tempo. Avvertite subito il medico o correte in pronto soccorso». Il rischio, soprattutto, è che invece di ricorrere a un esperto sempre più persone possano far fronte all’emergenza col fai-da-te: prendere un anti-dolorifico può migliorare temporaneamente il dolore, ma intanto l’infezione addominale, la peritonite, peggiora e può portare a gravi conseguenze. Pensare, come spesso purtroppo accade, che la soluzione ai nostri problemi possa avere risposte chiare ed efficaci semplicemente scrivendo su google è un’idea che rischia pericolosamente di diffondersi specie visto il periodo che stiamo vivendo. Ecco perché, come accaduto in vari nosocomi italiani, è fondamentale non solo istituire reparti appositi per il Covid e altri Covid-free, ma anche di diffondere e pubblicizzare tale sistema di modo da non incorrere nel pericolo di scoraggiare pazienti con altre patologie o dolori.
“Arrivare tardi in ospedale con un’urgenza addominale come l’appendicite, la colecistite, la diverticolite significa sviluppare una forma complicata, che porta ad interventi chirurgici più complessi, a un allungamento dei tempi di degenza e in generale a rischiare di più”.
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46 PS Mar 2021
LA PANDEMIA SPINGE A CONSUMARE CIBO MADE IN ITALY Studio della Cattolica: il 70% degli intervistati acquista spesso o sempre prodotti certificati
di Alessandro Righi
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robabilmente nessuno ci avrebbe mai pensato, ma la pandemia è stata capace di modificare anche i consumi alimentare degli italiani, spingendo verso i prodotti locali e certificati: si stima, infatti, che il 70% delle persone acquisti spesso o sempre prodotti Dop, Igp o Stg, cioé a qualità certificata europea. La preferenza per i prodotti locali e il made in Italy è ancora maggiore tra le persone sopraffatte da stati d’ansia e depressivi e da un’aumentata percezione del pericolo del Covid. È uno dei dati emersi dall’indagine realizzata dall’EngageMinds HUB, il Centro di ricerca dell’Università Cattolica, e in particolare dall’Area food del Centro che ha sede a
Cremona nel Campus di Santa Monica. «Si tratta di un vero e proprio monitor continuativo- spiegano i ricercatori - una ricerca iniziata con una prima survey lanciata a fine febbraio 2020, alla quale hanno fatto seguito altre due rilevazioni (a maggio e settembre) sino alla quarta di poche settimane fa. Nel complesso, oltre 4000 persone intervistate e molti
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dati elaborati e interpretati dal team di psicologi-ricercatori dell’Università Cattolica, in modo che, tra l’altro, si possano iniziare a costruire trend». E qui la domanda di rito? Cosa è emerso da questa curiosa ricerca? È emerso che oltre la metà degli intervistati (il 52%) ha acquistato cibi a “Km 0”, ovvero prodotti localmente, e si nota come la provenienza dei prodotti alimentari pesi notevolmente nei consumi di questi mesi. Gli ultimi dati (raccolti nell’ambito del progetto Craft) evidenziano, innanzitutto, come ai primi posti tra le scelte degli italiani ci siano i prodotti più garantiti, soprattutto dal punto di vista della loro origine. «Da un punto di vista psicologico - spiega la professoressa Guendalina Graffigna, ordinario di Psicologia dei consumi e della salute e direttore dell’EngageMinds HUB - che in tempi di Covid-19 il consumatore sia orientato verso alimenti di qualità, ma soprattutto di cui è nota, anzi, certificata, l’origine è una dinamica coerente, con atteggiamenti più generali di diffidenza verso ciò che
