Redness Marzo Aprile 2024

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MARZO-APRILE 2024

Dove si parla di letteratura dei sensi e musica dedicata alla Dea Madre, di cinema militante (Taranto contro l'Ilva) e scrittori ribelli (Mastronardi), di arte che solleva da terra e che sprofonda nell'inconscio, di meditazione che guarisce N 16 |

Ballen + Witkin

Giada Colagrande

Gabriele Fancello

Cristina Eléni Kontoglou

Lucio Mastronardi

Michele Riondino

REDness

è passione, arte, impresa, comunicazione.  È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.  Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare.

La redness è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina. È l'entusiasmo, la motivazione, il senso,  il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.  REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità... Va bene tutto, purché sia fatto con redness.

In copertina: Cristina Eléni Kontoglou (servizio a pag. 6)

Direttore: Fabrizio Tassi

Progetto grafico: Marta Carraro

Redazione: MondoRed

Redness è un mensile edito da MondoRed, Corso Buenos Aires 20, Milano

Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore

2 MESE 2022

4 EDITORIALE

4 Una questione di Qualità

6 INCONTRI

6 Cristina Eléni Kontoglou: l'arte torbida di una scrittrice maga

22 Michele Riondino: l'attore attivista diventa regista per Taranto

34 Giada Colagrande è Agadez: musica rituale per la Dea Madre

42 EVENTI

42 Ballen + Witkin: dire l'indicibile attraverso l'assurdo e l'osceno

48 LUOGHI

48 I mosaici di Ravenna: tessere d'oro e mistici cieli blu

56 IDEE

56 Gabriele Fancello e la MT: la pace trascendentale guarisce il mondo

72 TERRE DI CONFINE

72 La rivolta di Lucio Mastronardi che la "nuova" Italia non capiva

78 STORIE D'IMPRESA

78 In.Casa: l'interior design su misura

82 COMMIATO

82 Robert M. Pirsig: "Sulla Qualità"

3 MARZO 2024
OMMARIO
S

Una questione di Qualità

C'è la via diritta, comoda, sempre molto larga, che ti porta inesorabilmente verso una meta scelta da qualcun altro, dentro i parametri rassicuranti del quieto vivere. E poi c'è quella stretta e tortuosa, generalmente in salita, percorsa dagli inquieti e i disturbatori, i cercatori di nuove strade (o strade antichissime, da ritrovare), i sognatori ostinati, gli artisti dell'incompiuto e l'incompreso, il non detto, l'invisibile. Quelli che piacciono a noi. Portatori sani - ma anche folli, irragionevoli, sconsiderati – di “redness”.

“La Qualità”, come direbbe Robert M. Pirsig (a cui dedichiamo l'omaggio finale) che, mentre ci raccontava lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, provava anche a spiegarci cos'è questa cosa che tutti conosciamo ma non riusciamo a definire, che precede le categorie, le forme, i dualismi, ma dà un significato a tutto ciò che facciamo. Una cosa che finirà per assimilare a concetti antichissimi come il tao, il dharma o l'areté. Un senso, una direzione, un'idea che precede le idee, fatta di bellezza, bontà, giustizia, verità, ma senza il carico di mo-

ralismo e conformismo che spesso accompagna queste parole. Verrebbe quasi da evocare l'Essere, come faceva Maharishi Mahesh Yogi, visto che c'è anche lui tra i protagonisti di questo numero: realtà ultima, trascendentale, sorgente di ogni pensiero, ma anche molteplicità e diversità delle cose, assoluto e relativo insieme, da ritrovare e reintegrare nella vita, perché «è possibile per l'uomo vivere nel campo dell'azione e, simultaneamente, vivere anche una vita di eterna libertà nella coscienza di beatitudine dell'Essere». A proposito di cose fuori moda, in questi tempi cinici, caotici, violenti: «Il fine della vita è l'espansione della felicità», per tutti, nessuno escluso. D'altra parte siamo il frutto di milioni di anni di evoluzione (energia, coscienza, che si fa materia) da cui è emersa la consapevolezza di sé. Parlando di artisti fuori dai canoni, questo mese partiamo da una scrittrice fotografa maga che pratica il frammento e la narrazione autobiografica, con l'anima divisa tra la Grecia e l'Italia, l'antico (l'ancestrale, il mitologico) e il moderno (l'amata arte contemporanea).

4 MARZO 2024
E DITORIALE

Cristina Eléni Kontoglou porta un cognome importante (per la storia dell'arte greca più recente), ma è sfuggente come la sua scrittura, usa i sensi come una rabdomante, ama Marguerite Duras, legge i tarocchi (la sua terra d'origine è la Makedonìa, dove la stregoneria era di casa) e si aggira per il mondo come facevano gli iniziati ai misteri eleusini, per “scoprire cosa c'è oltre”. La stessa attitudine praticata da sempre anche da Giada Colagrande, a prescindere dallo strumento utilizzato, il cinema, la musica, la videoarte. Ora, nel suo cammino creativo e anche un po' misterico, in cui è centrale il senso del sacro, l'attitudine all'esoterico e allo spirituale, si è trasformata in Agadez, una voce nel deserto che canta la Dea Madre in tutte le sue forme, attraversando tempi e spazi. Un'altra esperienza indipendente, fuori dai canoni, controcorrente.

Andare contro la corrente significa anche rifiutare le spiegazioni facili, la superficialità di certe istituzioni, l'arroganza del potere, in ogni sua forma. Michele Riondino di mestiere fa l'attore, ma da sempre è anche un attivista, che si è fatto portavoce dei cittadini di Taranto, prigionieri dell'Ilva. Il suo esordio alla regia non poteva che essere ambientato nell'acciaieria, con una storia di mobbing che ha fatto giurisprudenza. A volte bisogna anche urlare, per farsi sentire. Tante volte Riondino si è ritrovato davanti a qualcuno – politico, sindacalista, uomo/donna di partito – che ha provato

a “metterlo al suo posto” dicendogli di fare il suo mestiere. E lui l'ha fatto: si intitola Palazzina Laf, gli spettatori-cittadini l'hanno apprezzato, i mestieranti della politica un po' meno. Questo mese, tra l'altro, omaggiamo anche il “maestro di Vigevano”, quel Lucio Mastronardi che in tanti ritenevano un rompiscatole e un mezzo matto, solo perché diceva le cose come stavano, e non amava quella modernità alienante che ammalava l'anima della sua terra. A lui dedichiamo un omaggio firmato dalla penna sulfurea di Luigi Balocchi. Infine, per non perdere l'abitudine di accostare gli opposti e farli deflagrare, ecco da una parte l'oro (divino) dei mosaici di Ravenna e dall'altra la fotografia provocatoria, scandalosa, “oscena” di Roger Ballen e Joel-Peter Witkin, accostati per la prima volta in una mostra da non perdere, per gli amanti del perturbante: da una parte l'invisibile del cielo, dall'altro quello dell'inconscio. Salvo poi approdare in quel “luogo” che li comprende entrambi, dove ci porta la meditazione trascendentale. Ce ne parla Gabriele Fancello, presidente della Fondazione Maharishi italiana, che arriva da una riunione di 10 mila praticanti in India, dove hanno meditato per la pace. Sì, serve anche questo. Una concreta utopia, che da decenni approda in scuole, aziende, carceri, portando un'esperienza di pace profonda che può cambiare la vita. La felicità è una prerogativa dell'Essere, una questione di Qualità. (f.t.)

5 MARZO 2024

Cristina Eléni Kontoglou

La Grecia e l'Italia, la letteratura e i tarocchi, i sensi e l'invisibile L'arte torbida del frammento di una scrittrice fotografa maga

di Fabrizio Tassi

I NCONTRI
«Se qualcuno vorrà sbranare lo farà sulle carni che ho lanciato»

Cristina Eléni. Cristina ed Eléni. L'Italia e la Grecia. L'anima (e il corpo) più che la geografia. L'antico, l'ancestrale, che perdura segretamente, anche quando si sottrae, per non finire calpestato, incompreso, vilipeso. Che attraversa la modernità come una vena che pulsa sotto la pelle del “nuovo”, lo scintillante, sradicato mondo del consumo globale.

