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Gianni Amelio, il signore del cinema

Il signore del cinema

Gianni Amelio torna in sala con un’opera dedicata a Braibanti Non un film sul passato, ma sul presente. Una storia d’amore

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di Fabrizio Tassi

(foto di Claudio Iannone)

«Nel nostro Paese c’è un male nascosto che è lo stesso di allora»

Aldo Braibanti, chi era costui? Poeta, intellettuale, uomo di cinema e di teatro, scrittore e partigiano, educatore sui generis, pensatore libertario, ma anche appassionato mirmecologo (studioso di formiche). Un uomo ammirato da Pasolini e osannato da Carmelo Bene. Che però ricordiamo quasi solo dentro una formula diventata tristemente famosa negli anni Settanta: il “caso Braibanti”. Perché capita, a volte, a certi uomini notevoli e insoliti, in anticipo sui tempi – rispetto a coloro che sono sempre in ritardo (i benpensanti, il potere, il comune senso del pudore) – di diventare un simbolo, la pietra dello scandalo che rivela il vero volto del Paese in cui vive. Braibanti nel 1964 fu accusato di aver plagiato uno studente appena maggiorenne. Il problema, naturalmente, non era la presunta sottomissione della sua volontà, ma l’omosessualità, che in pieno Sessantotto portò a una condanna di nove anni per l’intellettuale (ridotti a sei in appello, ne scontò due) e una serie di elettroshock devastanti inflitti al ragazzo, perché “guarisse” dal suo problema.

Il signore delle formiche, il nuovo film di Gianni Amelio, racconta questa incredibile vicenda, che si prende la libertà di immaginare sentimenti e relazioni, ma ci restituisce Braibanti così com’era, senza infingimenti o agiografie, usando le sue stesse parole (poetiche). Chi lo ha conosciuto, dopo aver guardato il film, ha detto di averlo visto rivivere letteralmente sullo schermo. Ma sullo schermo, trattandosi di un film di Amelio (uno dei più grandi registi italiani di oggi e di sempre), c’è anche molto di più. Lo si intuisce già dalla scelta di introdurre un personaggio immaginario ma fondamentale, un giornalista che ci consente di dialogare direttamente con Aldo Braibanti, di confrontarci con lui. Perché questo non è un film sul passato, ma sul presente. Ci mostra l’anima ipocrita di un Paese che, nel profondo, nonostante le apparenze (dalle unioni civili in giù), rimane tristemente fedele a se stesso. Che usa parole alla moda (“fluido”), si mostra permissivo e liberale, ma nel profondo conserva intatti i suoi pregiudizi violenti e il suo moralismo bigotto. Il signore delle formiche, però, è anche e soprattutto una storia d’amore, raccontata con una libertà che il regista di Così ridevano e Lamerica, di Colpire al cuore e La tenerezza, maestro dell’allusione, la sfumatura, l’enigma interiore, forse non ha mai mostrato prima.

Ne parliamo con Amelio in una giornata di inizio agosto, a Bobbio. In questo periodo dell’anno, nel borgo emiliano, va in scena il Film Festival creato da Marco Bellocchio. Per dieci giorni qui si concentra il meglio del cinema italiano, e tra gli eventi previsti c’è anche la proiezione di Piccolo corpo, che ha fruttato un David a Laura Samani. Un esordio così, in effetti, non lo ricordavamo da tempo. A parlarne, insieme lei, è stato invitato anche Amelio, che ha avuto un ruolo decisivo in questa

Incontriamo Gianni Amelio a Bobbio, durante il festival di Marco Bellocchio. Con lui anche l’attore Leonardo Maltese e il produttore Simone Gattoni con cui parliamo di sale, piattaforme e tax credit

scoperta. «Laura Samani mi ha dato una delle soddisfazioni più grandi degli ultimi anni, così come Francesco Munzi e pochi altri. Il suo talento già si vedeva sui banchi di scuola. Bastava guardare i suoi cortometraggi». Laura ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia dove Gianni ha insegnato per anni, mettendosi a disposizione di chi cercava consigli e aiuti. In effetti, questa (la scuola, la cultura, la guida disinteressata di chi sa) potrebbe essere una risposta al discusso problema della quantità e qualità del cinema italiano. Ma a questo ci arriveremo a fine intervista, perché la chiacchierata si è allargata ed è diventata anche una riflessione a quattro ricca di spunti sul futuro del cinema in sala, il tax credit, la produzione nostrana.