è esterno o esotico. Ciò sfocia in comportamenti un poco più chiusi, anche in campo alimentare». E che il fattore psicologico giochi un ruolo rilevante è segnalato anche dal fatto che, rispetto al dato medio nazionale, prodotti sentiti come “made in Italy” siano preferiti in misura maggiore da cittadini che in questi mesi percepiscono il rischio sanitario e il rischio economico particolarmente elevato. Altri dati interessanti che emergono dall’analisi dell’EngageMinds HUB riguardano l’olio di palma: «Ben il 49% del campione ha acquistato con elevata frequenza prodotti “senza olio di palma”. Un quarto degli italiani ha dichiarato di aver consumato spesso o sempre latte “senza lattosio” e il 19% alimenti “senza glutine”». Su questi prodotti la psicologia ha un forte impatto, perché «attivano una sorta di irrazionale equazione psicologica - sottolinea ancora la professoressa Graffigna- secondo cui alcuni ingredienti se proposti come “eliminabili” o “sostituibili” allora vengono anche percepiti come “nocivi”. E in questo momento storico, in cui sul piano psicologico oggi i consumatori italiani sono particolarmente provati dalla pandemia da Covid-19, perché spaventati, traumatizzati, frustrati ed affaticati dalla lunga convivenza con l’emergenza e le conseguenti restrizioni, questi meccanismi emotivi hanno il sopravvento nelle nostre decisioni di consumo». Insomma, quando il consumatore è più emotivamente scombussolato si affida di più a dei meccanismi irrazionali di scelta e valutazione. La rilevazione dell’EngageMinds HUB mostra infatti che tra coloro che manifestano stati d’ansia o depressivi da pandemia, o la percezione elevata del rischio di contrarre Covid-19, le percentuali di italiani che accordano una forte preferenza ai prodotti cosiddetti free-from salgono «molto significativamente».
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“In questo momento storico, in cui sul piano psicologico oggi i consumatori italiani sono particolarmente provati dalla pandemia da Covid-19, perché spaventati, traumatizzati, frustrati ed affaticati dalla lunga convivenza con l’emergenza e le conseguenti restrizioni, questi meccanismi emotivi hanno il sopravvento nelle nostre decisioni di consumo”.
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48 PS Mar 2021
“IL COVID NON SEPARI LE MAMME DAI NEONATI” Lo studio dei neonatologi: il 30% delle donne positive poi non allatta più
di Antonio Acerbis
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l Covid-19 non deve separare la mamma dal neonato. Un tema di cui finora poco si è parlato, ma che potrebbe nascondere pesanti insidie cui finora nessuno ha mai pensato. A lanciare l’allarme sono stati i neonatologi italiani della SIN (Società Italiana di Neonatologia), intervenendo con il presidente Fabio Mosca, a supporto di uno studio internazionale, Covid Mothers Study, dal quale sono emersi i dati che descrivono l’impatto di questa separazione: l’80% delle donne che per via della positività ha subito il distacco dal piccolo appena venuto al mondo lo ha vissuto con angoscia. Queste mamme, per il 29%, non sono state in grado di allattare una volta riunita col bebè. Coordinato dall’Harvard Medical School di Boston, alla sua realizzazione hanno collaborato, tra gli altri, l’Istituto superiore di sanità (Iss)
e Unicef Italia, ed è stato recentemente pubblicato sulla rivista americana Breastfeeding Medicine. «La mamma positiva a Covid-19, che usa le opportune misure di precauzione, ha un rischio molto basso di contagiare il neonato - dice Mosca - Se ha sintomi lievi è perciò possibile evitare la separazione dal suo bambino, poiché i benefici del rooming-in e dell’allattamento materno sono maggiori del rischio di contagio. È così che le nostre neonatologie, sin dall’inizio della pandemia, hanno scelto di tenere insieme la diade mamma-neonato, diversamente da quello che accadeva in Cina e negli Stati Uniti, dove madre e figlio venivano separati in modo sistematico». Proprio per
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evitare il più possibile effetti negativi, la SIN ha diffuso alle Neonatologie italiane, fin dal 28 febbraio 2020, quindi all’inizio della prima ondata della pandemia, le indicazioni su «Allattamento e infezione da Sars-CoV-2», che sono state poi validate da un contributo scientifico multicentrico italiano di 6 Neonatologie lombarde, pubblicato sulla rivista Jama Pediatrics. Lo studio è stato condotto su un campione di 62 bambini, nati da madri positive, tra il 19 marzo e il 2 maggio 2020 e seguiti per 20 giorni di vita. Dei 62 neonati arruolati, nati da 61 madri e negativi alla nascita, solo 1 bambino (1,6%) è stato diagnosticato con infezione asintomatica ai controlli post-parto.