Da una parte c'è Firenze, quella meno turistica, che vive per strada, in periferia. Dall'altra l'antica Make-

Amo il non detto. C'è qualcosa di misterioso nel reale. Che riguarda anche le sensazioni. Quella sensazione che si ha "nel" momento, che si ha impregnandosi delle impressioni, ma non si riesce a spiegare

donìa, l'isola di Zacinto, e i tanti posti attraversati in roulotte, in un nomadismo che le ha insegnato il gusto della libertà. Da una parte il mito e la magia, un'umanità radicata nella sua memoria, il visibile quotidiano e l'invisibile a cui allude. Dall'altra il digitale e il concettuale, l'emancipazione, la libertà di diventare sé stessi, mescolando tradizioni e rivoluzioni, terre e cieli. Cristina Eléni Kontoglou, con quel cognome così importante per la cultura greca, che rimanda a Photis Kontoglou (lei è sua nipote), l'artista che ha riportato a nuova vita la gloriosa tradizione dell'icona bizantina. Pittore, scrittore, ma anche avventuriero, prima di diventare un punto di riferimento per la cultura greca del XX secolo, uomo di grande spiritualità, le cui opere si trovano in varie chiese, oltre che nel municipio di Atene, curatore di musei, illustratore, cultore della sobrietà e della profondità.

Non sorprende trovare, nello stesso albero genealogico, una fotografa e scrittrice che non ama la ribalta, non pratica una letteratura facile, di consumo, ma neanche snobisticamente intellettuale, e ha un senso tutto suo del sacro e del misterico, sensuale, impastato di terra e mare, che semina indizi tra le immagini e le parole, dentro cui sprofondare nel non detto e non spiegato, nell'intimo, l'occulto, il non finito.

Scrittrice, Cristina Eléni, lo è diventata ufficialmente solo da qualche mese, anche se scrive da sempre, compulsivamente. Prima è uscito Volturno Arcano, finalista al Premio Internazionale Mario Luzi 2023, un libro di poesie, anche loro ermetiche (ricche di simboli e riferimenti magici) e sensuali (i sensi comandano), che hanno trovato casa, fatalmente, in Eretica Edizioni. Poi Agrimonia, libro singolare, autobiografico, fatto di frammenti, immagini, ricordi, racconti brevi, descrizioni folgoranti, che ci ha incantato. Lo ha proposto Fallone Editore, una piccola casa editrice di rara serietà e gusto, di quelle attente soprattutto alla qualità di ciò che pubblicano.

Tutto è essenziale, in Agrimonia, dipinto in pochi tratti, ma anche riccamente sensoriale, avviluppato nei colori, i suoni, gli odori. Tutto è concreto, reale, ma anche poetico, misterioso, con un doppio fondo che non chiede di essere decifrato, che va accolto, sentito. Piccole storie, incontri, gesti apparentemente banali, cose da bambini, cose da grandi, amori, passioni morbose e/o luminose, segrete delusioni, illuminazioni.

8 MARZO 2024

A guidare il ricordo è la sensazione (più o meno alchemica). L'olfatto, ad esempio, che «può trasmutare i ricordi oppure affastellarli in fascine di rami secchi, che restano nella memoria e sprigionano il loro fumo come le spaccature tra i sampietrini, a volte in modo sgradevole e puoi solo ricacciare indietro il ricordo, sperare che non ti insegui più. Altre, vanno giù come uno sciroppo dolce di mora, e ammorbidiscono le corde vocali delle stagioni».

Ci perdiamo dentro i suoi ricordi, le impressioni e le piccole storie, le pagine “vuote” di trama ma piene di vita sospesa. Incontriamo case, alberi, piazze, spiagge, paesaggi sonori, vecchie polaroid, dall'Italia alla Gre-

cia, senza un ordine di tempo o spazio. Conosciamo Nicla, Elga, Euridice, Thalita, la misteriosa bisnonna Magdalini, la sposa Thassia che non rideva e non amava ballare. E poi Ludwig e Klaus, gli amori lasciati e quelli sfuggiti.

Cristina Eléni si chiede «che significa darsi?», mentre porge al lettore brandelli di parole: «Se qualcuno vorrà sbranare lo farà sulle carni che ho lanciato». L'arte dell'ascondere, una sua ossessione. «Se qualcuno mi chiederà come stai, io risponderò cosa sto facendo, dove sto andando, racconterò qualche aneddoto che distrae, chiederò di lui, di dirmi qualcosa di più, e lui si perderà».

9 MARZO 2024
Cristina Eléni Kontoglou

Cristina Eléni sente il bisogno «di essere anche fraintesa, equivocata», anche se poi in questo nascondersi finisce per rivelarsi. È una questione di metodo (esistenziale, prima ancora che artistico e creativo). «Questa ricerca dell'uomo, questo rincorrersi, rincorrere i suoi frammenti ovunque, per tentare di metterli insieme e non disperdersi, è una falsificazione». Il senso non va cercato dentro una trama compiuta, una verità rivelata, un ordine imposto dalla paura di perdersi nel caos. La questione è il come non il cosa. «Si dovrebbe arrivare all'implosione del senso che genera nuovi sensi, alla dignità del singolo frammento e del ricordo»

Ed eccoci, allora, a scambiarci frammenti, domande e risposte, tracce, idee. A parlare dell'amata Firenze, soprattutto quella “occulta”, i luoghi meno conosciuti, i materiali da annusare, a decine, al “Museo dell'olfatto”. Ma anche della grande villa che si è ritrovata a gestire ad Ancona, eredità della famiglia («Mi aggiro tra le macerie da due anni»), mentre la Grecia continua a chiamarla («è il mio sangue che mi chiama»). Parliamo di cinema – lei non ha la tv, ma

pratica il grande schermo spesso e volentieri - perché nulla ci descrive meglio dei film che amiamo: Ozon, innanzitutto, che esplora il tema del doppio e dell'ambiguità, ma anche Rohmer, il Viaggio in Italia di Rossellini e Il posto delle fragole di Bergman, il primo De Palma, Jonathan Glazer (Under the Skin) e ovviamente i greci Lanthimos e Tsangari. E che dire dei libri? L'amata Marguerite Duras, innanzitutto, ma anche Ibsen e Schnitzler, Eliot e Stendhal, Sagan e Kawabata. Anche se poi i suoi scritti non assomigliano a ciò che legge, ma a ciò che guarda. «Se ci penso, i miei libri assomigliano all'arte contemporanea. Agrimonia è un libro di foto senza foto. Do al lettore delle immagini e lo aiuto a ricostruirle con le sensazioni. Sì, è un esperimento di arte contemporanea». Quasi un'istallazione. Non per niente ama Kounellis, Baldassarri, Jenny Holzer, la body art, il site-specific. Così come ama i tarocchi, la tradizione magica, il sacro in tutte le sue forme. Perché alla fine ciò che conta, ciò che insegue, sta nell'invisibile, tutto quello che non ha ancora conosciuto. La scrittura, così come la fotografia, non serve a dire o spiegare, ma ad alludere, indicare.

10 MARZO 2024

Cristina ed Eléni. Leggendo il tuo doppio nome ho immaginato due anime, una greca e una italiana, che forse non vanno sempre d'accordo.

Hai immaginato bene. Eléni, il mio secondo nome, si riferisce a Elena di Sparta, che poi è diventata Elena di Troia, la Regina Maga che conosce i segreti della natura, come viene descritta quando torna nel palazzo di Menelao. Una figura controversa e fraintesa, archetipizzata oltre la sua individualità intima, che appare in Euripide, in Eschilo. Semidivina, ibrida, duplice. Avversata e amata, Elena aveva il mondo ai suoi piedi, ma sapeva di essere sola, odiata anche dalla sorella Clitennestra. Tutti hanno parlato di lei, eppure lei è tutto e il contrario di tutto ciò che hanno detto altri a suo nome.

