Dove parla connessione, altri letteratura buchi neri di di Braibanti
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e un Paese immutabile, dei 79 Cammini d’Italia e i 90 anni del festival di Venezia, della felicità che esiste, basta volerlo N 1 | SETTEMBRE 2022
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Gianni Amelio Alberto Barbera Mariafelicia De GiorgioneLaurentis LindaVeronicaMesserklingerRaimoThomasTorelli
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2SETTEMBRE 2022
Direttore: Fabrizio Tassi Progetto grafico: Marta Carraro
In copertina: Linda Messerklinger fotografata da Federico Masini (servizio a pag. 26)
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REDness è passione, arte, impresa, comunicazione. È il "rossore" provocato dalle emozioni forti. Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare. La redness è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina. È l'entusiasmo, la motivazione, il senso, il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.
Redazione: MondoRed Redness è un mensile edito da MondoRed, via Cattaneo 16, Gallarate (VA) Contatti: info@redness.it, direttore@redness.it Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore
REDness è la rivista di MondoRed, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità... Va bene tutto, purché sia fatto con redness
3SETTEMBRE 2022 S OMMARIO 4 EDITORIALE 4 Cuori intrepidi 6 INCONTRI 6 Apologia dell’oste. Giorgione, cuoco “laido” e poeta del popolo 16 Mariafelicia De Laurentis: la scienza è vocazione. A caccia di buchi neri 26 Linda Messerklinger: stati di grazia di un’artista-dakini 34 Veronica Raimo: una scrittrice fuori da ogni canone 42 EVENTI 42 La Mostra di Venezia fa 90 48 Alberto Barbera: «Rivoluzione in atto, ma il cinema è vivo» 52 Gianni Amelio, il signore del cinema 64 LUOGHI 64 Camminare fa bene all’anima e all’Italia 70 IDEE 70 Il sentiero della gioia 75 Uam.Tv: accendi il cambiamento 76 Dio, Lucania e poesia 78 Thomas Torelli: «Il mondo è lo specchio di ciò che siamo dentro» 82 STORIE D’IMPRESA 82 MondoRed: una SpA fatta in casa 90 COMMIATO 90 La virtù dell’irriverenza
In questi tempi cinici e stanchi, emergenziali e ferali, abbiamo bisogno di ritrovare ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina, o che ci
Noi cerchiamo “quella cosa”: l’entusiasmo, il senso, la motivazione. Cerchiamo la passione e l’energia, la bellezza, il fuoco sacro, l’idea rivoluzionaria, l’allegria. Ma, volendo, anche l’ozio consapevole, la nobile rinuncia, il vuoto, la nostalgia, la parola gentile pronunciata sottovoce: a volte ci vuole più coraggio a dire “no”, a liberarsi dal le convenzioni e i condizionamenti, a uscire dalla logica del “me” e del “mio” (una prigione invisibile), rischiando la vertigine del “noi” (che comprende gli altri e la natura, il visibile e l’invisibile).
«Ilrosso ha l’impeto e la dignità di un cuore intrepido» (Man Ray). E poco importa che sia fragola, corallo o ceralacca, rosso tramonto, solenne e malinconico, o rosso fuoco, che tutto brucia al suo passaggio, rossore delicato op pure scarlatto e sfacciato, vinaccia, porpora, cinabro, scuro come la ruggine o luminoso come una ciliegia sotto il sole d’estate, rosso magenta o pompeiano, sangue o succo di melograno. Cuori intrepidi, ecco di cosa abbiamo bisogno. Mossi dall’istinto o l’ispirazione, da una passione ardente o una misteriosa illuminazione. Abbiamo bisogno di donne e uomini che non si accontentano di sopravvivere (ah, l’ebbrezza dell’apocalisse prossima ventura!) e per questo amano creare, costruire, immaginare, ognuno nel suo modo, unico e diverso, perché l’universo ha bisogno di guardarsi con occhi sempre nuovi.
4SETTEMBRE 2022 E DITORIALE
Cuori intrepidi
L’abbiamo chiamata REDness. “Rossità”. Forse perché «un tocco di rosso fa più effetto di un’intera secchiata d’acqua» (Matisse) e oggi c’è un gran bisogno di darsi una svegliata (ma anche un “risveglio”, all’orientale).

Perlustriamo l’arte dello scrivere - ma anche del non farlo per forza - con una scrittrice che amiamo, Veronica Raimo, e conosciamo Linda Messerklinger, artista multiforme, imparentata con una di vinità orientale (dakini!), che ci parla di anima, natura, connessio ne fra tutti gli “Connessione”esseri.èanche una delle parole più amate da Thomas To relli, creatore di Uam.Tv, documentarista alternativo e spiritualista, che ci porta a esplorare Il sentiero della gioia A proposito di strade che vale la pena percorrere, eccovi una guida illustrata ai Cammini che attraversano l’Italia. Ma consigliamo an che un giro al Lido di Venezia, per la Mostra internazionale d’arte cinematografica, che presentiamo attraverso i suoi film più attesi (da noi) e l’intervista al direttore Alberto Barbera. Un’attenzione par ticolare, però, la dedichiamo a Gianni Amelio, uno dei più grandi registi del cinema italiano di oggi e di sempre, che ci racconta il suo nuovo film, Il signore delle formiche, e tante altre cose.
tiene svegli fino a tardi. Lo scopo. Il significato di ciò che facciamo.
REDness non ha un tema specifico (ne ha tanti, potenzialmente tutti). È una rivista fatta di incontri e storie, di persone e perso naggi. Interviste, dialoghi, chiacchiere in libertà. Ci interessano gli esseri umani, le scelte, i sogni e le emozioni autentiche, le opere che lasciano il segno, ma anche le amabili sciocchezze che rendono la vita più buffa e imprevedibile, per non prendersi troppo sul serio. Racconteremo anche luoghi, eventi, idee. Cose note e meno note, a cui offriremo una gran voglia di scoprire e di capire, insieme al gusto dello scrivere (e del leggere), perché la rivista non deve esse re un dovere, ma un piacere. Cultura, scienza ed economia, arte, moda, filosofia, libri e film, sport e cucina, a noi va bene tutto, pur ché sia fatto con REDness.
5SETTEMBRE 2022
In questa prima tappa ci muoviamo tra l’infinitamente grande e misterioso dei buchi neri, grazie a una scienziata ispirata come Mariafelicia De Laurentis, e la basica umiltà della cicoria, la vita avventurosa e libertaria del mitico Giorgione.
Per poi celebrare la “rossità” al lavoro di MondoRed e chiudere in bellezza, omaggiando Oscar Wilde, insieme all’arte di Marta Carraro (le illustrazioni sono sue e le troverete anche nei prossimi mesi, un motivo in più per non perdere neanche un numero della rivista).
Più redness per tutti! Fabrizio Tassi
Senza cedere alla narrazione corrente, che ci vuole spettatori inerti di un film in cui gli eroi sono ridotti a fare gli influencer e a noi rimane solo la libertà di scegliere l’emoticon.

Vino, cibo e libertà. Trasferta in Umbria (golosa e spassosa) a casa del creatore di “Orto e cucina”, anti-star televisivacheparla come mangia (bene) di Fabrizio Tassi Apologia dell’oste Giorgione, cuoco “laido” e poeta del popolo I NCONTRI
(foto Francesco Vignali)

8SETTEMBRE 2022 «Baciozzi!» Mi scrive così, su WhatsApp. Col punto esclamativo. Ci siamo appena conosciuti al telefono, ma è come se fossi un vecchio amico. D’altra parte lui è Giorgione, schietto, diretto, guascone. Non perde tempo in formalità e ti travolge con la sua energia. Quasi tutti i suoi messaggi, in effetti, finiscono con un punto esclamativo.
Giorgione è uno che sa cosa dice, di qualsiasi cosa parli. È colto e carnale. Capace di esprimersi in un linguaggio forbito, per gioco, ma anche di lanciarsi in un turpiloquio creativo che avrebbe mandato in solluchero il Belli e il Catullo proibito della “nugae”
La prima volta che l’ho visto, dieci anni orsono, stava sul tablet del mio primogenito, allora undicenne. Stupore. Perché mai un ragazzino dovrebbe divertirsi a guardare un cuoco barbuto in salopette che prepara ricette nella cucina di casa sua? Forse perché è un attore nato, anche se non ha nessun bisogno di recitare. È vero. È sponta neo. È uno spasso strampalato. “Giorgione, orto e cucina” - gentilmente offerto da Gambero Rosso Channel - diventò un’autorità in fami glia, tramandato da un fratello all’altro. E tutti comincia rono a citarlo: un «nonnulla» di questo, un «cicinino» di quell’altro, senza dimenticare «una smucinata propiziatoria». Imparammo a «tagliare il sederino dell’a glio» e a sorridere degli intellettuali stellati, che non conoscevano il piacere della cucina «laida e corrotta». E allora via, in Umbria, per incontrare questo anti-divo televisivo - cercato da tutte le trasmissioni (a cui dice di no) e gli organizzatori di cooking show dello Stivale - per provare a capire chi è, da dove viene e perché la cicoria non va assolutamente bollita. Ci vado accompagnato da due figli, due “vecchi fan” di 21 e 16 anni: non sia mai che ci scappi una lezione di vita.
Dieci giorni prima gli avevo scritto per chiedergli un’in tervista – per lui, una potenziale rottura di scatole - dandogli rigorosamente del “lei”. «Va bene, però vieni qui da me, così ci guardiamo nelle palle degli occhi», mi ha detto, telefonandomi pochi minuti dopo. “Qui da me” è a Montefalco, provincia di Perugia, Umbria. Ed è un luogo da visitare. Quelle magnifiche colline, ricoperte da vigneti e uliveti, quei borghi medievali con boschi che risalgono al Trecento (qui gli alberi muoiono di vecchiaia, nessuno li può toccare), sono l’ambiente ideale per vedere il re degli osti in azione. Leggo sul sito internet del suo ristorante Alla Via Di Mezzo: «Giorgio Barchiesi è grande e grosso, dal caratte re aperto e sensibile come un vero compagno di avventure. Nel suo orto coltiva di tutto, alleva animali di ogni tipo e cucina come si deve». Menu fisso a 34 euro. Lui che potrebbe chiederne tranquillamente il doppio o il triplo. Ma se glielo dici, ti guarda male. C’entrano i trascorsi po litici di un certo tipo, ma c’entra soprattutto la vocazione popolare, il piacere di cucinare per tutti, e tutti trattare come fossero vecchi amici.
LIMANNAGGIAPESCETTIFRITTI IN PADELLA In effetti la lezione è arrivata. Senza bisogno di catte dre, pose da star o “fisime borghesi”. Parlando di cibo, politica e libertà. Facendo buon uso di ricordi piccan ti, calici di vino e un turpiloquio creativo che avrebbe mandato in solluchero il Belli e il Catullo proibito delle nugae. Perché questa è la prima cosa che noti, appena co minci a parlargli, al di là delle bretelle d’ordinanza e quel la sua aura da personaggio d’altri tempi, a metà strada fra un Hemingway, un Gauguin ai Tropici e un contadino sempre indaffarato: la facilità di parola. Giorgione è uno che sa cosa dice, di qualsiasi cosa parli, è colto, ma anche felicemente pedestre, e quindi terragno e carnale. Capace di esprimersi in un linguaggio forbito, per gioco, con tanto di definizione da vocabolario delle parole più ricercate, ma anche di lanciarsi in funambo liche espressioni scurrili in endecasillabi che farebbero arrossire anche i più assidui frequentatori di bettole. E infatti i figli si divertono come matti. Io pure. Ci racconta di quella volta in cui inciampò durante una ripresa televisiva, lui che non voleva tagli e montaggi strani nelle sue trasmissioni, e tirò fuori un’imprecazio
Giorgione
9SETTEMBRE 2022 ne talmente lunga ed elaborata che era impossibile da cancellare (e che qui, purtroppo, non possiamo ripor tare, per non correre il rischio che la rivista prenda fuo co). Telefonarono da Roma, per segnalare il «linguaggio poco consono». Lui accettò di auto-doppiarsi, e dopo due ore di tentativi venne fuori un «Mannaggia li pescetti fritti in padella». Ma questo, in fondo, è solo colore. La crosta. La sostanza è una storia avventurosa che affonda le sue radici nel pas sato di questa e di altre terre – da Roma a Trani, passan do per la Val Pusteria, su e giù per l’Italia – nella buona borghesia laziale e nella sua bassa manovalanza conta dina, in un tempo che sognava di cambiare il mondo, con la sua euforia di libertà e il gusto della trasgressione, nelle zuffe per strada fra studenti (fascisti e comunisti), ma anche nelle serate passate a suonare e cantare con un caro amico noto cantautore. Con Giorgione si parla di grandi temi universali e di torbidi aneddoti famigliari, di broccoli o di incomunicabilità, con la stessa serietà e la medesima ironica leggerezza. Lo show comincia fin dalla prima tappa dell’incontro, alla Cantina Antonelli di San Marco: 190 ettari di terre ni argillosi, dieci dedicati a oliveti e cinquanta a vigneti, con una storia che comincia nel 1881 e da tredici anni si è convertita al bio integrale. «La vigna un tempo era maritata, stava attaccata ai gelsi e agli alberi da frutto, non c’era il concetto di filare, che è arrivato coi francesi, con Napoleone».
Qui c’è un casale che un tempo era la residenza del ve scovo di Spoleto, poi finito al «bisnonno di mia moglie, che era un facoltoso avvocato romano: si mormora che, per evitare la scomunica, quando confiscarono i beni della Chiesa, lo fece comprare a un ubriacone». Da queste parti c’è anche un paesino che si chiama Bastardo, «già osteria del Bastardo, perché dicono fosse del figlio del vescovo». La storia patria ha sempre dei risvolti grotteschi. Ma ciò che conta, qui, ora, è la cantina, le cui radici ri salgono al 1979, quando il rosso di Montefalco divenne dop, seguito dal docg del Sagrantino. «È una cantina di medie dimensioni: 300 mila bottiglie. Siamo legati all’annata. Facciamo vini di qualità e un lavoro di ricer ca sui vitigni scomparsi. Qui ad esempio c’è un Trebbiano Spoletino che fino a quindici anni fa era scomparso. È sta to riclonato. E stiamo facendo esperimenti con la buccia, come se fosse vino rosso, in anfora. La sua straordinarietà è la capacità evolutiva: di solito il vino bianco dura duetre anni, dopo se ne va; questo appena imbottigliato non si beve, ma dopo dieci anni... tartufo bianco! Fantastico!».



Il ricordo più fulgido che ho, è di questa donna che fa l’impasto per lo strudel, quello di Salisburgo, con la farina di segale, senza mattarello, solo con polsi e avambracci.
EDUCAZIONE MONTESSORIANA
Giorgione è arrivato a pesare 186 kg, anche se è sempre stato un «obeso grave sano» (definizione geniale del me dico di fiducia). Essendo impossibile imporgli una dieta - «per me la dieta è una pausa di riflessione tra un pasto e l’altro» - il medico amico gli consigliò una riduzione dello stomaco. Oggi pesa 95 kg. E lo stomaco non è cre sciuto di un millimetro. Per provare il suo stato di forma da splendido sessantacinquenne, mi sfida in un paio di pose ginniche. Io ri mango di stucco quando lo vedo alzare la gamba come fosse Heather Parisi. Fa anche una specie di plié da con torsionista, che a me ovviamente non riesce. I figli invece li sfida sul vocabolario, a suon di definizioni, de “repro bo” a “pedissequo”. Tutto questo mentre facciamo un tuffo nella sua infanzia... montessoriana.
Giorgione fa da cicerone, tra una sigaretta e l’altra. «Ma quante ne fumi?», «Sessanta al giorno», «Sono trop pe!», «Ho appena fatto un esame: polmoni bianchi. Il dottore mi ha detto: “Non so dove lei mette il catrame e non lo voglio sapere”». I miei figli se la ridono, perché la spiegazione “scientifica” fa riferimento a immaginifici eccessi sessuali della sua gioventù. Ma poi diventa serio: «Occhio, però, ragazzi, che il fumo e l’alcol inibiscono il testosterone. Se volete uno sviluppo armonico, più tardi cominciate a bere e fumare, meglio è». Quanto alle droghe, non se ne parla proprio: «Io mi sono sempre piaciuto molto, non ne ho mai avuto bisogno». Che poi sarebbe un magnifico spot contro l’abuso, invece delle solite pre diche e i moralismi da quattro soldi.
«I miei erano molto cattolici, ma non bigotti, grazie a Dio. Eravamo sei figli, cinque maschi e una femmina. Genitori borghesi, un po’ fru fru. Mio padre era un in gegnere edile, mia madre aveva una famiglia con radici nobili». Ma sua madre era, soprattutto, una pedagoga montessoriana. Non avevano la tv in casa («era uno stru mento del demonio»). In compenso però godevano di «un’apertura mentale e una libertà individuale, fin da
Per me la trasformazione del prodotto in cibo era un’alchimia, una magia

Ma prima ancora c’è la scelta di fare l’Istituto Tecnico Agrario e l’esperienza nell’azienda agricola di famiglia - a due passi da Roma, proprietà del nonno, commercialista romano, che ai tempi del fascismo non aveva problemi ad aiutare gli ebrei, e fu uno dei pochi a restituire ogni cosa, con gli interessi, ai suoi assistiti, quando tornarono a casa. Il padre fece questa raccomandazione al fattore: «Fategli fare ciò che gli operai non vogliono fare. Paga sindacale. Divieto assoluto ai contadini di accudirlo». Lavorò di notte, fino alle 6.30 del mattino, spostando i tubi dell’irrigazione, completamente coperto di fango, per evitare di ferirsi con le foglie di granturco. Tutto questo per comprarsi il motorino. Montessoriani, sì, e pure benestanti, ma le cose bisognava guadagnarsele. E imparare sulla propria pelle. Vedi quegli anni in cui era facile finire in Questura, dopo una “retata politica”, e il babbo faceva in modo che il figlio minorenne passasse la notte in cella.
E la cucina, direte voi? Tutto cominciò quando aveva 7 anni, e viveva in un villino liberty di fronte a Piazza del Popolo. La regola famigliare diceva che bisognava andare a letto alle 19.30. Lui sgattaiolava fuori dalla camera, di nascosto, e andava in cucina. Passava le sue serate così. Ma le cose più importanti le ha imparate dalla tata tirole se. «Il ricordo più fulgido che ho, è di questa donna che fa l’impasto per lo strudel, ma non quello tirolese, quello di Salisburgo, con la farina di segale, quindi un po’ più duro e compatto. Lei, senza mattarello, solo con polsi e avam bracci, faceva questo metro quadro di sfoglia... Per me, la trasformazione del prodotto in cibo era un’alchimia, una magia: stavo lì a guardarla a occhi spalancati. Poi ha cominciato anche a insegnarmi». Gli ha insegnato anche come si fa a guarire dalla malin conia. Aveva appena compiuto 17 anni, la madre non c’era più, si era lasciato con la “pischelletta” e stava un po’ “strapazzato”. La raggiunse in Val Pusteria, nella pensioncina in cui c’era una camera tutta per lui, lo fece lavorare come un matto, lo portò a fare spese in Austria, chiedendogli di guidare l’auto («Ma non ho la paten te!», «Ma guidi meglio di me», «Ma ci sono le doga ne», «Ma io conosco tutti»), e poi in tirolese stretto gli disse: «Ora Giorgiolino mi racconti tutto». Catartica. Il giorno stesso se ne andò a rimorchiare. Ma non ci soffer meremo sulle sue disavventure amorose, essendo in gran parte vietate ai minori (per citare Gaber, a quei tempi non si andava per il sottile: «Donne, uomini, animali, caloriferi», andava bene tutto).
Giorgione
11SETTEMBRE 2022 piccoli, che i miei amici non avevano». Vedi il discorso che la madre gli fece a 14 anni e che ricorda ancora come se fosse adesso: «Vai incontro alle cose con la curiosità e non con la diffidenza, soprattutto nei confronti della di versità. Non mettere muri, filtri, barriere, vai con le emo zioni che ti dà quella cosa in quel momento». E via con gli aneddoti, tipo il viaggio a 15 anni da Roma alla Val Pusteria, 780 km con un Corsarino, un cinquantino della Moto Morini. Lassù il padre si era comprato un maso, dopo essere fuggito da Courmayeur, che tra il ‘55 e il ‘65 si era riempita di gente (troppa gente) alla ricerca della bella vita.
Va ricordata, invece, la sua vocazione di sempre, quella del veterinario, che lo portò a studiare a Perugia (il padre gli disse: «Vai pure, ma io non ti posso aiutare»). «Non sono mai più tornato a casa. Stavo con una ragazza, in un casale sperduto, mezzo diroccato, che all’inizio era senza corrente. Avevo subaffittato la camera più carina a una coppia di omosessuali e c’avevo in casa anche un tossico». L’incon tro con la moglie, invece, risale al ‘75, con matrimonio nell’81 («Un rapporto spensierato, ma non vedo un’esistenza senza di lei»).

In questa vita disordinata, a cui nessun film o romanzo potrebbe rendere merito – ma prima o poi glielo pro pongo – ci sta anche una parentesi in Corsica, in un’altra situazione equivoca. In quel periodo ci fu la fatidica te lefonata al fratello (per fargli gli auguri), che gli raccontò di una situazione disperata, con l’azienda famigliare allo sbando. «Io non me la sono sentita di dire di no. Dalle stelle alle stalle, in senso proprio». Alla fine portarono via tutto, e per Giorgio Barchiesi si aprì la parentesi di Trani, a fare il consulente per un’azienda di supermercati, settore carni. Si guadagnava bene, ma furono dieci anni diffi cili («Fui aiutato dai cognati, sempre molto affettuosi»)
12SETTEMBRE 2022
Giorgione saluta calorosamente tutti quelli che incon tra, ringrazia un elettricista per il suo lavoro, scherza con una signora che sta gonfiando dei palloncini – qui c’è anche uno spazio spettacolare, circondato da vetrate, che dà su un panorama di colline, vigneti e uliveti, in cui si organizzano feste ed eventi – e si arrabbia al telefono con C’era un’acqua che voleva darmi 70 mila euro per dire alla fine: “Quanto è buona quest’acqua, mi fa digerire le cose laide e corrotte che cucino”. Bevitela tu! Vuoi Giorgione? Io sono Giorgione! Sono l’autore di me stesso. A casa mia, metto il dito nella pentola e me lo ciuccio
La facciamo corta. Un nuovo lavoro, oltre all’amicizia con il noto cantautore di cui sopra - aveva comprato un casale circondato dagli uliveti a Spello e aveva bisogno di qualcuno che sapesse gestire un’azienda agricola – lo portarono in Umbria. «Io avevo cominciato a cucinare.
Facevo pranzi a casa mia, anche per tante persone, ma per gioco. Avevo questo casale e cucinavo per anniversari di matrimonio, compleanni. La mia casa era aperta. Era un punto di aggregazione. Una sera avevo preparato una cena per 150 persone. E c’erano anche due ragazzi milane si, che avevano un ristorante a Torre del Colle, ma la cosa non funzionava. Un vecchio frantoio riattato, meraviglio so. Mi si accese la lampadina del matto....». Grande antipasto a buffet, due primi, due secondi, tris di dolci, 15 euro. «Dopo un mese che avevo aperto, avevamo sei mesi di prenotazioni il sabato e la domenica». Come si dice: il resto è storia. E se dopo quindici anni il costo del pasto è arrivato a 34 euro, è solo per stare al passo con le spese. «Ho sempre fatto un prezzo politico. Io sono questo. Finito il mio programma televisivo, io sono sempre Giorgiolino». BEVIAMO! Pausa vino. Se vi capita, fatevi un giro in questa cantina. Possibilmente accompagnati da Giorgione, che raccon ta le cose a modo suo, con amore, competenza e senza peli sulla lingua. Scendiamo sottoterra («diffidate delle cantine che stanno in superficie») dentro un ascensore che è un viaggio nel tempo, costellato di foto d’epoca, in bianco e nero, gente al lavoro, la famiglia, il fattore, i contadini nella vigna. E comincia il viaggio nel magico mondo dell’uva che diventa vino. Non staremo a rac contare tutto quello che abbiamo visto, in quegli spazi enormi, dall’uva lavorata «per caduta, senza pompe», alle magnifiche botti («non è vero che la botte vecchia fa il vino buono, la botte ha una sua vita»), dalla linea di imbottigliamento all’avanguardia, alle famose anfore per il Trebbiano Spoletino in buccia, con l’interno ruvido, effetto coccio («costano un orrore!»).

Giorgione
13SETTEMBRE 2022 un fornitore che non fornisce le carni promesse, con un tono tra lo scherzoso e l’omicida, usando parole irripeti bili che scatenano l’ilarità dei figli. Ci spiega come funziona il docg, che la cantina non ge nera profitti ma soldi reinvestiti nella cantina stessa, che si sopravvive grazie al fatto che il 60% va all’estero (dal Canada a Dubai, dalla Francia all’Inghilterra, dall’Olan da al Belgio, senza dimenticare l’America) e arriviamo al sancta sanctorum, l’enoteca aziendale che conserva le vecchie annate. «Questo ci serve a capire cosa eravamo e cosa stiamo facendo. Il Sagrantino nasce quarant’anni fa. Prima era solo passito, ed è diventato secco. Clinton aveva il Sagrantino sulla sua scrivania nello Studio Ovale, ma non tutti lo conoscono, è ancora un vino di nicchia. È il vino più tannico al mondo, è ruvido, ti arriva in bocca e ti fa l’effetto cachi immaturo, ha bisogno di tempo, se tu lo vendi a sei anni è un bambino, deve crescere, si deve sviluppare... Noi una volta all’anno ci vediamo qui, tra giovani alcolizzati, e ci facciamo le trasversali per capire quell’annata quanto dura, quanto migliora, quanto ri mane stabile. Devi giocare con la tua storia, ci devi ragio nare su, la devi rispettare». I figli (come il padre) sono letteralmente rapiti dall’affa bulazione, il carisma e – diciamolo – anche i vini della cantina. Perché non si può conoscere qualcosa senza far ne esperienza. Solo un dito, visto che i calici si susseguo no uno dopo l’altro, con le istruzioni di Giorgione per una degustazione come si deve. Il palato esulta “masti cando” l’Anteprima Tonda Trebbiano Spoletino, si gode il Montefalco Rosso e il modo in cui si aggrappa alle pa pille gustative, e infine va in estasi col Sagrantino Passito.
Ora Giorgione potrebbe raccontarci qualsiasi cosa, visto che la lucidità vacilla. Ma una cosa che non ci ha ancora raccontato è come è diventato Giorgione. Tutto comincia (o continua) con la visita a sorpresa di due emissari del Gambero Rosso e l’amicizia con l’allora segretaria di produzione (oggi direttrice del canale). Gli offrirono di diventare il protagonista di un programma tv. La sua risposta? «Venite a casa mia, io ho l’orto, ho gli animali, in un posto bellissimo. Parliamo di territorio, di prodotti, di persone». Insomma, una cosa che costava dieci volte tanto, rispetto al solito programma in uno stu dio tv. L’occasione è arrivata con la nascita dell’HD e la possibilità di registrare un programma pilota, seguendo le regole (anarchiche) di Giorgio Barchiesi, ormai pronto a diventare Giorgione: «Nessun copione. Io apro la bocca e gli do fiato. Ciak, scena, ciak, scena, tre telecamere, totale e dettagli da assemblare, senza tagliare niente. Bravissimo il regista, con cui è nata una bella amicizia».
Fu un trionfo inaspettato. Che sdoganò in cucina il “laido e corrotto”. L’esatto contrario di un’operazione studiata a tavolino. «Il popolo lo ha capito». Ha capito soprattutto che qui non c’era spazio per marchi e mar chette. «C’era un’acqua che mi voleva dare 70 mila euro per dire alla fine: “Quanto è buona quest’acqua, mi fa di gerire le cose laide e corrotte che cucino”. Ma bevitela tu!».
Ed ecco “Giorgione, orto e cucina”, le escursioni al “porto” e ai “monti”, fino alla serie del 2021 “A grande richiesta” e quest’anno “Essere Giorgione”, con le teleca mere che sono entrate in casa sua. A settembre ripartirà una nuova serie de “L’alfabeto di Giorgione” (e chi se la perde?). Ma non chiedetegli di fare comparsate, anche se sono arrivate richieste dai vari Hell’s Kitchen, Prova del cuoco, Masterchef. «L’unico marchettone che ho fatto, perché non potevo non farlo, è stato a Bake Off»
Lui è lontano mille miglia da quel format, con il copio ne scritto dagli autori e l’auricolare all’orecchio. «Non c’entro niente con quella roba lì. Io sono l’autore di me stesso. Vuoi Giorgione? Io sono Giorgione! A casa mia, io metto il dito nella pentola e me lo ciuccio. Mi piaccio, ed è quello che arriva. Sono inter-generazionale e inter-clas sista. Faccio cose semplici e buone, non metto undici mila ingredienti. Non ho mai mischiato l’aglio con la cipolla».