E dunque che fare? Con le opportune precauzioni, dicono gli esperti, la mamma positiva al Covid-19 può abbracciare il suo piccino appena nato e vivere l’esperienza del contatto pelle a pelle, «che favorisce il bonding», la creazione del legame, «e il buon avvio dell’allattamento». La mamma ha la possibilità, dunque, di attaccare subito il bimbo al seno e procedere anche nei giorni successivi con l’allattamento a richiesta. La vicinanza con i genitori, di cui è dimostrata la capacità curante, è fondamentale anche per i nati prematuri. Con lo scoppio della pandemia, inoltre, la SIN ha anche attivato un Registro nazionale, che raccoglie i dati clinici derivanti dall’assistenza dei neonati nati da madre affetta da coronavirus e i dati derivanti dal contagio entro il primo mese di vita. «Sulla base degli ultimi risultati del nostro registro - continua il presidente della Sin, Mosca - il rischio di trasmissione postnatale da madre positiva a bambino durante il rooming-in risulta essere inferiore al 5%. Di 1.414 neonati nati da madre positiva nel 2020, 448 hanno richiesto cure in Tin o Patologia neonatale, spesso a seguito della gravità del Covid materno o della loro prematurità (sempre riconducibile all’infezione materna in gravidanza, o alla necessità di seguire l’adattamento neonatale dopo un parto mediante taglio cesareo o, nella fase iniziale della pandemia, per la volontà di verificare lo stato di salute del neonato in una situazione clinica ancora poco nota)». Dei restanti 966 neonati, asintomatici alla nascita e durante la degenza in ospedale, «ben l’88,3% non è stato separato dalla mamma e ha effettuato il rooming-in e circa il 70% è stato allattato con latte materno, suggerendo una buona gestione da parte delle Neonatologie italiane, con adesione alle indicazioni della SIN».
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Con le opportune precauzioni, dicono gli esperti, la mamma positiva al Covid-19 può abbracciare il suo piccino appena nato e vivere l’esperienza del contatto pelle a pelle, «che favorisce il bonding», la creazione del legame, «e il buon avvio dell’allattamento». La mamma ha la possibilità, dunque, di attaccare subito il bimbo al seno e procedere anche nei giorni successivi con l’allattamento a richiesta.
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50 PS Mar 2021
TORNA IN LIBRERIA TERESA CIABATTI PRONTA PER IL PREMIO STREGA “La scrittura mi ha salvato. Ma la mia adolescenza infelice è stata la mia fortuna”
di Flavia Piccinni
E
siste qualcosa di più bello che essere giovani, sentirsi amati e in qualche modo onnipotenti? Forse, leggendo l’ultimo libro di Teresa Ciabatti, sembra quasi che questa cosa esista, e che corrisponda all’essere giovani, e tagliati fuori dai giri che contano. Perché, se non hai niente da perdere, non perdi mai. Si tratta ovviamente di una provocazione, ma tutto il libro dell’autrice toscana, trapiantata da adolescente a Roma, è una straordinaria provocazione. Fin dal titolo: “Sembrava bellezza” (Mondadori, pp. 240). Protagonista della narrazione è una voce stridula e disturbante, quella di una scrittrice che finalmente – dopo anni di tentativi, e di ambizioni frustrate – ha conquisto il suo ambito posto al sole. È una donna di succes-
so, che passa da un’intervista a una presentazione. Almeno in apparenza. Ed è una voce molto simile alla protagonista de “La pià amata” che, uscito nel 2017, aveva portato nella cinquina finalista Ciabatti (secondo rumors editoriali sempre più pressanti, dovrebbe gareggiare anche quest’anno). “Vede – mi spiega lei, la voce delicata che si interrompe ogni tanto per fare una risata - la mia è una predisposizione innata per i narratori inattendibili. L’immaginazione serve a ricostruire, a manipolare. Quella voce è da sempre dentro di me. È quello che io non sono mai riuscita ad essere. Sono tutte le ragazze belle, bionde e ricche che non sono mai stata. Se non fossi stata un’adolescente emarginata, un’adolescente grassa e nell’angolo, non sarei diventata quello che sono: un’adulta dall’immaginazione vivace,
L’AUTORE
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Teresa Ciabatti.