È greco anche Cristina. Deriva da Christos, quindi è un nome molto importante, liturgico. Ma Eléni è più ellenico, ha una dimensione mitologica. Il mio secondo

nome non lo avevo reso noto, fino a quindici anni fa, quando ho cominciato a fare foto: per firmarmi, usavo molto più spesso Eléni. Era anche una questione pratica: nel retro delle foto occupava meno spazio. Ed era una questione di personaggio, di personalità. Quando fotografavo mi sentivo più Eléni che Cristina. Ho sempre avuto questa dimensione ambivalente, per la mia doppia origine culturale. Un'ambivalenza importante. Anche un'idiosincrasia.

Una cosa di cui soffri o un valore aggiunto?

Tutto ciò di cui soffro, in realtà, è qualcosa in cui mi ci vesto comoda. Una dimensione dove mi piace restare. Che poi cerco di rivoltare, di “strumentalizzare” per utilizzarla come un'arma, per tutelarmi. È qualcosa di cui ormai mi sono fatta una ragione. Le persone che mi hanno conosciuto come Eléni, nel periodo in cui fotografavo, non sapevano neppure che mi chiamassi Cristina.

11 MARZO 2024
Kontoglou
Cristina
Eléni

Alla fine ho deciso di sposare entrambe le identità. Ognuno sceglie come preferisce chiamarmi tra i due nomi, a seconda se si senta o meno attratto da una certa suggestione, e la sua scelta rivela più di lui che di me. Il mio doppio nome è diventato uno specchio dell'Altro.

È un'ambivalenza che arriva dalla tua famiglia?

Nella mia famiglia siamo tutti molto ambivalenti. La Grecia e l'Italia sono due culture ancestrali. Ma mentre l'Italia, in un certo senso, ha dimenticato questa sua dimensione, la Grecia ne risuona maggiormente. È un Paese diventato indipendente di recente. È ancora molto legato alla sua identità.

La Grecia è una terra complicata perché è fresca, giovanissima, ma antica, immortale. Una sorta di vampira. Una terra senza tempo, nata ora. Lo si vede anche nei film dei registi greci, così torbidi. Il torbido nasce dalla difficoltà nel far entrare il nuovo e preservare l'antico

È più anima che nazione.

Esatto. Ha più il valore delle radici da preservare. Anche il senso di comunità. Ci sono più feste celebrate insieme durante l'anno, scandite da rituali. Come la Pasqua che si prepara in diverse giornate e dedica un giorno ad ogni aspetto. O la theofania, il lancio della croce in mare durante l'Epifania, quando i giovani del luogo si tuffano per recuperarla nelle acque gelide.

C'è un'unione maggiore. Ma anche una maggiore malinconia legata a questo passato tanto importante. La Grecia è stata vessata e violata per secoli. Si può dire che lo è tuttora. In Grecia, come in Italia, appare il tema dell'antico che incontra il moderno, cercando un compromesso che non esiste. Un'ambivalenza che torna anche in me, nelle mie foto, nei miei scritti, nella mia persona.

La Grecia, per noi che la viviamo da lontano, è una sorta di madre mitica, dove è nato il nostro pensiero, la cultura, il modo in cui intendiamo l'anima. È più un'idea che una realtà concreta.

È una terra complicata proprio perché è fresca, giovanissima, ma antica, immortale. Una sorta di vampira. Una terra senza tempo, nata ora. Lo si vede anche nei film dei registi greci, diventati molto noti, oggi, nel mondo, ma che noi conosciamo da tempo. Sono lavori che rispecchiano un certo turbamento, anche qualcosa di perverso, di torbido. Il torbido nasce dalla difficoltà nel far entrare il nuovo e preservare l'antico.

C'è del torbido anche nelle cose che scrivi. Inteso in senso positivo. Come coraggio di immergersi in qualcosa di oscuro che di solito si guarda da lontano, con timore. Immergendosi, si scopre quanta ricchezza sia nascosta in quell'oscurità.

Infatti le tematiche che preferisco sono quelle dell'identità, dell'ambiguità, della specularità. Amo il non detto. Nel mio libro ci sono anche delle tinte noir, non nel senso artefatto o ricercato del genere, ma il nero che esiste nella realtà. C'è qualcosa di misterioso nel reale. Che riguarda anche le sensazioni. Quella sensazione che si ha “nel” momento, e non “sul” momento, che si ha appunto impregnandosi delle impressioni, ma non si riesce a spiegare.

12 MARZO 2024

Dove sei nata?

A Jesi, in provincia di Ancona, perché mia madre è marchigiana. Ma ho sempre vissuto tra Firenze, dove sono cresciuta, Ancona, dove ho una villa sul mare, e la Grecia, dove trascorrevo cinque-sei mesi all'anno. Anche in questo la mia vita si biforca, inevitabilmente, e diventa ambivalente. In Grecia vivevo una vita molto libera, senza regole, senza costrizioni. Mi portavano in giro per quattro-cinque mesi in roulotte, vivevo in uno stato selvaggio, da nomade. Poi tornavo in Italia, dove invece dovevo attenermi alle regole scolastiche e alle norme della vita ordinaria. Era molto difficile. Anche perché i primi anni, quando ero piccola, li ho trascorsi in una scuola che stava in un convento di suore. Ricordo qualcosa di molto oscuro, di cupo, che aleggiava in quel chiostro. Ricordo un dipinto con il serpente schiacciato dalla Vergine. Ci dicevano: voi siete il peccato, anche se siete solo bambini. In un certo senso smitizza la visione idealizzata dell'infanzia ad uso e consumo del mondo adulto, che la vuole pura. Può esserci un aspetto vero in tutto questo, anche se non così estremo.

Niente di meglio del senso di colpa per devastare una mente bambina e governarla meglio.

Era una dimensione completamente opposta rispetto a quella che vivevo in Grecia, dove ero quasi priva di un'identità. Portavo due vestiti, dei libri, e vivevo così, come veniva. Non c’era niente in quei luoghi incontaminati, ancora. Solo una piazzola di sosta con una macchinetta per i pupazzi, la domenica. Niente tv, giornali pochi e in ritardo. Mia madre era una sessantottina, fuggita dall’ambiente benestante di una famiglia di origine nobile. Mi ha sempre cresciuta in una maniera molto anticonformista.

Poi l'ambivalenza si è riprodotta in adolescenza, quando ho cominciato ad avere una doppia formazione. Da un lato c'era mia madre che mi portava ai teatri e ai cinema già a 7 anni. Nei weekend non andavo a giocare con i miei coetanei, ma andavo a vedere Shakespeare o la Turandot. Ho questa immagine di me, sul palco di un teatro, composta, che osservo incantata. Dall'altra parte c'era la strada. Il quartiere di Firenze in cui sono cresciuta era molto materico. Una periferia.

13 MARZO 2024
(foto Marco Minniti)
Eléni Kontoglou
Cristina

La mia formazione concreta, corporea, molto diversa da quell'altra, astratta. Passavo il mio tempo per strada, con i ragazzi del quartiere.

Questa doppia dimensione della mia formazione si rispecchia anche in quello che scrivo. Da una parte c'è la matericità, l'importanza che hanno le sensazioni, le impressioni.

Dall'altra una dimensione più onirica, rarefatta.

La tua scrittura è molto visiva, sensoriale, si sentono anche gli odori, ci sono l'udito e il tatto. E però c'è sempre un invisibile che emerge, qualcosa di simbolico, un fantasma di significato.

È un tipo di scrittura non così frequente in Italia, dove si dà grande importanza al plot. Il lettore è abituato ad avere una trama, a vedere dove si vuole andare a parare. Forse, restare immerso nella nebbia, gli lascia uno stato di discomfort. Questa cosa invece è molto frequente nella letteratura francese, fa parte anche quella della mia formazione.

Mi piace pensare alla scrittura come alle Combustioni dei lavori di Burri. Bruciava il materiale e lasciava che assumesse forme misteriose diverse dalla partenza: decontestualizzo una parola e la colloco in un ambito che non le appartiene.