Ed eccoci al gran finale, seduti intorno a un tavolone di legno, a parlare di questi tempi assurdi in cui viviamo, dove le farmacie hanno «trenta metri di integratori. Hai sudato? Prendi questo. Sei depresso? Prendi quell’al tro... Magna tutto, amore, che non te serve un cazzo. Se stai male prendi il farmaco, non l’integratore». E basta con tutti questi luoghi comuni: «Dice: “la dieta mediterranea”, ma perché, cosa siamo, ceceni? Devi mangiare quello che hai intorno. Dice “chilometro zero”. Che vor dì? Diciamo “chilometro buono”, perché non è la provenienza che ti fa il prodotto buono, ma chi lo fa. Vatti a cercare i prodotti! Io nei miei programmi parlo di un vitigno, di un territorio, una persona, non di un marchio». Questo non vuol dire disprezzare il lavoro degli altri. Se gli dici che è l’anti-chef, lui si arrabbia. «Ma perché anti? Così sembra che mi metto in competizione. Non ci penso proprio. C’è spazio per tutti. Un conto è il programma di cucina, un altro la trasmissione spettacolo». E comunque, va detto che chef e ristoratori chiamano volentieri Giorgione per un cooking show, se c’è da riempire una sala. Filosofia del cibo? «Non mi interessa. Mi interessa la fascia aromatica, quello sì. Tutto ciò che mangiamo ha una fascia aromatica, che è termolabile nella parte più delicata e idrosolubile nella parte più grossolana. Pensa ai danni che fanno con la cicoria: la mettono nell’acqua a bollire, poi la strizzano, la ripassano in padella... Mangiano fibra. Dice: “Così mando via l’amaro”. Ma allora mangia gli spinaci. La cicoria è amara, se le togli l’amaro le hai tolto tutto il buono che c’è, l’hai rovinata. Vuoi fare la cicoria? Pentola alta e stretta, un goccino d’olio, una becca d’aglio, un’acciughina, un po’ di peperoncino. L’hai lavata, un po’ d’acqua ci rimane, lei per il 90% è fatta d’acqua, metti il fuoco piano piano e aspetti... Quando vai in una casa in cui fanno bollire i broccoli, cosa senti? Puz za di broccoli. Ma se sta nell’aria, non sta più nel broccolo. Perché lo devi mettere nell’acqua? Il broccolo lo metti in un tegame, non lo devi spappolare. Le cosiddette tradizio ni spesso sono abitudini sbagliate». Va bene la tradizione, ma servono anche conoscenza, innovazione, tecnologia. Vallo a capire come e perché passiamo dalla cicoria a Vel troni («Mannaggia a lui»), dal broccolo alle sorti del mondo. «Sono preoccupato per loro», dice, indicando i miei figli. «Gli lasciamo un mondo di merda, noi che lo volevamo cambiare. Nel ‘68 operai e studenti si misero in sieme, e il potere ebbe paura. Immediatamente è arrivata la droga, poi i gruppi extraparlamentari, hanno comin ciato a dividere le intelligenze, e all’operaio hanno fatto credere di essere cresciuto socialmente ed economicamente, creando questa enorme piccola borghesia, senza una crescita culturale». Tocca rimpiangere i tempi in cui la gente Pensa ai danni che fanno alla cicoria: la mettono nell’acqua a bollire, la strizzano, la ripassano in padella... Mangiano fibra. Dice: “Così mando via l’amaro”. Ma allora mangia gli spinaci! La cicoria è amara, se le togli l’amaro, le hai tolto il buono che c’è
14SETTEMBRE 2022 NON UCCIDETE LA CICORIA

Non staremo a raccontare nei dettagli il godimento di quel pranzo che ne valeva quattro o cinque, per le quan tità e soprattutto la qualità. Materia prima super, lavora zioni semplici e mirabilmente “laide”, e Giorgione che passa dopo ogni portata a spiegare, chiedere e perfino a imboccarti, se osi lasciare nel piatto un cucchiaio sporco di pomodoro o ragù. Lo fa con tutti, girando per i tavoli, scherzando ad alta voce, dentro un locale in cui trovi ap pesa una storica salopette, il quadro o la poesia regalata da un’ammiratrice, la bottiglia di vino con dedica: «A quel laido del nostro amico Giorgio».
Ci alziamo a fatica, scambiandoci esclamazioni di gioia e pacche sulle spalle. Alla fine arrivano i baciozzi, quelli veri. E la promessa di rivedersi al più presto, anche solo i figli senza il padre, se capita. Montessorianamente. Che fenomeno, Giorgione! Che gran pezzo di essere umano!
si ritrovava al bar per guardare gli sceneggiati della Dc e i programmi di Alberto Manzi. Per non parlare del virtuale. «Io non demonizzo questi aggeggi, ma il tdbslmcmc. Perché mi mandi un messag gino? Almeno il tono della voce me lo vuoi far sentire? Noi avevamo un “privato”. Oggi se non condividi non sei nessuno. Non vedo, intorno a me, ragazzi stupidi, ma ragazzi incapaci di dire ciò che gli passa per la capoccia. Oggi tutto è scontro, è la violenza che fa share in tv. Allora è fondamentale che noi genitori diamo un esempio. I figli sono sconosciuti che ti entrano dentro casa, i genitori non si scelgono, ma è da qui che si comincia». Si comincia attorno a un tavolo. Dove la parentesi pessi mista lascia il posto ai piaceri della vita e alle chiacchiere in libertà, al sapore, il buonumore. L’ultima tappa è Alla Via Di Mezzo, il ristorante di Giorgione a Montefalco. «Voi siete stati invitati, non rompete il cazzo», dice pe rentorio, quando provo a sottrarmi, come impongono le buone maniere (in realtà io e i miei figli esultiamo in silenzio, scambiandoci occhiate affamate).
Giorgione

Insieme al suo team, ha fotografato il buco nero al centro della Via Lattea.
In questa intervista, ci spiega perché è un traguardo così importante. Ma ci parla anche di solitudine e senso di comunità, cita Martin Luther King e spiega che tutto è partito dal desiderio di “entrare nella mente di Dio”
16SETTEMBRE 2022

17SETTEMBRE 2022
MARIAFELICIA DE LAURENTIS
Non è una vita facile, ma evidentemente ne vale la pena. «Per fare questo mestiere ci vuole un’energia inesauribile, una buo na tolleranza al rischio e al disagio, un divorante bisogno di “conferme”. Bisogna avere il coraggio di mettersi in gioco continuamente. Si lavora sempre, giorno e notte, non si hanno fine settimana liberi, né vacanze o ferie e, dettaglio importante, non si guadagna molto no nostante la grande mole di lavoro che si svolge. Bisogna anche mettere in conto di perdere per strada persone che ami, amicizie, notti di sonno. È un continuo studiare e ricercare, mettendo a dura prova anche la salute mentale. È facile pagare il prezzo di non avere un luogo stabile in cui vivere, girovagando per il mondo. Ma c’è anche il lato positivo della medaglia: viaggi tanto, conosci luoghi e persone diverse. Io non ho una famiglia, ma la ricerca è la mia passione, questo è il mio mondo. Ciò che ad altri può sembrare una situazione insostenibile, per noi è una meravigliosa immersione in un mondo sempre sognato. La ricerca non è un semplice lavoro che finisce quando sono trascorse otto ore: è un modo di vivere, di pensare, è una passione così forte che non riesci a vederla semplicemente come un lavoro. È qualcosa di più» Cosa l’ha spinta a scegliere proprio questo campo di ricerca? Intendiamo la motivazione più profonda, quella che dà un senso ai suoi sacrifici. «Ho scelto di fare il fisico perché mi dà la possibilità di soddisfare la mia curiosità su tutto ciò che mi circonda. Ho sempre voluto “entrare nella mente di Dio”, capire la sua creazione. Per farlo non c’è modo più intrigante dello studio delle leggi della fisica che governano il nostro universo. Leggi che si rivelano sempre semplici, eleganti, con un che di perfetto nella loro essenza. Chi non crede in Dio constata questa perfezione e si ferma lì. Chi invece è credente non può non vedervi un riflesso della perfezione e della presenza di Dio. Ciò che cambia, insomma, è il significato da attribuire alle scoperte, l’ottica con cui le possiamo guardare e apprezzare» Alla base c’è un’insaziabile voglia di sapere e capire. Forse c’è anche il desiderio di essere ricordati dai posteri, per aver dato un contributo alla conoscenza dell’universo. «Io sono una persona che si fa continue domande su tutto (anche se non sono sicura che sia un bene avere il cervello sempre acceso).
La scienza? Una vocazione!
I NCONTRI
I sacrifici, le fatiche, la gioia indescrivibile della scoperta
Come si diventa astrofisici? Al di là degli studi, che immaginiamo ottimi e abbondanti, ci vuole una par ticolare predisposizione, una speciale ossessione?
«Il punto di partenza è avere una laurea in Fisica. Uno studioso de gli astri e dell’universo è prima di tutto un fisico che guarda il cielo invece che i fenomeni posti sulla Terra. La sua cultura di base è forte mente incentrata sulla matematica, la fisica e anche la chimica. Poi può specializzarsi in astrofisica e astronomia. Ma per diventare veri ricercatori è necessario imparare il mestiere e questo lo si fa attraverso il dottorato di ricerca, tre anni che servono anche a capire se è questo quello che vogliamo fare davvero nella nostra vita. Da lì in poi è quasi tutto in salita. Il percorso è lungo e spesso difficile, ma con passione e buona volontà tutti possono ambire a questa professione».
Detto così, fa un po’ paura. Forse ci vuole una volontà più che buona. «Ai miei studenti, soprattutto i piccoletti del primo anno, ma anche ai ragazzi che incontro nelle scuole, dico sempre che ogni persona ha le capacità intellettive per affrontare il duro percorso di studi neces sario, e in generale per realizzare qualche fine. Certo, alcuni sono più dotati di altri, ma nessuno è nato senza qualche talento, proprio nes suno. Dentro di noi ci sono facoltà creative potenziali che abbiamo il dovere di scoprire e valorizzare, anche per il bene comune. Una volta che abbiamo scoperto per cosa siamo portati, dobbiamo impegnare tutto il nostro essere nella sua realizzazione, cercando di farlo meglio di chiunque altro».
Il dovere per lei è anche un piacere.
Ci si rende conto di essere un granellino insignificante di polvere in un immenso universo. Ci si sente piccoli e fragili, oltre che terribilmente inadeguati e tanto tanto ignoranti. Crediamo di sapere tutto e invece non abbiamo capito ancora nulla! È una sensazione salutare, che dovremmo provare tutti: il giusto correttivo alla nostra sciocca presunzione, all’arroganza che ci fa sentire padroni di ogni cosa, noi che non siamo padroni neppure dei nostri pensieri e dei moti del nostro cuore. Questa consapevolezza ha cambiato il mio modo di vivere. Ho imparato che la sensazione di piccolezza la si sconfigge e la si tramuta in grandezza collaborando con gli altri, condividendo, comunicando, relazio nandoci con fiducia. Si raggiungono grandi obiettivi quando si impara ad essere umili, a mettere da parte il nostro ego e i nostri in teressi, a pensare e agire per il bene dell’inte ra squadra. Smettere di concentrarsi sull’io e iniziare a pensare al noi».
Martin Luther King, che sfidò le discriminazioni razziali, è stata una figura ispiratrice per me. Lui e tutte quelle persone che hanno in comune il coraggio di portare avanti le proprie idee a costo della vita. Persone che mi hanno insegnato che è possibile cambiare il mondo e le cose intorno a noi, basta soltanto crederci».
18SETTEMBRE 2022
Q uindi, tra i suoi ispiratori non ci sono solo scienziati. «Prima di essere uno scienziato bisogna essere una persona vera, autentica, unica, altrimen ti non si possono raggiungere grandi obiettivi».
Fare scienza significa anche saper comunicare i risultati ottenuti. Nella pagina a fianco, la scienziata italiana al telescopio della Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico di Castel Gandolfo
C’è una frase di Martin Luther King, nel libro La forza di amare, che mi accompagna da sempre e sulla quale si fonda la mia filosofia di vita: “Se non potete essere il sole, siate una stella. Non con la mole vincete o fallite. Siate il meglio di qualunque cosa siate. Cercate ardentemente di capire a cosa siete chiamati e poi mettetevi a farlo appassionatamente”.
«Si, assolutamente si! La fisica è la mia vita. Rinuncerei a tutto, ma non alla fisica. Di mentico di mangiare, di dormire, di fare tante cose, ma non mi stanco mai di ricercare e studiare. Cambierei sicuramente alcune cose nella mia vita passata, ma sceglierei sempre di fare l’astrofisico. Questo è il “mestiere” più bello del mondo. È un continuo imparare cose nuove. Un continuo crescere, conoscere, condividere, incontrare, interagire. Inoltre, è emozionan te vedere concretizzate le ricerche di anni, frutto di un lavoro fatto di sinergia, cooperazione e tanto sacrificio. Sono sensazioni indescrivibili. L’emozione che ho provato nel momento in Si raggiungono grandi obiettivi quando si impara ad essere umili, pensando al bene dell’intera squadra. Bisogna smettere di concentrarsi sull’io e pensare al noi
«Scrutare lo spazio, conoscerlo, interpretarne i segreti, cambia le prospettive della vita quoti diana, aiuta a relativizzarci, a trovare una dimensione autentica, ma anche ad essere felici.
Non volevo un lavoro comune, ordinario. Volevo lasciare un segno. E magari avere il nome impresso sulla pagina di un libro che ha cambiato la storia: questo è il mio concetto di eterni tà terrena. Credo che ognuno sia al mondo per un motivo ben preciso, che debba rispondere alla sua chiamata.
Fare il suo mestiere significa anche guardare il nostro Pianeta in modo diverso?

Pensa e sogna le stelle anche nel tempo libero? Oppure coltiva altre passioni?
«Per chi mi guarda da fuori, forse i miei giorni possono sembrare tutti uguali, perché sono sempre con la faccia sui libri, al pc a scrivere note e fare calcoli, oppure impegnata in riu nioni. Ma non è così. Ogni giorno per me è diverso e ricco, perché imparo e creo qualcosa di nuovo. Ogni giorno scopro di non sapere abbastanza e continuo a leggere e a imparare per paura di non avere tempo sufficiente per farlo. Il mio motto è “hic et nunc”! Nel poco tempo libero, suono il piano o ascolto la musica. Anzi ascolto musica ogni volta che posso anche quando lavoro, per aiutare la concentrazione. Leggo tantissimo, ho libri sparsi in tutta la casa. Amo molto scrivere e riportare pensieri, progetti e riflessioni su una specie di diario. Lo faccio da quando ero bambina. Ma se devo rilassarmi e staccare veramente il cervello, mi dedico al giardinaggio. Curo le mie piante.
cui siamo riusciti a rendere visibile l’invisibile (il buco nero), è paragonabile alla nascita di un figlio, a un concepimento. Le idee sono parte di noi, crescono dentro di noi e si concretizza no attraverso il lavoro di mesi e anni di ricerca».
Non amo la tv, anche se negli anni ho sempre seguito la fiction “Un posto al sole”: guardarla quando ero all’estero era un momento di connessione con la mia terra».
Rinuncerei a tutto, ma non alla fisica. È la mia vita. Mi dimentico di mangiare o di dormire, ma non mi stanco mai di ricercare e studiare LAURENTISDE
L’astronomia e la fisica teorica sono le discipline scientifiche che forse lasciano più spazio alla fantasia, alla creatività, alla riflessione filosofica, e infatti attraggono anche i non specialisti. Lei come vede il rapporto tra ri cerca, arte e discipline umanistiche? «C’è un dialogo continuo tra tutte queste discipline. Credo ci sia sempre stato e forse oggi ancora di più: una relazione stretta e fruttuosa tra mondi diversi che permette di creare nuove espres sioni di comunicazione. Letterati, artisti, musicisti, appassiona ti di scienza, la raccontano in prosa o in versi, sotto forma di opere teatrali, musicali... Ci sono scienziati che della loro scienza fanno un’opera letteraria e ci sono artisti che esplorano i territo ri della scienza. Una grande teoria scientifica è anche un’opera d’arte, un’opera filosofica. In essa è racchiuso molto più della pura matematica e fisica. C’è una costante ricerca della verità e della bellezza».
19SETTEMBRE 2022
Film (o romanzo) di fantascienza preferito? «Il film è Gravity. Ma confesso che non ho molto tempo per an dare al cinema. Se devo vedere un film preferisco farlo da sola. E i romanzi di fantascienza non mi sono mai piaciuti».
MARIAFELICIA

Noi profani immaginiamo l’astronomo intento a scrutare il cielo, a caccia di nuovi oggetti celesti, sulla base di com plicati calcoli matematici, ma anche di una qualche misteriosa intuizione. Ci dice qualcosa di più sul suo lavoro?
Per esempio, nella nostra “collaborazione” abbiamo fisici teorici e sperimentali, astronomi e astrofisici, informatici, ingegneri, più tanti tecnici che sono di grande supporto.
«L’immagine romantica dello scienziato solitario, intuitivo e un po’ folle, che giunge a una scoperta guidato solo dall’ispirazione e dal genio, è ormai un ricordo del passato o di vecchi film nostalgici. Anche se devo ammettere che molte persone continuano a credere che sia così: quando spiego cosa faccio restano a bocca aperta, quasi delusi di trovarsi di fronte una persona normale e per di più Ldonna. a moderna ricerca, e in particolar modo quella dell’astrofisica e della fisica in generale, è sempre più un’impresa collettiva, che coinvolge team di scienziati di diverse discipline.
Il compito più arduo è quello di assicurarmi che, una volta delineati gli obiettivi scientifici, si tenga la giusta rotta e ci si muova coerentemente verso la sua realizzazione, avendo sempre ben chiara la visione di insieme. Inoltre devo sempre essere reperibile per tutti in ogni istante, il che significa lavorare giorno e notte, avendo colleghi sparsi in diversi punti del mondo, nei fine settimana e nei tempi di vacanza. Dormo poco ma sono felice perché faccio quello che mi piace.
L’immagine romantica dello scienziato solitario intuitivo e un po’ folle, è un ricordo del passato.
Come si svolge una sua giornata tipo?
Lo scienziato è inserito in una struttura di relazioni senza cui il suo lavoro non sarebbe neanche plausibile. Una buona scienza è condizione necessaria ma non sufficiente a portare avanti un progetto di ricerca. Occorrono anche un’attenta gestione delle risorse economiche e umane, e un lavoro di coordinamento e comunicazione tra le diverse professionalità coinvol te. Un progetto di ricerca è una macchina molto complessa, formata da ingranaggi diversi ma tutti essenziali. Se qualcosa non gira come dovrebbe, l’intero meccanismo si inceppa».
La moderna ricerca è sempre più un’impresa collettiva, una macchina molto complessa, formata da ingranaggi diversi ma tutti essenziali Vecchi telescopi (sopra) e (accanto) nuove modalità di condivisione del sapere: il “talk”, dal vivo e in virtuale
20SETTEMBRE 2022
«La mia attività quotidiana è molteplice e dipende dalle giornate. In questo momen to della mia vita è quasi tutta focalizzata sull’EHT (Event Horizon Telescope) e la sua scienza. Il mio ruolo ora è quello di essere un po’ scienziato, un po’ manager, un po’ comu Oltrenicatore.agestire il mio gruppo di ricerca, se guire i miei studenti e insegnare, passo le giornate a risolvere questioni puramente pratiche, come l’organizzazione di meeting e incontri tra i vari gruppi di ricerca, la revisione critica dei progetti, la risoluzione dei conflitti. Questo implica interfacciarsi con colleghi che hanno diversi caratteri e culture, quindi di fatto sono anche un “mediatore culturale”.

Lei, per la stampa e il grande pubblico, è diventata “la scienziata italiana che foto grafa i buchi neri”. Qual è il suo ruolo nel team che ha raggiunto questo risultato? «Attualmente faccio parte del Management Team. Sono Deputy Project Scientist, la terza carica più importante della collaborazione. Il mio compito, insieme al Project Scientist Geoff Bower (Academia Sinica, Institute of Astronomy and Astrophysics, Hawaii) e al direttore Project Manager Huib Jan van Langevelde (Institute for VLBI ERIC, Olanda) è quello di guidare i 300 membri della collaborazione nell’esecuzione dei nostri obiettivi scientifici. In altre parole, significa gestire i molteplici aspetti di un progetto, dalla supervisione scientifica a quella finanziaria e alle strategie di comunicazione e trasferimento tecnologico. Fino ad un mese fa ho fatto parte anche del Consiglio Scientifico. Inoltre, sono coordinatore insieme alla collega Lia Medeiros (Università di Princeton), del gruppo di lavoro sui test di gravità (Gravitational Physiscs Input). Il nostro ruolo è quello di coordinare l’attività di interpreta zione dei dati, tramite modelli teorici preventivamente sviluppati. Stiamo conducendo una serie di ricerche insieme ai componenti del gruppo di lavoro sui test, analisi e modellizzazio ni di teorie della gravitazione. Insieme alla collega ho anche guidato la pubblicazione sui test di gravità per i risultati di Sgr A* (Sagittarius A)».
MARIAFELICIA LAURENTISDE
21SETTEMBRE 2022
Ovviamente il contatto umano è assolutamente importante, anzi è la parte più bella del nostro lavoro. Incontrarsi ai meeting e guardarsi in faccia, discutere alla lavagna, è tutta un’altra cosa! A volte le migliori idee scientifiche sono venute viaggiando, nelle sale d’attesa degli aeroporti, passeggiando, o anche davanti a un bel bicchiere di vino, birra e buon cibo. Si finisce per scrivere formule ovunque, anche sulle tovaglie di carta».

Perché è così importante avere fotografato Sagittarius A, il buco nero al centro della nostra galassia? «Al di là del suo indiscutibile valore scientifico, questo risultato costituisce un emblematico caso di successo tecnologico. Innanzitutto la possibilità di osservare il vorticoso comporta mento della materia intorno all’orizzonte degli eventi di un buco nero, ci ha consentito di mettere alla prova le previsioni della Relatività Generale di Einstein in un regime di campo gravitazionale forte. Ma l’accesso a tali informazioni ha richiesto l’adozione di tecniche e sistemi di acquisizione e integrazione dei dati in grado di superare le difficoltà sperimentali legate alla distanza che separa Sgr A* dal nostro pianeta, circa 27.000 anni luce, e alla natura estremamente variabile di questo buco nero. Ostacoli superati grazie alla creazione di un telescopio virtuale delle dimensioni del la Terra, attraverso l’utilizzo della rete di otto osservatori radio-astronomici, distribuiti su tutto il globo. Una soluzione già dimostra tasi vincente quando, nel 2019, abbiamo dato l’immagine del buco nero M87* (quello al centro della Galassia Virgo A).
La connotazione tecnologica non sminuisce comunque l’importanza scientifica del risul tato, che ha fornito una nuova e decisiva prova dell’esistenza di un corpo nero compatto al centro della Via Lattea, un nuovo banco di prova per la Relatività Generale e per lo studio del comportamento dello spazio-tempo in contesti altrimenti insondabili. La posizione ap prossimativa di Sgr A* nel centro della Via Lattea è nota da quasi un secolo. È stata ap presa per la prima volta monitorando le posizioni e le velocità degli ammassi globulari, che tendevano a orbitare attorno a un punto comune. I telescopi del passato non erano in grado di individuare nessun oggetto interessante, a causa della presenza nelle regioni centrali del la nostra galassia di polvere tanto densa da riuscire a estinguere quasi tutte le forme di luce provenienti dal centro galattico. Un ostacolo che solo i segnali emessi nelle onde radio possono Ssuperare. olo nel 1933, con l’ideazione dei radio-tele scopi, grazie al lavoro pionieristico di Karl Jansky, fu possibile identificare una sorgen te di emissione radio sorprendentemente lu minosa, proveniente dalla direzione della costellazione del Sagittario, subito associata al centro galattico. L’avvento dell’interfe rometria radio, a partire dagli anni ’70, ha consentito di ottenere maggiori informazioni su Sgr A*, scoprendo che era più piccolo del nostro sistema solare ma milioni di volte più massiccio del Sole: caratteristi che compatibili esclusivamente con un buco nero supermassiccio. Questo è un emblematico caso di successo tecnologico. Il suo valore scientifico? La possibilità di osservare il comportamento della materia intorno a un buco nero, mettendo alla prova le previsioni della Relatività Generale Si lavora giorno e notte, collegati a ricercatori di tutto il mondo, e si fa anche lezione online. Nella pagina successiva, la conferenza stampa del 12 maggio in cui venne annunciato il risultato ottenuto dopo più di tre anni di lavoro. In basso, l’immagine ormai celeberrima, pubblicata su giornali, siti e riviste di tutto il mondo, del buco nero SgrA*

MARIAFELICIA
L’immagine mostra esattamente cosa ci saremmo aspettati di vedere nei dintorni di un buco nero supermassiccio LAURENTISDE
23SETTEMBRE 2022
I successivi progressi tecnologici ci hanno poi permesso di ottenere os servazioni di altissima precisione, tracciando singole stelle mentre orbitavano attorno a Sgr A* a una velocità fino a pochi punti percen tuali della luce». Ci aiuti a capire cosa mostra l’immagine. «L’immagine mostra esattamente cosa ci saremmo aspettati di ve dere nei dintorni di un buco nero supermassiccio, che, come tale, non emette luce propria. L’alone luminoso visibile nella foto è infatti pro dotto dall’insieme di gas e polveri che circondano Sgr A*. Al centro dell’anello c’è una regione oscura chiamata ombra, che contiene l’o rizzonte degli eventi del buco nero, la superficie oltre la quale nulla, nemmeno la luce, può sfuggire alla presa. Questo materiale, muoven dosi rapidamente e comprimendosi nel suo cammino verso l’orizzonte degli eventi, può raggiungere temperature fino a 10 milioni di gradi Celsius. A queste temperature, il materiale, ruotando vorticosamente, emette intense quantità di radiazioni. La maggior parte di esse viene assorbita dal gas e dalla polvere all’interno del nucleo galattico. Solo i raggi X e le emissioni radio si fanno strada attraverso la galassia fino al nostro pianeta. Le equazioni e le previsioni della Relatività Gene rale trovano riscontro nell’immagine di Sgr A*. Tra le soluzioni della teoria di Einstein, troviamo infatti quelle che descrivono fenomeni gravitazionali limite, chiamati singolarità, in cui la curvatura della trama dello spazio-tem po prodotta da un corpo di massa estremamente compatta è tale da non consentire neanche alla luce di sfuggire. Le osservazioni di EHT costituiscono l’ennesima conferma della Relatività Generale, anche in un regime di campo gravitazionale forte, come quello che domina il centro galattico. M87* vanta una massa di 6 miliardi di soli ed è di dimensioni gigantesche. Il nostro intero sistema solare si adatterebbe all’interno del suo orizzonte degli eventi. Al contrario, Sgr A*, che si trova a soli 27.000 anni luce dalla Terra, è di dimensioni relativamente esigue. Con “sole” 4 milioni di masse solari, è abbastanza piccolo da adattarsi all’orbita di Mercurio, il pianeta più vicino al sole. Se i due buchi neri fossero allineati per un servizio fotografico, M87* riempirebbe il fotogramma, mentre Sgr A* scomparirebbe del tutto. Inoltre, mentre M87* divora voracemente la materia circostante, forse intere stelle, e lancia un getto di particelle energetiche che illumina la sua galassia, l’appetito di Sgr A*, al confronto, è minimo. Nonostante ciò, i due corpi, a causa della distanza che li separa dalla Terra, appaiono più o meno della stessa dimensione nel cielo, così come previsto dalla teoria della gravità di Einstein».