con tante paure mai vinte. Gli adulti dei miei libri si portano sulle spalle delle paure che non hanno mai risolto. Io mi ricordo di tutti e nessuno si ricorda di me, sapevo tutto di quelli più popolari, che erano la mia giovinezza. Io però non sono stata la giovinezza di nessuno”. Il suo romanzo è punteggiato da molte domande. A un certo punto scrive: “Esiste un momento nella perdita di una persona amata in cui si piange se stessi. Per i noi perduti con lei”. Ci sono persone che rappresentano per gli altri una perdita minore. E poi quelle che vengono idealizzate. Nel lutto c’è sempre una parte di narcisismo. A volte penso che nessuno si ricordi di me, ai tempi della scuola, e questo mi commuove. Forse non sarebbe venuto nessuno al mio fune-
rale. Ecco, io sarei stata una perdita minore. E ora? So di avere degli amici che mi vogliono bene. Ho imparato a scegliermele, le persone da avere vicino. Forse, però, nessuno è una perdita maggiore. Probabilmente è così, ed è bellissimo. Quando muoiono le persone ti rendi conto che tutto precede ugualmente. Un grande tema del romanzo è quello dell’autobiografia ideale. Un esercizio, quello di lavorare sulla propria dimensione, che accomuna molti suoi scritti. La voce narrante riscrive la sua memoria, per poi rendersi conto che non era tutto come credeva. Questo a me non è accaduto. Al mio tempo c’era poco da fraintendere.
“Sembrava bellezza” Teresa Ciabatti Mondadori 240 pagine 18 euro
52 PS Mar 2021
“La mia letteratura è fatta di gesti mancati: quello che non ho fatto io, lo fanno i miei personaggi. Tutt’oggi non reagirei a uno sgarbo. Mentre la mia protagonista andrebbe a casa di quell’amica, prenderebbe tutte le foto e le farebbe in mille pezzi”.
L’AUTORE
In che senso? Io credevo al giudizio degli altri, che mi interessavano tantissimo. Con gli anni ho imparato a essere molto orgogliosa della mia adolescenza passiva. Se non ci fosse stato questo scollamento fra me e gli altri, non sarei diventata una scrittrice. All’epoca soffrivo, ma oggi sono felice di quei pomeriggi trascorsi a mangiare tutto il giorno. È stato un percorso di formazione della mia sensibilità, che affronto ancora oggi. Ancora oggi? Mi piacerebbe provare a essere la più bella, ma non è più una sofferenza. Guarda mai le foto di come era da ragazza? Mai, e per fortuna non ce ne sono. Anche se un giorno andai a casa di una mia amica e mi fece vedere l’album di una gita in Grecia: ero ovunque, e tutte le foto erano bruttissime. Feci finta di niente. Continuammo a chiacchierare, a mangiare la torta, a bere il caffé. Poi tornai a casa, e piansi tantissimo. È come se lei avesse abbracciato
l’epopea della vulnerabilità: il raccontare tutto del suo passato, per creare la massima corazza intorno a sé. Adesso non è più un problema. Ma vedere quell’album mi mise davanti alla realtà: io non volevo foto, eppure fra quelle pagine ero ovunque. Ecco, anche se ci provi, non puoi avere il controllo di tutto. Con la scrittura però è diverso. La mia letteratura è fatta di gesti mancati: quello che non ho fatto io, lo fanno i miei personaggi. Tutt’oggi non reagirei a uno sgarbo. Mentre la mia protagonista andrebbe a casa di quell’amica, prenderebbe tutte le foto e le farebbe in mille pezzi. Però agisce per gli altri. Con l’età ho acquisito la forza di difendere gli altri. Qual è l’ultima persona che hai difeso? Non mia figlia, lei non la difendo. Posso consolarla, rassicurarla, ma il dolore, l’umiliazione, sono cose che vanno vissute. Sono semplicemente importantissime.
I cinque finalisti del Premio Strega del 2017. Da sinistra, Paolo Cognetti (vincitore con “Le otto montagne”), Wanda Marasco, Alberto Rollo, Teresa Ciabatti e Matteo Nucci.