Ti sei laureata sull'opera di Marguerite Duras.

Nel suo Moderato cantabile non accade niente. Tutto si svolge intorno a questa sonata di piano. E da un gri-

do che squarcia le note e proviene dall’esterno. Il lettore resta avvolto dal mistero, dalla sensualità, i colori, le sensazioni. E quando chiude il libro rimane fortemente turbato. Questo turbamento è qualcosa che non fa così parte della letteratura italiana, che necessita di trovare una chiarezza emotiva.

Porti un cognome impegnativo. Sei nipote di un autentico mito in Grecia, Photis Kontoglou. Immagino sia una presenza importante nella tua famiglia.

Sì, fa parte della storia della nostra famiglia. In Italia forse non è così conosciuto, ma in Grecia chiunque conosce Kontoglou, che è stato un maestro dell'iconografia bizantina. Ha affrescato quasi tutte le chiese in Grecia. E i suoi allievi hanno dipinto icone per cattedrali in America e in altri luoghi del mondo. Spesso ci informano quando c'è una mostra su di lui. Recentemente ne hanno allestita una molto affascinante ad Atene, in cui alcuni pittori contemporanei si interfacciavano con le sue opere. Era una personalità molto particolare, ha anche vissuto in un monastero sul monte Athos.

A proposito di anime inquiete, leggendo la sua storia si capisce un po' anche la tua personalità. Ha peregrinato in giro per il mondo, facendo anche il minatore in Francia, prima di trovare la sua dimensione artistica e diventare una sorta di padre della patria.

14 MARZO 2024

Viene anche da lì la dimensione creativa della mia famiglia. Tutti, dalla parte di mio padre, dipingono, scrivono, cantano: mia cugina Elettra è soprano. Abbiamo una dimensione creativa molto forte. Anche io da bambina ho vinto dei concorsi di disegno. Ma dalla parte di mio padre c'è anche una componente politica importante. Hanno una coscienza sociale molto pervasiva. I miei cugini sono cresciuti in mezzo alle manifestazioni operaie. È normale, per un greco, parlare di politica, già da quando si è piccoli. Un fratello di mio padre è un politico di Syriza, il partito di Tsipras. Hanno voglia di essere in

un“noi" ipotetico, di tentare di cambiare la società.

Tornando al tuo lavoro: fotografia, poesia, autobiografia narrativa, sembrano strumenti diversi. Sono mezzi con cui cerchi cose diverse o diversi modi di guardare la stessa cosa?

Questa è una domanda un po' borgesiana (nel senso di Borges). Mi piace. Diciamo che sono tutte manifestazioni della mia persona. Anche quando faccio il pane, è una manifestazione di quello che sono, un prodromo: la letteratura si trova nei luoghi più impensabili.

Eléni Kontoglou
Cristina

Per me è stato naturale fotografare, come è stato naturale scrivere. Ho scelto la fotografia, per prima, perché non avevo mai pensato di scrivere. Anzi, avevo orrore della scrittura, se si può dire così. Anche se può sembrare paradossale, visto che sono una divoratrice di libri. Ne leggo un centinaio all'anno. Mia madre mi ha instradato sulla letteratura già quando avevo 6 anni, anche con volumi poco adatti alla mia età. Rubavo dai suoi scaffali Marianna Ucria della Maraini, Stephen King, Kerouac, la Yoshimoto, Goethe.

Che cosa ti faceva orrore della scrittura?

La paura di svelarmi troppo. La forma scritta rimane incontrovertibile, incancellabile.

Cito un tuo racconto: “Non uscire nuda con le tue emozioni e i pensieri alla portata di chiunque”.

La realtà non è fatta di plot compiuti, di storie finite. Questa è un'invenzione della forma letteraria. La realtà è molto più sfuggente di quanto pensiamo. È

frustrante, in senso positivo

Proprio così. Trovavo troppo feroce dovermi mettere nero su bianco. La fotografia invece mi permetteva di esserci senza esserci. Essere presente nelle foto nel mio modo di vedere un oggetto, ma in un certo senso assentarmi, lasciarmi evaporare nel prodotto fotografico. Un prodotto audiovisivo lascia più spazio alle interpretazioni. Quando ho cominciato a scrivere, ho mantenuto quel tipo di approccio, fotografico. Un approccio che consiste nel non mantenere la concentrazione solo su ciò che racconti (o che fotografi), ma fare in modo che il lettore (o chi guarda la foto) si chieda dove prosegue il racconto (o l'immagine). Cosa c'è oltre? Cosa c'è dietro l'apparenza? È il motivo per cui amo le fotografie in cui la composizione non finisce sui bordi, in cui si può intravvedere un pezzo di figura e ci si domanda cosa c'è al di là. Nella scrittura ho voluto mantenere l'aspetto simbolico e quello misterico, non solo misterioso, esegetico.

Ami il frammento. E l'incompiuto. A volte il lettore è preso da una storia, dalla descrizione di qualcosa, ma quando sei vicino a capire qualcosa, vieni abbandonato lì, dove sei, e ti viene quasi voglia di sporgerti per vedere cosa c'è oltre il racconto.

16 MARZO 2024

La realtà è questa, è fatta così. Non è fatta di plot compiuti, di storie finite. Questa è un'invenzione della forma letteraria. La realtà è molto più sfuggente di quanto pensiamo. Anche quando sembra esserci una storia che si compie, in realtà ci sono tante altre prospettive attraverso cui si può intravedere quella storia. Ci sono residui e scorie di tutto ciò che non è stato detto di quella situazione, rapporto, o dinamica. La realtà è frustrante, in senso positivo, è fatta di incontri con persone che probabilmente non re-incontrerai più o che ritroverai senza che ci si sia detto tutto.

I personaggi dei miei libri sono battitori liberi, singoli. Anche quando c'è una relazione, un rapporto tra i personaggi, sono sempre incompiuti. Questo avvolge i protagonisti in una solitudine che però non è negativa, è quasi protettiva, tutelare. Un non voler spiegare ogni cosa, perché non tutto venga rivelato. È nel vuoto e negli spazi liberi, gli spazi bianchi, anche tra individui, che può nascere qualcosa. Come diceva Fernanda Pivano “Se dobbiamo avere dei segreti, lascia che a me restino segreti almeno i pensieri”.

Tu nutri una vera e propria idiosincrasia nei confronti del “senso”. L'idea di poter dare un significato preciso, univoco, a una cosa o una persona. Al loro stare insieme.

A volte i miei personaggi si trovano in contesti che trasmettono un senso di comunità, che possono essere un mercato, un luna park, un club notturno. Ma quando si ritrovano di fronte all'altro, quel legame è percepito così forte da averne quasi paura, e si ritraggono. Questo crea un effetto di morbidezza alternato a ferocia. Ci sono frasi, soprattutto alla fine di alcuni racconti, che sono piuttosto feroci.

In Squame racconto di cosa significasse entrare in un club notturno, in un'isola greca, fatto di specchi, e scatole a scomparsa, come un luna park. Ti trovi avvolto da tutte quelle persone, sconosciute, per una notte soltanto, e uscendone,“le mani mi sfiorano e sento ancora i brividi”. La presenza dell'altro c'è, è costante, ma è una presenza da cui non sempre farsi abbracciare.

Non è neanche così importante, per chi legge, sapere quanto il racconto sia autenticamente autobiografico. È più importante seguire il flusso:

ci sono cose che richiamano altre cose, rime interne, nomi che ritornano

Ci sono almeno due personaggi maschili che ritornano spesso. Il “tu” a cui mi rivolgo: uno è un personaggio che fa parte del passato, un amore concluso; l'altro è un amore incompiuto, un personaggio con cui rimane del sospeso e del non detto. Ritornano spesso, come ritorna sempre, nella realtà, nei momenti più disparati, il pensiero di una determinata persona che non fa più parte della nostra vita; ritorna come noi ritorniamo sulla scena del crimine, che sono i nostri ricordi, per cercare di ricostruire i pezzi. Ma poi ci ritroviamo con qualcosa in mano che non combacia del tutto. Io torno anche a cercare questa persona, scomparsa, in un paesaggio rurale, ancestrale, ma non la trovo... I personaggi, comunque, sono reali, sono persone che ho conosciuto.