L’immaginario collettivo - complice il cinema (da 2001 a Interstellar) - vede nel buco nero una specie di mistero cosmico, un possibile passaggio verso un’altra dimensione. Dove si fermano le nostre conoscenze e dove possono portare le speculazioni? «Indubbiamente sono oggetti che catturano l’immaginazione di tutti, ma soprattutto quella di noi scienziati. Siamo in continua ricerca per comprendere le loro proprietà: come sono nati, come si formano, etc. Ispirano tante do Permande.ora le nostre conoscenze si fermano nelle vicinanze dell’orizzonte degli eventi, la “super ficie limite” oltre la quale non è possibile più avere alcuna informazione della materia e le radiazioni che vi “cadono” dentro.
24SETTEMBRE 2022
Questa apparenza quasi mossa e più sfocata rispetto alla foto di M87* è dovuta al fatto che l’immagine del buco nero pubblicata è una media delle tantissime immagini prodotte.
Il buco nero al centro della galassia invece è molto più grande e il gas, che si muove alla stessa velocità (prossima a quella della luce) attorno a entrambi i buchi neri, impiega giorni o addirittura settimane per orbitare intorno ad esso: era dunque un target più stabile e quasi tutte le immagini avevano lo stesso aspetto.
Questo spiega non solo il tempo impiegato per la pubblicazione, 5 anni dopo l’acquisizione dei dati, ma anche perché la sorgente appare meno simmetrica e circolare rispetto a M87*.
«Abbiamo dovuto affrontare sfide non facili. Lavorare all’immagine di M87 è stato diffi cile, ma rispetto a Sgr A* è stata una passeggiata. Nonostante Sgr A* è più vicino a noi, la nostra visuale del buco nero è oscurata da gas plasma e polvere, che disperdono le onde radio provenienti dalla regione attorno al buco nero. Noi siamo in una posizione di svantaggio perché siamo nella stessa galassia, posizionati su uno dei bracci della spirale, in mezzo c’è di tutto. Inoltre, mentre la osserviamo al telescopio, la sorgente cambia sotto i nostri occhi e questo complica di molto l’analisi dei dati. Il gas intorno a Sgr A* impiega pochi minuti a completare un’orbita attorno a questo buco nero.
Tutto il resto è pura speculazione. Ci sono tantissime ipotesi, ma come dico sempre, fino a quando non vengono provate restano soltanto bellissime teorie espresse con un’elegante matematica. Si potrebbe affermare che ad oggi il buco nero rappresenti la fantomatica siepe de scritta da Leopardi, e che in quanto tale funga da trampolino per l’immaginazione umana, che tende in tal modo a teorizzare ipotesi pseudo scientifiche» Il telescopio Webb? Una straordinaria “macchina del tempo”, che ci permette di vedere le prime stelle e le galassie più antiche. Noi astrofisici siamo degli archeologi dell’universo
Q uanto tempo e lavoro ci è voluto?
Non è accaduto lo stesso per Sgr A*. I dati raccolti durante una notte di osservazione, poi utilizzati per elaborare l’immagine finale, includono un intervallo di tempo dove la sorgente è cambiata potenzialmente fino a un centinaio di volte. Per far fronte a questa variabilità e capirne meglio l’aspetto fisico, abbiamo dovuto sviluppare nuovi strumenti sofisticati che ri solvessero dei problemi che per molti versi erano nuovi nell’analisi di dati radioastronomici. Abbiamo prodotto milioni di immagini con diverse combinazioni di parametri per i vari algoritmi di imaging, usando grandi infrastrutture di calcolo.
Queste scoperte fanno anche comprendere come sia importante il la voro di collaborazione tra persone di diverse expertise. Oggigiorno la conoscenza è globale e attinge dal “noi”. Dovremmo cercare ciò che ci unisce, non ciò che ci separa. Tutti devono dare il loro contributo.
«Vorrei comprendere meglio i buchi neri e come funziona la gravità. Ci sono innumerevoli ragioni per essere affascinati da questi oggetti, ma il vero motivo per cui molti fisici come me li studiano è che mettono a dura prova le leggi della natura che conosciamo e che sappiamo funzionare benissimo. Sono un perfetto test per conoscere i campi gravitazionali più inten si, cioè per confermare o escludere le varie teorie relativistiche della gravitazione formulate accanto alla Relatività Generale e comprendere meglio alcuni scenari particolari dell’evo luzione stellare. La teoria di Einstein potrebbe non essere la teoria finale dell’universo, che forse dobbiamo ancora scoprire.
L’obiettivo personale è crescere e migliorare. Lo ripeto a me stessa ogni giorno! Studiare e imparare quante più cose è possibile. Solo in questo modo si può lasciare un segno nella nostra storia. Continuerò a fare il mio lavoro e a farlo nel migliore dei modi. Questo implica anche formare e sostenere nuove giovani menti».
Un sogno?
Il James Webb è indubbiamente un oggetto dalle capacità straordi narie, è una bella “macchina del tempo”: per la prima volta permette di vedere le prime stelle e le galassie più antiche. In astronomia, più guardiamo nell’universo, più guardiamo indietro nel tempo.
Cosa ne pensa delle immagini che stanno arrivando dal tele scopio Webb? Cosa ci dicono?
Sono ancora più felice per il fatto che sono coinvolti dei miei amici e colleghi. Ora siamo in grado di comprendere più cose del nostro universo, grazie anche all’avanzata tecnologia che ci consente di ar rivare a esplorare cose mai viste.
«Come per tutte le scoperte scientifiche, mi emoziono e sono super entusiasta del lavoro che sta svolgendo la ricerca negli ultimi anni.
I dati del James Webb costituiscono un nuovo tassello del puzzle sulla storia del nostro Universo. Ovviamente vanno studiati e approfonditi. Ma ora siamo in grado di osservare galassie la cui luce ha viaggiato per quasi tutta l’età dell’universo prima di giungere a noi. E questo ci consente di vedere l’universo come era poco tempo dopo il Big Bang. Non è incredibile?!». Obiettivi per il futuro? Cose che vorrebbe scoprire? Nello spazio e nel suo per corso di vita.
25SETTEMBRE 2022
Noi astrofisici/astronomi siamo un po’ come gli archeologi, soltanto che il nostro campo di azione è un po più vasto rispetto a quello ter restre. Io infatti mi definisco un archeologo dell’universo (per un po’, da piccola, ho anche pensato di fare l’archeologo).
MARIAFELICIA
«Il Nobel! Sono ambiziosa e ce la metterò tutta, voglio vivere una vita senza rimpianti. Ed è quello che suggerisco di fare a tutti voi» LAURENTISDE

26SETTEMBRE 2022
Capita, a volte, di incontrare donne e uomini che sembrano creature fatate, esseri immaginari, imparentati con qualche antica divinità, o una di quelle entità che popolano (popolavano?) boschi, fiumi e montagne. Vivono in mezzo a noi, anche se ge neralmente hanno la testa fra le nuvole. Radicati nella natura, amano tutto ciò che è creazione, metamorfosi, connessione. Ed è facile che il loro mestiere sia quello dell’artista, inteso nel modo più vago e vasto possibile, perché ogni definizione li mette a disagio. Linda Messerklinger, ad esempio. Con quel nome che per metà invita alla danza, e che per l’altra suona così teu tonico e importante. Con quegli occhi grandi, traspa renti, chiaramente alieni, che ti scrutano e ti attraversano gentilmente. Con l’attitudine alla libertà e all’esperimen to, dal cinema alla musica, dallo yoga alla danza, dalla fi losofia ambientalista alla celebrazione estatica della vita.
I NCONTRI
La parentela ce la suggerisce lei: dakini, divinità danzan te indiana. Possibilmente nella versione buddhista (tan trica), legata all’energia e all’ebrezza mistica, visto che quella induista, al servizio della dea Kali, si nutre di carne umana (Linda, fortunatamente, è vegetariana).
La dakini comunica con il corpo, lo sguardo, ed è arma ta di un coltello che fa bene all’anima, visto che la sua funzione è quella di uccidere l’ego. Nobilissimo scopo, anche se metaforicamente cruento (e comunque lei non direbbe mai “uccidere”, non serve la violenza, ma la co noscenza). Non per niente Linda traduce Messerklinger con l’espressione “lama sonante”. E il suo progetto sim bolo si chiama Anima_L, che nel 2023 diventerà anche un disco, ma da anni mette insieme artisti, pensatori, scienziati, musicisti, attivisti, decisi a ritrovare il senso e la pratica di una comunione fra gli esseri viventi di qual siasi specie, tra cultura e natura. L’appuntamento con lei, torinese di nascita e citta dina dell’universo, è al cinema Anteo di Milano. Ci incontriamo il giorno di un’anteprima gustosa: proiettano Padre Pio di Abel Ferrara. Lei arriva con lo sguardo sorridente, di quelli che cura no ogni malinconia, indossando una giacca-bisaccia mai vista, dentro cui ci puoi mettere tutto ciò che serve per viaggiare leggero (la voglio!). È quasi inutile dire che la vi sione del film produce un corposo dibattito – si parla pur sempre di Abel Ferrara – in cui ci ritroviamo a scambiare impressioni, stupori, sbalordimenti (ma c’è “l’embargo”, non se ne può parlare prima della proiezione a Venezia).
Stati di grazia, tra musica e cinema, performance e danza Con “Anima_L”, alla ricerca della comunione tra uomo e natura Dialogo a cuore aperto e sensi all’erta con un’artista-dakini di Fabrizio Tassi
«La adoro – mi dice Linda. - Sono innamoratissima del suo film Incompresa.
Linda Messerklinger
Il mattatore del film è Shia LeBeouf – che si destreggia tra l’inglese e il latino, tra le provocazioni di Satana e le elezioni politiche del 1920 a San Giovanni Rotondo (dove furoreggiava il socialismo) - ma nel cast c’è anche Asia Argento, protagonista di un inquietante cammeo.
(foto Anna Brignolo)

Quella connessione bellissima la osservo in mio figlio, ed è lo stato che cerco e che provo in certi momenti, quelli che chiamo “stati di grazia”. Che a volte sperimenti anche sul set». Non staremo qui a fare il riassunto delle sue apparizioni in film e serie televisive, o l’elenco dei re gisti con cui ha lavorato, da Ferrario a Sorrentino, sono cose che si trovano ovunque, in giro per la rete (citiamo solo Daisy Jones & The Six, serie tv americana, visto che farà la sua apparizione nell’ultima puntata, gi rata in Grecia). Ci interessa invece capire cosa sono quei momenti di grazia. Per questo bisogna ritornare a Faccia d’angelo, miniserie tv di Andrea Porporati prodotta da Sky, trasmessa nel 2012. Linda era Morena, la ragazza di cui si innamora il Toso, Elio Germano, in una storia ispirata alla vicenda di Felice Maniero e della Mala del Brenta. «Avevo 24 anni e venivo da un periodo molto particolare. Diciamo pure “mistico”. Mio padre, che praticava yoga e meditazione e amava molto Tiziano Terzani, mi regalò Il potere di adesso di Eckhart Tolle, nell’anno in cui ero stata anche ad Assisi, perché ero attratta dalle figure di Francesco e Chiara. Non avevo mai messo in discussione il fatto che ci fossero altre “dimensioni del reale”. Ma in quell’anno mi sentivo chiamata (diciamo così) a occuparmi di que sti temi. Per me fare l’attrice aveva a che fare con questo.
Con il bisogno di indagare la multi-dimensionalità della realtà, esserne testimone. È un lavoro sciamanico, la sua radice è quella» Ma la realtà del mestiere, di solito, è un’altra. «Mi ca pitava di ritrovami in un mercato dell’immagine. Una cosa da mercenari: vai, fai il tuo lavoro, ciao e grazie. Per me, invece, la relazione con gli altri era centrale. Il fatto che si creasse qualcosa insieme, un atto creativo collettivo: quando c’è quell’alchimia, ciò che accade è superiore alla somma dei singoli. Non ero sicura di voler fare l’attrice. Ci ho messo un po’ a capire che, in realtà, questi due mon di sono radicalmente connessi. Che è la società di oggi ad aver dimenticato le radici del senso di recitare».
Amo molto la figura della dakini, collegata al buddhismo tantrico. Il corpo femminile è un veicolo di illuminazione: la bellezza, i gesti della danza, gli sguardi, comunicano verità, intuizioni sulla vita, doni spirituali
28SETTEMBRE 2022 Mi commuove il modo in cui ha tra sformato in arte le esperienze trau matiche di una bambina. Se hai il coraggio di guardare le tue ferite, di riconoscerle, se dialoghi con loro, puoi mettere questo lavoro a disposizione del mondo. Ti rendi sacro. Altrimenti quelle ferite le riversi addosso alle persone con cui entri in rapporto. Ecologia relazionale. Quando quella magia riesce, è un atto di grazia, lo fai per te e per tutti»
Riesce difficile credere che Linda ab bia un lato oscuro, attratto dal «magnetismo plutonico, il fascino tenebro so di Asia Argento», visto che tutto in lei comunica luce ed empatia. Ma è meglio non contraddire una dakini. Ci ritroviamo a mangiare all’aperto, cose sane e buone, e a rievocare il magico mondo dell’infanzia. «Un paio d’anni fa ho trovato delle vide ocassette fatte dai miei zii, quelli che avevano la videocamera e quindi ri prendevano tutte le riunioni di fami glia. Ora che sono passati degli anni, li benedico per questo. Ci sono reperti incredibili. Ti guardi e dici: io ero quella!? Nel bambino ci sono sempre dei talenti in potenza che rischiano poi di essere soffocati. E c’è una forza vitale! La capacità di creare un vortice di gioia e leggerezza in ogni situazione. Da piccolo sei nel tuo mondo, ma trovi anche il modo di creare altro, ti senti intimamente connesso a tutto, anche se non ci può essere la consapevolezza dell’adulto. È cre scendo che cominciamo a percepirci separati dal mondo, dagli altri.


Poi, però, c’è sempre un dopo. Perché il mondo, intor no, non ti chiede poesia o “intuizioni metafisiche” (roba che non si compra e non si vende), vuole gente efficien te, performante, con una chiara identità lavorativa. «Mi sono detta: e adesso qual è il prossimo passo? Non posso tornare indietro. E mi sono trovata a vivere l’occupazione del Teatro Valle, dentro una realtà fatta di lavoratori, di ritti, contratti, di persone che lottano per il bene comune. Bellissimo. Ammiro tantissimo chi spende la propria vita lottando per degli ideali. Ma so anche che questo non è “il mio”. Io vivo più di creatività e trasformazione continua, di poesia, non riesco a stare in quella “cazzimma”». Anche se poi la cazzimma ce l’ha pure lei. Ognuno la manifesta a modo suo. La dakini non pratica la protesta e l’indignazione, è più a suo agio con l’illuminazione. «Amo molto la figura della dakini. Il corpo femminile è di per sé un veicolo di illuminazione: la bellezza, i gesti del la danza, gli sguardi, comunicano verità, intuizioni sulla vita, doni spirituali. Per questo si parla di danza sacra in tante tradizioni religiose e spirituali. Ho scoperto la dakini grazie a Illuminazione appassionata di Miranda Shaw, ed è stata una folgorazione. Poi ho avuto modo di approfon dire l’argomento con Viki Noble e Morena Luciani Russo, antropologhe e attiviste». Che si tratti di insegnare yoga o la “tantradance”, di recitare, ballare, fare musica, ciò che conta è risvegliare (o liberare) i sensi.
Tornando all’arte (sciamanica) di recitare: «Fare l’attore è un tentativo di espandere i propri orizzonti: io sono un infinito di cose e amo questa espansione dell’essere, amo me, amo l’altro, mi interessa, vorrei fare quello che fa, ho una curiosità insaziabile, che non è solo umana, è anche multi-specie – tema centrale in Anima_L. - Il modo in cui ho lavorato in quel film era collegato agli esperimenti che facevo su me stessa, quegli stati di allargamento della co scienza. Mi sentivo molto in trasformazione, dentro una connessione particolare con le anime che incontravo. Con un’immensa fiducia nell’esistente, un amore per tutto».
29SETTEMBRE 2022
Discorsi affascinanti, anche complessi, ma fatti sempre con il cuore in mano e il sorriso sul vol to, senza nessuna seriosità, mentre ci scambia mo piatti, ricordi, esperienze. La vita, se la guardi in quel modo, è piena di coincidenze e rivelazioni, è un insieme di frammenti che sembrano slegati fra loro, salvo poi ri comporsi in un mosaico, una visione d’insieme, che forse non è ancora una risposta, ma un po’ ci assomiglia. «Elio Germano era appena tornato dal set in cui interpretava Folco Terzani. Quello era il periodo in cui leggevo Un in dovino mi disse. Mio padre aveva scritto a Tiziano, prima di partire per l’India, e conservava la sua risposta come un cimelio. Coincidenze meravigliose»
Linda Messerklinger dieci anni fa, ai tempi in cui interpretò il ruolo di Morena nella serie “Faccia d’angelo” (foto Fabio Lovino) A fianco, due scatti più recenti, realizzati da Letizia Toscano
Linda Messerklinger

Linda si rende perfettamente conto di quanto siano ec centrici certi discorsi, rispetto al senso comune. Sorride di sé, della sua ricerca frenetica e per nulla lineare. Ma è anche consapevole di non poterne fare a meno. A questo proposito, ho anche una domanda ad hoc, quasi pleo nastica: “L’impressione è che tu non segua un progetto di carriera, ma che ti lasci trasportare dall’ispirazione e dall’occasione”. «Verissimo. Non amo particolarmente il concetto di “carriera” e non mi interessa programmare le mie scelte artistiche in questo modo. Non funziono così». Non funziona così chiunque sia impegnato in un «per corso di auto-conoscenza e di conoscenza del mondo». E co munque l’occasione ha poco a che vedere con il caso. «Mi sono accorta che se coltivo e faccio valere questa mia fede nella vita, nel creato, in ciò che si manifesta nel momento in cui deve manifestarsi, ecco che le occasioni si presentano in base al lavoro che sto facendo. Siamo tutti un po’ regi sti della nostra vita. L’occasione si manifesta perché ti stai aprendo al fatto che si manifesti. Incontri magici, piccole illuminazioni». Ma questa capacità non significa “essere arrivati”. Anzi. Si ricomincia ogni volta. «A 35 anni conti nuo a chiedermi: chi sono? Cosa faccio?». Intanto Linda sta continuando a portare Anima_L in giro per l’Italia. Il 21 settembre sarà a Firenze, al Cena colo della Basilica di Santa Croce, per il Festival “Genius Loci”, in collaborazione con La Nottola di Minerva e
«Mi piace il concetto di body creativity: è come se fossi una facilitatrice, che con il suo movimento, la presenza, la voce, ti aiuta a sentire la libertà e il desiderio di manifestare la tua creatività fisica, di gioire del corpo ed esplorarne il po tenziale. In Anima_L questo aspetto si esprime sul palco, ma c’è anche nei testi delle canzoni e nei video che ho girato e girerò. Il senso di comunione col creato non può esulare dal corpo e il corpo non può esulare dal movimento. Le dakini sono danzatrici guerriere. Il loro coltello taglia a pezzi il sé centrato nell’io, recide ogni legame con la fissazione duali stica (io/altro), sacrificando la parte egoica dell’individuo Il modo in cui si muovono e ti guardano induce delle tra sformazioni. Questa cosa la trovo bellissima» Parliamo di Anima_L mentre camminiamo per Mi lano, quasi a caso, lungo le strade semi-deserte di agosto. Si tratta di un progetto nato dall’esigenza di dare un nome e una forma a qualcosa che sentiva ribollire dentro, e che ha acquisito concretezza (“messa a terra”) grazie all’incontro con “Vicio” Luca Vicini, bassista dei Subsonica e musicista dalle mille risorse. «Tutto è partito nel 2018, dopo qualche anno in cui avevo sperimentato va rie forme di performance multimediale, tra cui Mem-In nome della madre e Shape_Shift. La domanda era: come creo le condizioni per far passare ciò che voglio esprimere? Con un’immersività potente, fatta di musica e immagini che scelgo io, che per me sono molto evocative. Ti accompagno in un viaggio, in una dimensione allargata, dove canto, narro, danzo, mi libero e divento altro». È tutta una que stione di percezione. «Voglio che tu percepisca i sensi che si aprono, si spalancano. L’esatto contrario di ciò che accade oggi. Penso all’arte museale, in cui non puoi toccare niente, o certi concerti fatti in luoghi enormi e dispersivi, con il palco distante dalla gente, che spesso riprende coi telefonini, perché si percepisce come elemento passivo dello spettacolo. Mi immagino dei live in cui sentire il fatto di entrare insieme “da qualche parte”, vivere quel momento, lasciarsi anda re. Sento di avere questo “superpotere” (ognuno ha il suo) di donare attraverso il mio corpo e la mia voce un senso di liberazione, un ampliamento dell’orizzonte».
30SETTEMBRE 2022




Linda
Controradio.
ai tempi dell’occupazione del Teatro Valle. Ma anche a Da niel Lumera, autore di Biologia della gentilezza. Bisogna avere un’attitudine ecologica verso tutto ciò che ci circonda, a partire dall’immediato, dal vicino di casa. La capacità di attivare un senso dell’altro, di far parte di questo grande es sere vivente che è il mondo. Sarebbe contraddittorio battersi per i diritti del lemure in estinzione e poi non provare quello stesso senso di compassione in altre circostanze. Ecologia in tesa come senso che nasce dallo spirito, non unicamente dal raziocinio. Si va oltre l’attivista che fa il suo atto dimostrativo senza creatività, quindi senza colpire l’immaginazione. Oltre l’artista che si limita alla performance, o il ricercatore che eccelle nel suo campo ma non viene letto da nessuno. Nell’ibridazione c’è un potenziale altissimo». C’entra ovviamente anche la musica, tanto che nel 2023 uscirà un disco. «Il prossimo anno uscirà finalmente l’album Anima_L a cui io e Vicio abbiamo lavorato in questi anni. Sarà anticipato da nuovi singoli che pubblicheremo nei prossimi mesi. Ad oggi sono usciti i primi due, oltre ai brani legati al mio progetto Shape_Shift, che sono trasfor mazioni di canzoni preesistenti, ibridazioni fra brani di artisti e mondi diversi». Anche qui si parla di multidi mensionalità. «Una stratificazione di layer sonori, testua li, concettuali, che crea dei paesaggi. Qualcuno ha detto che è un po’ come se dipingessi con la musica e la voce. Musica immersiva, che ti porta “da qualche parte”.
Messerklinger
Il 7 ottobre farà tappa ad Abbiategrasso, all’ex-convento dell’Annunciata, per la rassegna “Mosai co di Teatro e Musica” organizzata da Piano In Bilico e Maffeis Lab. Poi ci saranno varie tappe in Piemonte, tra cui una performance con il poeta Davide Rondoni e un incontro con Verena Schmid e Diana Dell’Erba, autrici del podcast “La nascita tra luci e ombre. Racconti di par to per una maternità consapevole”.
Anima_L unisce arte, scienza e attivismo. «In questi anni mi sto relazionando a persone appartenenti a mondi diversi. Discipline che vanno dalla sociologia alla filoso fia, dalla medicina alla giurisprudenza. Anima_L è un laboratorio. Mi interessa conoscere e far conoscere persone che stanno facendo cose interessanti nel loro campo, legate al senso di comunione che l’uomo è in grado di provare nei confronti del mondo che lo circonda. Lo studio della realtà non può prescindere dalla multi-disciplinarietà. L’artista è a suo modo uno scienziato, e viceversa, così come l’attivista, che si fa delle domande sul presente, entra in contatto con le problematiche che studia, ci mette il corpo, l’energia, vive attivamente la sua realtà». Si parla di natura e ambiente – anzi di “accarezzare l’am biente”, di usare la gentilezza per cambiare il mondo – ma si va al di là di ciò che si intende generalmente per ecologia.
«Penso a Papa Francesco, che ha parlato di ecologia integra le, o Ugo Mattei, teorico dei beni comuni, che ho conosciuto
Bisogna avere un’attitudine ecologica verso tutto ciò che ci circonda, a partire dall’immediato, il vicino di casa. Attivare un senso dell’altro Linda e Vicio in scena a Firenze a Palazzo Medici (foto Claudia Ceville) Nell’altra pagina, Anima_L al Museo d’arte CastellocontemporaneadiRivoli, (foto Federico Masini)

Che non per forza rimane nella forma canzone, ha anche un istinto sinfonico che ha bisogno di evolversi e trasfor marsi. Ma al centro c’è sempre il calore. Non mi piace la musica mentale. Deve avere una radice sensoriale, cor porea. I bassi sono fondamentali, il ritmo, la vibrazione primordiale». Il genere? «Musica elettronica, elettropop, anche forma canzone, con incursioni jazz, word... Mi pia ce anche la definizione art-pop. Ha comunque una forte connotazione melodica. Alla base c’è la semplicità di certe intuizioni che sono chiarissime, immediate. Poi c’è tutta una stratificazione, un lavoro sonoro su texture vocali uti lizzate come strumenti. Io non sono una musicista, quindi “scrivo con la voce”». Se volete farvi un’idea, in rete trovate anche due video (li scrive e li dirige lei!): Splash Auf Wiedersehen, tenero e surreale, dedicato al nonno, e il notevole Voyage dans la lune, in cui, tra le altre cose, si scherza sui temi del tran sumanesimo. Gli altri brani? Alcuni li abbiamo ascoltati in anteprima: melodie orecchiabili e intriganti abbina te ad ambienti sonori complessi, paesaggi mentali (che hanno tanti strati, orizzonti lontani, miraggi, ma anche cunicoli in cui infilarsi per scendere in profondità, det tagli illuminanti). C’è un complesso lavoro sul suono e la voce, ritmi tribali e versi animali, ma anche testi com plessi che evocano “nuovi sensi”, visioni cosmiche, stati di grazia. Ci sono perfino un paio di potenziali hit (se gnatevi i titoli: Planetario e Hobbit Dance).
32SETTEMBRE 2022
L’ultima tappa è nel cortile del Castello Sforzesco. Sfogliamo i suoi album fotografici digitali. La da kini è molto più che fotogenica, esce letteralmente dalla superficie dello schermo. È tridimensionale, multi Oradimensionale.ètempodi raccontare anche come è nata la foto di copertina di REDness, e le altre immagini catturate in un campo di papaveri. «Da bambina avevo un rapporto fortissimo con quei fiori. Avevamo un campo di papave ri davanti casa, immenso, in cui mi immergevo per ore. Davanti c’era una montagna che si chiama Musinè. È
Abbiamo visto quel campo di papaveri e io mi sono letteralmente buttata
la stessa montagna sotto cui abbiamo lavorato anche al disco. Mi ricordo che stavo nella natura per ore, giocando con i fiori, le farfalle, passando il tempo su un salice pian gente. Avevo anche un rapporto molto intenso con i miei gatti. Fiori e animali erano una famiglia per me». Le capita un giorno di ritrovarsi in viaggio con Federico Masini, un fotografo che lavora sul rapporto tra corpo e natura. «Siamo partiti per andare in un altro posto, ma quando abbiamo visto questo campo di papaveri bellissi mo, abbiamo fermato la macchina e io mi sono buttata in mezzo ai fiori. Sono immagini completamente istintive. Lui mi ha seguito senza chiedermi nulla. Mi ribello alle pose, quel tipo di fotografia non mi interessa. Ho bisogno di vivere la mia esperienza, che il fotografo cattura. Mi sono tuffata letteralmente in quel campo di papaveri. Ho fatto cose che probabilmente facevo da piccola, lasciando le fluire. Federico mi ha detto che gli sembrava di avere davanti una bambina». Come diceva Picasso? «Tutti i bambini sono artisti nati, il difficile è rimanerlo da grandi. Anima_L ha molto a che fare con questo processo. Cerco ricercatori, artisti, filosofi che hanno questa scintil la, quella del bambino interiore che non è stato chiuso in una scatola».

La dakini non si stanca mai di danzare e ammaliare.
Linda
Messerklinger
Ma c’è da svelare anche la questione del cognome. «Mi chael Messerklinger era mio nonno, musicista, arrivato a Torino per suonare nell’Orchestra Sinfonica della Rai. Un uomo che mi affascinava molto e allo stesso tempo mi incuteva timore. Un orsone viennese anche un po’ burbero. Mi sento molto connessa a lui. Incarnava l’artista accade mico, un musicista classico, direttore d’orchestra, con quel tipo di disciplina. Ma era anche grande attivista, che ha contribuito a fondare il sindacato dei musicisti, e li por tava in Fiat a suonare per gli operai. Ha innovato e ha creduto molto nel valore dell’arte come atto sociale».
«La filosofia non è sempre stata quella disciplina che oggi si fa all’università. Ha anche lei una “radice sciamani ca”. Il filosofo è colui che si fa domande, è un punto inter rogativo ambulante».
Le daIlFedericodelsonotraimmaginiipapaverioperafotografoMasini.voltoèritrattoLucaCarlino
33SETTEMBRE 2022
Linda è dakini, è energia libera, sensuale e sacra, ma pos siede anche un lato teutonico e filosofico, la capacità di concettualizzare, di dare una forma alle sue intuizioni.
Aproposito di bambini (precoci), Linda chiese a sua madre di iscriverla a un corso di danza quan do aveva 3 anni. «Mia madre, in casa, suonava per ore il pianoforte o il contrabbasso e io ballavo tutto il tempo. Poi molto presto ho cominciato a coinvolgere altre persone. Alle elementari creavo coreografie insieme alle malcapitate compagne di classe. Organizzavo anche de gli spettacoli in palestra, mi sbattevo per mesi. Questa cosa non si è mai spenta. A un certo punto sembravo avviata verso il professionismo nella danza, ma sapevo che non avrei fatto la danzatrice, mi interessava anche la parola, l’emozione, l’interpretazione. Già allora mi distinguevo per il pathos esagerato che mettevo nelle coreografie, piuttosto che per la tecnica. Mia mamma aveva la sua compagnia teatrale, nei suoi spettacoli cantavo, ballavo, recitavo».
Finiamo a parlare della trasformazione possibile o im possibile, della nicchia che si interessa a questi temi e che forse non diventerà mai popolo, della mancanza di me cenati illuminati alla Lorenzo de’ Medici, di Leonardo da Vinci a cui nessuno ha mai chiesto di decidere se vole va essere architetto, scultore, pittore, scienziato, artista, inventore. «L’essere umano nasce così, poliforme. Ci sono diverse tecniche, come la meditazione, che ti aiutano ad esercitare fino in fondo il tuo potenziale».
Certo, ci sono anche quei giorni un po’ così, in cui ti senti affaticata e ti chiedi: «Cosa sto facendo? Riesco a dare qualcosa al mondo? In che modo?». Ma oggi non è quel giorno. Oggi c’è un disco da finire, dei live da imma ginare, dei podcast da preparare, dei corsi da organizzare.