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54 PS Mar 2021
LIBRI
“Venezia è un pesce” Anche i luoghi hanno crisi d’identità? Alla scoperta della città più turistica del mondo con il premio Strega Tiziano Scarpa
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a incantato, Venezia, il mondo la città, dei suoi abitanti, dell’autore stesso intero. Ha incantato poeti e che la esercita con talento nei confronti del artisti, facendo sognare gli uo- lettore – e allo smarrimento, da esercitare mini per la straordinaria follia come sfida del cuore e imperativo moraarchitettonica dei suoi canali e l’ambizione le. Perché “smarrirsi è l’unico posto dove di una città che, pur essendo diversa da tut- vale la pena di andare. Tutto sommato, con te le altre, pretendeva di funzioqualche accortezza, puoi anche nare come un luogo qualsiasi. A girare in città a qualsiasi ora del raccontarla con uno stile sapiente giorno e della notte”. In fondo, ed elegante torna in libreria il vegià lo diceva Henry James ne “Il neziano Tiziano Scarpa, già vincicarteggio Aspern” che Venezia è tore del Premio Strega nel 1999 e un interno di appartamento. O, appassionato di storie di calli e di forse e piuttosto, un palcoscenicampi, che con “Venezia è un peco in cui tutti credono di essere sce” (Feltrinelli, pp. 192) invita il attori fino a quando non realizzalettore a utilizzare i suoi sensi per no di essere mere comparse. Inscoprire la città che “assomiglia a “Venezia è un pesce” teressante lo spunto che obbliga una sogliola colossale”, che non Tiziano Scarpa il lettore a confrontarsi con una è fatta di “quartieri” ma di “se- Feltrinelli città che, mettendo in crisi l’iden192 pagine strieri, e che è un “nessunodro- 16 euro tità del suo visitatore, affronta a mo, un circuito inventato perché sua volta il dubbio. Emozionante ciascuno possa disfarsi della sua scoprire gli artisti e gli intelletidentità”. Ma Venezia è anche molto altro. tuali che dalla Laguna hanno portato via Una città che “la sua bellezza te la pagare ricordi indelebili, come “il signore francese per pacificarti con lei, come se tu le dovessi che si è ricordato per tutta la vita la sensaqualcosa per il solo fatto di essere lì”. Una zione del piccolo dislivello dei pavimenti città dove “una passeggiata ti sazia l’anima e veneziani sotto i piedi”. Di chi parla l’auil corpo, non hai bisogno di altro”. tore? Di Marcel Proust, che della città scriNon è dunque una sorpresa che grande ve nell’ultimo volume di “Alla ricerca del attenzione sia dedicata alla seduzione – del- tempo perduto”. (F. P.)
CINEMA E TV
PS Mar 2021 55
Un mondo distopico per conoscere i sentimenti umani immutabili Su Netflix, l’inquietante serie “Snowpiercer”, saga firmata dal premio Oscar Bong Joon-Ho
“S
iamo noi a creare la storia mo film nel 2004; a sinonimo che a volte con la nostra osservazione, le idee ci colgono quando siamo pronti, e e non la storia a creare noi”. che non è affatto facile liberarsi da delle Ripeteva così il fisico teorico intuizioni che divengono ossessioni. E nelStephen Hawking. Ed è a sorpresa questa la storia dello Snowpiercer c’è molto di la frase che mi torna in mente riguardando inquietante e affascianante, a cominciare prima il film del 2013, dunque la serie – dalla narrazione che si svolge in un’epoca le cui nuove puntate vengono diffuse ogni tragicamente distopica. Siamo nel 2031, il settimana su Netflix – di Snowpiercer, il mondo è stato decimato da una nuova era capolavoro del regista sudcoreano Bong glaciale, e gli unici esseri umani sopravJoon-ho. vissuti hanno trovato casa Impostosi all’attenziosullo Snowpiercer, un trene mondiale con Parasite no che continua a correre - insignito nel 2019 dalla intorno alla terra per gioPalma d’Oro e premiato varsi dell’energia del motocon l’Oscar per miglior re perpetuo. Il treno è un film, miglior regia e miglior microcosmo della società sceneggiatura originale – il umana, con le sue classi cineasta con il suo lavoro sociali e diseguaglianze, mostra come le buone idee “Snowpiercer” (disponibile su Netflix). terreno fertile per battaglie possano sempre incidere, e in nome della parità, ma come un incontro fortunato possa diventa- anche paradigma della cattiveria, della gere uno stile di lettura del tempo. nerosità e dell’egoismo umano. Ad accenL’incontro fortunato da cui è nata la dere la miccia – in un piccolo universo che saga di Snowpiercer è quello con il fumet- sta sprofondando, e che pare destinato a to Le Transperceneige firmato nel 1982 dai spegnersi – arriva qualcosa di inaspettato, francesi Jacques Lob e Jean-Marc Rochet- che rivela come in ogni epoca, e in ogni site, che Bong Joon-ho lesse per caso in un tuazione, l’essere umano sappia ridefinire negozio di fumetti a Seul, vicino la sala di se stesso. In nome della sopravvivenza, e montaggio dove stava lavorando al suo pri- non solo. (F. P.)