17 MARZO 2024
Eléni Kontoglou
Cristina

Ti hanno dovuta convincere a pubblicare questi racconti, che parlano di te?

Prima ho pubblicato il volume di poesie, Volturno arcano. L'ho composto in due settimane.

Strano, perché sembrano poesie molto diverse tra loro, diversi paesaggi emotivi. Sembrano il frutto di vari anni di lavoro.

Perché erano sedimentate. Sono strati archeologici. L'ho scritto in un tempo così breve perché sono una scrittrice compulsiva, ma si tratta di eventi temporali anche molto distanti tra loro. Ho inviato la raccolta a due o tre case editrici che amavo particolarmente, senza nessuna aspettativa. Non ti posso dire, come dice qualcuno, che “ho sempre sognato di fare la scrittrice”. Non è vero. Non sarebbe reale. L'ho semplicemente inviato, mi hanno risposto tutte e poi ho pubblicato con quella che mi sembrava più vicina al mio progetto. Ma è stata una cosa inaspettata. Lo stesso è successo con Agrimonia: ho ricevuto diverse risposte e ho scelto la casa editrice che più mi corrispondeva.

Non avevi l'idea di “diventare scrittrice”, finalmente.

Io ho sempre scritto molto sui social. In tanti mi hanno chiesto, negli anni, di collaborare a vari progetti. Ma avevo scelto la fotografia. Poi a un certo punto ho pensato che fosse arrivato il momento di svelarmi, di uscire dalla dimensione della cornice, attraverso le suggestioni della parola. Di fare anche un compromesso con me stessa. Accettare che il mio nero su bianco rimanesse tra le mani di chi legge. Spogliarmi un po' di più.

Intanto continui a insegnare?

Quest'anno ho dovuto seguire altri progetti, ma sì, il mio lavoro è insegnare. Insegnante di letteratura francese. Anche in carcere.

Vuoi parlarci di questa esperienza?

Ho cominciato già dal primo anno di insegnamento. Insegnavo su tre fronti: al serale, al liceo e in carcere. Avevo un contratto che prevedeva tutte e tre queste dimensioni. Ma il carcere l'ho amato particolarmente, perché è un “punto di sella”, un anello di congiunzione, un non luogo, esattamente come i non luoghi che descrivo nei miei racconti.

18 MARZO 2024

Amo molto quei luoghi che – siano artificiali, artefatti, o naturali – non hanno un obiettivo a breve termine. Dove le identità sono molto flessibili, elastiche. Il carcere è proprio questo. Un luogo in cui le persone si ritrovano per scontare qualcosa, però sono ancora legate alla realtà che conoscevano, all'esterno. È una sorta di limbo. Un non luogo fatto di gesti ripetitivi, cadenze, abitudini, appuntamenti, orari, frasi. Le personalità quindi emergono in modo molto forte. Quando entri, le persone ti guardano, ti osservano tanto, molto più che all'esterno. Cercano di svelarti, di capire qualcosa in più di te. Hanno imparato a decifrare i gesti, i silenzi. Mi hanno studiato molto.

Chi ti legge ha un'immagine di te come persona misteriosa, solitaria, che sta bene nel suo spazio silenzioso. Pensarti in quel contesto è difficile.

Fa parte della mia ambivalenza. C'è la parte astratta, eterea, nettuniana, e l'altra che invece è più legata alla strada, alla matericità, ai problemi reali, concreti. Mi interessa molto anche la dimensione geopolitica. Mi interessa la terra, mi piace sporcarmi le mani. Il fiore di loto ha una dimensione pura, nettuniana, ma ha le radici nel fango, nel torbido, da cui si rigenera.

Ho letto anche di un tuo interesse per la tarologia.

Sì, sono una collezionista di tarocchi, ne ho un'ottantina di tutte le parti del mondo. Mia nonna, come ho scritto in Agrimonia, leggeva i fondi di caffè. Anche la bisnonna. C'è un'antica tradizione di streghe nella Makedonìa, la regione da cui provengo in Grecia. Ci sono tantissimi riferimenti antichi alla stregoneria, non in chiave new age, come se ne parla adesso.

19 MARZO 2024
Cristina Eléni Kontoglou

Tutto ciò che è sacro, per come la vedo io, riguarda anche la terra. Non ho una visione verticale, gerarchica, della sacralità.

C'è del sacro anche nella carne, nel sangue, nelle ossa, nelle urla, in tutto ciò che ci circonda

manzia. Tutto ciò che studia i secondi e terzi significanti della realtà che conosciamo. Non conosciamo mai la verità neanche quando pensiamo di conoscerla. Conosciamo il verosimile: si può dire che la verità è trascurabile.

Qual è il tuo rapporto con il sacro?

Il sacro mi ha sempre affascinato molto. Sacro, sacer, era sia positivo che negativo. Tutto ciò che restava fuori dalla comunità e che non può essere misurato, venduto. Mi affascinano le sacre scritture di ogni religione, dalla Bhagavad Gita alla Bibbia. Tutto ciò che è sacro, però, per come lo vedo io, riguarda anche la terra. Non ho una visione verticale, gerarchica, della sacralità, come succede in occidente. Per me la sacralità è orizzontale. C'è del sacro anche nella carne, nel sangue, nelle ossa, nelle urla, in tutto ciò che ci circonda.

Neanche in chiave psicanalitica junghiana

No, no, proprio la stregoneria fatta di ricettari pratici, per far piovere, far partorire le vacche, far rimanere incinta le donne... Volumi tramandati per generazioni. Poi è tutto un decodificare simboli ermetici. Torniamo sempre lì. Andare oltre ciò che appare. È l'invisibile che mi attrae. Al di là di queste nozioni, che mi sono state tramandate dalla parte greca della mia famiglia, io ho sempre fatto le carte, da quando avevo dieci anni e mi fu regalato il primo mazzo.

Quindi sei anche un po' strega, non ti manca niente.

Già. Oltre a leggere i tarocchi ho voluto anche studiare i simboli araldici, i colori, la derivazione dei vari mazzi. Anche gli oracoli, la geomanzia, l'idromanzia, la piro-

Mi interessa tutto ciò che è esoterismo. Per un certo tempo è stato anche il mio lavoro, perché la tarologia mi prendeva molto tempo. Ed è qualcosa che ho trasfuso nello scritto. Molte delle mie descrizioni sensoriali si avvalgono di questo elemento esoterico. Diverse poesie di Volturno Arcano hanno rimandi all'esoterismo. C'è n'è una anche dedicata alla Luna, l'arcano dei tarocchi. Un'altra, Alimurgia, che si riferisce alla raccolta antica delle erbe, fatta anche nelle carestie, un rituale preciso, che prevedeva le piante venissero tagliate con un certo materiale in determinati punti, e dopo aver chiesto loro il permesso.

Sono tutte tracce in filigrana che inserisco sotto la cucitura di ciò che scrivo. Al di là di una prima lettura, di ciò che può arrivare immediatamente, ne abbiamo una seconda in cui si possono trovare queste piccole tracce che io lascio. L'agrimonia è una pianta che veniva usata spesso in stregoneria. Veniva utilizzata per impedire alle persone di perdere i ricordi, per ancorare la memoria. Ma si diceva anche che se ci si fosse addormentati con una pianta di agrimonia sotto il cuscino, non ci si sarebbe risvegliati più. Quindi è una pianta ambivalente, anche lei. È bella, esteticamente piacevole alla vista, delicata, quasi una divinità che può preservarci dall'oblio, ma ha anche una dimensione maledetta.

La voce narrante del tuo libro è sfuggente. Eppure, dopo averlo letto, si ha l'impressione di aver conosciuto davvero qualcuno, in profondità.