Veronica Raimo - che è nata a Roma nel 1978 e ha vissuto per alcuni anni a Berlino - ha scritto anche per il teatro e per il cinema - vedi la sceneggiatura della Bella addormentata di Belloc chio (a sei mani, con il regista e Stefano Rulli) - ha tradotto libri di Francis Scott Fitgerald e Ray Bradbury, ha firmato articoli notevoli per vari giornali e riviste (dal manifesto a Rolling Stone), ha ideato con Marco Rossori un libro atipico e irriverente, in versi e immagini, Le bambinacce (per Feltrinelli, quinto editore). Un vasto universo creativo. Ma il suo approccio alla vita e alla scrittura non è mai cambiato: sobrio, minimalista, disincantato, genuino, acuminato.
L’abbiamo tormentata per giorni, con le nostre domande e riflessioni, e lei si è gentilmente sottoposta a questa intervista anomala, diventata una specie di epistolario. La scrittrice Veronica Raimo con l’amata giacchetta del nonno. Tutte le altre foto che accompagnano il servizio hanno un elemento in comune: sono state scattate a Berlino (dove ha vissuto per anni) durante le sue permanenze in case d’altri
C’
è chi scrive nel nome di un ideale, una nobile aspirazione, una precisa idea di scrittura e di letteratura. Chi non vuole tradire la vocazione, il talento, oppu re coltiva una comprensibile ambizione. Chi pensa di avere una missione per conto di Dio, del dáimōn, della “comunità” e affronta il foglio bianco come fosse una sfida cruciale, una questione di vita o di morte. Poi c’è Veronica Raimo.
A noi piace questo “poi”, che assomiglia a un territorio sterminato, in gran parte ancora da esplorare, ma anche a una piccola stanza buia e misteriosa, in cui la scrittura è un muoversi a tentoni, lasciando una traccia che a volte è profonda e dolorosa come una ferita.
Ma Niente di vero (Einaudi, 2022) le ha portato in dote un successo improvviso e clamoroso, che l’ha presa quasi alla sprovvista: recensioni entusiastiche, testimonial eccellenti, l’approdo tra i finalisti dello Strega (e Premio Giovani), la vittoria del Premio Viareggio.
Veronica Raimo ha scritto quattro romanzi per quattro editori diversi. Il dolore secondo Matteo (minimum fax), nel 2007, ha rivelato il suo talento, la forza della sua scrittura. La conferma è arrivata con Tutte le feste di domani (Rizzoli, 2013) e Miden (Mondadori, 2018).
34SETTEMBRE 2022

Ti alzi la mattina e cosa fai? Cosa pensi? Sempre che tu abbia dei gesti e dei pensieri ricorrenti. Un certo modo di affrontare la giornata. Un programma. «Appena mi alzo la mattina, bevo il caffè (se dormo con qualcuno, spero sempre che mi venga portato a letto) e subito dopo esco di casa. Non sopporto i tempi lunghi dopo il risveglio: farsi la doccia o la lentezza di una colazione preparata con cura. Devo uscire, il più presto possibile. Quindi esco e vado al bar, e lì il tempo si può invece dilatare. Prendo un altro caffè e qualcosa di rigorosamente salato e leggo i giornali che ci sono a disposizione. Faccio la ras segna stampa, mi incazzo quasi sempre per qualche articolo, mi viene in mente di scrivere un pezzo ispirato dall’incazzatura, ma in generale vince la pigrizia e non lo faccio. Poi vado al mercato, faccio la spesa per il pranzo, mando un messaggio a un’amica o un amico per prendermi il terzo caffè e ritardare il cominciamento di qualsiasi attività lavorativa abbia in programma per la giornata. È una routine piuttosto solida».
RAIMO
Quindi scrivi il pomeriggio, quando scrivi. O spesso vince la pigrizia? Al lettore piace credere che chi scrive sia posseduto dall’arte, arso dal fuoco dell’ispirazione.
I NCONTRI
Un’intervista a distanza in forma di epistolario di Fabrizio Tassi
«Sì, dipende molto dallo scopo della scrittura, anche se la parola “scopo” mi fa un po’ orrore.
35SETTEMBRE 2022
Forse dipende anche dallo scopo della scrittura: commissione, articolo per scopi alimentari, romanzo, cose tue che rimarranno tue.
Un libro che abbiamo amato Una scrittrice fuori da ogni canone
VERONICA
Non ho mai avuto una costanza rispetto alla scrittura di un romanzo, ci sono scrittori e scrittrici che si impongono un metodo, che scrivono un tot di ore al giorno, che ne fanno una questione di disciplina, che si forzano. Io non ci sono mai riuscita. Non so dire se vinca la pigrizia, comunque di sicuro non scrivo quando non ho voglia di scrivere. L’ispirazione può sembrare qualcosa di pretenzioso o poetico, ma in realtà è qualcosa di molto semplice, appunto una forma di desiderio piuttosto che la sua assenza. Ad ogni modo possono passare tranquillamente dei mesi senza che io scriva una riga. Rispetto agli orari, un articolo lo posso scrivere pure di pomeriggio al computer, ma i miei libri li scrivo tendenzialmente la sera e a penna, vado al bar a bere e mi porto il quaderno dietro quando ho voglia di scrivere. Può sembrare una posa, probabilmente lo è, ma non più di quanto lo sia dire che bisogna scrivere tre ore al giorno la mattina appena svegli, o dopo una nuotata (questa cosa del nuoto la trovo insopportabile, soprattutto perché io riesco a fare al massimo dieci bracciate di seguito), e comunque per me è così che funziona: mi piace scrivere al bar bevendo (vino). Penna a inchiostro liquido e quaderni con le pagine sottili a righe».
Se può consolarti, quel video l’ho cer cato ma non l’ho trovato. In compenso ne ho trovati altri, in cui succede quasi sempre la stessa cosa: ti fanno la prima domanda, e tu sei lì, ma un po’ distan te, con un’espressione che non si capi sce se è tormentata, impaurita, o forse già stanca. L’anti-performance. Poi però ti impegni seriamente nel cercare una risposta, nel corrispondere a ciò che ti si chiede dentro quel contesto. Forse è anche questo che piace nella Veronica del tuo romanzo, quel suo modo di essere “fuori luogo”, scentrata ma sincera, esibendo i suoi limiti, le sconfitte goffe. Ha una sua bellezza buffa e disperata, anche poetica. Parliamone, se ne hai voglia, di questa identità. Se non sei scrittrice cosa sei?
36SETTEMBRE 2022
Se devo tirare fuori tre nomi di opere in cui mi sono sentita tirata parecchio dentro nei miei anni di formazione direi queste: libro “Tenera è la notte”, film “Withnail and I”, disco “What Would the Community Think” ».
«Non c’è stato un momento in cui ho capito che avevo bisogno di questa cosa, io non riesco a dire che senza la scrittura non potrei vivere. Al di là dell’enfasi dietro un’affermazione simile, non riesco a sentirla vera. Non credo che la scrittura mi abbia salvato, né penso che mi abbia dannato. E non ho mai incontrato i famosi demoni di cui parli. Cioè anzi, quelli sì che li ho incontrati, ma non avevano niente a che vedere con la scrittura. Quando i demoni arrivano, mi sento disperata, con o senza la scrittura. Non ho mai cercato lì un approdo o una fuga. Quindi mi è difficile rispondere anche alla domanda quando sono diventata “la scrittrice Veronica Raimo”, ma mi viene da dirti questo. C’è un video imbarazzantissimo su YouTube che ho cercato in tutti i modi di far rimuovere, ma senza successo. Risale a poco dopo l’uscita del mio primo libro, quando avevo trent’anni. E lì dico che vorrei vedere la pa rola “scrittrice” sulla mia carta di identità. Metto in mezzo anche l’eventuale poliziotto che dovrebbe chiedermela. Ecco, ora questa cosa mi sembra una grande cazzata. Mi sembra una forma di narcisismo giovanile, e un po’ mi intenerisce pure (però vorrei comunque rimuovere il video!). Non solo non me ne frega nulla di vedere la parola “scrittrice” sulla mia carta di identità, ma non mi sento nemmeno rappresentata da quella identità.
Suona romantico anche così. Il vino, il bar, il rumore della gente che va e viene, la scrittura che arriva quando vuole (e magari proprio per questo ha una sua grazia speciale). Non è lo sforzo titanico dell’artista che sollecita il suo “demone” davanti al foglio bianco. Tu quando hai capito che avevi bisogno di questa cosa? Quando sei diventata “la scrittrice Veronica Raimo”? Se vuoi possiamo anche prenderla alla larga: ci sono film, dischi o libri in cui ti riconosci, che ti hanno formato, non solo come scrittrice?
«Durante il tour dello Strega mi prendevano in giro perché la mia prima reazione a qualunque cosa mi chiedesse il presentatore o la presentatrice di turno era una sintesi di quello che descrivi, una reazione che è stata ribattezzata “i dieci secondi Raimo”. Poi di solito esordivo con un “no” e cominciavo a elaborare la mia risposta. Dunque, ovviamente - o forse non è Sono molto spaventata dall’aspetto formale delle cose. Voglio sempre illudermi che debba accadere qualcosa di inaspettato, di sincero pure nella sgradevolezza
Comunque l’autocertificazione della propria identità per me risponde allo stesso genere di formalismo e ho sempre molti problemi a parlare di identità. Dall’altro lato mi infastidisce anche chi si autocertifica in opposizione a chissà quali etichette prestabilite, insomma tut ta quella retorica dell’essere non-etichettabili. Credo che occorra dare un grande valore alle etichette per volersene smarcare, ed è come se si finisse per aumentare il loro peso ontologico.
Ecco, non so come definirmi non perché sia indefinibile, ma perché ai miei fini non vedo l’utilità di questa cosa». In realtà quei “dieci secondi” sono proprio il contrario di una posa. Credo sia il segreto del loro fascino. Come tutto ciò che non segue un canone prestabilito e rassicurante. I “vuoti narrativi” di certi film e romanzi speciali. Oggi, in effetti, se non ti definisci in modo chiaro e netto, possibilmente in poche parole, non esisti. Sarebbe una bella liberazione poter stare semplicemente con ciò che c’è, accettando la fragilità, l’ambiguità. Mi viene da pensare a una regista che ami (che amo an ch’io, che tutti dovrebbero amare), Lucrecia Martel, e a quei suoi film in cui ciò che conta è ai margini dell’azione e della parola, sta nel vuoto, nei suoni, in qualcosa di indefinibile, che però è legato alla materialità dei corpi, alla loro pesantezza. Non so se c’entri qualcosa con la tua scrittura.
Voglio sempre illudermi che debba accade re qualcosa di inaspettato, di sincero pure nella sgradevolezza, così sprofondo in una specie di luogo fragilissimo, e molto spesso carico di disagio, per scongiurare l’idea di ritrovarmi dentro una rete collaudata di formalismi. Da lì non sempre riemergo in forma smagliante, e a volte davvero - parlando di presentazioni - sarebbe molto più semplice aderire a quel ruolo, definirsi scrittore o scrit trice, e citare delle frasi di altri scrittori e scrittrici per dire cos’è o cosa non è la letteratura. Non è una forma di giudizio verso chi lo fa, anzi forse è invidia pura.
VERONICA RAIMO
37SETTEMBRE 2022 così scontato - io non sono consapevole di quei dieci secondi, non so cos’è che mi succeda. Mi rendo conto che anche questa ha tutta l’aria di una posa, ma le pose poi finiscono per es sere involontarie. So soltanto che sono molto spaventata dall’aspetto formale delle cose, che sia una presentazione, una cena con gli amici, una telefonata con la zia.
Sei riuscita a spiegarti il consenso unanime che ha raccolto Niente di vero? In fondo è “solo” il tuo quarto romanzo, e in mezzo ci sono i racconti, i testi per il teatro, Le bambinacce... Ci vedi una possibile “trappola”? Come si sopravvive a un’autofiction di successo? «No, non sono riuscita a spiegarmelo, ma non mi va neanche di capirlo fino in fondo perché appunto rischierei di finire in una trappola. So solo che mentre lo scrivevo ero molto insicura di cosa sarebbe stato questo libro.

Non ho mai dei progetti chiari quando scrivo, ma in questo caso ero in un territorio ancora diverso, sono stata parecchio a macerarmi nel dubbio di avere del materiale troppo sconclu sionato, senza struttura, senza capo né coda - insomma ci siamo capiti - quindi mi chiedevo se il mio non andare da nessuna parte si sarebbe rivelato per quello che era: un non andare da nessuna parte. Ed è questo l’aspetto un po’ paradossale della questione, perché in effetti rispetto a quel materiale, non ho preso poi delle decisioni che l’abbiano indirizzato verso questa famosa parte dove andare. In un certo senso questo romanzo sembra un esordio, però, ad esempio, tra le cose che citi, Le bambinacce è un libro che ne ha costituito in parte la genesi, per quanto possa suonare strano che un libro di filastrocche scritto a quattro mani con un altro scrittore possa essere la genesi di Dettoun’autofiction. ciò,magari riuscissi a scrivere qualcosa che sia l’equivalente letterario di quello che Martel fa cinematograficamente. E non mi vengono in mente nemmeno tanti esem pi di scrittori o scrittrici in grado di farlo. Forse stare al margine dell’azione e della parola letterariamente è ancora più diffi cile, o creare una coralità di corpi come fa lei. Insomma un “vuoto” sulla pagina ha un peso specifico diverso rispetto al “vuoto” in un film». Le bambinacce, in effetti, ha un po’ quell’umore e quella libertà stravagan te. Forse Niente di vero è il suo “nega tivo”, nel senso che invece della mera viglia c’è la disillusione. Ma la libertà e la sincerità con cui Veronica parla delle sue cose (di tutte le cose, anche le più intime e infime) ha un’impertinen za che la rende liberatoria. Ricordo il titolo di una recensione a Le bambinacce su Rolling Stone, che diceva: “Amia mo, odiamo e facciamo la cacca”. Penso anche al modo in cui parli di sesso, e alla fatica che invece tutti continuano a fare, in genere, quando scrivono di sesso o mo strano il sesso, in un romanzo come in un film. Quando Bazin suggeriva di lasciare l’atto sessuale (e la morte) fuoricampo, forse non immaginava che ci saremmo trovati tra i due fuochi della stilizzazione (poco) erotica, l’edulcorazione “lirica” e “romantica”, e lo sdoganamento popolare dell’osceno di consumo alla Pornhub. «Io in realtà lascerei volentieri tutto fuori campo, mi rendo conto che spesso questo è quasi un ostacolo che mi metto da sola nella scrittura. Ho sempre il timore di cedere all’enfasi e quindi tendo a spostare l’evento principale al margine della narrazione, o a raccontare attraverso Non ho mai un progetto chiaro quando scrivo, ma in questo caso sono stata a macerarmi nel dubbio di avere del materiale troppo sconclusionato
38SETTEMBRE 2022

VERONICA RAIMO
una sfocatura che può essere data da un elemento di indeterminatezza (la labilità della memoria, l’ambiguità del desiderio, la stratificazione di menzogne...).
Rispetto alla polarizzazione di cui parli, mi sembra che però esista anche una terza tenden za, che è quella di entrare nella terra di mezzo tra le due polarità con un intento sociologico. Capisco le ragioni storiche e politiche di questa operazione, ma da un punto di vista estetico sono molto scettica. Ti faccio due esempi, un film e un libro di cui si è parlato molto. “Pleasure” di Ninja Thyberg e “Servirsi” di Lillian Fishman. In entrambi i casi per restituire una visione più complessa del sesso e del desiderio si finisce paradossalmente per creare dei personaggi altamente stereotipati con delle caratteristiche precise e autodichiarate.
Il gioco delle identità deve essere chiarissimo, solo così ci si può permettere di muoversi e de siderare qualcosa in conflitto col nostro presunto desiderio corrispondente a quell’identità. Mi sembra una nuova trappola. Lasciando da parte la questione sesso, è come se dovessimo immaginare una scena tra due persone che hanno una conversazione. Se definiamo a priori chi sono queste due persone, abbiamo due scelte: o faranno una conversazione aderente alle loro identità, oppure una delle due dirà qualcosa di strano, di sconveniente, di weird.
Mi piacerebbe tornare a scrivere per il cinema, ma non al servizio di una visione altrui. Non riesco a considerarlo un lavoro e basta, ad avere il grado necessario di distacco o alienazione

E quell’elemento di stranezza connoterà la conversazione in un modo che in teoria non dovremmo aspettarci. Ma dal mio punto di vista un rovesciamento di questo tipo è ta rato in partenza. Io non voglio già sapere chi sono quelle due persone. Non mi interessa l’inquietudine di personaggi già programmati per provarla al minuto tot del film o a pagina X». Concordo su Pleasure e la sociologia che crea stereotipi. Ma le alternative forse ci sono. Sempre usando il sesso come esempio, penso alla libertà con cui viene rappresentato in Ken Park di Larry Clark, nei momenti più ispirati di Kechiche o in certi film di Andrea Arnold, la logica del flusso, dell’abbandonarsi al momento senza badare alla misura (narrativa, espressiva, ecc). In alternativa, c’è Henri Fon da che abbassa la gonna di Barbara Stanwyck, caduta fra le sue braccia in Lady Eva, e con quel gesto lascia immaginare tutto l’immaginabile, esalta l’erotismo del momento. Ecco, tra il massimo della forma classica (chi la sa ancora maneggiare?) e il massimo dell’anarchia (che diventa facilmente maniera), una via percorribile penso sia proprio il tuo modo di sdrammatizzare senza banalizzare: l’autore che dice io, la mia esperienza, i miei ricordi, con tutti i rischi del caso. Suona vero. E la “verità” della cosa, allegra o drammatica che sia, credo sia ciò che cerca un lettore o uno spettatore. Tu hai trovato ciò che cercavi, ultimamente, in qualche film, libro, disco? Hai capito cosa hai voglia di fare ora? Tornerai a scrivere per il cinema?
Oppure ti stai dedicando a un nuovo romanzo? «Hai citato Andrea Arnold e per me la scena di seduzione tra Katie Jarvis e Micheal Fas sbender (in Fish Tank, ndr) è un ottimo esempio di quello che vorrei vedere al cinema se si parla di sesso (non per forza performato).
40SETTEMBRE 2022

VERONICA RAIMO
41SETTEMBRE 2022 Ultimamente non so bene cosa cercassi, ma proprio in questi giorni ho letto un libro che ho amato tantissimo, Ritratto di giovane donna con mostri (in originale semplicemente Mona) di Pola Oloixarac, che deve aver toccato qualcosa di molto profondo e molto mio, tan to che mi sono messa a piangere sul finale, ed è una cosa veramente rara ormai con un libro (per “ormai” parlo di me, non dei libri. Cioè quando ero più giovane mi capitava molto di più di piangere per un libro). E poi recentemente mi hanno consigliato una serie per una cosa che dovevo scrivere e che ho visto appunto con la sola aspettativa che mi potesse servire, e invece l’ho trovata molto bella: I Hate Suzie, un esempio di scrittura intelligente che tiene insieme melodramma e commedia. Invece ho sempre più problemi a trovare cose che mi piacciono che vengano dagli Stati Uniti. Al momento no, non sto scrivendo un nuovo romanzo, sto scrivendo dei racconti. E sì, mi piace rebbe tornare a scrivere per il cinema se si tratta di un progetto che sento molto mio. Ho capito che non mi interessa fare un lavoro di sceneggiatura a servizio di una visione altrui, e non ne sono nemmeno in grado. Cioè, non riesco a considerarlo un lavoro e basta, ad avere il grado necessario di distacco o alienazione (un modo di guadagnare più soldi che nell’editoria, ad esempio), quindi so che entrerei in conflitto dopo cinque minuti e non sarebbe utile a nessuno».
«Un regista con cui avrei voluto tantissimo lavorare è Kieslowski, ma direi che non aveva esattamente bisogno di me. E sicuramente non avrei avuto niente da ridire nemmeno su Preisner per quanto riguarda la musica. Passando a tutt’altro genere, mi piacerebbe riuscire a scrivere un adattamento cinematografico da Niente di vero e, non so, sarebbe bello immaginare qualcosa che tiene insieme Ricomincio da tre, Estate romana, Il dramma della gelosia, Ecce Bombo con quel gu sto da commedia indie americana da anni 2000, alla Little Miss Sunshine»
Per chiudere questo dialogo a distanza, ti chiederei un re galo: due o tre righe, una frase o una cosa qualsiasi che hai scritto in questi giorni, magari in quel famoso bar, bevendo del vino. «Ecco l’incipit del racconto che sto scrivendo al momento: “Non l’avevo mai fatto prima” mi dice. Non lo so perché ci tenga a dirmelo. Non lo so perché gli uomini che tradiscono le loro donne ti di cano che è la loro prima volta. Sorrido per quel privilegio non richiesto e dubito che sia vero. Quando mi è capitato di esternare il dubbio, ne ho subito le conseguenze: un broncio che mette fine alla serata o la fa diventare complicata».
Aspettiamo con curiosità che arrivi quel progetto per il cinema. Nel caso, proporrei anche di lasciare a te la scelta musicale. Mi verrebbe da chiederti chi dovrebbe o potrebbe essere il/la regista (massima libertà, vanno bene anche registi passati a miglior vita, tanto per giocare).

La Mostra di Venezia fa 90 Ma il futuro non fa paura DOPO DUE ANNI DI COVID, CON LE SALE CHE FATICANO, ARRIVA UN FESTIVAL PIENO DI NOMI, IDEE, STAR E FILMONI VENTI (foto Angelo Turetta)
SETTEMBRE 2022 Il Lido è un luogo dell’immagina zione. Chi c’è stato lo sa. Sì, è anche un’isola, con le sue strade e le sue case. Ci si arriva da Venezia in vaporetto (dalla stazione, 40 minuti) e ci si sposta tra lunghi viali alberati, vecchie ville signorili e alberghi lussuosi, o costeggiando spiagge diventate mitiche grazie al cinema e alla letteratura (all’immaginazione, appunto). Ma per noi che non ci viviamo è una sorta di miraggio che, per un paio di settimane l’anno - durante la Mostra internazionale dell’arte cinematografica - si può perfino toccare. Poi rimane come sospeso in un “pre” e un “post” pieno di flash, applausi, pezzi di film, fantasie colorate abitate da divi e autori, che galleggiano in questo non-luogo fuori dal tempo, respingente ma bellissimo. Se a Venezia, la sera, sotto la luna, “pare di passeggiare in acquaforte” (come scriveva Carlo Dossi), al Lido si ha l’impressione di muoversi ai margini di un poster Cicinematografico.perdoninoi20 mila abitanti, giustamente gelosi di questa striscia di terra lunga 12 chilometri, e in certi punti larga solo 200 metri, che in realtà è ricca di storia e di vita. Ma anche loro sanno che tutto, qui, gira intorno al festival, nato 90 anni fa, solo due anni dopo l’Oscar, che infatti è la manifestazione cinema tografica più antica del mondo. La 79ª Mostra del cinema, in effetti, sarà un’edizione speciale per due motivi soprattutto: da una parte c’è l’anniversario, la celebrazione di una storia straordinaria, a partire da quel 1932 che onorò a Venezia gente come Lubitsch, Hawks e Frank Capra, René Clair e King Vidor, Walsh, Whale e Vittorio De Sica, Clark Gable e Greta Garbo, Boris Karloff e Joan Crawford; dall’altra, ci ritroviamo (quasi) fuori dall’emergenza Covid, dopo due anni estremamente difficili, con la produzione mondiale che è ripresa a pieno regime e vuole tornare a riempire le sale (non solo le piatta forme streaming, come è successo di recente).
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DELL’IMMAGINAZIONE.LUOGODAL1932AL2022ILMEGLIODELCINEMASIDÀAPPUNTAMENTOSULL’ISOLA
In alto, Ana de Armas nei panni di Marilyn Monroe Nella pagina a fronte, Penelope Cruz in L’immensità (foto Netflix)
(foto Netflix)
Non dimentichiamo, poi, i film della Settimana della Critica, una selezione a parte che pesca fra gli Maesordienti.anchela rassegna parallela delle Giornate degli Autori, dove trove remo registi come Mark Cousins (Marcia su Roma) e Sébastien Lif shitz (Casa Susanna), il Padre Pio di Abel Ferrara e Bentu di Salvatore Mereu, con una chiusura riservata a Steve Buscemi in versione regista (Mosche da bar è un nostro film del cuore): The Listener racconta l’operatrice di un “telefono amico” che aiuta persone ai margini e in difficoltà. IL LIDO? UN
Cominciamo dai numeri: a Vene zia, quest’anno, sono arrivati 3659 titoli - di cui 1816 lungometraggi (208 italiani!) - ai quali vanno aggiunti i film visti dai selezionatori in giro per il mondo. Il direttore Alberto Barbera e i suoi collabo ratori ne hanno selezionati 23 in Concorso, 19 Fuori Concorso e 27 nella sezioni Orizzonti (ed Extra), ai quali vanno aggiunti 16 corto Poimetraggi.cisono Venice Immersive, il cinema VR (virtual reality), un paio di serie tv (di Lars von Trier e Nico las Winding Refn!), 9 documentari sul cinema e, soprattutto, 19 film restaurati per Venezia Classici: che significa poter rivedere, sul grande schermo, nel loro splendore origi nario, opere di Ozu (Una gallina nel vento, 1948), Tourneur (Canyon Passage, 1946) e Imamura (Il profondo desiderio degli Dei, 1968), La voglia matta di Salce (del 1962) e Teorema di Pasolini (del 1968), un classico dell’horror degli anni Tren ta, The Black Cat di Edgar Ulmer (da un celebre racconto di Edgar Allan Poe), e un classico moderno degli anni Ottanta, amato da tutti i cinefili, I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway.
Tra i film più attesi c’è l’immaginifico Bardo di Iñárritu



L’abbondanza non manca mai, a Venezia, per la disperazione (si fa per dire) degli appassionati, costret ti a correre da una sala all’altra e a fare scelte drastiche. Di sicuro, qui, come a Cannes, convivono felicemente i cacciatori di autografi, che si appostano intorno al tappeto rosso o all’Hotel Excelsior, per vedere le star, e i cinefili sfegatati, quelli che passano le giornate in sala (dalle 8.30 di mattina alle 2 di notte) a caccia dei film più rigorosi, estremi, di genere o autoriali, che magari non usciranno mai nelle sale. Ma arriviamo al dunque, i film selezionati. Perché poi la gente va al Lido per vedere Timothée Chalamet in versione “vagabondo innamorato” (e horror) o Ana De Armas che interpreta Marilyn, in un film destinato a far discutere (se ne discute da mesi). Ma anche per ritrovare Walter Hill (un western!), godersi la prima escursione nella fiction del grande documentarista Frederick Wiseman, o immergersi nel bianco e nero, solitamente strepitoso, di Lav Diaz (celebre per i film fluviali, il regista filippino stavolta si accontenta di 180 Diminuti).errori se ne fanno sempre, ma da anni la Mostra del cinema di Venezia, sotto la guida di Alberto Barbera, ha ritrovato prestigio e autorevolezza, ha riportato al Lido gli americani, ha indovinato una serie di film poi celebrati dagli Oscar, ha segnalato un discreto nu mero di nuovi autori interessanti, ha aperto la strada allo streaming (sala virtuale), le serie tv, il dialogo con le piattaforme. Senza mai dimenticare che qui, comunque, si parla di “arte cinematografica”. Partiamo dall’industria (di qualità), gli autori che hanno anche un CI SONO (QUASI) TUTTI I FILM PIÙ ATTESI.
CINQUE LE OPERE ITALIANE IN CONCORSO (foto Netflix)
44SETTEMBRE 2022

E poi Tár di Todd Field sulla prima direttrice d’orchestra donna in Germania (Cate Blanchett!), il thriller psicologico Fuori Concor so di Olivia Wilde, Don’t Worry Darling, The Eternal Daughter di Joanna Hogg (madre e figlia chiuse in un hotel, con Tilda Swinton!) e The Son di Florian Zeller, se non altro perché The Father è piaciuto molto (e ha vinto un Oscar) e i protagonisti sono Hugh Jackman e Laura Dern. Cose che aspettiamo con il cuore in mano? Ad esempio Master Gardener di Paul Schrader, a cui verrà consegnato un meritato Le one d’Oro alla carriera. Ma anche A couple del 92enne Frederick Wiseman, che si è trovato bloccato in Francia per colpa del Covid e ha deciso di girare un film basato sullo scambio epistolario tra Lev Tolstoj e la moglie. Un pensiero speciale va riservato a Jafar Panahi, visto che il regista iraniano è di nuovo alle pre se con il regime che governa il suo Paese, e ora si trova in carcere: No Bears è l’ultimo film che è riuscito a girare in clandestinità. Citazione d’obbligo anche per Call of God di Kim Ki-duk, film po stumo del grande regista coreano, morto a causa del Covid. Ancora una volta, a Venezia, trovano spazio due serie tv (d’autore): Copenaghen Cowboy di Refn eThe Kingdom Exodus di von Trier (nella foto). In basso, The Banshees of Inischerin Nella pagina a fianco, Bones and All (foto The Walt Disney Studios)
45SETTEMBRE 2022 pubblico, il cinema che dovreb be segnare la prossima stagione cinematografica. Cominciando dal film d’apertura, White Noise di Noah Baumbach, che porta sullo schermo Don DeLillo (una proposta targata Netflix): conflitti famigliari, ossessioni, amenità e brandelli di felicità. Darren Aronofsky è capace di vette e abissi memorabili, dal brutto The Fountain all’ottimo The Wrestler: c’è tanta curiosità per il suo The Whale, con Brendan Fraser nei panni di un professore obeso e Sadie Sink (la Max di Stranger Things) in quelli della figlia adole scente con cui vuole riallacciare i Trarapporti.ipaladini dello spettatore con temporaneo in cerca di qualità, c’è Martin McDonagh (quello di Tre manifesti ad Ebbing, Missouri): The Banshees of Inischerin, am bientato in Irlanda, è uno strano film che racconta un’amicizia finita destinata a degenerare in faida, con Colin Farrell e Brendan Gleeson. Ma il più atteso in assoluto - e quello per cui spettatori e critici si accapiglieranno di più - è Blonde di Andrew Dominique. Anche perché all’origine del film c’è un libro (peraltro assai bello) di Joyces Carol Oates, che si prende molte libertà riguardo la biografia dell’in dimenticabile Marilyn Monroe, so prattutto sulla sua morte. In effetti tutto gira intorno alla contrapposizione tra persona e personaggio, concentrandosi sui pensieri più intimi e le emozioni più oscure di Norma Jeane Mortenson. Tra i più importanti mettiamo anche Bardo di Alejandro Gon zález Iñárritu, che a quanto pare si è preso la libertà di realizzare un film personalissimo e fuori da ogni canone (ci lavorava da 5 anni e ne ha parlato a Barbera come di un lavoro che “gli ha cambiato la vita”).