56 PS Mar 2021
nuovo coronavirus
Consigli sulle terapie in corso Titolo Non trascurare le tue patologie croniche. Continua ad assumere i farmaci che ti sono stati prescritti seguendo sempre le raccomandazioni del tuo medico. Le tue patologie non aspettano la fine della pandemia! Contatta il tuo medico per chiedergli consiglio, se hai qualche dubbio sulla terapia che stai assumendo. Il medico può fornirti telefonicamente il numero della ricetta con il quale ritirare i medicinali di cui hai bisogno presso la farmacia. Informati su quando potrai riprendere i tuoi controlli medici periodici. Non sospendere le terapie in corso senza aver consultato il tuo medico, in caso di positività al COVID-19. Ricordati di riferire al medico se stai assumendo integratori alimentari.
Chiedi conferma degli appuntamenti per le vaccinazioni dei tuoi bambini e cerca di non saltarli. Non esiste solo il COVID-19!
A cura del Gruppo ISS “Comunicazione Nuovo Coronavirus” 13 maggio 2020
IL DIRETTORE RISPONDE
PS Mar 2021 57
Irritabile e scontrosa Mia figlia è cambiata G
entile prof. Piccinni, sono la mamma di una studentessa di 16 anni che frequenta il liceo classico, e le scrivo perché da qualche mese mia figlia è cambiata. È sempre stata una ragazza timida e introversa, molto ansiosa, con pochi amici, ma allo stesso tempo dolce e affettuosa in famiglia. Il suo carattere, così chiuso, non ha mai pregiudicato la sua eccellente carriera scolastica. Nell’ultimo anno, però, è diventata un’altra persona. È nervosa, irritabile, scontrosa. Per ogni minimo problema si scaglia contro di me e contro sua sorella. Ultimamente ho notato che tende a mangiare meno durante il giorno, e a consumare cibo di nascosto durante la notte. Il suo rendimento scolastico è calato vertiginosamente, e anche i contatti con i suoi amici si stanno riducendo tantissimo. E più passano i giorni, più mi preoccupo… Letizia, Roma
G
entile Letizia, il quadro che mi ha descritto è di fre-
quente osservazione, soprattutto in questo periodo. L’adolescenza è da sempre un momento della vita pieno di insidie e la pandemia ha acuito il rischio di manifestare disagio e sofferenza, se non una vera e propria psicopatologia. Migliaia di adolescenti italiani si sono trovati nella condizione di sua figlia, di fronte a un tipo di vita relazionale del tutto trasformata, la routine conosciuta spazzata via e sempre meno possibilità di mettersi alla prova per costruire la propria identità. Da questo punto di vista, il caso di sua figlia è emblematico. La condizione che lei descrive è verosimilmente legata a un calo dell’umore che spesso durante l’adolescenza si manifesta con irritabilità, aggressività, chiusura relazionale e quello che viene spesso indicato come “umore nero”. Sicuramente il sostegno di una psicoterapeuta aiuterà sua figlia a dipanare i nodi che si sono creati in questo momento così difficile e a indirizzarvi, qualora fosse necessario, verso un neuropsichiatra infantile.