20 MARZO 2024

Lo scopo è quello. Quando non abbiamo punti di riferimento, quando non abbiamo risposte e neanche le vogliamo (io non voglio dare risposte, voglio aprire ad altre domande), l'unico punto di riferimento restano i sensi. Il mio unico punto di riferimento quando scrivo. Anche se si tratta di sensazioni sfuggenti. Ettore Sottsass non era d'accordo con chi dice che il design destinato a scomparire sia meno importante del design che dura: le cose fugaci sono un riferimento importante. Danno già delle risposte.

Noi parliamo spesso di “redness”, della passione che ti spinge a fare qualcosa, che ti fa alzare la mattina. Qual è la stella polare del tuo stare al mondo, la cosa che ti spinge avanti?

Scoprire cosa c'è oltre. Decodificare e guardare più in là. Mi sento come un iniziato dei misteri eleusini. Mi aggiro nel mondo in questa maniera. Sono assetata di tutto ciò che non conosco. Ecco cosa mi stimola. Il buio. Il buio mi fa alzare.

Cristina Eléni
Kontoglou

Michele Riondino

L'attore e attivista diventa regista e dà voce alla gente di Taranto "Fai il tuo lavoro!" gli dicevano politici e sindacalisti. L'ha

Attore, regista, ma anche attivista da sempre. Uno che non ha paura di “essere di parte”. Che esordendo alla regia non ha avuto problemi a caricarsi sulle spalle il peso di un aggettivo che oggi tutti evitano come la peste: “ideologico”. O ancora peggio, a proposito di definizioni tabù: “cinema politico”. Perché stare dalla parte dei deboli, degli sfruttati, degli umiliati, non può essere considerato una colpa o un difetto.

Michele Riondino non ha mai fatto mistero delle sue idee, senza troppi eufemismi o giri di parole, quando si parla di Taranto e dell'Ilva, esplicitando le colpe dei partiti di destra e sinistra, delle istituzioni e dei sindacati, nel nome di quei cittadini di cui tutti parlano ma che nessuno sembra voler ascoltare davvero. E raccontando una storia di mobbing, che risale al 1997 e che ha fatto giurisprudenza (con la condanna dei proprietari dell'Ilva, quindi con documenti, prove, testimonianze accertate), non è stato tenero con quella classe operaia che, oltre a non andare in paradiso, si è schierata dalla parte del “potere”, accettando la prospettiva di una lotta per la sopravvivenza tra simili, di un egoismo che forse ti può dare qualche soddisfazione (pedestre) nell'immediato, ma alla lunga fa male anche ai singoli, oltre che alla collettività, alla comunità di cui fa parte.

fatto...

Ecco il perché – insieme alla qualità di regia e scrittura che in tanti gli hanno riconosciuto, e alle performance di Riondino e Germano, di Anna Ferruzzo e Vanessa Scalera - della lunga tenitura di un film come Palazzina Laf, che ha esordito a novembre, ma a marzo continua a girare l'Italia. Sale cinematografiche, spazi sociali, luoghi istituzionali ma anche clandestini. Non era certo una di quelle produzioni colossali che invadono le sale e martellano il pubblico con una comunicazione da battaglia (mediatica). Era una sfida, produttiva, culturale, ideale.

La spinta iniziale è arrivata dalla fama che Michele Riondino si è guadagnato sul campo, come attore di carattere e talento (tanto talento), uno che non fa mai scelte cinematografiche banali, ma che si è conquistato anche un posto nel salotto degli italiani, grazie alla televisione.

L'esordio è arrivato proprio sul piccolo schermo, dopo anni di teatro. Prima Compagni di scuola, nel 2001, e poi Distretto di Polizia, per tre anni (dal 2003 al 2005). La consacrazione definitiva è datata 2012, quando è stato scelto come protagonista de Il giovane Montalbano. Dopo di che lo abbiamo visto nei panni di Pietro Mennea, ne La mossa del cavallo e l'anno scorso nella serie Disney I leoni di Sicilia.

22 MARZO 2024
I NCONTRI
(Foto sul set di Maurizio Greco) Michele Riondino nei pannni dell'operaio Caterino in Palazzina Laf

Ma intanto, mentre diventava un attore riconoscibile dal pubblico della prima serata tv, al cinema approdava (quasi) sempre in film importanti - dal punto di vista della qualità artistica, del coraggio, dell'impegno - da Il passato è una terra straniera (Vicari) a Noi credevamo e Il giovane favoloso (Martone), da Bella addormentata (Bellocchio) a Diva! (Patierno) e I nostri fantasmi (Capitani). A teatro ha esordito anche nella regia (La vertigine del drago, nel 2012), oltre a interpretare Skakespeare (Giulio Cesare), Bulgakov (Il Maestro e Margherita) e l'Euridice e Orfeo di Davide

La questione è molto semplice: non si può più produrre acciaio a Taranto È una cosa sotto gli occhi di tutto. Ma le istituzioni non hanno il coraggio di guardare i fatti per quello che sono

Iodice, nato dalla bella rilettura di Valeria Parrella. Non per niente, nel 2018, Riondino ha avuto l'onore di aprire e chiudere la Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Oggi, ripensando al suo cammino d'attore e soprattutto al suo esordio da regista, viene da ripensare alle parole che aveva utilizzato nella cerimonia di apertura del festival, che celebrava la 75ª edizione: «Ho cominciato a misurarmi con il mio mestiere ancora prima di capire di voler fare l'attore. Le mie prime scoperte le ho fatte in tutti quei luoghi dove le persone sono in continua relazione fra di loro: le stazioni, i mercati, la fermata dell'autobus (…) Osserviamo, ascoltiamo, analizziamo, questo facciamo noi attori, cercando di comprendere le ragioni del nostro personaggio. Devo fare mie le sue ragioni, per quanto possano essere abbiette, basse, insensate. Devo entrare in relazione con lui, devo essere lui. Per consentire di comprendere la portata del male, e prenderne possibilmente le distanze, i nostri personaggi non possono mai subire il nostro giudizio.

24 MARZO 2024

Perché è l'unico modo che abbiamo di permettere allo spettatore di farsi un'idea sui fatti e non sulle opinioni. Anche se noi le nostre opinioni le abbiamo. Figuriamoci, io non so più dove mettere le mie... Che bello sarebbe se il mondo, quello reale, quello qui fuori, fosse capace di adottare lo stesso metodo».

In Palazzina Laf Riondino veste i panni di Caterino, operaio dai modi rudi, che vive in una masseria caduta in disgrazia e che accetta di spiare i colleghi, per conto del “padrone”. Non certo un personaggio che suscita la simpatia dello spettatore. Ma di certo una persona, una maschera, con una sua verità, un essere umano alle prese con la necessità, l'ignoranza, l'ipocrisia, la falsità, lo sfruttamento. Il male.

È lui la nostra guida in quel luogo incredibile ma vero che è la Palazzina Laf (laminatoio a freddo), dove vengono ammassati lavoratori, ingegneri, informatici, colletti bianchi, operai specializzati, che non accettano di essere demansionati. Un non luogo in cui ognuno cer-

ca di passare la giornata a modo suo, chi mantenendosi in forma, chi giocando, chi pregando, chi disperandosi e maledicendo il mondo.

79 dipendenti, che nel corso del processo definirono quel luogo “una specie di manicomio”, mentre in tanti, tra gli operai che lavoravano, parlavano di una specie di vacanza.

In questo film c'è Elio Petri, inevitabilmente, la sua rabbia, il suo stile nervoso, ma anche la memoria di Mimì metallurgico, c'è il film di denuncia, ma anche la commedia all'italiana più grottesca. Non è un “comizio”. La verità del film passa attraverso i momenti apparentemente più ordinari, i pranzi in mensa, la vita la bar, i dialoghi quotidiani, le sfumature emotive, la realtà. Riondino ha occhio (da vedere, ad esempio, come disegna gli spazi) e sensibilità. Ma soprattutto, crede in quello che fa. E infatti il suo film lo sta accompagnando ovunque sia possibile incontrare cittadini-spettatori, e affrontare un dibattito.