Il film è in Concorso a Venezia: verrà proiettato il 6 settembre L’uscita nelle sale italiane è prevista per l’8 settembre

Amelio mi accoglie insieme a un ragazzo con un bel volto espressivo, timido ma per nulla intimidito. Lo presenta così: «Lui è Leonardo, nessuno lo conosceva, ma un passo alla volta si è preso il film». Leonardo Maltese, 20 anni, al suo esordio, nei panni del ragazzo “plagiato”, si è ritrovato a recitare insieme a due fuoriclasse come Luigi Lo Cascio ed Elio Germano. E a quanto pare la sua performance non è passata inosservata. Infatti sta già girando un nuovo film con Bellocchio. A guidarci a un tavolino all’aperto, in un albergo del centro, c’è anche un giovane gentile, in maglietta e bermuda, con lo sguardo febbrile di chi pensa cento cose contemporaneamente, che è lì con te, garbato, ma intanto sta progettando chissà cosa, e infatti non si ferma un attimo, passa, si siede, poi si alza subito per rispondere al telefono. Il “giovane aiutante” in realtà è il produttore del film, Simone Gattoni, associato a Bellocchio nella Kavac. «Una persona davvero unica. Che vuole fare cinema e ha la passione necessaria per farlo bene. Sono orgoglioso che abbiano scelto me come primo regista “esterno”, dopo Il traditore». A proposito di Bellocchio: «Con lui ho un rapporto di ammirazione non sospetta, perché rivelata nei suoi tempi difficili, che sono durati un decennio o addirittura due. Il cosiddetto periodo fagioliano. In quel momento è uscito Il ladro di Bambini (‘92) e qualcuno mi ha dedicato un libro intero, un’intervista in cui, come provocazione, c’era il nome di Bellocchio tra quelli da cancellare dal cinema italiano (“ecco come un regista può decadere fino ad annullarsi nella stupidità”, veniva addirittura usato questo termine). Io mi ribellai a questa cosa. E lui apprezzò, anche se era una persona molto chiusa. Un giorno ci hanno messo insieme per fare due settimane di promozione del cinema italiano negli Stati Uniti, abbiamo viaggiato da New York e Los Angeles, e lì abbiamo avuto modo di conoscerci meglio. Poi non ci siamo visti per decenni fino a quando mi ha chiamato perché voleva fare un documentario su Braibanti, che lui ha conosciuto, così come Piergiorgio quando dirigeva i Quaderni Piacentini. Ma io ho detto no. Avevo già provato a fare ricerche, girando Felice chi è diverso, e avevo scoperto che c’erano poche cose su di lui, poco repertorio, e la sua figura era trattata sempre con una curiosità un po’ ironica, anche dispregiativa, in quanto nirmecologo (pochissimi conoscevano la parola, dicevano “il formichiere”). Però ho colto l’interesse di Marco e ho detto: io farei un film di finzione. Lui mi ha detto subito sì». Poi Bellocchio è scomparso dietro la serie su Moro (Esterno notte, molto bella) e il film l’ha condotto Simone Gattoni. «Che è giovanissimo, ha 38 anni, e ha l’umiltà che ogni produttore del mondo dovrebbe avere.

Ci sono produttori che entrano a gamba tesa su ciò che tu proponi, e altri, pochissimi, che invece entrano nel tuo desiderio di raccontare quella storia, se la caricano sulle spalle e la portano in quei luoghi dove i registi in genere non vanno, quelli più pericolosi, impervi, meno graditi. Si è preso sulle spalle il peso economico del film, lui che è vestito in questo modo e inciampa con la testa (ha appena preso una testata contro un cartello stradale, è tornato con un cerotto sulla fronte, ndr): già guardandolo, sai che fa cinema per amore del cinema, non per comprarsi la barca. Un amore che è davvero simile al nostro. Lui ha una volontà creativa, non un’intrusione creativa. Non mi ha mai detto “fai questo” o “perché non fai quello”, se me l’ha detto ci è arrivato con una serie di sguardi e giri di parole. Voleva che fossi felice del risultato. La domanda che mi faceva era: “Sei contento? Hai quello che volevi?”».

Braibanti l’ho incontrato centinaia di volte nel vicolo de “I soliti ignoti”. Lo riconobbi perché avevo visto il suo volto sulle rivistacce di cronaca nera dell’epoca

Braibanti come l’hai conosciuto? «Ci siamo conosciuti indipendentemente dalle formiche, dalla radio, dai suoi scritti. Ci siamo incontrati per strada. Ieri (5 agosto, ndr) a Roma ho trovato il vicolo dove l’ho visto per la prima volta. È lo stesso de I soliti ignoti, quando finiscono per mangiare una pasta coi ceci, dopo aver sbagliato muro. Miravano alla cassaforte, che si trovava in una cucina, dove poi Capannelle si gode una pastasciutta meravigliosa. Il portone del film è in quel vicolo, che ha una scalinata e una fontana (Tre Cannelle). Con Braibanti ci siamo incontrati non una, non due, ma decine di volte. Io andavo spesso al cinema Rialto, che stava in cima a quel vicolo. Un cinema di cui, anni prima, avevo curato la programmazione. Si chiamavano “I lunedì del Rialto”. Scrivevo anche delle schede di quattro paginette che venivano distribuite al pubblico».