Lav Diaz, che a Venezia ha anche vinto un Leone d’Oro con The Wo man Who Left, va messo per prin cipio tra gli imperdibili (sempre che siate dei cinefili di stretta osser vanza): When the Waves Are Gone racconta i tormenti di un tenente della polizia filippina, negli anni della guerra alla droga dichiarata dal presidente Rodrigo Duterte, che semina morti e atrocità. Infine, come dimenticare Walter Hill? Stiamo pur sempre parlando del regista de I guerrieri della notte, Strade di fuoco, Wild Bill. Qui di nuovo alle prese con cavalli, spe roni, cacciatori di taglie, giocatori d’azzardo, e un cast che unisce Chri stoph Waltz, Rachel Brosnanhan e Willem Dafoe. Incuriosisce la presenza in Concorso di cinque film italiani, e di altre opere nostrane disseminate qua e là. Il film di cui tutto parlano è Bones and All. Primo perché il talento visivo di Luca Guadagnino è ineguagliabile (lo ha dimostrato anche in Suspi ria) e poi perché il protagonista è Timothée Chalamet (rivelato al mondo grazie a Chiamami col tuo nome), uno dei divi più attesi al Lido, qui impegnato in un coming of age orrorifico, insieme a Taylor Russell, Mark Rylance, Chloe Sevigny. Paolo Virzì in Siccità (Fuori Con corso) si immagina una crisi idrica apocalittica, non così lontana dalla realtà, mettendo insieme Claudia Pandolfi, Silvio Orlando, Valerio Mastandrea e Monica Bellucci. Andrea Pallaoro in America ha girato Monica, in cui protagonista è l’attrice trans Trace Lysette, mentre Chiara è la nuova opera cine-biogra fica di Susanna Nicchiarelli, l’autrice di Nico e Miss Marx, che stavolta ha voluto dedicare un film alla santa che affiancò Francesco nella sua missione (molto meno conosciuta e celebra ta di lui). «La vita di Chiara - ha spiegato la Nicchiarelli - ci restituisce l’energia del rinnovamento, l’entusia smo contagioso della gioventù, ma anche la drammaticità che qualun que rivoluzione degna di questo nome porta con sé».
46SETTEMBRE 2022
E poi c’è L’immensità di Emanuele Crialese, che finalmente torna al cinema, undici anni dopo Terraferma. Una storia autobiografica, ambientata nella Roma degli anni Settanta, con Penelope Cruz. Amore e vendetta sono invece i temi del “western contemporaneo” di (foto Emanuela Scarpa) (foto Netflix) L’apertura del festival è riservata a un film corale di Noel Baumbach: White Noise In alto, un’immagine di Chiara, firmato Susanna Nicchiarelli, che sarà in Concorso


Ti mangio il cuore sarà in Orizzonti, così come Princess di Roberto De Paolis, mentre The Hanging Sun di Francesco Carrozzini chiuderà il festival. Il film italiano che aspettiamo di più? Il signore delle formiche di Gianni Amelio (in Concorso), a cui infatti dedichiamo una lunga intervista su questo numero. Infine, un cenno ai documentari fuori gara. I nomi sono importanti e suggestivi. C’è Sergei Loznitsa con The Kiev Trial e Oliver Stone con Nuclear (conoscendo il regista, il suo pensiero e l’abitudine alla provoca zione, si prevedono grandi discussio ni). Ma anche il film che Gianfranco Rosi ha girato seguendo il Papa in giro per il mondo (In viaggio), Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, e The Matchmaker in cui Benedetta Argentieri incontra Tooba Gondal, una jihadista britannica. Ma un festival si misura anche sulle sorprese, le scoperte, gli esordienti di talento segnalati al pubblico e al mercato mondiale: ce ne saranno?
Poi c’è il colore, l’entusiasmo dei fan, le feste, l’anima di un festival che rende ancora possibile l’incon tro casuale con l’autore o l’attrice. Covid permettendo, visto che rimangono tutte le precauzioni, così come la prenotazione online del posto in sala. Dal 31 agosto al 10 settembre a parlare saranno i film. Barbera, nella presentazione della mostra, ha citato Gian Piero Brunetta, autore del libro “La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932-2022” (Edizioni La Biennale e Marsilio): sembra che «il cinema voglia ancora cercare di confrontarsi col pensiero, con grandi temi e grandi interroga tivi, e con le relazioni profonde che legano gli individui tra loro, la forza dei sentimenti e della memoria e la capacità di spingere lo sguardo anche oltre l’orizzonte del presente». D’altra parte a un festival si chiede di scegliere e proporre il meglio (che è sempre soggettivo, ma non deve essere arbitrario) e la selezione di quest’anno promette di non essere «ecumenica e tranquillizzante» Ritorno al cinema? Chiudiamo con la citazione di Wim Wenders, che il direttore ha utilizzato in apertura: «Mi chiedo se il senso del viaggio non sia in fondo più nel tornare, dopo aver preso le distanze per vede re meglio, o semplicemente per poter vedere»
(foto Warner Media)
Pippo Mezzapesa, che racconta una faida criminale nel Gargano, con l’atteso esordio della cantante Elodie.
Don’t Worry Darling è il nuovo film di Olivia Wilde con Harry Styles e Florence Pugh: un inquietante thriller psicologico ambientano negli anni ‘50 PERLE PER CINEFILI? LAV DIAZ, WISEMAN, L’OMAGGIO A SCHRADER, UN KIM KI-DUK POSTUMO E IL RITORNO DI WALTER HILL

Le risorse da dove arrivano?
INTERVISTA AD ALBERTO BARBERA, DIRETTORE DEL FESTIVAL: LA SELEZIONE, I TEMI, IL MESTIERE DEL SELEZIONATORE
Ma il cinema è vivo, vitale»
E VENTI
«Dalle piattaforme che stanno crescendo in peso, numero e quantità, dai sussidi europei, dai governi che iniettano risorse economiche enormi a sostegno delle produzioni, dalle film commission, che stanno sorgendo un po’ ovunque, dai fondi di investimento. In Italia, in particolare, arrivano dal tax credit: risparmiare il 40% sui costi di produzione vuol dire abbattere quasi della metà l’investimento per realizzare un film. Non a caso ci sono società straniere che aprono filiali o nuove società in Italia, per usufruire di questi vantaggi».
«C’è una rivoluzione in atto
«No, purtroppo no. L’ho detto in conferenza stampa, attirandomi le “simpatie” di quasi tutti i produttori. Per adesso non genera la qualità, magari poi ci riuscirà. Ma temo si stia creando una bolla artificiale che prima o poi dovrà esplodere. Se manca la qualità, questo non farà che aumentare il fossato che separa il pubblico dal cinema italiano. Un disamore
Ma la quantità non genera automaticamente la qualità.
48SETTEMBRE 2022 Non sono tempi facili per chi organizza un festival. L’attesa è tanta. I film in arrivo tantissimi. «Mai abbiamo lavorato come quest’anno. I film hanno cominciato ad arrivare prestissimo, a novembre, contro ogni tradizione. Di solito cominciavamo a febbraio-marzo e il grosso arrivava a luglio» È saltato il tappo del Covid. «Sì, tutti quelli che avevano un film lo hanno mandato. È saltato anche il calendario. Una volta ci si provava con Berlino, con Cannes e poi toccava a noi. Oggi chiunque ha un film pronto lo manda a tutti contemporaneamente. Ho visto film tutto l’anno, con un ritmo impossibile». Ripensando ai film visti quest’anno (quasi 4000, alla fine) sai dirci qual è lo stato di salute del cinema? Sia dal punto di vista produttivo che da quello artistico, espressivo. «Dal punto di vista produttivo il cinema sta benissimo. Non ci sono mai state tante risorse economiche come in questo momento. Sostegni e aiuti alla produzione di ogni tipo. Sembra di essere tornati all’epoca d’oro, gli anni ‘50-’60. Nell’ultimo anno, soprattutto, si è prodotto ovunque e tantissimo, nonostante le difficoltà dovute ai protocolli anti-Covid sui set, l’au mento dei costi e i tempi allungati. In Italia la produzione è più che raddoppiata».
che in certi casi è comprensibile. A volte escono in sala film che sembrano fondi di magaz zino. Tutti si sono lanciati a produrre quanti più film potevano, per poter intercettare le risorse finanziarie a disposizione, e hanno tirato fuori tutte le sceneggiature che avevano nel cassetto, senza badare alla qualità».
In Italia la produzione è praticamente raddoppiata.
Però un conto è la quantità, un altro è la qualità
C’è anche la questione del rapporto con lo streaming, le piattaforme sempre più forti, le difficoltà di distribuzione.
«C’è una trasformazione in atto, e questo è evidente. La rivoluzione dei meccanismi distributivi ha subito un’accelerazione pazzesca durante la pandemia. Adesso il mercato è in cerca di un assestamento, che chissà quando raggiungerà. Le sale hanno riaperto da poco: in alcuni Paesi sono ripartite alla grande, in altri molto lentamente. Tra gli ultimi c’è l’Italia, naturalmente. Ma per tanti motivi, non solo per la paura dei contagi o per il fatto che il pubblico anziano è più reticente a tornare in sala. La qualità dell’offerta non aiuta, anche se ci sono film americani che hanno incassato benissimo, riportando i gio vani in sala. Diciamo che mentre le sale stanno ancora aspettando di recuperare il proprio pubblico, le piattaforme si stanno consolidando in una posizione di privilegio e di forza. Quale sarà il punto di caduta, nessuno può ancora dirlo. Io sono abbastanza convinto che si andrà verso una coesistenza tra circuito tradizionale e piattaforme».
Lei è sempre stato molto aperto alle novità, dal rapporto con le piattaforme alle possibilità dello streaming, dal VR alla sala virtuale per vedere i film di Venezia. Non si è arroccato nel fortino. I film hanno cominciato ad arriva a novembre.

Cose di cui va particolarmente fiero?
50SETTEMBRE 2022
Nessuna apocalissi, ma anche nessun facile entusiasmo.
«È la prima cosa che ho detto in conferenza stampa, ricordando che i film non stanno in una bolla separata dalla realtà. Se è vero che sono finestre sul mondo, non possiamo evitare di prendere atto anche delle cose che non vorremmo vedere, dalla guerra alla recrudescen za della censura in tanti Paesi del mondo, che siano l’Iran, la Cina o la Turchia. Casi di censura, più o meno subdola, sono frequenti in tanti Paesi.
«Sarebbe una cosa antistorica, controproducente, e che soprattutto non farebbe bene al cinema.
«Ho una posizione di sano realismo. Questa è la realtà con cui bisogna fare i conti. Bisogna misurarsi con le novità, lasciar perdere certe vecchie abitudini, riflettere sul fatto che siamo in tutt’altra epoca rispetto a quella che ha preceduto la pandemia».
Non è che se non esistessero le piattaforme i problemi del circuito tradizionale sarebbero risolti. Tutt’altro. Bisogna prendere atto di questi cambiamenti, affrontarli con strumenti nuovi, inediti, e capire come si possono aiutare le sale, che rimangono il modo migliore per vedere un film, su questo non ci piove. Ci vogliono anche nuove regole: prima o poi anche le piattaforme saranno costrette a scendere a patti con la distribuzione tradizionale, anche se in una posizione di forza. Prevedo un periodo di turbolenza che potrebbe essere anche lungo, ma vedo anche un futuro per il cinema tutt’altro che pessimistico. Il cinema è vivo, vitale, si produce tantissimo ovunque, e prima o poi si tornerà a investire anche sulla qualità, che è l’unica cosa che garanti sce un rapporto col pubblico fondato sulla credibilità e la fiducia».
«Alcuni film non sono stati completati in tempo. Ma ci sono quasi tutti i più attesi della nuo va stagione. Siamo molto soddisfatti per questo. Da Iñárritu a Baumbach, da Joanna Hogg a McDonagh, da Aronofsky a Blonde di Andrew Dominik. Sono i film che la gente si aspet tava di vedere a Venezia. L’unico che ci è scappato, per scelte di marketing diverse, è quello di Spielberg, che aprirà a Toronto. Alla Universal hanno deciso di non farlo vedere a nessuno. Mi dispiace per questa strana scelta. Anche perché chi lo ha visto dice che è molto bello».
«Se parliamo di toni, sicuramente quello prevalente non è la commedia. C’è prevalenza di approcci drammatici, toni cupi, preoccupati. C’è la volontà di prendere di petto alcune questioni contemporanee. Dal punto di vista tematico c’è un po’ di tutto, come sempre, ma c’è anche un numero significativo di film che affrontano problematiche relative alla fami glia, soprattutto al rapporto tra genitori i figli. Sappiamo benissimo che in questi due anni di pandemia, chi ha sofferto di più per il lockdown sono stati i giovani, e questo ha messo in crisi anche i genitori, la loro capacità di trovare soluzioni. Molti registi, costretti a loro volta a subire le conseguenze del lockdown, hanno deciso di raccontare le loro vite private, le problematiche più personali. Ci sono anche i film politici, a partire da quelli iraniani, tutte metafore della situazione di tensione e preoccupazione di quel Paese. Ma c’è anche un ripiegamento nel privato, e questo è il segno più forte che ha lasciato la pandemia».
Noi che viviamo nella bolla veneziana per due settimane, a volte abbiamo l’impressione di essere fuori dal mondo, in un’isola felice, staccata dalla realtà. Come si evita questo effetto?
Avremo due occasioni forti per ricordare questi problemi. Da una parte ci sarà una giornata dedicata all’Ucraina, alla solidarietà con quel popolo, e dall’altra ci sarà un incontro per fare
G uardando i film selezionati, c’è un umore che spicca, un’atmosfera, un tema particolare?

C’è anche il peso della responsabilità. Chi fa un lavoro come il suo, può decidere il destino di un film o un cineasta, nel bene e nel male. «È una responsabilità enorme di cui sono consapevole. Ed è la parte peggiore del mio lavo ro. È facile capire quando sei davanti a un film bellissimo o bruttissimo. Poi c’è tutta una zona grigia, intermedia, di film sufficientemente interessanti da non dover essere scartati subito, ma per i quali magari non c’è posto: quindi vanno fatte scelte, confronti, valutazio ni, a volte i film bisogna rivederli. La tensione è sempre molto alta. Non è mai una scelta fatta con leggerezza. Mai come quest’anno ho ricevuto sollecitazioni, pressioni, richieste di riconsiderare una decisione negativa. Come se l’incertezza dominante, la precarietà del momento, rendesse il festival ancora più decisivo, perché ti dà la possibilità di emergere e di farti notare. Mai come quest’anno ho sentito questa pressione. La cosa più difficile è dire di no a persone che conosci, a produttori con cui hai un rapporto, a cineasti famosi che hanno fatto un film meno bello del solito e a cui devi spiegare che è meglio se saltano un turno».
«C’è sempre la speranza di essere sorpreso da qualcosa che non ti aspetti. E per fortuna ogni anno succede»
Anche perché si spera sempre di trovare il nuovo fenomeno del cinema contemporaneo, il cineasta del futuro.
Com’è la giornata tipo del direttore di festival? Lei è un metodico o uno di quelli che preferiscono improvvisare?
Passando dall’universale al personale: ha mai fatto un conto dei film che guarda nel giro di un anno?
Il giorno della proiezione del film di Panahi in concorso, ci sarà un flash mob sul tappeto rosso, con tutta la gente di cinema che vorrà partecipare, una grande fotografia collettiva per chiedere la liberazione di Panahi, Rasoulof e Aleahmad, arrestati di recente.
Viviamo dodici giorni all’interno di un mondo fantastico, che è quello del cinema, ma non chiudiamo gli occhi su ciò che succede intorno».
Poi, dopo il festival, ci vuole almeno un mese di vacanza.
«Assolutamente no. Vado via dieci giorni e poi si ricomincia subito: una riunione per parlare di cosa ha funzionato e cosa no, pensare i primi cambiamenti, poi due o tre viaggi strategici ai festival, per incontrare registi e produttori, dopo di che arrivano i primi film.
Q uindi al cinema, per piacere, non ci va mai.
Quando arrivano i film, comincio subito a guardarli».
«Scrivo tutto ciò che devo fare, altrimenti mi dimentico. La memoria ormai è satura. Sono sempre di corsa. Oltre a vedere i film, c’è tutta l’altra parte del lavoro: tenere i contatti, rispondere alle mail che ti arrivano e alle telefonate, gestire i rapporti internazionali. Tra un film e l’altro devo fare anche questo, quindi è sempre una lotta contro il tempo. Ho dei taccuini su cui scrivo giornalmente le cose da fare, poi però mi sveglio alle 5 del mattino, dicendo “non ho fatto quella cosa”».
51SETTEMBRE 2022
«Mai. Ne vedo una quantità tale che quasi mi spaventa. Quest’anno, da novembre a oggi, non ho mai visto meno di quattro film al giorno, qualche volta anche sei».
«Credo di esserci andato una o due volte, quest’anno, per vedere film che mi ero perso. Ad esempio Spielberg. Altrimenti è solo lavoro. Poi, certo, parliamo di un lavoro fantastico, che è anche un piacere. Ma quando i film sono brutti, è il lavoro più usurante che ci sia».
il punto sull’ultimo anno di attacchi alla libertà di espressione, sui cineasti imprigionati e condannati.

Gianni Amelio torna in sala con un’opera dedicata a Braibanti Non un film sul passato, ma sul presente. Una storia d’amore di Fabrizio Tassi (foto di Claudio Iannone)
Il signore del cinema
E VENTI

«Nel nostro Paese c’è un male nascosto che è lo stesso di allora»

Con lui anche l’attore Leonardo Maltese e il produttore Simone Gattoni con cui parliamo di sale, piattaforme e tax credit
Aldo Braibanti, chi era costui? Poeta, intellet tuale, uomo di cinema e di teatro, scrittore e partigiano, educatore sui generis, pensatore libertario, ma anche appassionato mirmecologo (stu dioso di formiche). Un uomo ammirato da Pasolini e osannato da Carmelo Bene. Che però ricordiamo quasi solo dentro una formula diventata tristemente famosa negli anni Settanta: il “caso Braibanti”. Perché capita, a volte, a certi uomini notevoli e insoliti, in an ticipo sui tempi – rispetto a coloro che sono sempre in ritardo (i benpensanti, il potere, il comune senso del pudore) – di diventare un simbolo, la pietra dello scandalo che rivela il vero volto del Paese in cui vive. Braibanti nel 1964 fu accusato di aver plagiato uno studente appena maggiorenne. Il problema, natural mente, non era la presunta sottomissione della sua volontà, ma l’omosessualità, che in pieno Sessantotto portò a una condanna di nove anni per l’intellettuale (ridotti a sei in appello, ne scontò due) e una serie di elettroshock devastanti inflitti al ragazzo, perché “gua risse” dal suo problema. Il signore delle formiche, il nuovo film di Gianni Ame lio, racconta questa incredibile vicenda, che si prende la libertà di immaginare sentimenti e relazioni, ma ci restituisce Braibanti così com’era, senza infingimenti o agiografie, usando le sue stesse parole (poetiche). Chi lo ha conosciuto, dopo aver guardato il film, ha detto di averlo visto rivivere letteralmente sullo schermo. Ma sullo schermo, trattandosi di un film di Amelio (uno dei più grandi registi italiani di oggi e di sempre), c’è anche molto di più. Lo si intuisce già dalla scelta di introdurre un personaggio immaginario ma fondamentale, un giornalista che ci consente di dialogare direttamente con Aldo Braibanti, di confrontarci con lui. Perché questo non è un film sul passato, ma sul presente. Ci mostra l’anima ipocrita di un Paese che, nel profondo, nonostante le apparenze (dalle unioni civili in giù), rimane tristemente fedele a se stesso. Che usa parole alla moda (“fluido”), si mostra permissivo e liberale, ma nel profondo conserva intatti i suoi pre giudizi violenti e il suo moralismo bigotto.
Il signore delle formiche, però, è anche e soprattutto una storia d’amore, raccontata con una libertà che il regista di Così ridevano e Lamerica, di Colpire al cuore e La tenerezza, maestro dell’allusione, la sfumatura, l’enigma interiore, forse non ha mai mostrato prima.
54SETTEMBRE 2022
Ne parliamo con Amelio in una giornata di inizio agosto, a Bobbio. In questo periodo dell’anno, nel borgo emiliano, va in scena il Film Festival creato da Marco Bellocchio.
Per dieci giorni qui si concentra il meglio del cinema italiano, e tra gli eventi previsti c’è anche la proiezione di Piccolo corpo, che ha fruttato un David a Laura Samani. Un esordio così, in effetti, non lo ricordavamo da tempo. A parlarne, insieme lei, è stato invitato anche Amelio, che ha avuto un ruolo decisivo in questa Incontriamo Gianni Amelio a Bobbio, durante il festival di Marco Bellocchio.

Laura ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia dove Gianni ha insegnato per anni, mettendosi a disposizione di chi cercava consigli e aiuti. In effetti, questa (la scuola, la cultura, la guida disinteressata di chi sa) potrebbe essere una risposta al discus so problema della quantità e qualità del cinema italiano. Ma a questo ci arriveremo a fine intervista, perché la chiacchierata si è allargata ed è diventata anche una riflessione a quattro ricca di spunti sul futuro del cine ma in sala, il tax credit, la produzione nostrana.
A proposito di Bellocchio: «Con lui ho un rapporto di ammirazione non sospetta, perché rivelata nei suoi tempi difficili, che sono durati un decennio o addirittura due. Il cosiddetto periodo fagioliano. In quel momento è uscito Il ladro di Bambini (‘92) e qualcuno mi ha dedicato un libro intero, un’intervista in cui, come provocazione, c’era il nome di Bellocchio tra quelli da cancellare dal cinema italiano (“ecco come un regista può decadere fino ad an nullarsi nella stupidità”, veniva addirittura usato questo termine). Io mi ribellai a questa cosa. E lui apprezzò, an che se era una persona molto chiusa. Un giorno ci hanno messo insieme per fare due settimane di promozione del cinema italiano negli Stati Uniti, abbiamo viaggiato da New York e Los Angeles, e lì abbiamo avuto modo di conoscerci meglio. Poi non ci siamo visti per de cenni fino a quando mi ha chiamato perché voleva fare un documentario su Braibanti, che lui ha conosciuto, così come Piergiorgio quando dirigeva i Quaderni Piacentini. Ma io ho detto no. Avevo già provato a fare ricerche, girando Feli ce chi è diverso, e avevo scoperto che c’erano poche cose su di lui, poco repertorio, e la sua figura era trattata sempre con una curiosità un po’ ironica, anche dispregiativa, in quanto nirmecologo (pochissimi conoscevano la parola, dicevano “il formichiere”). Però ho colto l’interesse di Marco e ho detto: io farei un film di finzione. Lui mi ha detto subito sì». Poi Bellocchio è scomparso dietro la serie su Moro (Esterno notte, molto bella) e il film l’ha condotto Simo ne Gattoni. «Che è giovanissimo, ha 38 anni, e ha l’umiltà che ogni produttore del mondo dovrebbe avere.
Il film è in Concorso a Venezia: verrà proiettato il 6 settembre L’uscita nelle sale italiane è prevista per l’8 settembre
55SETTEMBRE 2022 scoperta. «Laura Samani mi ha dato una delle soddi sfazioni più grandi degli ultimi anni, così come Francesco Munzi e pochi altri. Il suo talento già si vedeva sui banchi di scuola. Bastava guardare i suoi cortometraggi».
Amelio mi accoglie insieme a un ragazzo con un bel volto espressivo, timido ma per nulla intimidito. Lo presenta così: «Lui è Leonardo, nessuno lo conosceva, ma un passo alla volta si è preso il film». Leonardo Maltese, 20 anni, al suo esordio, nei panni del ragazzo “plagia to”, si è ritrovato a recitare insieme a due fuoriclasse come Luigi Lo Cascio ed Elio Germano. E a quanto pare la sua performance non è passata inosservata. In fatti sta già girando un nuovo film con Bellocchio. A guidarci a un tavolino all’aperto, in un albergo del centro, c’è anche un giovane gentile, in maglietta e bermuda, con lo sguardo febbrile di chi pensa cento cose contemporaneamente, che è lì con te, garbato, ma intanto sta progettando chissà cosa, e infatti non si ferma un attimo, passa, si siede, poi si alza subito per rispondere al telefono. Il “giovane aiutante” in realtà è il produttore del film, Simone Gattoni, associato a Bellocchio nella Kavac. «Una persona davvero unica. Che vuole fare cinema e ha la passione necessaria per farlo bene. Sono orgoglioso che abbiano scelto me come primo re gista “esterno”, dopo Il traditore».

In compenso ho parlato tantissimo con Ferruccio Braiban ti, il nipote. Quando ho deciso di girare Il signore delle formiche, mi ha aiutato a entrare nel suo mondo, mi ha dato testi e foto di famiglia. E soprattutto mi ha racconta to cose che avevo intuito già a Roma: il famoso carattere di Braibanti, che non era per niente facile. Era una persona estremamente rabbiosa, anche con un punta di arrogan za, che aveva l’impulso di insultarti se una cosa non gli andava bene. Tutt’altro che un carattere docile».
Con Braibanti ci siamo incontrati non una, non due, ma decine di volte. Io andavo spesso al cinema Rialto, che stava in cima a quel vicolo. Un cinema di cui, anni prima, avevo curato la programmazione. Si chiamavano “I lunedì del Rialto”. Scrivevo anche delle schede di quattro paginette che venivano distribuite al pubblico». Mi piacerebbe vedere la programmazione. «Bellissima. Il film più debole era Il settimo sigillo, tan to per dirti. C’erano anche delle scoperte, una punta di cinefilia. Il lunedì il Rialto era stracolmo di persone che volevano vedere un certo cinema. Negli altri giorni c’era la programmazione normale, ma eravamo riusciti ad ag ganciare anche il pubblico che a quei tempi veniva definito “d’essai”. Lo facevo per l’Aiace. Ho lavorato per loro sia al Rialto che al Nuovo Olimpia».
Braibanti come l’hai conosciuto?
Lo riconobbi perché avevo visto il suo volto sulle rivistacce di cronaca nera dell’epoca
«Ci siamo conosciuti indipendentemente dalle for miche, dalla radio, dai suoi scritti. Ci siamo incon trati per strada. Ieri (5 agosto, ndr) a Roma ho trovato il vicolo dove l’ho visto per la prima volta. È lo stesso de I soliti ignoti, quando finiscono per mangiare una pasta coi ceci, dopo aver sbagliato muro. Miravano alla cassaforte, che si trovava in una cucina, dove poi Capannelle si gode una pastasciutta meravigliosa. Il portone del film è in quel vicolo, che ha una scalinata e una fontana (Tre Cannelle).
Pasolini però ne parlava come di un “uomo mite”. «Non lo era. Te lo posso dire per testimonianza di tante persone. Pasolini in realtà voleva dire: un uomo che non farebbe male non dico a una mosca, ma a una formica. Braibanti l’ho incontrato centinaia di volte nel vicolo de “I soliti ignoti”.
In che anni siamo? «Primi anni Settanta. Braibanti usciva dal processo. Io lo riconoscevo perché avevo visto le sue foto. Ma non sui gior nali che io leggevo, Paese Sera o L’Unità. Le foto spiccavano sulle rivistacce di cronaca nera dell’epoca, che rappresenta vano la destra più becera, non politica ma mentale. Tutto questo lo mostro nel film. Ci sono squallori che è difficile passino inosservati. Non puoi immaginare l’effetto e la pena che facevano allora. Le copertine con Braibanti e la scritta: “Il comunismo a posteriori”. Nel film c’è un giornalista de L’Unità, interpretato da Elio Germano, che cerca di raccontare ciò che sta accadendo nell’aula, nel Palazzo di Giustizia, e si trova davanti al muro della “chiesa comuni sta”, che come sai non perdona».
56SETTEMBRE 2022
Ci sono produttori che entrano a gamba tesa su ciò che tu proponi, e altri, pochissimi, che invece entrano nel tuo desiderio di raccontare quella storia, se la caricano sulle spalle e la portano in quei luoghi dove i registi in genere non vanno, quelli più pericolosi, impervi, meno graditi.
Si è preso sulle spalle il peso economico del film, lui che è vestito in questo modo e inciampa con la testa (ha appena preso una testata contro un cartello stradale, è tornato con un cerotto sulla fronte, ndr): già guardandolo, sai che fa cinema per amore del cinema, non per comprarsi la barca. Un amore che è davvero simile al nostro. Lui ha una volontà creativa, non un’intrusione creativa. Non mi ha mai detto “fai questo” o “perché non fai quello”, se me l’ha detto ci è arrivato con una serie di sguardi e giri di parole. Voleva che fossi felice del risultato. La domanda che mi faceva era: “Sei contento? Hai quello che volevi?”».
Non hai mai fatto amicizia con lui? «L’ho incontrato centinaia di volte ma non ci siamo mai parlati. L’ho sentito per la prima volta per chiedergli un incontro a casa sua a Fiorenzuola, quando stavo lavoran do a Felice chi è diverso. Lui ha detto che era disponibile, ma che non stava molto bene. È morto credo una o due set timane dopo che avevo finito di girare (era il 2014, aveva 92 anni, ndr). Non se la sentiva di esporsi davanti alla telecamera in un certo modo.
57SETTEMBRE 2022
Un carattere che non cerca lo scontro. Però il suo mondo, che era l’insegnamento, il teatro, la musica, la letteratura, il cenacolo che ha creato in Emilia, con ragazzi ventenni, l’ha gestito con il pugno di ferro. Con un senso di possesso di qualcosa che era il suo sapere. Anzi, con un senso di protezio ne di questo sapere. Era possessivo anche nei confronti dei ragazzi verso cui si indirizzava, per i quali non aveva una stima così grande. Era tutt’altro che mite nei loro confronti. Io metto in scena queste cose. Qualcuno che l’ha visto e l’ha conosciuto, ha detto: sembra di rivederlo com’era davvero in quei momenti. Irascibile. Feroce. Questo era il Braibanti pre-processo. Poi il processo l’ha segnato. Di fronte ai giudici ha assunto lo stesso atteg giamento che assumeva con i ragazzi. E questo è pericoloso: uno dovrebbe capire che un po’ di umiltà non guasta, anche quando ci si trova di fronte a persone che hanno torto. Non puoi combattere ad armi pari con le persone violente. Non ti puoi mettere sullo stesso piano. Il porgere l’altra guancia di Cristo, per me significa: “usa un altro metodo nei confronti di chi ti ha dato lo schiaf fo”. Non vuol dire essere passivi e chinare la testa. Vuol dire: “Comportati in un altro modo”». Qual è la funzione del giornalista nel film? «Quella di dargli una spinta a ribellarsi, a rispondere per le rime alle cose che gli vengono buttate addosso».
È un personaggio inventato? «Totalmente inventato. Però è l’altro cardine della sto ria. Non inventerei mai un personaggio solo per comodità narrativa. Lui spinge Braibanti a lottare contro tutto il male che gli viene sbattuto in faccia. Ma andando avanti nel racconto, scopriamo perché lo fa. Scopriamo la sua vita personale, privata». Mi sembra di capire che il giornalista è lo strumen to attraverso cui interagisci con Braibanti. «Esatto! Sono io che parlo a Braibanti dicendo: perché fai così? Metto in scena me stesso con le fattezze di Elio Ger mano. Che infatti non ha un interesse meramente gior nalistico».
Perché ti è venuta voglia di raccontare questa vi cenda adesso? L’impressione è che, con questa sto ria del passato, tu abbia deciso di dirci qualcosa sul presente. «Non l’ho certo fatto per glorificare Braibanti, o per ac canirmi su di lui, dopo quarant’anni. Ma perché la sua vicenda è esemplare di cose che accadono oggi sotto altra forma. Una forma secondo me più subdola e per questo più pericolosa. In apparenza un “caso Braibanti” non potrebbe più accadere. Ti immagini oggi un omosessuale accusato di plagio?». Elio Germano (Ennio)

C’è un aggettivo che è di moda, oggi, che dovrebbe risolvere tutto, ma che io detesto: fluido.
Tutto si svolge alla luce dei social Luigi Lo Cascio (Aldo)
58SETTEMBRE 2022
«Lui voleva essere Aldo Braibanti, con i suoi pregi e i suoi difetti, con il suo valore che lui giustamente considerava alto. Carmelo Bene lo venerava. C’è una sequenza a cui io tengo molto: quando faceva teatro, era spietatamente avan ti a tutti gli altri, nel ribellarsi a un certo tipo di tradizione e nel proporre, anche oscuramente, il nuovo. Lui lottava con se stesso proprio per trovare una forma che non fosse conven zionale, e questo c’entrava con la sua persona. Era tutt’uno con la sua rabbia, il teatro come la vita».
Non accade nella forma, ma nella sostanza. «Accade, sì. Nonostante una facciata permissiva come non mai abbiamo visto nella storia. Ci sono addirittura le unioni civili, all’estero i matrimoni tra persone dello stesso sesso: che cosa vuoi di più? Ci sono i figli in provetta, gli uteri in affitto, è scomparso qualsiasi tipo di pregiudizio nei confronti di un genere. In teoria. Però se guar di bene, tutto si svolge alla luce dei social, con personaggi glamour, che potrebbero fare qualunque altra cosa, e sa rebbero comunque personaggi glamour ai quali è indirizzato lo sguardo dei teenager. C’è un aggettivo, oggi, che è di moda e che dovrebbe risolvere tutto, ma che io detesto: fluido. Orrendo. Nella fluidità sembra che non ci sia più né l’ostracismo, né il disprezzo, né la violenza, che in realtà esistono, quando sposti lo sguardo dal mondo finto, da cartolina, di un certo tipo di personaggi, al maestro di scuola della mia terra, la Calabria. Io vorrei che que sto film riuscisse a spronare il maestro di scuola di Sellia Marina, perché trovi la forza di ribellarsi a ciò che ha intorno. Se i genitori vengono a sapere che c’è un insegnan te omosessuale, rizzano le antenne, vanno dal preside e dicono: non lo vogliamo, ritiriamo dalla scuola i nostri bambini. Parliamo di un ambito sociale diverso da quel lo privilegiato in cui viviamo noi. Io ritengo che ci sia un male nascosto, che è lo stesso di allora, e che si esprime in modi apparentemente opposti. C’è la liberalizzazione dei costumi da una parte e un’omofobia spietata dall’altra».
Una cultura che in profondità non cambia. «Non solo non cambia, ma proprio perché c’è l’alibi del comportamento alla luce del sole, diventa ancora più ter ribile quando non tocca certe persone, ma altre che non possono difendersi». Braibanti era un intellettuale, ma rifiutava qualsia si etichetta, qualsiasi “chiesa”.
Il suo cinema lo hai utilizzato? «No. Ma ho usato le sue poesie, non potevo farne a meno. Almeno un quarto dei dialoghi del film, sono fatti delle poesie di Braibanti. Non a caso l’apertura e la chiusura sono in versi. L’effetto è straniante, ma molto bello. Ci sono frasi che Aldo ed Ettore non possono dirsi, perché sono destinate all’amore “normale”, tra virgolet te, cose che un uomo direbbe a una donna e viceversa. La poesia, invece, mette come tra parentesi il timore di trascendere, di dire troppo, di essere sinceri e rovinare un qualcosa».