Hai domande da rivolgere al comitato scientifico della Fondazione BRF? Scrivi a stampa@fondazionebrf.org. Nel prossimo numero pubblicheremo le tue domande e le risposte fornite da uno specialista o direttamente dal direttore Armando Piccinni.
58 PS Mar 2021
TITOLI DI CODA
Pandemia, un’occasione da non perdere di Pietro Pietrini Professore Ordinario, Direttore Scuola IMT Alti Studi Lucca
P
roprio in questi giorni, un anno fa, la pandemia da Sars-CoV-2 emetteva i suoi primi vagiti, divenuti in un batter d’occhio urla nell’assordante silenzio delle nostre strade prive di vita. Veloce come il vento, il piccolo virus avrebbe monopolizzato la vita di tutti gli altri esseri del pianeta, peraltro ben più complessi della sua misera stringa di DNA, riuscendo laddove i dittatori di ogni epoca e latitudine avevano fallito. Impegnati fino al giorno prima nell’imperitura disputa dei distinguo tra ‘noi’ e ‘gli altri’, nella puntigliosa quanto artificiosa distinzione tra cittadini (noi) e migranti (gli altri), ci saremmo ben presto accorti che il virus non conosceva confini e non temeva oceani né catene montuose, per non parlare poi di muri o filo spinato di umana creazione. In breve, ci saremmo ritrovati tutti sotto lo stesso cielo. La devastazione universale e l’alito di morte che ancora imperversano da un capo all’altro del pianeta ci avrebbero ricordato che le questioni fondamentali non riguardano alcuni e altri no, perché sono universali e non possono essere affrontate e risolte se non con un approccio cooperativo e globale, basti pensare a clima, cibo o, appunto, alle pandemie. Nel felice stupore collettivo, l’impegno cooperativo, trasformati gli anni in mesi, ci avrebbe permesso di ottenere il vaccino in tempi impensabili solo l’anno precedente. Con l’arrivo del vaccino, però, è come se avessimo distolto lo sguardo da quel cielo che ci rendeva tutti così uguali nella nostra finitudine umana. È come se ci fossimo accorti che se è vero che siamo tutti sotto la stessa tempesta, non siamo tutti sulla stessa barca, per dirla con le parole già ricordate di Monsignor Paglia. Sono ripresi i distinguo, i senti-
menti di prevaricazione dell’uno sull’altro, la difesa di valori che non hanno alcun valore. Che cosa impedisce, infatti, di produrre il vaccino in quantità sufficiente per l’intero pianeta se non una questione meramente economica? Non sarebbe forse possibile centuplicare la produzione industriale del vaccino e al contempo tutelare la proprietà intellettuale e i diritti di chi ha realizzato la tecnologia a RNA che ne è alla base? Tecnologia che ha innumerevoli potenzialità di applicazione in pressoché tutti i campi della medicina, dalle malattie genetiche ai tumori, dalle patologie metaboliche a quelle neurodegenerative e persino ai disturbi psichiatrici. Le implicazioni per l’umanità sono enormi e probabilmente neppure ancora pienamente comprese. Ma se vi è una cosa certa è che non possono e non devono essere questioni economiche a limitarne l’utilizzo. Dobbiamo superare un modello asfitticamente competitivo, che rischia di trasformare il fisiologico significato della competizione quale strumento di selezione di strategie più efficienti nel fine stesso da perseguire. È necessario adottare un approccio cooperativo, nella consapevolezza che le grandi questioni dell’umanità sono, per loro natura, un problema di tutti e di ognuno e non solo di coloro che, in un dato momento storico o in un dato luogo, appaiono esserne le vittime dirette. Dobbiamo superare dunque la contrapposizione tra ‘noi’ e ‘gli altri’, artificiosa forbice che finirà per colpire tutti. Pensiamo forse di risolvere la pandemia vaccinando solo ‘noi’ e non anche ‘gli altri’? Questo è il messaggio che il piccolo virus, tra morte e sofferenza, ci ha ripetuto con forza in questi mesi. Sta a noi far sì che la pandemia non rimanga un’occasione mancata.
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