Mi piacerebbe vedere la programmazione.

«Bellissima. Il film più debole era Il settimo sigillo, tanto per dirti. C’erano anche delle scoperte, una punta di cinefilia. Il lunedì il Rialto era stracolmo di persone che volevano vedere un certo cinema. Negli altri giorni c’era la programmazione normale, ma eravamo riusciti ad agganciare anche il pubblico che a quei tempi veniva definito “d’essai”. Lo facevo per l’Aiace. Ho lavorato per loro sia al Rialto che al Nuovo Olimpia».

In che anni siamo?

«Primi anni Settanta. Braibanti usciva dal processo. Io lo riconoscevo perché avevo visto le sue foto. Ma non sui giornali che io leggevo, Paese Sera o L’Unità. Le foto spiccavano sulle rivistacce di cronaca nera dell’epoca, che rappresentavano la destra più becera, non politica ma mentale. Tutto questo lo mostro nel film. Ci sono squallori che è difficile passino inosservati. Non puoi immaginare l’effetto e la pena che facevano allora. Le copertine con Braibanti e la scritta: “Il comunismo a posteriori”. Nel film c’è un giornalista de L’Unità, interpretato da Elio Germano, che cerca di raccontare ciò che sta accadendo nell’aula, nel Palazzo di Giustizia, e si trova davanti al muro della “chiesa comunista”, che come sai non perdona».

Non hai mai fatto amicizia con lui?

«L’ho incontrato centinaia di volte ma non ci siamo mai parlati. L’ho sentito per la prima volta per chiedergli un incontro a casa sua a Fiorenzuola, quando stavo lavorando a Felice chi è diverso. Lui ha detto che era disponibile, ma che non stava molto bene. È morto credo una o due settimane dopo che avevo finito di girare (era il 2014, aveva 92 anni, ndr). Non se la sentiva di esporsi davanti alla telecamera in un certo modo. In compenso ho parlato tantissimo con Ferruccio Braibanti, il nipote. Quando ho deciso di girare Il signore delle formiche, mi ha aiutato a entrare nel suo mondo, mi ha dato testi e foto di famiglia. E soprattutto mi ha raccontato cose che avevo intuito già a Roma: il famoso carattere di Braibanti, che non era per niente facile. Era una persona estremamente rabbiosa, anche con un punta di arroganza, che aveva l’impulso di insultarti se una cosa non gli andava bene. Tutt’altro che un carattere docile».

Pasolini però ne parlava come di un “uomo mite”. «Non lo era. Te lo posso dire per testimonianza di tante persone. Pasolini in realtà voleva dire: un uomo che non farebbe male non dico a una mosca, ma a una formica.

Elio Germano (Ennio)

Un carattere che non cerca lo scontro. Però il suo mondo, che era l’insegnamento, il teatro, la musica, la letteratura, il cenacolo che ha creato in Emilia, con ragazzi ventenni, l’ha gestito con il pugno di ferro. Con un senso di possesso di qualcosa che era il suo sapere. Anzi, con un senso di protezione di questo sapere. Era possessivo anche nei confronti dei ragazzi verso cui si indirizzava, per i quali non aveva una stima così grande. Era tutt’altro che mite nei loro confronti. Io metto in scena queste cose. Qualcuno che l’ha visto e l’ha conosciuto, ha detto: sembra di rivederlo com’era davvero in quei momenti. Irascibile. Feroce. Questo era il Braibanti pre-processo. Poi il processo l’ha segnato. Di fronte ai giudici ha assunto lo stesso atteggiamento che assumeva con i ragazzi. E questo è pericoloso: uno dovrebbe capire che un po’ di umiltà non guasta, anche quando ci si trova di fronte a persone che hanno torto. Non puoi combattere ad armi pari con le persone violente. Non ti puoi mettere sullo stesso piano. Il porgere l’altra guancia di Cristo, per me significa: “usa un altro metodo nei confronti di chi ti ha dato lo schiaffo”. Non vuol dire essere passivi e chinare la testa. Vuol dire: “Comportati in un altro modo”».

Qual è la funzione del giornalista nel film?

«Quella di dargli una spinta a ribellarsi, a rispondere per le rime alle cose che gli vengono buttate addosso».

È un personaggio inventato?