«Ne Il signore delle formiche è tutto esplicito. Racconto una persona realmente esistita. Una persona conosciuta anche da me. Quindi c’è anche qualcosa di oggettivo, che io rispetto. Se avessi dovuto inventarmi il suo carattere, lo avrei fatto come quello di Lo Verso in Così ridevano: un ragazzo di 25 anni, innamorato, che però resta buono, ca rico di tutta la dolcezza e l’amarezza di questo amore non esprimibile. Ma qui parlo di Aldo Braibanti e voglio rac contarlo così come l’ho conosciuto io e come mi hanno por tato a conoscerlo altre persone, che erano intime con lui».
59SETTEMBRE 2022
Qual è la differenza, rispetto a quel film (che met terei tranquillamente tra i dieci più belli dell’intera storia del cinema italiano)?
Il signore delle formiche che film è? Assomiglia a qualcosa di tuo? «Se dobbiamo trovare un aggancio emotivo – che è quello che conta per me – è con Così ridevano. Nel senso che in quel film c’è un rapporto tra un fratello maggiore e un fratello minore segnato non dalla fratellanza, ma dall’a more. Il sottotesto di Così ridevano è quello di un amore non tra fratelli ma tra uomini. L’ambientazione – lo dico adesso, coraggiosamente – è quasi una tela di fondo nella quale si inserisce questo rapporto, che è la cosa che mi sta veramente a cuore. Non a caso si tratta di due emigra ti dalla Sicilia, dove manifestare un amore omosessuale era assolutamente proibito, non ammissibile. Non l’ho mascherato, ma raccontato attraverso quel rapporto così eccessivo, quasi al limite del credibile. Un fratello non piange disperato perché l’altro da qualche tempo non dà notizie di sé. È un film che amo molto. Il fratello maggiore analfabeta parla come se scrivesse una lettera all’altro, e parla da innamorato abbandonato. A un certo punto il personaggio di Lo Verso veste i panni dell’altro, prende i libri dell’altro, si siede nel suo banco a scuola».
È stata una lavorazione facile? Un film praticamen te già scritto, realizzato senza difficoltà, oppure tormentato? So che tu il set lo soffri molto. «Vuoi una risposta d’occasione, edulcorata, o vuoi la sincerità?» Sai che voglio la verità. «Mi sono accorto, l’altro giorno, quando mi è venuta in mano di nuovo la sceneggiatura, che non abbiamo cam biato molto rispetto al testo. Non me lo potevo permettere, perché abbiamo girato in una maniera completamente “anti-regia”. Il regista ha dovuto fare uno sforzo per re cuperare addirittura la cronologia delle cose. Nel cinema, come tu sai, la cronologia non è solo il giorno dopo giorno, ma è il cambiamento che hanno i caratteri dei personaggi all’interno della vicenda. Io mi tormento sempre sui finali, perché dico che nel finale si esprime la ragione per cui tu hai fatto il film. Ho sem pre detto che Ladri di biciclette non è un film sul furto di una bicicletta, ma su un padre disperato e un bambino che si asciuga le lacrime e gli prende la mano. È il ritrovarsi di due persone divise dalle circostanze, dai ruoli, che non ti portano a quel tipo di carezza. La carezza però avviene, con la forza dell’amore che il più piccolo ha per il padre, offe so, insultato, chiamato ladro. Un po’ come succedeva ne Le chiavi di casa, dove è il bambino pieno di problemi fisici che dice al padre: “non si fa così, non devi abbatterti, non devi rinunciare alla vita”.

Quindi Il signore delle formiche è un film molto diverso da Hammamet, in cui c’erano dentro il noir, il western, tante cose diverse. «Oh, sì, assolutamente. Qui c’è dentro la vergogna. Non la mia, che racconto questa storia, ma la vergogna di vive re dentro una società che produce queste cose. È un film che tutti abbiamo sentito sulla pelle con un grande disagio, che riguardava per esempio i giudici della corte, il pub blico ministero, le parole che sono venute fuori nell’aula e che sono tratte dai verbali della vera seduta. Ci sono delle battute al limite della sostenibilità, ma sono battute vere. Ho voluto attenermi alla cronaca di allora. Io mi sono preso tutta la libertà di raccontare il rapporto tra Aldo ed Ettore, e anche il rapporto di Ettore con suo fratello e sua madre: il lato privato del film è tutto inventato. Ma quando siamo entrati nell’aula del tribunale, hanno parlato le carte e i verbali. Non c’è una solo parola dei giudici e del pm che non sia verificabile, leggendo gli atti del processo». Mi vedo già i titoli dei giornali: il film politico di Gianni Amelio. «Non lo so, non credo. Credo invece che sia diverso da tut ti gli altri. La cifra che caratterizza questo film, semmai, è la grande libertà. Tutto ciò che in altri film poteva essere implicito, allusivo, nascosto, qui esplode». Arrivi da Hammamet, in cui la storia di un politico diventava la storia di un uomo, un padre, in cui toglievi la cronaca per far vedere la tragedia. Qui invece c’è una storia privata da cui esce un ritratto della nostra società «C’è la società, ma di contro, al centro, c’è comunque una storia d’amore, raccontata con grande libertà».
Tutto ciò che in altri film era implicito, allusivo, nascosto, qui esplode Gianni Amelio sul set di Hammamet con Piefrancesco Favino (Craxi)
Il finale “anticipato” ha segnato il resto della lavorazione? «In realtà ha segnato lui (indicando Leonardo, ndr), in quanto interprete del personaggio di Ettore. Essendo arrivati a quel finale, per tutto il resto del film dovevamo prepararlo, quell’epilogo. Sapevamo che la meta era quel la, quindi lui ha dovuto fare uno sforzo perché, in tutto il resto delle cose che avvenivano, ci fosse come approdo ciò che accade nel finale. È stato più un peso per gli attori che per me».
A Leonardo Maltese, che ha ascoltato tutto il tempo con estrema attenzione, chiediamo se Amelio è un regista che spiega molto, che entra nei dettagli dell’idea alla base della messinscena. «Non ne abbiamo parlato così a fondo. Queste cose le sto scoprendo dopo aver girato il film. Sapevo solo dell’importanza dell’ultima poesia: era fondamentale che quei versi venissero detti come erano La cifra di questo film? La grande libertà.
Per tornare alla lavorazione: siamo stati costretti a girare il finale del film alla terza settimana. Un finale duro. Generalmente, il finale andrebbe trovato camminando insieme ai personaggi».
Domande e risposte, come sempre con Amelio, sgorgano in un flusso che potrebbe durare anche ore: parliamo di un regista che è anche un ottimo conoscitore di cinema (la cosa non è così scontata) oltre che di un uomo di grande cultura e sen sibilità. Il foglio con le domande preparate per giorni, è finito accantonato in un angolo del tavolo. Dice lui: «Il rapporto tra le domande scritte e ciò che sta venendo fuori dal dialogo, è un po’ quello che c’è tra la sceneggia tura e la regia».

E poi va gestita la convivenza con le piattaforme. «Bisogna pensare a una politica cinematografica che non escluda l’uno o l’altro. Quello che più mi preoccupa è che ci sono produttori che danno già da tempo il cinema per morto e si vogliono buttare nelle braccia delle piattafor me. Piattaforme che impongono condizioni molto dure dal punto di vista editoriale. Loro ti dicono: questa cosa quanto cosa? 10 milioni? Ti do tutto io, non devi andare a Rai Cinema, al Ministero, alla Regione. Però impongono le loro regole. Per carità vanno accolti, perché generano lavoro e a volte realizzano anche prodotti buoni, ma è una convivenza che va gestita. Così ridevano, il (bellissimo) film che Amelio accosta a Il signore delle formiche
«Qui la pandemia è stata gestita in modo troppo terro ristico. Andava bene, in una certa fase, obbligare la mascherina, ma c’è stato un momento in cui, oltre ad avere la mascherina, per andare al cinema servivano anche il Greenpass, l’autocertificazione, il distanziamento... Que sto ha favorito molto le piattaforme, che consentivano alla gente di guardare film stando in casa. Nella primavera di quest’anno, poi, abbiamo tenuto misure che c’erano solo in Italia e che hanno fermato l’accesso in sala. L’autunno sarà abbastanza indicativo. L’unico dato a cui possiamo aggrapparci con speranza è che si registra il sold out in tut te le arene estive. Quindi la gente vuole andare al cinema. Ma c’è anche un problema di esercizio. Noi andiamo in sale che spesso sono vecchie, brutte, fredde, sporche. A Pari gi, dove sono stato un mese fa, vedi dei cinema diversi, che sono dei poli culturali, hanno il bar, la libreria, i dvd di film introvabili, sono bei luoghi che fanno una program mazione attenta. La sala è un luogo che va ripensato: dobbiamo dedicarci di più all’accoglienza delle persone, perché questo fa la differenza».
Nel frattempo è tornato anche Simone Gattoni, e quindi è arrivato il momento di ragionare sull’atmosfera apocalittica che percorre molti discorsi sul futuro del cinema, soprattutto quello in sala. Premesso che, come ricorda Amelio, oltre agli apocalittici e agli in tegrati, ci sono anche «i disintegrati e i cassintegrati». La parola passa quindi al produttore. Come ne usciamo da questa crisi? Quale deve essere il rapporto con le piattaforme streaming? Risponde Gattoni: «Intanto diciamo che la pandemia non ha aiutato ed è arrivata nel momento peggiore pos sibile. Se tu pensi all’ultimo semestre del 2019 e ai primi mesi del 2020, il cinema italiano attraversava una gran dissima stagione, per qualità e anche per diffusione po polare. Una presenza importante ai festival più grandi, unita a incassi spaventosi: Marco d’Amore esordisce con la sua opera prima (L’immortale, ndr) con 4 milioni e mezzo, Garrone esce con Pinocchio e ne fa 12, Amelio con Hammamet sfonda i 6. Lasciamo pure perdere Checcho Zalone che è una garanzia. Noi eravamo usciti con Il tra ditore a maggio e avevamo fatto 4 milioni e mezzo. Più tutta una serie di opere prime che arrivavano serenamen te a 800 mila o 1 milione. C’era anche il buon Muccino, che uscì sotto pandemia e aveva già fatto 5 milioni, poi venne tolto dalle sale. Quindi è stato devastante perché c’era un pubblico che andava molto in sala. E ti ho elen cato progetti diversissimi tra loro, dagli autori al cinema più popolare». In molti si sono lamentati delle regole di prevenzio ne anti-Covid nei cinema.
61SETTEMBRE 2022 scritti. Ho lavorato più sulla singola scena, sulla relazio ne con questa persona, più grande di me, non in quanto Braibanti, ma dentro il mondo creato dalla sceneggiatu ra, dai dialoghi».

Elio Germano
Hanno suscitato molte polemiche le parole di Al berto Barbera, che ha parlato di quantità che non genera la qualità. Di tantissime produzioni italiane (troppe) facilitate dal tax credit, dalla possibilità di intascare finanziamenti pubblici. «Io ho parlato con Alberto dopo la conferenza stampa di Venezia. Sono abbastanza d’accordo con quello che dice. Però gli è mancato un pezzettino. Perché grazie al tax credit c’è anche chi riesce a fare cinema di qualità. I film di Amelio o di Bellocchio li produciamo anche perché siamo aiutati. Non è il numero che penalizza la qualità, ma a volte è la possibilità di avere degli sbocchi. Si produce tanto, ma a Venezia ci sono cinque film in concorso, più tutto il resto. Mi chiedo: se si fosse prodotto meno, quanti di quei film di qualità sarebbero stati re alizzati? Io non sono contro la quantità. La concorrenza non è mai un male».
C’è in discussione una normativa in cui produttori televi sivi e cinematografici si stanno scontrando sulla cosiddetta finestra: quando puoi uscire sulla piattaforma, una volta che sei andato in sala? I produttori che lavorano solo con le piattaforme dicono “dopo 30 giorni”, che sarebbe un suicidio, perché chi a quel punto andrebbe in sala? Oppure la sala rimarrebbe un luogo tipo l’opera, in cui vai per vedere cose di livello. Ma questo ammazzerebbe i giovani autori e le piccole società.
Non puoi chiedere a una Laura Samani, che fa un bellissimo film come Piccolo corpo, di farti gli incassi di Gianni Amelio, la devi far crescere. Servono scelte e decisioni di tipo politico».
62SETTEMBRE 2022
L’alternativa è la famosa commissione che sceglie in partenza. «Un tempo era così, si decideva al Ministero, ma oggi non ha senso. Il problema non è la quantità, ma capire cosa portare in sala e cosa invece sui nuovi canali a disposizio ne. Anche le tv dovrebbero scegliere un po’ di più. E poi c’è una responsabilità dei produttori. Bisognerebbe dire: attenzione produttori, non badate solo al volume, solo per ché più volume fai, più fee ti tieni, ma anche alla qualità di ciò che fai. Noi produciamo Bellocchio, Amelio, Hazanavicius, Co mencini, opere prime di un certo tipo, crediamo in quel cinema che può far riflettere chi lo vede. Ma non bisogna appoggiarsi all’aiuto automatico, perché altrimenti ci si impigrisce. Scegli comunque un prodotto di qualità che ha una possibilità di diffusione, perché devi arrivare a più gente possibile. L’idea non deve essere: ora faccio un film in bianco e nero, senza dialoghi, con una bella fotogra fia, quella è qualità. No, la qualità può anche arrivare al grande pubblico. Era ciò che diceva ieri Gianni nella sua lezione a “Fare cinema”: siamo noi i responsabili di ciò che facciamo, registi e produttori. Il produttore lo sa se sta facendo un’operazione per portare a casa 100 o 200 mila euro di fee per se stesso, oppure per realizzare un film in cui crede. Quello è il discrimine. La nostra linea del prossimo triennio, 2023-2025, sarà quella di produrre meno ma con budget più alti: meglio due film da otto milioni, rispetto a tre da cinque. Ma l’idea è soprattutto: fare poco e seguirlo bene. Altrimen ti dovrei produrre quanto Cattleya, ma non reggerei per volumi e necessità finanziarie. Attenzione, però, non dimentichiamoci che senza il tax credit non potrebbero nascere film come quello di Laura Samani. Le parole di Barbera rischiano di essere strumentalizzate, soprattutto in questo periodo elettorale». Ci vorrebbe una sorta di autodisciplina di registi e produttori. Dovremmo avere più coscienza di ciò che facciamo

Al dibattito partecipa anche Amelio, che non vede molte differenze tra ciò che dice Gattoni e ciò che sostiene Barbera, al quale tocca ve dere migliaia di film che nella stragrande maggioranza non valgono la pena di essere visti. «In un certo senso, sono anche più duro di lui. Ieri ai ra gazzi ho parlato con spirito estremamente polemico, dicen do cose che riguardano sia i giovani che i registi che non sono più giovani. Chi l’ha detto che devi fare comunque un film all’anno? Semmai devi pensare a quale film è giusto fare o credi che sia giusto fare. Il lato giusto delle parole di Barbera è che questa quantità nasce da qualcosa che può es sere sbagliato: approfittare della facilità nel trovare un fi nanziamento per girare la prima stronzata che ti viene in mente. Ma è anche vero che quei soldi sono fondamentali per la produzione di qualità. Allora la questione decisiva è la responsabilità del produttore e del regista». La questione forse è anche culturale, legata alla scuola, alla formazione. Non ci sono solo gli estremi del mer cato senza regole e il Minculpop. «Vero. Io ho fatto il docente al Centro Sperimentale, posso dire di essere stato un punto di riferimento per due o tre generazioni di giovani registi che mi mandavano cose da leggere per sapere cosa ne pensavo e poi magari indirizzar li verso una produzione». Ma quanti altri si prestano? «Nessuno, credo. Le commissioni ci sono già state, non le vogliamo più, per carità. Ci vorrebbe una sorta di auto disciplina. Avere coscienza di ciò che facciamo. Io ricordo di aver rifiutato un certo film, con ostinazione, anche se il produttore mi avrebbe dato tutti i soldi che volevo. Pen savo che non fosse il caso di investire in quel racconto. Poi l’hanno realizzato, ed è stato un bagno di sangue. Mi sono svenato per quarant’anni al Centro Sperimentale e solo quattro o cinque volte ho vissuto la felicità di veder realiz zate delle cose. Laura Samani, da questo punto di vista, mi ha dato un’enorme soddisfazione». Chiusura inattesa e promettente, sul tema “serie tv”. «Io farei subito una serie tv. A me piace il racconto lungo. Ero abituato ai fotoromanzi, che, si diceva, erano letture per sartine e cameriere. Io mi sento una cameriera e una sartina di oggi. Le serie ti danno la possibilità dell’attesa. Segui una storia, e questa storia ti lascia un punto inter rogativo che conservi come motore fino alla successiva pro iezione. Questo motore è fondamentale anche al cinema: quando lo spettatore vede un film bello, che lo tocca e che gli piace, quel film alimenta l’amore che lo spettatore ha per il cinema e lo spinge ad andarci un’altra volta, per ché spera di vedere un altro bel film. La serie è l’ideale in questo senso. Se me ne offrissero una, o se fossi capace di concepirne una giusta, la farei domani».
63SETTEMBRE 2022 Ricordiamo che è un settore che genera anche ric chezza economica, oltre che culturale. «È un settore trainante. Produrre tanto, sta generando tra le altre cose che le paghe sono in aumento, perché la for za lavoro è tutta impegnata. E comunque i dati dell’UE dicono che ogni euro investito nel cinema ne produce quattro. Noi per il film di Gianni abbiamo preso 150 mila euro di finanziamento dall’Emilia Romagna, abbiamo girato tre settimane in quella regione e abbiamo speso, tra hotel, trasporti e tutto il resto, circa 600 mila euro. Senza calcolare la diarie che venivano spese nei dintorni. Certo, non ha senso dire che qualsiasi cosa venga girata sul territorio nazionale debba avere il 40% di tax credit, perché un conto è la Kavac che produce Gianni Amelio e un conto è Amazon che fa una serie tv. Magari per i film prettamente cinematografici la teniamo al 40%, alla serie tv diamo il 25%, ai prodotti della Rai il 30%, così gestiamo i soldi un po’ meglio. Non ha senso che una mul tinazionale che ha un valore superiore al Pil della Bosnia venga trattata come la produttrice di Laura Samani. Perché mettere sullo stesso piano Nadia Trevisan, Simone Gattoni, Cattleya e Amazon?».
Cari produttori tv, fatevi avanti! Leonardo Maltese (Ettore)

Camminarefabeneall’animaeall’Italia
Potete ripercorrere i sentieri utilizza ti dalla Banda di Cartore, briganti, o se preferite “spiriti liberi”, che lottavano contro l’invasione sabauda, tra Lazio e Abruzzo, lo Stato Pontificio e le terre dei Borboni: un percorso lungo sette giorni, tra gli 800 e i 1300 metri, immersi in una natura non addomesticata, affidandosi all’ospitalità di piccole strutture familiari (Cammino dei Briganti). Oppure potete conoscere le vie medievali percorse da Dante ai tempi del suo esilio, tra la Toscana e la Romagna - dal Museo Casa di Firenze alla Tomba di Ravenna –con vari tratti “in cresta” e passaggi sul selciato di antiche strade etrusche e romane: 400 km percorribili in 20 tappe, che sono anche un viaggio artistico, filosofico, spirituale tra le pagine della Divina Commedia, nata proprio in questa dimensione, fatta di castelli ed eremi, foreste (Casenti nesi) e acque limpide (Acquacheta), di paesaggi che invitano alla riflessio ne su di sé e alla poesia (Sentiero di IDante).lCammino Celeste attraversa il Friuli in montagna, da Aquileia al magnifico monastero del monte Lussari. Quello di San Vicinio, in vece, è consigliato a chi ama boschi e foreste, castelli e monasteri, con quattordici tappe a partire da Sar sina, lungo l’Appennino Tosco-E miliano. C’è anche un percorso che unisce i luoghi colpiti dal terremoto nel 2016, da Fabriano a L’Aquila, suggestivo già a partire dal nome, Cammino nelle Terre Mutate, promosso dal Movimento Tellu rico, “partigiani della terra” che vogliono unire trekking, ecologia e solidarietà.
In Italia siamo ormai vicini a quota ottanta “cammini”. Che non sono semplicemente e banalmente dei percorsi turistici. Non sono (non dovrebbero mai essere) mappe astratte offerte a chi preferisce muoversi a piedi, e nemmeno palestre naturali messe a disposizione di uomini e donne in cerca di imprese sportive. Sono molto di più. Formidabili occasioni per imparare un modo diverso di viaggiare e conoscere un territorio, fondato sulla lentezza. Percorsi che uniscono natura e cultura, il pia cere del paesaggio e i segni lasciati dall’uomo e dalla storia. Esperienze di libertà che fanno bene al corpo, alla mente e allo spirito. Si parla di 79 percorsi italiani, di cui 49 con Credenziali e Testimonium (i documenti di partenza e arrivo) offerti ai camminatori. Sono 59.538 i viandanti che hanno ufficialmente attraversato queste vie nel 2021, ma
Viaggi a piedi per spiriti liberi. Filosofia e prassi della “viandanza”
Potete fare il giro della Sardegna a piedi, senza mai allontanarvi dal mare, avvistando le sue “cento torri”. Oppure attraversare le venti foreste della Lombardia (750 km in 39 tappe), costeggiando fiumi e laghi, camminando in dodici aree protette e riserve naturali, per appro dare al Parco dello Stelvio.
L UOGHI
64SETTEMBRE 2022


se aggiungiamo anche le persone che non segnalano la propria pre senza, arriviamo a quota 80 mila. 14 mila in più rispetto al 2019, cioè ai numeri pre-Covid.
A un’immaginefianco, del Cammino di Dante, prima del dellaSotto,dell’Eremo.passoilPassoCisa,sulla Via Nell’altraFrancigena.pagina, due immagini della Via Vandelli
L’identikit del camminatore? Uno su due ha tra i 40 e i 60 anni (ma i ventenni sono in grande crescita), con le donne che hanno superato gli uomini (50,4%), e una spesa media giornaliera di 30-50 euro (ma c’è un 22% che ce la fa anche con meno). 79 percorsi per 80 mila camminatori nel 2021. 14 mila presenze in più rispetto ai numeri pre-Covid. L’identikit? 40-60 anni (coi ventenni in grande crescita), 30-50 euro di spesa giornaliera, grande amore per la natura
Lo dice il dossier Italia: Paese di Cammini presentato anche quest’anno nei giorni di Fa’ la cosa giusta da Terre di Mezzo, editore di riferimento per le sue guide indispensabili. Ma i numero del 2022 fanno presagire un altro balzo in avanti. Tanto per farsi un’idea, il cammino più famoso del mondo, quello di Santiago, nel 2021 ha attirato quasi 179 mila persone. Nel 1985 erano solo 1245. Tra il 2022 e il 2023 si punta a superare i 347 mila pellegrini del 2019. A beneficiarne, ovviamente, è an che il settore dell’accoglienza e della ristorazione. In una forma diversa, rispetto ai luoghi del turismo di massa, più attento alle ragioni del risparmio, della semplicità, della sostenibilità. Si parla soprattutto di B&B e ostelli, ma anche agriturismi e rifugi, oltre a una rete importante di accoglienza privata.


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Ce lo spiega Luigi Nacci, poeta, scrittore e guida escursionistica, che nel marzo di quest’anno ha pubblicato Non mancherò la strada (Laterza) per provare a spiegarci questa differenza ed evocare “che cosa può insegnarci il cammino”.
La maggior parte delle persone si sposta per le ferie, quindi a luglio e agosto, ma uno su tre si mette in viaggio tra settembre e ottobre, un ottimo periodo per questo genere di esperienza. La maggior parte delle persone cerca soprattutto di scoprire nuovi luoghi in modo diverso (52%), un’esperienza che faccia bene alla mente e al cuore prima ancora che al corpo (il 51% cerca il benessere psicologico ed emotivo), immersi nella natura (45,1%). Ma c’è anche un 33% che sottolinea l’interesse culturale e un 23% che ha motivazio ni religiose e spirituali. Certo, si fa presto a dire “camminare”. Intanto bisognerebbe distinguere tra il “camminatore”, che cerca sem plicemente una nuova esperienza da raccontare, e il “viandante”, che insegue un’autentica occasione di libertà e immersione nel territorio.
Il suo decalogo informale suggerisce che «la vacanza ha a che fare col vuoto, la viandanza col pieno». Da una parte c’è la passeggiata, che è come «camminare in una gabbia», strettamente legata allo «schema casa-ufficio-sport-svago-casa», al bisogno di prendersi una pausa. Dall’altra il cammino inteso come viandanza, che comporta il non avere vincoli e orari, il piacere dell’i gnoto, «il richiamo dell’ecceziona lità, l’attrazione della meraviglia».
Non il benessere, ma la gioia. Non la vaga possibilità di incontrare persone sconosciute, ma un senso di fratellanza da condividere con chi ha scelto di vivere in un “mondo aperto”: «Nei cammini ci eravamo abituati a dividere il pane, ad essere accolti, a non giudicare dall’aspetto, a non avere timore degli altri. Ci sentivamo esseri umani migliori»
Poi, certo, tra il turista che ama la vita facile e il viandante che preferi sce l’imprevedibilità, ci sono tante vie di mezzo. Ed è qui che ognuno può trovare la sua dimensione, il suo personalissimo modo di percorrere un “cammino”. Anche perché ce n’è davvero per tutti i gusti e tutte le sensibilità.
In un certo senso, la viandanza è una filosofia di vita che va al di là del cammino in sé, la perenne ricer ca di «una vita nuova, una soglia», tipica dei sognatori ad occhi aperti. Tanto che risulta difficile spiegare la necessità di partire e camminare a chi ti sta accanto: «Come far capire loro che ciò di cui hai bisogno non è una pausa? Come dire loro, senza farsi fraintendere, che hai bisogno di stracciare l’agenda, il contratto, il mutuo, ogni genere di impegno, e di andare a riprenderti la tua vita, sen za sapere su quale strada essa sia?».
Luigi Nacci (poeta, scrittore, camminatore): «La vacanza ha a che fare col vuoto, la viandanza col pieno» Il Cammino nelle Terre Mutate percorre i territori sconvolti dal terremoto. Per conoscere storie e progetti di rinascita, ma anche attraversare luoghi molto suggestivi. Sopra, Amatrice. Nell’altra pagina, un sentiero verso Ussita e il lago di Fiastra


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Al secondo posto di questa classifica, con 10000 camminatori, c’è la Via degli Dei, 130 chilometri tra Bolo gna e Firenze, che ha un nome im pegnativo – d’altra parte si raggiun gono il Monte Adone e il Monzuno (monte di Giove), il Monte Venere e il Luario (la dea Lua) – percorre l’antica Flaminia (che risale al 187 a.C.), attraversa la riserva naturale del Contrafforte Pliocenico e in par te coincide con la Linea Gotica, ma nacque grazie allo spirito goliardico dei camminatori del CAI bolognese, che volevano arrivare a Firenze per mangiarsi una fiorentina. Tra i cammini più amati, poi, ci sono quelli francescani. Ci si può accontentare (si fa per dire) di percorrere gli 80 chilometri che uniscono i quattro santuari fondati dal santo (Greccio, La Foresta, Poggio Bustone, Fonte Colombo).
La più conosciuta e frequen tata è la Via Francigena, che nel 2021 da sola ha raccolto 11500 camminatori, quasi uno su cinque. D’altra parte parliamo di uno dei percorsi più conosciuti e amati al mondo (aiutato anche da finanziamenti pubblici impor tanti), oltre 3mila chilometri che attraversano cinque Stati e più di seicento Comuni. Da sempre, come sappiamo, “tutte le strade portano a Roma”. Anche quando partono da Canterbury. Oppure da Santa Maria di Leuca. «Facili sentieri di montagna, mulattiere di pietra, vie campestri e viabilità minore, senza traffico, strade bianche tra i cipressi, oppure ombreggiati da solenni pini domestici. Sotto i tuoi piedi scorrono le più antiche strade d’Europa» Quella che un tempo era la Via di Monte Bardone, passata l’era longobarda diventò “la strada ori ginata dalla Francia”, principale asse di collegamento tra il nord e il sud dell’Europa «lungo il quale transitavano mercanti, eserciti, pellegrini»


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Si possono attraversare l’Umbria e le Marche, dall’Appennino al Parco dei Sibillini, grazie al Cammino Francescano della Marca. Oppure c’è la tradizionale Via di Francesco, 5000 km in tutto, se si considera sia il tratto nord (La Verna-Assisi) che quello sud (As sisi-Roma), per ritrovare le tappe della sua vita, le parole, gli episodi più celebri, in una terra «nutrita di una spiritualità che parla di amore per le piccole cose, di rispetto e grati tudine per il creato, di accoglienza generosa dell’altro». Ma i cammini sono tanti, vari e anche originali. Vedi il tracciato “illumini sta” della Via Vandelli, che attraversa il fu Ducato Estense, dall’Appenni no alle Alpi Apuane, dalla pianura modenese al Mar Tirreno. Una strada leggendaria che risale al 1739, ricostruita dopo lunghe ricerche d’archivio: 150 chilometri di cammino, per quella che è stata definita la «madre di tutte le strade moderne», progettata da Domenico Vandelli. «Una strada lastricata di centinaia di chilometri che attra versa due catene montuose e porta dalla pianura al mare con soluzioni ingegneristiche e logistiche uniche: tornanti, canalette di scolo, osterie, stazioni di posta, sbancamenti, muri a secco, filari di querce tuttora visibili sul cammino». Il Cammino nelle Terre Mutate, lungo 250 km, attraversa quattro re gioni e due parchi nazionali (Monti Sibillini e Gran Sasso), ma consente anche di conoscere «le storie, i protagonisti e i progetti di rinascita delle comunità locali». Qui si tratta di immergersi nella bellezza del paesaggio, ma anche nella fragilità di questi territori e delle comunità che sono state sconvolte dal sisma.
Ecco perché si parla di un viaggio «lento e responsabile», un contribu to alla «“ricucitura” dei territori nel lungo arco di tempo necessario alla ricostruzione».
Se volete visitare la Majella, e avete un debole per i rifugi eremitici e i luoghi che incoraggiano la medita zione, c’è il Sentiero dello Spirito, un trekking in montagna di quattro giorni, sulle tracce di colui che diven Luoghi suggestivi sul Cammino di Dante: in alto, l’Eremo di Gamogna, a fianco due immagini di Brisighella, la Via degli Asini e i Calanchi



Il senso dell’impresa sta in una ci tazione di David Le Breton e il suo “elogio della marcia” intitolato Il mondo a piedi (edito da Feltrinel li): «Camminare, nel contesto della realtà contemporanea, parrebbe esprimere una forma di nostalgia, oppure di resistenza. (…) L’atto del camminare favorisce l’elabora zione di una filosofia elementare dell’esistenza basata su una serie di piccole cose, induce per un momento il viandante a interrogarsi su di sé, sul suo rapporto con la natura e con gli altri».
69SETTEMBRE 2022 terà papa Celestino V. Ma c’è anche il Cammino di Santa Barbara, che si sviluppa per 500 km in Sardegna tra sentieri e mulat tiere, all’insegna dell’archeologia industriale (mineraria, siamo in zona Sulcis-Guspinese) e di quella classica. Ci sono i cammini di Oropa e del Salento, di Sant’Agostino e San Benedetto, la Kalabria Coast to Coast, l’Alta Via delle Grazie, il Cammino di San Vili...
Per finire, segnaliamo il Cam mino Materano, in corso d’opera, dedicato al Sud Italia. Sei tracce «tra storia e mito, sei modi diversi di attraversare una terra ancestrale», conoscendo pa esaggi differenti, «dai monti della Basilicata alle bianche rive dello Ionio», mettendo a sistema «strade secondarie romane, vie medievali, tratturi e sentieri» La Via Peuceta da Bari a Matera e quella Ellenica tra gli ulivi (Brindi si-Martina Franca) o tra le gravine (da Martina Franca ai Sassi di Matera), la Via Sveva sulle orme di Federico II, la Jonica lungo le coste pugliesi e la Lucana.
Tra i più recenti, segnaliamo il Cam mino di don Tonino Bello, 400 chi lometri da Molfetta a Santa Maria di Leuca, facendo visita anche alla tomba di Alessano. 32 città pugliesi e la memoria di un grande uomo, all’insegna della contemplazione, «al riparo dal superfluo», evocando i «costruttori di pace». Citando le parole di don Tonino: «La strada è lunga, ma non esiste che un solo mezzo per sapere dove può condurre: proseguire il cammino».