25 MARZO 2024
Michele Riondino

Era quasi inevitabile che questa intervista fosse il frutto di una telefonata su un treno, fatta tra uno spostamento e l'altro. Pochi giorni prima di Andare a Prato, invitato dal Social Forum. Pochi giorni dopo la presentazione al Senato, dove è stato esplicito, come sempre, nel dare voce ai cittadini di Taranto, «delusi e umiliati», in un momento in cui va in scena un altro capitolo della vicenda Ilva, sempre più assurda, con AncelorMittal che si sta comportando come in tanti avevano previsto, senza bisogno di essere esperti di economia. Palazzina Laf parla del passato, ma dentro il film ci sono anche segnali che rimandano alla storia che verrà. Da quello slogan “Ilva is Killer”, che verrà utilizzato molti anni dopo, alla storia dell'azienda agricola che si è vista abbattere 600 capi di bestiame per colpa della diossina.

Con Riondino, in Senato, c'era anche Diodato, anche lui cresciuto a Taranto, che ha scritto una canzone per il film (la colonna sonora è di Teho Teardo, a proposito di talenti), intitolata La mia terra. Ha parlato anche lui, in quella occasione, evocando «una rivoluzione culturale in atto da qualche anno a Taranto. Lo sguardo dei cittadini sta cambiando e non c'è niente di più do-

loroso di vedere come venga ignorata una città che tenta di risollevarsi. Chiederei ai presenti di fare qualcosa per questi giovani che lottano, credono nella loro terra e nella bellezza. C'è tanto dolore ma anche tanta speranza». Con Riondino abbiamo parlato del suo film, ma anche della sua carriera, visto che il Milazzo Film Festival ha deciso di assegnargli l'Acting Award.

Èmolto bello quello che sta succedendo al tuo film, la risposta del pubblico, le presentazioni in giro per l'Italia. Non è un successo basato sulla quantità, ma sulla qualità, il passaparola.

Ma sì, diciamo che il film sta vivendo ancora un'onda lunga. È presente nelle sale e sta arrivando anche in città che non avevano avuto la possibilità di vederlo in prima visione. In più stiamo partecipando a vari eventi, in cui abbiamo l'opportunità di parlare con il pubblico, di avviare un dibattito. La tematica che affronta il film è molto particolare, non è certo un argomento “accattivante”, c'è tanta gente che viene alle proiezioni perché vuole parlare di lavoro, di mobbing.

26 MARZO 2024

Ha a che vedere con il cinema, ma anche con la vita, la politica, la consapevolezza civica. Con questo film sei definitivamente entrato nella pericolosa categoria dei disturbatori, gli “artisti impegnati”.

Sai, è tanto tempo che mi occupo di questi temi, non è una novità.

Il passaggio alla regia era una cosa a cui pensavi da un po', oppure era proprio il tema che ti chia-

mava, l'urgenza di dire qualcosa su una questione che ti stava a cuore, che ti vede impegnato da anni nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”?

In realtà avevo già fatto una regia a teatro. Di farla al cinema non ci avevo ancora pensato. Sono cose che a volte devono anche capitare. A me è capitata la fortuna di avere un produttore come Carlo Degli Esposti della Palomar.

Michele Riondino

È stato lui a convincermi del fatto che potessi passare alla regia cinematografica. È stato sempre lui a non spaventarsi del tema.

A me è sempre piaciuto stare sul set, vedere come lavorano i vari reparti, come funziona la macchina da presa, la fotografia... Ronzavo anche intorno ai macchinisti. Mi piace da sempre il mezzo cinematografico e ho sempre cercato di capirne il funzionamento.

Esseri “liberi e pensanti” oggi, in Italia, non è così facile. Così come, parlando di Ilva, non è facile an-

Mi piaceva l'idea di stare su un palcoscenico, di interpretare un ruolo, di vestire i panni di qualcun altro. Ma per farlo diventare un mestiere, c'è voluto tanto studio e tanta gavetta

dare oltre ciò che appare superficialmente. C'è la questione del lavoro e quella dell'ambiente. C'è la politica che sembra dare sempre soluzioni sbagliate. Come se ne esce?

L'altro giorno eravamo in Senato a fare una proiezione. E anche lì ho detto che il discorso è molto semplice, anche banale se vogliamo. Bisogna avere il coraggio di prendere una posizione. Il protagonista del mio film è un operaio che non prende posizione, che è lo specchio di una situazione molto più grande. Le istituzioni, e chi dovrebbe affrontare questa situazione, non hanno il coraggio di guardare i fatti per quello che sono. Fatti che sono anche chiari. C'è una fabbrica che ha degli impianti sequestrati, che la magistratura ha dichiarato incompatibili con la vita umana. E poi ci sono le istituzioni, la politica, che cercano di far ripartire la produzione: vogliono fare in modo che un impianto fuori legge continui a funzionare fuori dalla legge. Parlano di “continuità produttiva”, di portare avanti questo corto circuito. E noi questa cosa la riteniamo inaccettabile.

28 MARZO 2024

Finché non ci sarà un rappresentante delle istituzioni, un rappresentante dei partiti, dei sindacati, che cominci a difendere il cittadino - che viene prima dell'operaio, perché l'operaio è tra l'altro anche un cittadino - non andremo da nessuna parte, una soluzione non ci sarà mai. Una fabbrica come questa non ha più senso, non si può più produrre acciaio a Taranto. È una cosa che è sotto gli occhi di tutti, la fabbrica cade a pezzi, non c'è mercato, quindi è arrivato il momento di parlare delle vere esigenze. Se tutti avessero cominciato a muoversi nel 2012, oggi avremmo già dieci anni di formazione offerti a lavoratori che devono essere reinseriti. Bisogna formare quei cinque mila lavoratori, che oggi vengono lasciati a casa senza fare nulla.

Tornando al cinema e al tuo lavoro d'attore, tu sei partito dal teatro, dall'Accademia d'arte drammatica a Roma. “Fare l'attore” è sempre stato un tuo sogno o è una scoperta fatta lungo la via?

L'ho scoperto, l'ho inseguito. Mi piaceva l'idea di stare sul palcoscenico, di interpretare un ruolo, di vestire

i panni di qualcun altro. Da qui a pensare che questa cosa potesse diventare anche un mestiere, senza preoccuparsi di dover fare altro, ce ne passa. Ci sono voluti svariati anni, tanto studio, tanta gavetta.

Mario Sesti, co-direttore del Milazzo Film Festival, dice giustamente che in Italia attrici e attori non hanno l'attenzione critica che meritano. Si parla tanto di autori, del linguaggio cinematografico adottato, lo stile di regia e montaggio, ma pochissimo dell'apporto anche autoriale dell'attore.

Io da sempre penso di fare un lavoro anche autoriale sui miei personaggi, sui testi. Cerco sempre di collaborare con i registi. Ci deve essere una condivisione del progetto. Difficilmente vado d'accordo con quei registi che non ti permettono di “invadere il loro campo”, che non condividono il loro lavoro. I film si fanno insieme. Fare un film è un lavoro collettivo, in cui naturalmente c'è anche qualcuno che dirige il lavoro dei vari reparti. Ma per la parte che mi compete, mi piace avere la libertà di proporre, di creare.

29 MARZO 2024
Michele Riondino

Al cinema, fin da subito, diciamo da Daniele Vicari (Il passato è una terra straniera), il tuo percorso è sempre stato inscritto nel cinema d'autore: Martone, Bellocchio, Taviani... Si intravvede, in filigrana, nel tuo percorso d'attore, ciò che saresti diventato come autore.

Mi fa piacere che si dica questo. Io vengo dal teatro, e ho sempre fatto la corte ai registi, continuando a fare

teatro. Quando il cinema mi ha aperto le porte – Daniele Vicari mi ha battezzato, mi ha fatto entrare in questo mondo – una volta dentro, non ho avuto paura di dire anche dei no. Saper dire di no è il segreto del successo, se per successo intendi lavorare per progetti che ti restituiscono qualcosa. Ho avuto la fortuna di lavorare con registi importanti, che mi hanno offerto una possibilità. Ma ci sono state tante altre offerte a cui ho detto di no.