«Totalmente inventato. Però è l’altro cardine della storia. Non inventerei mai un personaggio solo per comodità narrativa. Lui spinge Braibanti a lottare contro tutto il male che gli viene sbattuto in faccia. Ma andando avanti nel racconto, scopriamo perché lo fa. Scopriamo la sua vita personale, privata».

Mi sembra di capire che il giornalista è lo strumento attraverso cui interagisci con Braibanti.

«Esatto! Sono io che parlo a Braibanti dicendo: perché fai così? Metto in scena me stesso con le fattezze di Elio Germano. Che infatti non ha un interesse meramente giornalistico».

Perché ti è venuta voglia di raccontare questa vicenda adesso? L’impressione è che, con questa storia del passato, tu abbia deciso di dirci qualcosa sul presente.

«Non l’ho certo fatto per glorificare Braibanti, o per accanirmi su di lui, dopo quarant’anni. Ma perché la sua vicenda è esemplare di cose che accadono oggi sotto altra forma. Una forma secondo me più subdola e per questo più pericolosa. In apparenza un “caso Braibanti” non potrebbe più accadere. Ti immagini oggi un omosessuale accusato di plagio?».

Non accade nella forma, ma nella sostanza.

«Accade, sì. Nonostante una facciata permissiva come non mai abbiamo visto nella storia. Ci sono addirittura le unioni civili, all’estero i matrimoni tra persone dello stesso sesso: che cosa vuoi di più? Ci sono i figli in provetta, gli uteri in affitto, è scomparso qualsiasi tipo di pregiudizio nei confronti di un genere. In teoria. Però se guardi bene, tutto si svolge alla luce dei social, con personaggi glamour, che potrebbero fare qualunque altra cosa, e sarebbero comunque personaggi glamour ai quali è indirizzato lo sguardo dei teenager. C’è un aggettivo, oggi, che è di moda e che dovrebbe risolvere tutto, ma che io detesto: fluido. Orrendo. Nella fluidità sembra che non ci sia più né l’ostracismo, né il disprezzo, né la violenza, che in realtà esistono, quando sposti lo sguardo dal mondo finto, da cartolina, di un certo tipo di personaggi, al maestro di scuola della mia terra, la Calabria. Io vorrei che questo film riuscisse a spronare il maestro di scuola di Sellia Marina, perché trovi la forza di ribellarsi a ciò che ha intorno. Se i genitori vengono a sapere che c’è un insegnante omosessuale, rizzano le antenne, vanno dal preside e dicono: non lo vogliamo, ritiriamo dalla scuola i nostri bambini. Parliamo di un ambito sociale diverso da quello privilegiato in cui viviamo noi. Io ritengo che ci sia un male nascosto, che è lo stesso di allora, e che si esprime in modi apparentemente opposti. C’è la liberalizzazione dei costumi da una parte e un’omofobia spietata dall’altra».

C’è un aggettivo che è di moda, oggi, che dovrebbe risolvere tutto, ma che io detesto: fluido. Tutto si svolge alla luce dei social

Una cultura che in profondità non cambia.

«Non solo non cambia, ma proprio perché c’è l’alibi del comportamento alla luce del sole, diventa ancora più terribile quando non tocca certe persone, ma altre che non possono difendersi».

Braibanti era un intellettuale, ma rifiutava qualsiasi etichetta, qualsiasi “chiesa”.

«Lui voleva essere Aldo Braibanti, con i suoi pregi e i suoi

Luigi Lo Cascio (Aldo)

difetti, con il suo valore che lui giustamente considerava alto. Carmelo Bene lo venerava. C’è una sequenza a cui io tengo molto: quando faceva teatro, era spietatamente avanti a tutti gli altri, nel ribellarsi a un certo tipo di tradizione e nel proporre, anche oscuramente, il nuovo. Lui lottava con se stesso proprio per trovare una forma che non fosse convenzionale, e questo c’entrava con la sua persona. Era tutt’uno con la sua rabbia, il teatro come la vita».

Il suo cinema lo hai utilizzato?

«No. Ma ho usato le sue poesie, non potevo farne a meno. Almeno un quarto dei dialoghi del film, sono fatti delle poesie di Braibanti. Non a caso l’apertura e la chiusura sono in versi. L’effetto è straniante, ma molto bello. Ci sono frasi che Aldo ed Ettore non possono dirsi, perché sono destinate all’amore “normale”, tra virgolette, cose che un uomo direbbe a una donna e viceversa. La poesia, invece, mette come tra parentesi il timore di trascendere, di dire troppo, di essere sinceri e rovinare un qualcosa».

Il signore delle formiche che film è? Assomiglia a qualcosa di tuo?