«Scegli di essere felice»
“IL SENTIERO DELLA GIOIA” È IL NUOVO DOC DI THOMAS TORELLI SIMONA ATZORI: «LA QUALITÀ DELLA VITA È TUTTA IN QUESTO ISTANTE»
Storie da “un altro mondo”
I DEE
Tutti intorno dicono che sei «un errore, una trage dia, una sfortuna». Sei nata senza braccia, come potrai avere una vita “normale”? Ma poi arriva lei, che ti guarda in quel modo, solo suo, e ti dice: «Io so di essere nata per essere tua madre» Un’espressione d’amore che va oltre ogni sentimentalismo, ogni luogo comune sull’essere figlie e madri, ogni banalità sul “destino” che ci segna per sempre. E allora capisci che nulla è impossibile, e decidi di essere felice: «Abbiamo tutto ciò che serve per esserlo». È da qui, da questa consapevolezza, che nasce il sorriso contagioso di Simona Atzo ri, ballerina, pittrice, scrittrice. Quello di Andrea Caschetto, invece, è nato in Sudafrica, la prima volta che ha incontrato i bambini di un orfanotrofio. Lui che, per colpa di un tumore, a 15 anni, aveva perso la capacità di ricordare (la memoria a breve termine), ha scoperto che di quel viaggio ricordava tutto. Merito delle emozioni vissute, capaci di incidere volti, nomi e affetti nella memoria a lungo termine. Da qui la decisione di fare il giro del mondo degli orfanotrofi. Di immergersi nella gioia. «Bisogna vivere la vita con un grande sorriso», ha detto un giorno all’assemblea dell’Onu, dove era stato invitato a raccontare la sua

Simona Atzori è danzatrice, pittrice e scrittrice. Ma tutto questo lo fa senza braccia e con un sorriso contagioso sul viso. Così come Nicoletta Tinti, che vediamo nella foto a fianco, impegnata in un “passo a due”
Il film è costruito intorno a tre testimonianze eccezionali: tre persone che sembravano destinate a un’esistenza segnata dalla privazione e dal dolore, e che invece hanno trovato la forza di ricominciare, di ritrovare l’entusiasmo e la gioia di vivere
71SETTEMBRE 2022 incredibile esperienza. Lo dobbia mo a noi e agli altri. E poi c’è Nicoletta Tinti, atleta olimpionica (di ginnastica ritmica) e danzatrice, che un giorno sente una fitta alla schiena, subisce una lesione spinale e scopre che non potrà più camminare. A una cosa del genere, di solito, si reagisce maledicendo il mondo e la sfortuna, rinchiudendo si nella rabbia o nella depressione. Lei ha affrontato la malattia come una sfida, ha re-imparato a fare le cose di ogni giorno - anche quelle che non avrebbe mai immaginato di fare - e ha trasformato il dolore in un’opportunità. È ritornata anche a danzare, in un modo nuovo, diverso, commovente.
Sta qui il nucleo dell’ultimo documentario di Thomas Torelli, l’autore di Un altro mondo e Choose Love, che torna a proporre la sua visione della vita, ottimista e spiri tuale, fondata sull’interconnessione (degli esseri umani tra loro, di noi tutti con la natura, di tutte le cose in generale). Una visione “altra”, inevitabilmente anticonformista, se paragonata al cinismo corrente e a quel materialismo grossolano e an che un po’ meschino che trasforma gli individui in automi condiziona ti, consumatori passivi chiusi nel proprio egoismo, impegnati sempre e solamente a inseguire nuovi desideri (ogni cosa ha un prezzo), oltre a un’impossibile, frustrante, “perfezione”.
STAI CON CIÒ CHE C’È Il sentiero della gioia non è una formula astratta o uno slogan naïf. E queste tre storie stanno lì a dimostrarlo. Sono l’incarnazio ne vivente di una verità semplice e spesso dimenticata, legata alla «funzione degli eventi negativi nella nostra vita», come spiega lo psicologo Alberto Simone: «Quei momenti complicati a volte hanno il potere di risvegliare delle risorse interne e delle qualità che non sape vamo neanche di avere» Il segreto? Lo riassume Erica Fran cesca Poli, psicoterapeuta: «Bisogna sentire ciò che c’è, senza ma, senza se, senza perché, senza commenti e giudi zi: lo lasci essere, e ti trasforma». La “gioia interiore” non ha nulla a che vedere con l’euforia, o il godimento di un piacere passeggero, può essere perfino collegata a un dolore, a una malattia, e generare una misteriosa serenità, una profonda felicità.

PIOMBO E ORO
Avolte, quasi sempre, faccia mo di tutto per eliminare il “piombo” che c’è dentro di noi: «non riusciamo a vedere l’o ro». Vediamo la rabbia, la paura, il dolore, e non abbiamo la lucidità e Bisogna avere il coraggio di «vivere il disagio» E andare oltre «l’immagine, le aspettative, i ruoli»
72SETTEMBRE 2022
Andrea , condannato a una vita senza memoria (colpa di un tumore), tornando da un’esperienza di volontariato in un orfanotrofio, ha scoperto che ricordava tutto: merito delle emozioni provate. A fianco, un’immagine sorridente di Nicoletta Tinti
Nel prologo del film, Alberto Simone ricorda una storia indiana, ambientata in tempi remoti, con gli dèi in assemblea, preoccupati perché gli uomini erano troppo felici: «Prima o poi non avranno più bisogno di noi». Che fare allora? Basta nascondere la felicità. Sì, ma dove? «Nel loro cuore, sarà l’ultimo posto in cui lo andranno a cercare». La cosa può suonare ingenua, o troppo edificante, solo a chi non abbia mai intrapreso un percorso di ricerca interiore. Non sempre ciò che è vero e giusto passa attraverso acrobazie filosofiche o sofismi cervellotici. L’idea del documentario è quella di unire la teoria alla pratica: la testimonianza di donne e uomini che portano avanti da anni una riflessione su questi temi, insieme alle parole di chi li ha vissuti sulla propria pelle. Qualcosa a metà strada fra il florilegio di pensieri e il doc biografico: da una parte c’è la cornice degli “esperti”, con le loro suggestioni teoriche, e dall’altra l’immersione nelle vite dei tre protagonisti, con un loro sviluppo narrativo, anche sorprendente, dalle foto e i video del passato, al presente vissuto in tempo reale. Si può anche non essere sensibili all’evocazione di “trasformazioni alchemiche”, “coscienze cosmiche”, “vibrazioni energetiche”, e però ap prezzare la verità di quelle esistenze, la concretezza di scelte e atteggia menti che testimoniano davvero un altro mondo, un altro modo di essere e pensare. Che ci sia bisogno di questo modo di vedere e sentire la vita, lo dimo strano, oltre al successo dei progetti passati di Thomas Torelli, le 972 persone che hanno contribuito al crowdfunding per la realizzazione del film, e il tutto esaurito che regi stra quasi ogni tappa dell’infinito tour di proiezioni portato avanti in queste settimane in giro per l’Italia.



Simona Atzori non sarebbe mai diventata quell’essere umano straor dinario che è, felice, creativa, capace di contagiare gli altri con la propria gioia ed energia, se si fosse limitata ad assomigliare a ciò che gli altri ve devano in lei. Simona, da bambina, amava la danza e la pittura, e lei è riuscita a ballare e dipingere anche senza braccia. Sono stra-ordinarie – la miracolosa bellezza dell’ordina rio, che di solito non vediamo – le immagini in cui lei si prepara un caffè, mangia, disegna, gesticola con quei piedi trasformati in strumenti duttili e portentosi.
Possiamo credere oppure no al fatto che la nostra “energia” influenzi il mondo intorno a noi. Che ogni cambiamento della coscienza provochi un cambiamento nel mondo. Ma sta di fatto che «noi non siamo solo corpo», ci ricorda Pier Mario Biava, medico e ricercatore, «siamo prima di tutto informazione». Anzi, la materia in sé non esiste, esistono particelle che vibrano. Possiamo essere più o meno sensi bili all’idea che il «pensiero genera delle vibrazioni potenti» (Richard Romagnoli), che oltre alle dimen sioni del corpo, della mente e del cuore, ci sia anche quella dello spiri to (Virginio De Maio). Le storie sono alternate alle riflessioni degli esperti: qui sotto la psicoterapeuta Erica Poli. Nell’altra pagina Alberto Simone e Salvatore Brizzi
ESSERE AMORE
73SETTEMBRE 2022 il coraggio necessari a trasformare il “negativo” (ciò che ci appare tale), impegnati come siamo a provare a rimuoverlo o distruggerlo. Dovrem mo imparare ad accettare anche quegli aspetti di noi. «Vivere il disagio, ascoltarlo, questo è il lavoro da fare su di sé». Lo dice Salvatore Brizzi, noto auto re di libri che parlano di “alchimia trasformativa”, uno dei protagoni sti di questo film, che utilizza creati vamente la formula della conferen za, la lezione in forma di masterclass (ce ne sono ovunque e di ogni tipo, ormai), molto amata dalla comunità Uam (Un altro mondo, appunto). E notissima è anche Eri ca Poli, che cita Jung - lui l’alchimia la conosceva bene, a partire dalla “congiunzione degli opposti” - per dirci che spetta a noi «scegliere come reagire» agli eventi della vita, ma che abbiamo bisogno dell’elemento plumbeo come di quello aureo. Per dirla con Alberto Simone, è la luce che definisce il buio, noi conoscia mo il freddo perché sappiamo cos’è il caldo. Impossibile vivere, crescere, trovare la propria felicità, negando una parte di sé. Questo lavoro, alla scoperta di chi siamo davvero, può durare anche tutta una vita. La parte più difficile, dice Erica Poli, è andare oltre «l’immagine, le aspettative, i ruoli», ciò che gli altri pensano che noi dovremmo fare. Un modo per avvinarsi a ciò che siamo veramen te, ad esempio, è affidarsi ai «talenti innati», ricordare ciò che ci riusci va facile da piccoli.


Ma è difficile non credere ad Andrea Caschetto, quando ci spiega che è possibile trasformare la tristezza in gioia, che «basta allenare il cervello», che da quando ha scelto di usare l’arma del sorriso, la sua vita è completamente cambiata. «L’im portante è dare amore», perché questo cambia se stessi e gli altri, crea un circolo virtuoso, rende la vita degna di essere vissuta. Bisogna darsi uno scopo e fare del bene a se stessi e agli altri. «Non abbiamo bisogno di un tumore per credere nella vita» Non dovremmo averne bisogno. «Possiamo decidere di essere felici». Verità che rischiano di diventare banali, quando le dici e le scrivi, ma che vedi chiaramente sul volto di Nicoletta Tinti, l’emozione di una vita che non solo è ricominciata, nonostante tutto, ma è diventata ancora più intensa, bella, emozio nante. Lo si vede nella sua danza senza gambe, quasi magica. Se lo dice lei che felicità e infelicità sono scelte, e non casualità generate dal destino, noi le crediamo. Abbiamo tutti la possibilità di scegliere di quali pensieri e sentimenti nutrirci, ma spesso ce ne dimentichiamo. Ci lasciamo dominare dai condiziona menti e dalle circostanze. Quando Simona Atzori ha perso la madre, il suo sostegno più grande, ha dovuto fare i conti con un’altra crisi, che è diventata una nuova spinta al cambiamento (oltre che un nuovo libro). La consapevolezza che «anche passando attraverso un dolore si può scoprire la gioia». La convinzione che «la qualità della vita è in questo istante, ora». Se si impara a vivere in questo modo, si scopre anche di avere un potere straordinario: «Se voglio qualcosa devo incarnarla, se voglio gioia e amore devo essere gioia e amore» Quando coltivi certe emozioni dentro di te, stai sicuro che prima o poi «si manifestano all’esterno». La gioia è contagiosa e fa la diffe renza. Dobbiamo solo scoprirla e incarnarla nella nostra vita.
74SETTEMBRE 2022



75SETTEMBRE 2022
Lo slogan è questo e riassume lo spirito con cui è stata creata Uam.Tv (acronimo di Un Altro Mondo). L’anima dell’impresa sta nella comunità digitale che si è formata intorno a questo progetto, 35 mila iscritti che condividono «l’intento di portare maggiore consapevolezza nel cuore di sempre più persone, stimolandole al cambiamento interiore, necessario per iniziare a vedere il mondo con nuovi occhi»
Accendi la luce del cambiamento
Curiosando tra i titoli disponibili, ci siamo imbat tuti nella storia delle prime donne falegname in Iran (Woodgirls) e nel viaggio di Edward Burger tra le montagne cinesi dello Zhongnan, per incontrare il suo maestro zen e conoscere la vita degli eremiti buddhisti (The Mountain Path). Abbiamo scoperto come arte e scienza si incontrano negli esperimenti del Cern, alla ricerca di ciò che ha dato origine all’universo (Il senso della bellezza), e apprezzato il lavoro di ricerca sul canto popolare italiano portato avanti da Caterina Bueno (Caterina). Abbiamo incontrato Samantha Cristofo retti e Slavoj Žižek, Bozzetto e Hans Kammerlander, ma anche Poesia senza fine, ultimo film narrativo del mitico Alejandro Jodorowsky (c’è anche il suo documentario Psicomagia, un’arte per guarire), e ci siamo imbattuti in documentari che parlano di questioni ambientali, ali mentazione, spiritualità, di “rivoluzione dell’altruismo” e mindfulness nelle scuole.
I contenuti più ricercati? I film di Thomas Torelli, da Un Altro Mondo a Food Revolution, da Choose Love a Pachamama, da Sangue e cemento alle masterclass. Quanto alla fiction (indipendente!), si va dal cartoon L’arte della felicità al film d’esordio di Laura Bispuri, Vergine giurata, da Al Dio ignoto di Rodolfo Bisatti a La mia classe di Daniele Gaglianone. Poi c’è tutto il mondo dei seminari e le conferenze, con nomi ultra-noti (Igor Sibaldi, Eckhart Tolle, Amit Goswami, David Icke...) e altri da scoprire, oltre a numerose interviste (da Franco Berrino a Gherardo Colombo, da Bruce Lipton a Daniel Lumera). Alcuni temi e argomenti possono suonare stravaganti a chi non frequenta questo mondo – me dicina complementare, discipline interiori, tecniche orientali – ma se lo si esplora senza pregiudizi, gli spunti affascinanti non mancano. Ciò che conta, in ogni caso, è il progetto (chiamiamolo pure sogno), l’idea di proporre uno sguardo diverso sulla vita e sul mondo. Poco importa che si tratti di una nicchia. Se cresce la consapevolezza, individuale e collettiva, ci guadagniamo tutti.
UAM.TV: UNA COMUNITÀ (ALTERNATIVA) FORMATA DA 35MILA PERSONE 1000 titoli, tra doc, corsi, fiction indipendente Contenuti motivazionali e opere d’arte
Tre anni di vita e un catalogo di oltre 1000 titoli tra film, documentari, serie tv, “corsi per la crescita personale”, ma anche seminari, masterclass ed eventi live. Una nicchia di mercato? Anche. Una moda? Può essere, per chi la vive in modo consumistico. Ma qui si nota soprattutto l’originalità di un’offerta cine-televi siva che pesca fuori dal mercato mainstream. Ci sono i contenuti motivazionali, opportunamente didascalici, ma anche opere d’arte misconosciute. Si parla di contenuti selezionati uno per uno in coeren za con l’anima dell’impresa e i suoi valori. Spulciando il catalogo, abbiamo trovato davvero di tutto, anche doc d’autore, da Vogliamo anche le rose (di Alina Marazzi) a The Dark Side of the Sun (di Carlo Hintermann), fino allo splendido viaggio tra gli eremiti di Joshua Wahlen e Alessandro Seidita, intitolato Voci dal silenzio Ci sono film su personaggi come Krishnamurti, Thich Naht Hanh, il Dalai Lama o Prabhupada (il fondatore degli Hare Krishna), ma anche una preziosa intervista (l’ultima) a Raimon Panikkar o il racconto del lavoro di Maria Fux, la celebre ballerina argentina che nei suoi corsi accoglie danzatori di ogni estrazione sociale, oltre a donne e uomini con malattie fisiche e mentali.
«Diventa protagonista del tuo cambiamento»
I DEE
Comincia così The Big Question, film anomalo e magnifico, realizza to vent’anni fa da Francesco Cabras e Alberto Molinari. E in quell’inizio c’è già tutto il senso di un progetto ambizioso nato sul set di The Pas sion, con l’intenzione di esplorare qualcosa di estremamente intimo, insieme personale e universale, il rapporto che donne e uomini hanno con Dio, la spiritualità, le religioni. Persone molto diverse per convinzioni, origini, fede o man canza di fede, estrazione culturale e sociale. Ciò che rende questo film affa scinante è proprio la pluralità dei punti di vista, le parole ispirate e buffe, filosofiche e naïf, poetiche e strambe. Poi c’è la ricerca estetica notevole, la varietà dei toni (non è un film serioso, anzi), la capacità di guardare e ascoltare le persone, la musica ammaliatrice (che sembra arrivare da un altro tempo e spazio), le immagini liriche, che trasforma no la Lucania in un luogo quasi astratto (mistico) percorso da un cane bianco che è un’immagine dell’anima, solitaria, fiera, irrequie ta, alla ricerca di qualcosa che sta sempre oltre, nel fuori campo. Ma The Big Question è anche “un caso produttivo”. Che parte pro prio da Mel Gibson, co-finanziatore del film con la sua Icon, deciso a farlo uscire con The Passion, salvo poi cambiare idea, a lavoro finito, per irrimediabili “divergenze teo logiche”. Un anno dopo, il colpo di scena: Mel Gibson regalò tutti i diritti agli autori, riconoscendo il valore artistico dell’opera. Si prospettava un successo interna
«Who is God for me? A very big question». Mel Gibson sorride quasi imbarazzato, mentre cerca le parole per rispon dere. C’è chi dice «è un’essenza inconoscibile» e chi, molto più semplicemente, parla di «una Per sona che non la vedi ma la preghi» Un uomo con lo sguardo febbrile evoca «acqua, tutto, carne», mentre un altro ammette «non lo so». Qualcuno ha la fortuna di percepire Dio come «il migliore amico». Ma la risposta vera, forse, sta prima e dopo le parole, negli sguardi persi, dubbiosi, gli occhi lucidi, l’espressione malinconica di chi intuisce l’enormità della cosa, di quella risposta che manca, di una domanda così semplice che lascia sognanti, muti, sconcertati.
Dio, Lucania e poesia La grande domanda dimenticata DOPO VENT’ANNI, GRAZIE A UAM, TORNA IL FILM DI CABRAS E MOLINARI RINNEGATO E POI SALVATO DA MEL GIBSON, MA FINITO NELL’OBLIO

C’è chi parla d’amore o di energia, chi dice «mi basta la vita, il resto è presunzione», chi vive Dio come qualcosa di «reale come l’aria che respiro». Mel Gibson rievoca la sua crisi e il «ritorno alle radici» che gli ha permesso di ritrovare «la pace interiore». Vediamo mani tormen tate, paesaggi metafisici, persone convinte o confuse. Cinema laico e spirituale. Un’opera straordinaria, fatta di volti, voci e mani, riflessioni intime e paesaggi metafisici, spiritualità senza dogmi. Da fine settembre sulla web tv e nelle sale
Mentre è più comprensibile l’ostra cismo italiano - nel nostro Paese il film non è mai stato distribuito nelle sale - trattandosi di un’opera che riusciva a scontentare sia il mondo culturale laico (per i temi affrontati), che quello cattolico (non essendo ortodosso).
Gli autori Francesco Cabras e Alberto Molinari sul set insieme al cane Greg,
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“Chi è Dio per te?”. Si comincia con questa domanda. Ma poi si parla di al di là, preghiera, miracoli, esperienze spirituali, ci si chiede perché le incarnazioni divine sono quasi sempre maschili, si affrontano i temi del pluralismo religioso, del rapporto tra sofferenza e salvezza. Non è un’inchiesta, una banale collezione di interviste, un docu mentario con morale. È più un collage poetico, un insieme di volti e voci che hanno la stessa identica dignità (e umana bellezza), che sia no attori, preti, filosofi, lavoratori, persone comuni o persone famose (ci sono anche Monica Bellucci, Jim Caviezel, Rosalinda Celentano, Toni Bertorelli...).
Ora, dopo vent’anni di oblio, l’incontro tra Uam.Tv e Ganga, fra Thomas Torelli e gli autori, offre una nuova possibilità a questo film, che tra settembre e ottobre approderà nel catalogo della web tv e vivrà un tour di proiezioni pubblico in via di organizzazione.


«Usando uno slogan, potremmo dire: un mondo in cui non si crei separazione. In cui siamo tutti connessi, e consapevoli di esserlo. L’idea di Un Altro Mondo è nata quando mi sono reso conto che le culture ancestrali, ovunque, parlano della connessione esistente tra tutte le cose. Anche la scienza contemporanea e la filosofia ci parlano di connessione. L’idea era mettere insieme culture appa rentemente diverse e farle convergere verso questa visione del mondo, in cui non c’è violenza ma fratellanza, in cui c’è speranza». Una visione che sa di utopia.
THOMAS TORELLI SI RACCONTA: LA CRISI, LA SCOPERTA DI UN NUOVO MODO DI ESSERE, L’APPELLO ALLA “CONNESSIONE”, LA CREAZIONE DI UAM
«Il mondo, là fuori, è lo specchio di ciò che siamo dentro»
I DEE
«Il mondo che creiamo, fuori di noi, è lo specchio di ciò che siamo dentro. E quello che siamo è a sua volta condizionato da ciò che riceviamo. Immagina un alieno, proveniente dalle Pleiadi, che arri va sulla Terra ed è curioso di scoprire com’è il pianeta. Se accende la tv e vede il telegiornale pensa: “Mamma mia questo è un mondo di matti” e torna subito a casa. Se lo stesso extraterrestre guardasse Uam.Tv, invece, troverebbe solo cose che parlano di speranza, connessione, condivisione, e avrebbe un’altra visione del mondo. Potrebbe dire: “Bello questo pianeta, quasi quasi ci resto. Fondo una comunità”. La differenza la fa la percezione che hai delle cose». Insomma, è utopia per chi non ci crede, ma per gli altri può diventare un progetto, una realtà che potrebbe cominciare domani. «Proprio così, potrebbe cominciare anche domani! Il grande poeta Rumi diceva: “Quando ero giovane volevo cambiare il mondo. Ora che sono saggio voglio cambiare me stesso”. Il mondo siamo noi. Da qui bisogna parti re. Il mondo è abitato da sette miliardi di persone. È il risultato della risonanza, l’energia, la visione di queste
Un Altro Mondo, all’inizio, era un film e un libro. Poi è diventato anche una web tv. E soprattutto una comunità di persone che si riconoscono in un certo stile di vita. “Un altro mondo” è soprattutto un auspicio. Come lo descriveresti? Quali sono le caratteristiche principali di questo mondo altro?

Chi sono i principali ispiratori di questo cambiamento? Se dovessi fare dei nomi - filosofi, scienziati, artisti, maestri spirituali - quali sono i punti di riferimento imprescindibili?
«In tutti i miei film coinvolgo persone che possono raccontare questo altro mondo. Così come nella Uam.Tv. I grandi nomi li conoscono tutti, ma vanno cercate anche tutte quelle persone che, nel loro piccolo, sono un esempio vivente del cambiamento possibile. Anche la storia è piena di grandi esempi. Nelson Mandela, dopo essere stato in carcere quasi trent’anni, quando è uscito, invece di vendicarsi, ha accolto nel suo governo le persone che lo avevano incarcerato: doveva dimostra che la “nazione arcobaleno” partiva da scelte coraggiose, anche dolorose, fondate sul perdono e la comprensione. Per scegliere l’amore serve più coraggio e forza che per scegliere l’odio. Per Mandela era più facile vendicarsi di chi gli aveva fatto del male, piuttosto che metterselo in casa. Ma chi è davvero più forte?». Serve una nuova visione del mondo. In tanti sono pronti al cambiamento.
Quindi le grandi battaglie sociali e ambientali non servono se manca un cambiamento dei singoli individui, della loro consapevolezza.
«Penso a quelli che partecipano alle manifestazioni sul cambiamento climatico e poi lasciano la monnezza per terra. Puoi teorizzare, usare tante belle parole, ma se nei fatti non sei quella cosa, non serve a nulla. “Sii il mondo che vuoi creare”, come diceva Gandhi. È questo il grande lavoro da fare. Devi nutrire ogni giorno questa energia, questo “campo”, questa consapevolezza.
Se vado in piazza e grido con violenza “no alla guerra” in faccia al poliziotto, sto comunque alimentando quella violenza. Se rinchiudiamo una persona che ha commesso un reato insieme ad altre persone violente, cosa pen siamo di ottenere? Mentre prepa ravo Choose Love ho incontrato un ragazzo che a 16 anni ha perso la madre, con il padre e il fratello che già “facevano il mestiere”. Cosa pretendiamo che faccia un giovane in queste condizioni? L’architetto? Ha sbagliato, deve pagare. Ma va educato, non punito, non serve la violenza, altrimenti continuerà a ripetere quell’errore. Bisogna rieducare all’amore, alla speranza, all’idea che esista sempre un’altra possibilità».
Uam.Tv è uno strumento che, nel suo piccolo, aiuta a farlo. Un Altro Mondo è il manifesto, la web tv è il braccio operativo. Non è l’unico, ovviamente, ognuno può fare il suo percorso, può praticare yoga o meditazione, può fare ciò che ritiene giusto e necessario, basta che diventi il cambiamento.
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L’umanità è meglio di come ce la raccontano
persone. Se il mondo è pieno di guerre, se è quello che è, è perché qualcuno l’ha voluto. Allora cominciamo a ri-e ducare le persone a una nuova visione del mondo. In tanti sono pronti a farlo. L’umanità è molto meglio di come ce la raccontano».