«Se dobbiamo trovare un aggancio emotivo – che è quello che conta per me – è con Così ridevano. Nel senso che in quel film c’è un rapporto tra un fratello maggiore e un fratello minore segnato non dalla fratellanza, ma dall’amore. Il sottotesto di Così ridevano è quello di un amore non tra fratelli ma tra uomini. L’ambientazione – lo dico adesso, coraggiosamente – è quasi una tela di fondo nella quale si inserisce questo rapporto, che è la cosa che mi sta veramente a cuore. Non a caso si tratta di due emigrati dalla Sicilia, dove manifestare un amore omosessuale era assolutamente proibito, non ammissibile. Non l’ho mascherato, ma raccontato attraverso quel rapporto così eccessivo, quasi al limite del credibile. Un fratello non piange disperato perché l’altro da qualche tempo non dà notizie di sé. È un film che amo molto. Il fratello maggiore analfabeta parla come se scrivesse una lettera all’altro, e parla da innamorato abbandonato. A un certo punto il personaggio di Lo Verso veste i panni dell’altro, prende i libri dell’altro, si siede nel suo banco a scuola».

Qual è la differenza, rispetto a quel film (che metterei tranquillamente tra i dieci più belli dell’intera storia del cinema italiano)?

«Ne Il signore delle formiche è tutto esplicito. Racconto una persona realmente esistita. Una persona conosciuta anche da me. Quindi c’è anche qualcosa di oggettivo, che io rispetto. Se avessi dovuto inventarmi il suo carattere, lo avrei fatto come quello di Lo Verso in Così ridevano: un ragazzo di 25 anni, innamorato, che però resta buono, carico di tutta la dolcezza e l’amarezza di questo amore non esprimibile. Ma qui parlo di Aldo Braibanti e voglio raccontarlo così come l’ho conosciuto io e come mi hanno portato a conoscerlo altre persone, che erano intime con lui».

È stata una lavorazione facile? Un film praticamente già scritto, realizzato senza difficoltà, oppure tormentato? So che tu il set lo soffri molto.

«Vuoi una risposta d’occasione, edulcorata, o vuoi la sincerità?»

Sai che voglio la verità.

«Mi sono accorto, l’altro giorno, quando mi è venuta in mano di nuovo la sceneggiatura, che non abbiamo cambiato molto rispetto al testo. Non me lo potevo permettere, perché abbiamo girato in una maniera completamente “anti-regia”. Il regista ha dovuto fare uno sforzo per recuperare addirittura la cronologia delle cose. Nel cinema, come tu sai, la cronologia non è solo il giorno dopo giorno, ma è il cambiamento che hanno i caratteri dei personaggi all’interno della vicenda. Io mi tormento sempre sui finali, perché dico che nel finale si esprime la ragione per cui tu hai fatto il film. Ho sempre detto che Ladri di biciclette non è un film sul furto di una bicicletta, ma su un padre disperato e un bambino che si asciuga le lacrime e gli prende la mano. È il ritrovarsi di due persone divise dalle circostanze, dai ruoli, che non ti portano a quel tipo di carezza. La carezza però avviene, con la forza dell’amore che il più piccolo ha per il padre, offeso, insultato, chiamato ladro. Un po’ come succedeva ne Le chiavi di casa, dove è il bambino pieno di problemi fisici che dice al padre: “non si fa così, non devi abbatterti, non devi rinunciare alla vita”.

Per tornare alla lavorazione: siamo stati costretti a girare il finale del film alla terza settimana. Un finale duro. Generalmente, il finale andrebbe trovato camminando insieme ai personaggi».

Il finale “anticipato” ha segnato il resto della lavorazione?

«In realtà ha segnato lui (indicando Leonardo, ndr), in quanto interprete del personaggio di Ettore. Essendo arrivati a quel finale, per tutto il resto del film dovevamo prepararlo, quell’epilogo. Sapevamo che la meta era quella, quindi lui ha dovuto fare uno sforzo perché, in tutto il resto delle cose che avvenivano, ci fosse come approdo ciò che accade nel finale. È stato più un peso per gli attori che per me».

La cifra di questo film? La grande libertà. Tutto ciò che in altri film era implicito, allusivo, nascosto, qui esplode

Quindi Il signore delle formiche è un film molto diverso da Hammamet, in cui c’erano dentro il noir, il western, tante cose diverse.

«Oh, sì, assolutamente. Qui c’è dentro la vergogna. Non la mia, che racconto questa storia, ma la vergogna di vivere dentro una società che produce queste cose. È un film che tutti abbiamo sentito sulla pelle con un grande disagio, che riguardava per esempio i giudici della corte, il pub-

Gianni Amelio sul set di Hammamet con Piefrancesco Favino (Craxi) blico ministero, le parole che sono venute fuori nell’aula e che sono tratte dai verbali della vera seduta. Ci sono delle battute al limite della sostenibilità, ma sono battute vere. Ho voluto attenermi alla cronaca di allora. Io mi sono preso tutta la libertà di raccontare il rapporto tra Aldo ed Ettore, e anche il rapporto di Ettore con suo fratello e sua madre: il lato privato del film è tutto inventato. Ma quando siamo entrati nell’aula del tribunale, hanno parlato le carte e i verbali. Non c’è una solo parola dei giudici e del pm che non sia verificabile, leggendo gli atti del processo».

Mi vedo già i titoli dei giornali: il film politico di Gianni Amelio.

«Non lo so, non credo. Credo invece che sia diverso da tutti gli altri. La cifra che caratterizza questo film, semmai, è la grande libertà. Tutto ciò che in altri film poteva essere implicito, allusivo, nascosto, qui esplode».

Arrivi da Hammamet, in cui la storia di un politico diventava la storia di un uomo, un padre, in cui toglievi la cronaca per far vedere la tragedia. Qui invece c’è una storia privata da cui esce un ritratto

della nostra società. «C’è la società, ma di contro, al centro, c’è comunque una storia d’amore, raccontata con grande libertà».

Domande e risposte, come sempre con Amelio, sgorgano in un flusso che potrebbe durare anche ore: parliamo di un regista che è anche un ottimo conoscitore di cinema (la cosa non è così scontata) oltre che di un uomo di grande cultura e sensibilità. Il foglio con le domande preparate per giorni, è finito accantonato in un angolo del tavolo. Dice lui: «Il rapporto tra le domande scritte e ciò che sta venendo fuori dal dialogo, è un po’ quello che c’è tra la sceneggiatura e la regia». A Leonardo Maltese, che ha ascoltato tutto il tempo con estrema attenzione, chiediamo se Amelio è un regista che spiega molto, che entra nei dettagli dell’idea alla base della messinscena. «Non ne abbiamo parlato così a fondo. Queste cose le sto scoprendo dopo aver girato il film. Sapevo solo dell’importanza dell’ultima poesia: era fondamentale che quei versi venissero detti come erano

scritti. Ho lavorato più sulla singola scena, sulla relazione con questa persona, più grande di me, non in quanto Braibanti, ma dentro il mondo creato dalla sceneggiatura, dai dialoghi». Nel frattempo è tornato anche Simone Gattoni, e quindi è arrivato il momento di ragionare sull’atmosfera apocalittica che percorre molti discorsi sul futuro del cinema, soprattutto quello in sala. Premesso che, come ricorda Amelio, oltre agli apocalittici e agli integrati, ci sono anche «i disintegrati e i cassintegrati». La parola passa quindi al produttore.

Come ne usciamo da questa crisi? Quale deve

essere il rapporto con le piattaforme streaming?

Risponde Gattoni: «Intanto diciamo che la pandemia non ha aiutato ed è arrivata nel momento peggiore possibile. Se tu pensi all’ultimo semestre del 2019 e ai primi mesi del 2020, il cinema italiano attraversava una grandissima stagione, per qualità e anche per diffusione popolare. Una presenza importante ai festival più grandi, unita a incassi spaventosi: Marco d’Amore esordisce con la sua opera prima (L’immortale, ndr) con 4 milioni e mezzo, Garrone esce con Pinocchio e ne fa 12, Amelio con Hammamet sfonda i 6. Lasciamo pure perdere Checcho Zalone che è una garanzia. Noi eravamo usciti con Il traditore a maggio e avevamo fatto 4 milioni e mezzo. Più tutta una serie di opere prime che arrivavano serenamente a 800 mila o 1 milione. C’era anche il buon Muccino, che uscì sotto pandemia e aveva già fatto 5 milioni, poi venne tolto dalle sale. Quindi è stato devastante perché c’era un pubblico che andava molto in sala. E ti ho elencato progetti diversissimi tra loro, dagli autori al cinema più popolare».

In molti si sono lamentati delle regole di prevenzione anti-Covid nei cinema.