Io, lo dico scherzosamente, ho avuto la fortuna di vivere un’infanzia complicata, e questo mi ha messo in condizione di cercare un altro punto di vista sulla realtà intorno a me. Poi ho scoperto che non bastava risolvere le cose pragmaticamente, lavorando sette giorni a settimana, se non curi anche l’anima.
La gestione del tempo, l’alimentazione, la scelta di seguire una particolare disciplina interiore... Mettiamo che qualcuno dica: da domani ci voglio provare.
«Ho sempre saputo, già da ragazzo, che “dai diamanti non nasce niente, dai letami nascono i fiori”. Sono le difficoltà che ti mettono in condizione di volare.
Dal 2011 al 2014 ho lavorato a Un Altro Mondo e questo mi ha cambiato in profondità. Da quel momento ho capito che il documentario d’inchiesta non mi interessava più: non mi interessava mette re l’accento sul problema (rischiando di alimentarlo), ma sulla soluzione. Le cose che ci succedono non sono “belle” o “brutte”. Bello e brutto è la tua interpretazione personale di ciò che accede. Quando fai un film del genere difficilmente torni indietro. Ho ricevuto centinaia di mail da persone che avevano tratto beneficio dalla visione del film. È un mestiere che ti ripaga con soddisfazioni incredibili».
Quando hai capito che la tua strada era questa? Tu sei partito dal documentario d’inchiesta, hai prodotto film molto vari, basti pensare a quelli dedicati a Neruda o al subcomandante Marcos, hai affronta to tematiche ambientali e sociali. Merito di un incontro particolare, un’esperienza che hai avuto, un’intuizione?
Il segreto della felicità? Scopri chi sei, fai ciò per cui sei nato. Oggi è difficilissimo, perché la gente non si ascolta più. La meditazione aiuta
Cosa ha significato per te questa svolta, dal punto di vista pratico, nella vita quotidiana?
«Non ho la bacchetta magica e la ricetta assoluta. Posso dire quello che faccio io e che mi fa bene. Meditare, ad esempio, lo consiglio a tutti. Anche soltanto un quarto d’ora al giorno, possibilmente la mattina e la sera. Ti connette, ti fa stare con te stesso. Uno dei grandi problemi di oggi è il fatto che le persone sono perse. La vita ci viene imposta da tutto e tutti, dalla scuola, i genitori, gli amici, dal quartiere, da quello che gli altri si aspettano da noi. Gli antichi greci parlavano di eudaimo nia: il bene del nostre “demone”, la nostra “missione”.
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È questo il segreto della felicita: scopri chi sei, fai ciò per cui sei nato. Oggi è difficilissimo, perché la gente non si ascolta più. La meditazione è un mezzo per tornare ad ascoltarsi. L’importante è fermar si, respirare in maniera consapevole, allontanare i pensieri. Poi io pratico anche i “cinque tibetani” e dedico due ore la mattina all’esercizio fisico. E continuo a studiare. Studio cose che mi aiutano a man tenere questa presenza. Il problema è che di solito leggi un libro, guardi un film, in quel momento senti di poter cambiare il mondo, poi rientri nella dinamica della bolletta e dell’affitto, che ti assorbe completamente. Per questo bisogna dedicare costantemente del tempo a se stessi. Bisogna entrare in quella “frequenza”. E rendersi conto che non siamo gli unici a pensarla in un certo modo. Una volta, Thomas Torelli, negli anni, ha incontrato numerosi personaggi, intervistati nei suoi documentari o per la web tv. Eccolo insieme ad Antonio Velasco Piña, a Città del Messico
Tra il 2008 e il 2011 sono successe altre cose che mi hanno rimesso in grande difficoltà, tra cui la morte di mio padre, e quindi ho deciso di fare un percorso, una ricerca, e ho pensato anche di rac contarla. Quando decidi di fare un film sul tuo viaggio personale, poi è difficile che non lo porti a termine. Non puoi raccontare qualcosa che non hai dentro.

Quali sono i numeri di Uam.Tv? Come può sopravvivere una realtà (indipendente e alternativa) di questo genere, in un universo web monopolizzato dai grandi player inter nazionali, dotati di mezzi finanziari enormi?
«Sempre più persone si stanno avvicinando a queste tematiche, che ormai sono sdoganate. Anche il cinema in questo aiuta molto. Un Altro Mondo condensa una cinquanta libri in un’ora. Il sentiero della gioia non è affatto un film new age, parla di persone che hanno trasformato situazioni difficili in opportunità. Ma anche qui, le parole a volte creano confusione: new age significa nuova era, che è proprio ciò che stiamo vivendo. Potremmo discutere anche del concetto di “complottista”: il complottista è chi fa i complotti, non chi ne parla e cerca di avere altri punti di vista sulla realtà».
Qualsiasi cosa può essere una tragedia o un’opportunità: la scelta è nostra
«Ti dico la verità: Uam.Tv ha difficoltà a sopravvivere, ed è solo l’amore di un gruppo di persone appassionate che la rende possibile. Abbiamo tanti abbonati, 5000, ma dal punto di vista econo mico non navighiamo nell’oro. Però questo progetto ha un valore che va al di là dei suoi risultati. Abbiamo 35 mila persone iscritte. E io cerco sempre di far capire che l’abbonamento a Uam va al di là degli 80 euro all’anno che paghi per vedere una web tv, è un modo per sostenere il progetto. Con gli altri competitor perdiamo in partenza: noi ci creiamo una nicchia e abbiamo un brand diverso, se vogliamo usare questi termini, parliamo di film e doc che non trovi da nessun’altra parte. Io i miei lavori li avevo proposti anche a Rai e Mediaset. Ora, ovunque vado, faccio sold out, non perché sono Kubrick, ma perché la gente ha sete, ha voglia di vedere queste cose. Il pubblico c’è. Per questo ci siamo creati la nostra tv». Il sentiero della gioia come si inserisce in questo percorso? Qual è il suo messaggio fon damentale?
in una scuola di Bassano del Grappa, una ragazza di 14 anni è venuta da me in lacrime, dopo aver visto Un Altro Mondo e mi ha detto: “Non so come ringraziarti, perché io vedendo questo film ho capito che non sono matta. Tutte queste cose le ho sempre sentite mie, non sapevo come parlarne”»
Cosa rispondi a chi parla di “new age”, di pseudo-scienze, di stravaganze spiritualiste? Non tutto ciò che è “alternativo” è valido e serio, così come non tutto ciò che è ufficiale e convenzionale è sbagliato o dannoso. C’è un possibile luogo di incontro?
«Di non arrendersi alle difficoltà. È un film sulla resi lienza. La vita non è quello che doveva essere, ma quella che è. Viviamo in questa dimensione per imparare a su perare le difficoltà. La differenza la fa il modo in cui ci approcciamo alle difficoltà. Qualsiasi cosa può essere una tragedia o un’opportunità: la scelta è nostra. Questo non vuol dire che sia facile, tutt’altro. Così come non è facile il perdono. Ma fa parte del percorso. Se comprendi che ciò che è fuori, è parte di te, è dentro te, questo ti dà una gran de responsabilità: diventi il timoniere della tua nave. La nave la fai andare dove vuoi tu».


Professionalità, ma anche grande umanità. Il segreto è questo. Ecco i tre soci di Mondo Red: Ferdinando Bova, Marco Cotroneo e Natale Spagnolo
Da venditori (letali) a imprenditori. Tre storie per un’azienda-mondo.
Avolte si comincia anche così, riempiendo i tubi delle Pringles con monete da 1000 lire. Immaginate la scena: in un negozio che vende pc, arriva questo ragazzino di 14 anni, che appoggia sul bancone il suo pesan tissimo tubo, un tesoro accumulato per settimane, e chiede al titolare di assemblargli un super-computer, suggerendo anche marca e perfor mance dei vari componenti. Le monetine le aveva recuperate dai carrelli dei bagagli alla Malpensa, dove in teoria avrebbe dovuto frequentare il centro estivo. Lui è Natale Spagnolo, per tutti Nat, oggi imprenditore di 34 anni, uno che nel tempo libero, per distrarsi, si occupa di mercato immobiliare, e che non va a dormire se prima non ha svuotato la casella mail. Oppure c’è chi, come Marco Cotro neo (35 anni), ha scoperto la sua vocazione ai tempi delle superiori, in un call center, quando ancora si vendevano contratti a migliaia usando solo il telefono: grazie alla sua parlantina, ai tempi, riuscì a pa garsi la scuola privata. Da solo. Poi scoprì di essere in grado di attivare 80 contratti telefonici in un mese, con il porta a porta, per un’azienda in cui al massimo se ne facevano una trentina. Fu in quel periodo che formò un tandem spettacolare insieme a Natale, con cui collezio nava premi e provvigioni record.
ÈREDIL COLORE DEL WEB
S TORIE D’IMPRESA
Nascita di una SpA “fatta in casa”


83SETTEMBRE 2022
VOLARE, OH OH... Quando tre personaggi del genere si incontrano nel mondo dell’impresa (e non solo in quello), è quasi inevitabile che facciano il botto. Tipo inventarsi una società da zero e trasformarla in SpA nel giro di cinque anni, arrivando a gestire una sessantina tra dipendenti e collabo ratori. MondoRed, nel 2022, sta veleggiando verso un fatturato da 3 milioni e mezzo di euro. Sono più di 10, in totale, dal giorno della fon dazione. Tutto questo nel caotico mondo del web marketing, che in teoria è la cosa più astratta e fumosa che ci sia (quante aziende sono passate come comete, negli anni del boom), ma che a saperlo maneggia re, crea fatturato per chi lo fa e per chi lo usa. La “formula magica” di MondoRed? È riassunta nello slo gan: «Generiamo clienti per i nostri clienti». Che vuol dire software di proprietà, tecnici allenati a navigare tra i mari perigliosi del web, servizi in grado di generare lead e contatti.
E che dire di Ferdinando Bova, il “re dei commerciali”, uno che men tre preparava la maturità (si fa per dire) guadagnò 3 milioni e 800 mila lire in un mese, attivando nuove li nee telefoniche, battendo a tappeto i negozi di Milano? Vedendo quei soldi, a suo padre, giustamente, venne qualche dubbio: «Ma cosa vendi?». Lui, che oggi di anni ne ha 44, a differenza dei colleghi, non è mai stato uno stacanovista indefesso: oltre a formare squadre di venditori letali, ama stare con la famiglia e godersi la sua libertà. Ma i risultati parlano da soli.
Perché i tre, nel frattempo, sono diventati imprenditori, creando un’azienda che assomiglia a certe realtà anglosassoni, leggere, giovani e sempre in movimento. Lo si capisce anche solo entrando nella sede operativa, che non è a Milano – il mercato principale, insieme a Roma (dove c’è un’altra sede) – ma a Gallarate, in un edificio di tre piani che un tempo è stato una scuola di aeronautica, e che ora è un dedalo di uffici, sale riunioni, aree attrez zate per tecnici, impiegati, addetti commerciali, ma anche per incontri e corsi. C’è perfino uno spazio per le riprese video, dove i clienti vengono filmati e intervistati. E poi la sala giochi (PlayStation compresa), il biliardino e uno spazio relax con cucina, perché il dovere deve essere anche un piacere. C’è un continuo viavai di persone, che attraversano corridoi resi più ampi dalle grandi vetrate, computer a decine, e il colo re rosso che campeggia ovunque. Ma facciamo un passo indietro. Perché ogni storia è fatta di tante storie.
Azienda leggera, software di proprietà, nuove idee: e nel 2022 si veleggia verso i 3 milioni e mezzo di fatturato Una sede a Roma e una a Milano. Ma la base operativa è a Gallarate (VA), in un edificio che un tempo era una scuola di aeronautica

All’inizio c’era solo una segretaria. Poi sono arrivati i venditori, una squadra di tecnici sempre più folta, il reparto amministrativo. Oggi questa azienda, partita da zero, può contare su una sessantina tra dipendenti e collaboratori. Lo spirito? Giovane!
Il fattore umano è ciò che fa la diffe renza. Insieme al caso (o la provvi denza) che fa incontrare le persone e rende possibili certe imprese.
NAT Nessuno è più lombardo dei tre soci alla guida di MondoRed, eppure questa storia, in un certo senso, nasce in terra calabrese. Natale Spagnolo, ad esempio, è cresciuto tra Somma Lombardo, Cardano al Campo e Gallarate, ma il luogo di nascita è Reggio Calabria. Perché lui ha sem pre avuto fretta, fin da piccolo, e ha deciso di nascere un mese prima del previsto, al mare. Ad assistere la madre c’era lo zio, che si chiamava Natale... Nat va fiero della «fami glia iper-umile, la classica famiglia che fa il mutuo ed è felicissima quando riesce ad estinguerlo dopo quindici anni». Madre impiegata, padre operaio e il sogno di un figlio con contratto a tempo indetermi nato. Uno qualsiasi. Che lui avesse altri progetti nella vita, lo si è capito dopo “l’affaire” della Malpensa, dove passava le giornate e rincorrere i carrelli dei bagagli («L’incantesimo durò poco, perché convocarono mia madre che lavorava all’aeroporto»). Ma anche alla facilità con cui passava da un lavoro saltuario all’altro, per pagarsi l’università di Informatica, dopo il diploma da perito aziendale. «Mi sentivo un po’ un numero, e non mi piaceva», ricorda lui. Che infatti si dilettava con eBay e, ai tempi delle superiori, aveva creato anche un catalogo da distribuire nei cinque piani della scuola. «Mi piaceva la vendita applicata al digital. All’epoca non c’era ancora Amazon, ma il commercio online cominciava a fruttare bene. Ho provato anche a crearmi un e-commerce, ma allora non capivo niente di brand e non avevo soldi da investire».
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La svolta arrivò verso i 20 anni, quando scoprì che poteva gua dagnare 28 euro per ogni linea telefonica attivata, per un’azienda del settore. «Facevo anche cento, duecento linee al mese, suonando i campanelli». Che detto così, sem bra semplice, e per lui in effetti lo era: ma per uno che ce la fa (grazie all’indole e al talento), ce ne sono sempre tanti che naufragano nell’il lusione dei “soldi facili”. «Arrivai a prendere 14 mila euro di stipendio in un mese, comprandomi pure una casa». Non era neanche una questione di soldi, ma «l’ossessione del risultato. Il mettere in pratica determinate azioni che portano a dei risultati. I risultati arrivavano facendo sempre quelle due-tre cose essenziali: è stato come scoprire un tesoro».
Tutto è cominciato dai coupon. Un prestito di 15 mila euro per un fatturato di 250 mila euro, lavorando in due




Prima il dovere, ma sempre insieme al piacere. E il rendimento è assicurato. MondoRed è un’azienda “all’americana”, che in ufficio bada ai risultati, più che alle regole e agli orari
Tanto che a 25 anni aveva già bisogno di nuove sfide, insieme all’amico-collega Marco. Perché non basta essere area manager di quattro regioni del Nord Italia, in una gran de azienda, “a tempo indetermina to”, se senti di «essere “arrivato”, in qualche modo, alla fine di un percorso». “Le idee sono nell’aria, basta fiutarle”, diceva il titolare della sua azienda. E Nat fiutava. All’inizio dell’era Groupon, riuscì a far fruttare i contatti maturati nel suo lavoro, proponendo un’alternativa legata al territorio: «Offrivamo pacchetti di 300 euro. Il ristoratore comprava 50 coupon-sconto, che venivano inseriti in un portale, fino a esaurimento. Coupon che poi venivano scaricati gratuitamente. I dati venivano filtrati al ristoratore e quando i clienti andavano a man giare venivano trattati come tutti gli altri». Il segreto è migliorare ciò che già esiste. Risolvere problemi. La storia imprenditoriale comincia da qui, da RedCoupon srl, nata nel 2013 a Busto Arsizio, con un prestito bancario di 15 mila euro. «Tirammo su i primi 250 mila euro lavorando in due, vendendo pacchetti da 300 euro». Ecco poi la creazione di una rete commerciale, la prima segretaria, la nascita di Red WebFactory nel 2015, «quando cominciammo a vendere siti internet ai clienti del couponing».



«In quel periodo erano nati i primi call center. A Novara ce n’era uno tra i più grandi in Italia. Decisi di andare a lavorare lì, per pagarmi la scuola privata. Non avevo idea di che lavoro fosse. È iniziato come un gioco, ma ho capito che mi piaceva vendere. Mi sono pagato la scuola, diplomandomi, e intanto sono diventato supervisore». Oggi se nomini un call center, ti guardano male. Ma già allora, dopo qualche anno, c’erano i primi sintomi di una possibile degenerazione, «tanto che, giustamente, cominciarono a regi strare le telefonate, per il controllo della qualità e della veridicità dei contratti fatti al telefono». Ma intanto Marco aveva capito di Il buon imprenditore? «Sa delegare e si circonda di persone più competenti di lui, perché c’è sempre da imparare»
MondoRed è sempre in cerca di nuovi talenti. La selezione è (giustamente) dura. Prima del colloquio, bisogna dimostrare di conoscere il proprio mestiere. Ma dopo si entra a far parte di una grande famiglia
Fino alla svolta del 2017, con l’arri vo di Ferdinando Bova e l’avvio del “triumvirato”. «Il lavoro per me è ossessione e pas sione», racconta Natale. «Anche in vacanza è difficile che non guardi il telefono, fa parte della mia vita. Ma non è una cosa che mi pesa. Fino al 2019 lavoravo anche 20 ore al giorno. Avevo l’idea che se dormivo 8 ore, 33 anni su 100 li avrei passati a letto. Cinque-sei ore dovevano bastare». Oggi non è più necessario tenere quei ritmi. «Ma la prima cosa che faccio la mattina è salutare l’azienda su WhatsApp e pensare a tutto ciò che i vari reparti devono fare per centrare l’obiettivo del giorno». Rimane anche l’attitudine a incon trare e ascoltare chiunque. «Gli im prenditori sbagliano in questo: non ascoltano chi hanno di fronte. E così si limitano. Le mie collaborazioni di oggi, nascono tutte dagli incontri che ho fatto vendendo contratti porta a porta a Milano».
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MARCO La storia di Marco Cotroneo, invece, ha a che vedere con il motocross. Perché lui, che è nato e cresciuto a Novara (ma il cognome è calabresissimo), che ha avuto un’infanzia «da bambino viziato, figlio di due dipendenti statali», a 15 anni fu costretto ad abbandonare la sua passione più grande (la moto), per colpa di un problema di salute. Facile entrare in crisi, quando succede una cosa del genere. «Quando hai quell’età, qualsiasi cosa accada, sembra che ti cada il mondo addosso».
Parliamo di un ragazzino felice, che passava tre mesi all’anno, d’estate, in terra calabrese dai nonni, e che sognava di diventare un pilota di aerei militari. Finì per pagare la crisi anche a scuola, trascinandosela per un paio d’anni. Salvo poi guardarsi allo specchio e decidere che forse era arrivato il momento di darsi una mossa. A quel punto aveva 17 anni.


87SETTEMBRE 2022 «avere un futuro nelle vendite e nella comunicazione». Intuizione confermata dalla facilità con cui vendeva linee telefoniche, nell’a zienda in cui incontrò Natale. «Lui era devastante. Ci trovavamo molto bene anche fuori dal lavoro. Eravamo amanti della bella vita. Ma io avevano necessità di guadagnare anche perché mi era nato un bambino». Nessuna tecnica, solo istinto: «Quando prendi più fiducia in te stesso, ti auto-formi». Però non ti ac contenti mai. «Stavamo molto bene in quell’azienda, ma poi è scattata la molla... Ad un certo punto non c’era più quell’adrenalina. L’imprenditore vive di questo: i momenti migliori sono quelli critici. Volevo lavorare esclusivamente per me stesso, con tutti gli oneri e gli onori». Come si coltiva una collaborazione come quella con Nat? «Il nostro segreto, soprattutto da imprenditori, è che abbiamo imparato a conoscerci e a dirci le cose subito, anche le più scomode. Essere soci è peggio che essere sposati. Servono anche le sfuriate, quelle sane, se ti permettono di capire l’altra persona e aumentare la stima».
MondoRed è il “primo figlio”, «la prima creatura, molto sudata. In futuro vedo una MondoRed che è dieci volte quella di adesso, non tanto in termini di fatturato, ma di menti brillanti. Il sogno è renderla realmente indipendente da noi. Vorrebbe dire che siamo stati davvero bravi come imprenditori. Chi è geloso della propria azienda, non la fa crescere. La soddisfazione più grande, al di là del fatturato, è vedere le persone che lavorano con te crescere nel loro lavoro, rispetto a quando sono entrate». BOVA MondoRed ha un gioco d’attacco, a tre punte. Metafora calcistica che si presta perfettamente a Ferdinando Bova, visto che da ragazzo era un calciatore niente male. «Il sogno era quello – dice – come capita a tanti ragazzini». Nato a Milano, cre sciuto a Cornaredo, infanzia felice anche per lui. In questo caso c’è an che una chiara impronta genetica: «Mio papà era un commerciante, aveva due negozi di bomboniere. Erano gli anni d’oro per i matrimo ni e le liste nozze». Ferdinando era «uno studente ba sico». Lo si è capito alle superiori, visto che non ha mai comprato un libro di testo. «Mi sono diplomato senza libri. Ero abbastanza intelligente e me la cavavo». Amava la vita scolastica, ma solo quella non-accademica: «Mi interessava di più la “vita politica” della scuola. Appuntamento irrinunciabile il lunedì mattina, quando Ferdinando Bova incontra la sua agguerrita squadra di commerciali per motivarla alla... non-vendita
Marco è uno stacanovista, «un lavoratore da venti ore al giorno. Ma col tempo ho imparato. Anche grazie alla conoscenza con Bova, che ha sempre dedicato il giusto al lavoro. Ho imparato a ritagliarmi i miei spazi. A delegare, che è una delle cose più importanti per un im prenditore».
Le cose fondamentali, in effetti, sono due: «La prima è circondarsi di persone più competen ti di te, senza aver paura che qualcuno ti faccia le scarpe: al contrario, devi sempre imparare dagli altri, e per farlo devono essere persone che ne sanno più di te. La seconda, appunto, è la capacità di delegare, che non vuol dire scaricare il lavoro, ma insegnare a una persona come si fanno le cose, monitorarla e renderla autonoma».

Ero rappresentante di classe e poi di istituto. Amavo parlare, ma soprat tutto mi piaceva andare “contro il potere”. Il che è strano, visto che sono sempre stato una persona modera ta». Insomma era un ribelle, e non vedeva l’ora di dar contro a preside e professori, discutendo di orari, ge stione degli spazi, mensa scolastica... Poi, l’illuminazione. Che doveva per forza passare dalle pagine della Gazzetta dello Sport. «Ogni mattina, quando prendevo l’autobus per andare a scuola, nello zaino c’era solo la Gazzetta. E spesso andavo alla pagina degli annunci di lavoro. Ricordo che cercavano venditori. Gli annunci dicevano: macchina aziendale, 1 milione e mezzo di fisso, provvigioni... Perché passare la mat tina in classe, quando avrei potuto guadagnare un milione e mezzo al mese?».
La gavetta, in realtà, è passata attra verso la classica estate di lavoro, in terza superiore, facendo «l’operaio specializzato... in niente. Ero l’ultima ruota del carro. Pulivo le vasche di inchiostro in una multinazionale della chimica». Salvo poi trascor rere il mese successivo in ufficio, a fare fotocopie, con tanto di lezione paterna sulla differenza tra essere impiegato e operaio. Ma lui aveva altri progetti. Come dimostrò l’anno della maturità, con la scoperta della vocazione commer ciale, grazie alla vendita di contratti telefonici come se piovesse. Bova non è uno che si fa impressio nare dalla cattiva fama di cui godo no i venditori. Quando cominciò a portare a casa i primi stipendi so stanziosi, la nonna (calabrese), che pure aveva gestito una bottega nel suo paesino al sud, gli chiese come mai non si era ancora “sistemato”.
Lui ancora si diverte, quando accoglie gli aspiranti “venditori di web”, prodotto immateriale come pochi, consigliando loro di fuggire a gambe levate, «se sani di mente», se non vogliono essere trattati come dei fastidiosi rompiscatole. Ma poi, in realtà, non se ne va nessuno, e chi ha talento scopre la gallina dalle uova d’oro. Con la massima semplicità. «Non mi è mai piaciuto studiare, neanche i corsi di vendita, anche se qualcuno ho dovuto seguirlo. Io sono “anti-vendita”. La vendita è molto basica. O meglio: non esiste. Se la Il segreto della vendita? «Non vendergliela. Se la rendi una vendita, è una violenza. Vivila come una chiacchierata»
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La MondoRed è diventata una SpA a partire dal mese di settembre. Lo slogan? «Generiamo clienti per i nostri clienti» (Tutte le foto di questo servizio sono state realizzate da Daniele Ventola)
Il secondo aspetto è che, a differenza di altri, non ci concentriamo sul prodotto, il servizio che stiamo dando, ma sui benefici del servizio. Le azien de fanno pubblicità per avere più fatturato. Noi quello non possiamo garantirlo, dipende anche dalle capa cità dell’imprenditore, però possiamo concentrarci sulle opportunità di fatturato che derivano dalla nostra strategia. Fondamentalmente si misurano i contatti. È una pubblicità un po’ più evoluta: grazie a questo investimento, si entra in contatto con tot persone interessate».
rendi una vendita, è una violenza che stai facendo a una persona. La devi vivere come una chiacchierata, una semplicissima trattativa, come quelle che fai ogni giorno (anche solo per comprare il pane). Io sono un professionista e tratto alla pari con la persona che ho davanti. Pochi formalismi, poche intenzioni di “vendergliela”. Non amo le trattative lunghe. Amo il contratto, è quello il momento di soddisfazione». Il vero segreto è rendere il prodotto comprensibile all’interlocutore, nel giro di un’oretta. E anche adesso, che fa l’imprenditore, qualche volta si di verte a intavolare una trattativa con un cliente, in solitaria. Per il resto, forma i venditori e segue i capi-area. In MondoRed non mancano certo le soddisfazioni, «perché c’è uno sviluppo del progetto e del prodotto» Ma la sua fama di gran lavoratore e di venditore aggressivo e vincente, non se la porta a casa. Anzi. «Do il giusto peso al lavoro. Mi serve per vivere il resto della vita. Sono un marito e un papà presente e affet tuoso, che vuole passare tanto tempo con la sua famiglia. 8 ore al giorno fatte bene sono più che sufficienti. Così ne rimangono tantissime altre da vivere». Tipo alzarsi alle 7 e dedicare le prime ore della giornata alla figlia, preparandole la colazione e portandola a scuola. «Poi, in mac china, faccio le telefonate per dare la carica ai capi area e responsabili dei vari uffici».
L’aumento dei clienti e del fattura to, oltre alla prospettiva di aprire nuove sedi in Italia, stanno lì a di mostrare che l’idea ha funzionato. E ora ecco la trasformazione di Mon doRed in SpA. Senza bisogno di grandi investitori, di mega-direttori commerciali, di strutture masto dontiche. Un’azienda che si è fatta da sé. Sommando le storie personali (simili ma diverse) di tre venditori che si sono scoperti imprenditori. Dai tubi di Pringles alla società per azioni, il passo è breve.
MATRIMONI FELICI I“matrimoni di lavoro” funzionano quando i patti sono chiari, l’affinità è immediata e ognuno ha il suo ruolo. Così è successo ai tre soci. Quasi naturalmente, fin da subito, Ferdinando si è occupato della parte commerciale, Marco di quella amministrativa e Natale del settore tecnico. E così procede il lavoro anche oggi, ovviamente scambiandosi idee e opinioni. Se poi chiedi a loro che cos’è MondoRed, la risposta è questa: «È una società di web-marketing. Che ha due “plus”, due aspetti che ci con traddistinguono. Il primo è di tipo tecnologico: abbiamo sviluppato dei software proprietari che permettono di lavorare il mondo web in generale, attraverso i principali player (Google, Facebook, Instagram, Linkedin...), grazie alla nostra squadra di tecnici.

90SETTEMBRE 2022
E tuttavia non si affannerà nell’acquisizione della conoscenza. Avrà la saggezza. Il suo valore non sarà misurato in base alle cose materiali. Non avrà nulla. Eppure avrà tutto, compreso ciò che gli verrà tolto, tanto sarà ricca.
La vera personalità dell’uomo sarà davvero una cosa meravigliosa a vedersi, quando potrà esistere. Crescerà in modo semplice e naturale, come crescono i fiori e gli alberi. Non sarà mai in conflitto. Non conoscerà discussioni o dibattiti. Non dimostrerà niente. Saprà tutto.
Quanto quella di un (Oscarbambino.Wilde)
Non si impiccerà delle vite degli altri, né pretenderà che siano come la sua. Amerà il prossimo proprio perché è diverso. Ma pur senza impicciarsi, aiuterà tutti, perché qualunque cosa bella, essendo ciò che è, aiuta anche noi. Sì, la personalità dell’uomo sarà davvero meravigliosa.
Oscar Wilde l’anarchico. Che se la prende va con la società, «i Governi e i Filantropi», con chi pensa di riformare invece di «ricostruire da capo», con chi vuole «costringere la gente ad essere buona», una coercizione morale (moralistica) alla carità che finisce per distruggere «la bontà naturale dell’uomo» La virtù dell’irriverenza, raccolta di scritti di Oscar Wilde, curata da David Goodway, edita da elèuthera, ha il pregio di ricordarci l’insolito socialismo libertario e individualista dello scrittore di Dubli no, che si schierava contro ogni tipo di oppressione (anche socialista), scriveva che «tutte le forme di governo sono sbagliate» e sognava una società costruita su basi «che rendano impossibile la povertà». Facile immaginare che una posizione del genere fosse sgradita a tanti, se non a tutti. Lo Stato dovrebbe limitarsi a «produrre ciò che è utile», per il resto lasci fare agli individui, che «produrranno ciò che è bello». Il libro si apre con Un saggio cinese, memorabile esplorazione della filosofia di Zhuangzi (il taoista Chuang Tzu), utilizzata per demolire le certezze della modernità, e comprende anche L’anima umana del socialismo, che manda all’aria tutti i nostri luoghi comuni sull’indivi dualismo. Da leggere e rileggere anche La ballata del carcere di Reading e le Lettere in cui denunciava le assurdità del sistema carcerario a cui era stato condannato.


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