«Qui la pandemia è stata gestita in modo troppo terroristico. Andava bene, in una certa fase, obbligare la mascherina, ma c’è stato un momento in cui, oltre ad avere la mascherina, per andare al cinema servivano anche il Greenpass, l’autocertificazione, il distanziamento... Questo ha favorito molto le piattaforme, che consentivano alla gente di guardare film stando in casa. Nella primavera

Così ridevano, il (bellissimo) film che Amelio accosta a Il signore delle formiche

di quest’anno, poi, abbiamo tenuto misure che c’erano solo in Italia e che hanno fermato l’accesso in sala. L’autunno sarà abbastanza indicativo. L’unico dato a cui possiamo aggrapparci con speranza è che si registra il sold out in tutte le arene estive. Quindi la gente vuole andare al cinema. Ma c’è anche un problema di esercizio. Noi andiamo in sale che spesso sono vecchie, brutte, fredde, sporche. A Parigi, dove sono stato un mese fa, vedi dei cinema diversi, che sono dei poli culturali, hanno il bar, la libreria, i dvd di film introvabili, sono bei luoghi che fanno una programmazione attenta. La sala è un luogo che va ripensato: dobbiamo dedicarci di più all’accoglienza delle persone, perché questo fa la differenza».

E poi va gestita la convivenza con le piattaforme.

«Bisogna pensare a una politica cinematografica che non escluda l’uno o l’altro. Quello che più mi preoccupa è che ci sono produttori che danno già da tempo il cinema per morto e si vogliono buttare nelle braccia delle piattaforme. Piattaforme che impongono condizioni molto dure dal punto di vista editoriale. Loro ti dicono: questa cosa quanto cosa? 10 milioni? Ti do tutto io, non devi andare a Rai Cinema, al Ministero, alla Regione. Però impongono le loro regole. Per carità vanno accolti, perché generano lavoro e a volte realizzano anche prodotti buoni, ma è una convivenza che va gestita.

C’è in discussione una normativa in cui produttori televisivi e cinematografici si stanno scontrando sulla cosiddetta finestra: quando puoi uscire sulla piattaforma, una volta che sei andato in sala? I produttori che lavorano solo con le piattaforme dicono “dopo 30 giorni”, che sarebbe un suicidio, perché chi a quel punto andrebbe in sala? Oppure la sala rimarrebbe un luogo tipo l’opera, in cui vai per vedere cose di livello. Ma questo ammazzerebbe i giovani autori e le piccole società. Non puoi chiedere a una Laura Samani, che fa un bellissimo film come Piccolo corpo, di farti gli incassi di Gianni Amelio, la devi far crescere. Servono scelte e decisioni di tipo politico».

Hanno suscitato molte polemiche le parole di Alberto Barbera, che ha parlato di quantità che non genera la qualità. Di tantissime produzioni italiane (troppe) facilitate dal tax credit, dalla possibilità di intascare finanziamenti pubblici.

«Io ho parlato con Alberto dopo la conferenza stampa di Venezia. Sono abbastanza d’accordo con quello che dice. Però gli è mancato un pezzettino. Perché grazie al tax credit c’è anche chi riesce a fare cinema di qualità. I film di Amelio o di Bellocchio li produciamo anche perché siamo aiutati. Non è il numero che penalizza la qualità, ma a volte è la possibilità di avere degli sbocchi. Si produce tanto, ma a Venezia ci sono cinque film in concorso, più tutto il resto. Mi chiedo: se si fosse prodotto meno, quanti di quei film di qualità sarebbero stati realizzati? Io non sono contro la quantità. La concorrenza non è mai un male».

Ci vorrebbe una sorta di autodisciplina di registi e produttori. Dovremmo avere più coscienza di ciò che facciamo

L’alternativa è la famosa commissione che sceglie in partenza.

«Un tempo era così, si decideva al Ministero, ma oggi non ha senso. Il problema non è la quantità, ma capire cosa portare in sala e cosa invece sui nuovi canali a disposizio-

Elio Germano

ne. Anche le tv dovrebbero scegliere un po’ di più. E poi c’è una responsabilità dei produttori. Bisognerebbe dire: attenzione produttori, non badate solo al volume, solo perché più volume fai, più fee ti tieni, ma anche alla qualità di ciò che fai. Noi produciamo Bellocchio, Amelio, Hazanavicius, Comencini, opere prime di un certo tipo, crediamo in quel cinema che può far riflettere chi lo vede. Ma non bisogna appoggiarsi all’aiuto automatico, perché altrimenti ci si impigrisce. Scegli comunque un prodotto di qualità che ha una possibilità di diffusione, perché devi arrivare a più gente possibile. L’idea non deve essere: ora faccio un film in bianco e nero, senza dialoghi, con una bella fotografia, quella è qualità. No, la qualità può anche arrivare al grande pubblico. Era ciò che diceva ieri Gianni nella sua lezione a “Fare cinema”: siamo noi i responsabili di ciò che facciamo, registi e produttori. Il produttore lo sa se sta facendo un’operazione per portare a casa 100 o 200 mila euro di fee per se stesso, oppure per realizzare un film in cui crede. Quello è il discrimine. La nostra linea del prossimo triennio, 2023-2025, sarà quella di produrre meno ma con budget più alti: meglio due film da otto milioni, rispetto a tre da cinque. Ma l’idea è soprattutto: fare poco e seguirlo bene. Altrimenti dovrei produrre quanto Cattleya, ma non reggerei per volumi e necessità finanziarie. Attenzione, però, non dimentichiamoci che senza il tax credit non potrebbero nascere film come quello di Laura Samani. Le parole di Barbera rischiano di essere strumentalizzate, soprattutto in questo periodo elettorale».

Ricordiamo che è un settore che genera anche ricchezza economica, oltre che culturale.

«È un settore trainante. Produrre tanto, sta generando tra le altre cose che le paghe sono in aumento, perché la forza lavoro è tutta impegnata. E comunque i dati dell’UE dicono che ogni euro investito nel cinema ne produce quattro. Noi per il film di Gianni abbiamo preso 150 mila euro di finanziamento dall’Emilia Romagna, abbiamo girato tre settimane in quella regione e abbiamo speso, tra hotel, trasporti e tutto il resto, circa 600 mila euro. Senza calcolare la diarie che venivano spese nei dintorni. Certo, non ha senso dire che qualsiasi cosa venga girata sul territorio nazionale debba avere il 40% di tax credit, perché un conto è la Kavac che produce Gianni Amelio e un conto è Amazon che fa una serie tv. Magari per i film prettamente cinematografici la teniamo al 40%, alla serie tv diamo il 25%, ai prodotti della Rai il 30%, così gestiamo i soldi un po’ meglio. Non ha senso che una multinazionale che ha un valore superiore al Pil della Bosnia venga trattata come la produttrice di Laura Samani. Perché mettere sullo stesso piano Nadia Trevisan, Simone Gattoni, Cattleya e Amazon?».

Al dibattito partecipa anche Amelio, che non vede molte differenze tra ciò che dice Gattoni e ciò che sostiene Barbera, al quale tocca vedere migliaia di film che nella stragrande maggioranza non valgono la pena di essere visti. «In un certo senso, sono anche più duro di lui. Ieri ai ragazzi ho parlato con spirito estremamente polemico, dicendo cose che riguardano sia i giovani che i registi che non sono più giovani. Chi l’ha detto che devi fare comunque un film all’anno? Semmai devi pensare a quale film è giusto fare o credi che sia giusto fare. Il lato giusto delle parole di Barbera è che questa quantità nasce da qualcosa che può essere sbagliato: approfittare della facilità nel trovare un finanziamento per girare la prima stronzata che ti viene in mente. Ma è anche vero che quei soldi sono fondamentali per la produzione di qualità. Allora la questione decisiva è la responsabilità del produttore e del regista». La questione forse è anche culturale, legata alla scuola, alla formazione. Non ci sono solo gli estremi del mercato senza regole e il Minculpop. «Vero. Io ho fatto il docente al Centro Sperimentale, posso dire di essere stato un punto di riferimento per due o tre generazioni di giovani registi che mi mandavano cose da leggere per sapere cosa ne pensavo e poi magari indirizzarli verso una produzione». Ma quanti altri si prestano? «Nessuno, credo. Le commissioni ci sono già state, non le vogliamo più, per carità. Ci vorrebbe una sorta di autodisciplina. Avere coscienza di ciò che facciamo. Io ricordo di aver rifiutato un certo film, con ostinazione, anche se il produttore mi avrebbe dato tutti i soldi che volevo. Pensavo che non fosse il caso di investire in quel racconto. Poi l’hanno realizzato, ed è stato un bagno di sangue. Mi sono svenato per quarant’anni al Centro Sperimentale e solo quattro o cinque volte ho vissuto la felicità di veder realizzate delle cose. Laura Samani, da questo punto di vista, mi ha dato un’enorme soddisfazione». Chiusura inattesa e promettente, sul tema “serie tv”. «Io farei subito una serie tv. A me piace il racconto lungo. Ero abituato ai fotoromanzi, che, si diceva, erano letture per sartine e cameriere. Io mi sento una cameriera e una sartina di oggi. Le serie ti danno la possibilità dell’attesa. Segui una storia, e questa storia ti lascia un punto interrogativo che conservi come motore fino alla successiva proiezione. Questo motore è fondamentale anche al cinema: quando lo spettatore vede un film bello, che lo tocca e che gli piace, quel film alimenta l’amore che lo spettatore ha per il cinema e lo spinge ad andarci un’altra volta, perché spera di vedere un altro bel film. La serie è l’ideale in questo senso. Se me ne offrissero una, o se fossi capace di concepirne una giusta, la farei domani». Cari produttori tv, fatevi avanti!

Leonardo Maltese (Ettore)

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