30 MARZO 2024

Michele Riondino saluta il pubblico di Venezia, nel 2018, quando è stato scelto per aprire e chiudere la Mostra internazionale d'arte cinematografica

Quando riesci a dire no, è un traguardo importante. Vuol dire che sei sulla buona strada, che sai quello che vuoi.

Vuol dire anche che hai guadagnato una certa fama e puoi avere due o tre copioni tra cui scegliere ciò che più ti assomiglia.

Consapevole però del fatto che magari, quando dici di no, rischi di non lavorare, per un anno o due, di non essere nelle sale, al cinema, e magari qualcuno comincia a chiedersi “che fine ha fatto?”. Devi saper stare a casa senza farti venire troppe paranoie. Però poi c'è il teatro, che è sempre stata la mia casa e che ora mi manca un po'.

Poi c'è la televisione, anche lì hai fatto delle scel -

te, ma ormai sei di casa da molti anni, soprattutto dopo Il giovane Montalbano.

Il giovane Moltalbano mi ha presentato al grande pubblico. Per come mi era stato raccontato, sembrava un trappolone. Poi in realtà si è rivelato un'ottima opportunità.

Anche perché Tavarelli è bravo.

Tavarelli è molto bravo. Abbiamo fatto due stagioni con risultati importanti.

Immagino che ora porterai avanti le due strade in parallelo, vista la risposta che hai avuto, sia dal pubblico che dalla critica. Hai un piano? O sei un improvvisatore, prendi quello che viene?

31 MARZO 2024
Michele Riondino

Il piano ancora non c'è. Fare un film è una scommessa che puoi vincere o puoi perdere. Ora stiamo ancora giocando, siamo ancora in partita. Ma per come si stanno mettendo le cose, adesso sto cominciando a raccogliere un po' di idee, di racconti e storie che potrebbero diventare un secondo film. Questo però è un campionato molto difficile, la seconda partita è sempre la più complicata, le cose potrebbero diventare molto serie, troppo serie. Quindi mi sto prendendo il mio tempo. Diciamo che ci sono diverse tematiche potenzialmente interessanti.

Il mio film nasce dagli anni in cui ho provato a raccontare la storia di Taranto attraverso il linguaggio degli altri: ho organizzato concerti, dibattiti, presentazione di libri. In tutti gli eventi che ho creato, i politici e i sindacalisti non hanno fatto altro che invitarmi a occuparmi del mio lavoro

In tanti, parlando del tuo film, hanno citato la rabbia e l'impegno di Petri, il suo modo di fare cinema. Tu senti, vivi il cinema come strumento che ti permette di dire cose di cui senti l'urgenza, al di là del “fare cinema” in sé.

Sì, decisamente. Il mio film nasce da anni di attivismo, di anni in cui ho provato a raccontare la storia di Taranto attraverso i linguaggi degli altri: ho organizzato concerti, dibattiti, presentazioni di libri. In tutti gli eventi che ho creato, i politici e i sindacalisti non hanno fatto altro che invitarmi a occuparmi del mio lavoro. E io ho fatto il mio lavoro. L'aver esordito con un film come Palazzina Laf la dice lunga di quanto sia fondamentale per me affrontare certi temi.

Attrici e attori sono il volto, il corpo del cinema, che non potrebbe esistere senza le loro emozioni, i gesti, le espressioni: l'arte di dare vita a un personaggio che diventa persona, realtà. La verità di una storia. È grazie a loro che l'idea si incarna e l'immaginazione prende forma. Eppure, quando si parla di un film da un punto di vista critico, ci si concentra per lo più sulle scelte di regia, lo stile, le capacità del regista-autore, la bontà o meno dei dialoghi, della storia raccontata. L'interpretazione è considerata solo un elemento del film, più o meno importante, ma quasi mai valutato nel suo aspetto creativo. Perché di questo si tratta: creatività, invenzione. Con interpreti che a volte diventano co-autori di un film o di una serie, grazie alla forza della loro presenza.

Lo sottolinea da sempre un esperto di cinema come Mario Sesti, che non è solo un critico e giornalista, ma anche un creatore di immagini, sceneggiatore, regista di documentari, oltre che organizzatore culturale (lo abbiamo intervistato su Redness di gennaio).

Nasce da qui l'idea di trasformare il Milazzo Film Festival, che dirige insieme a Caterina Taricano (brava giornalista-critica anche lei, oltre che autrice e sceneggiatrice), in una rassegna dedicata all'arte della recitazione, forti delle esperienze maturate in passato alla Festa del Cinema di Roma e al Torino Film Festival.

Con scelte anche originali. Tipo dare ciò che merita, finalmente, a Lino Banfi, uno dei più grandi comici del cinema italiano, che ha segnato la storia della televisione e della cinematografia nostrana, quella più popolare. A lui verrà assegnato l'Excellence Acting Award.

32 MARZO 2024

Un premio all'arte dell'attore che è sempre anche un autore

AL MILAZZO FILM FESTIVAL VANNO IN SCENA GLI INTERPRETI: DA BANFI A BENTIVOGLIO, DA RIONDINO A DE ANGELIS. INCONTRI E ANTEPRIME

Lo stesso premio verrà riconosciuto anche a un attore completamente diverso per generazione, stile, cinema praticato, Fabrizio Bentivoglio. Di recente lo abbiamo visto in sala nell'ultimo film di Salvatores (Il ritorno di Casanova) e ne I peggiori giorni di Massimiliano Bruno ed Edoardo Leo, oltre che in tv nei panni di Raul Gardini. Di lui ricordiamo soprattutto i vari Turné e Marrakech Express, i film con Silvio Soldini (L'aria serena dell'Ovest, Un'anima divisa in due), Michele Placido (Un eroe borghese, Del perduto amore), Mimmo Calopresti (La parola amore esiste), Carlo Mazzacurati (La lingua del santo, A cavallo della tigre, La giusta distanza), ma anche Come due coccodrilli, Testimone a rischio, Ricordati di me, Loro di Sorrentino. Un elenco lunghissimo di buoni e ottimi film. Un riconoscimento speciale, l'Acting Award, verrà assegnato anche a Michele Riondino (che abbiamo intervistato), uno degli interpreti migliori della sua generazione. Mentre a Caterina De Angelis, figlia di Margherita Buy, verrà riconosciuto il premio A Star Is Born. Ma ci sarà spazio anche per altri media, la tv, la radio e il web, come dimostrano i riconoscimenti a Matteo Caccia (premio Il racconto, la sua voce) e alla giornalista di La7 Alessandra Sardoni (premio Media&Culture). Perché è un'arte anche quella di realizzare un podcast coinvolgente o trasformare la cronaca parlamentare televisiva in una narrazione, che va dal thriller e il noir alla commedia.

Il festival va in scena dal 29 febbraio al 3 marzo al Teatro Trifiletti. Da notare, tra le altre cose, la prima assoluta del monologo Piccolo Almanacco dell’Attore di

Bentivoglio, la proiezione del mitico L’allenatore nel pallone di Sergio Martino (film che compie 40 anni) e l'incontro con Banfi, dal titolo colorito: Porca puttena: che grande attore! E poi la conversazione con Riondino, intitolata Il ragazzo del mondo, l'incontro con Alessandra Sardoni e Caterina De Angelis, la proiezione del film Volare di Margherita Buy, le anteprime di Martedì e Venerdì di Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis e Castelrotto di Damiano Giacomelli. Oltre naturalmente ai cortometraggi in gara nel concorso internazionale, che vede la partecipazione di 153 opere provenienti da 30 Paesi. Importante anche il coinvolgimento delle scuole, con mattinate affidate agli organizzatori del Giffoni Film Festival, attraverso spettacoli interattivi in cui saranno gli stessi studenti ad andare in scena.

Trovate i dettagli nel sito: www.milazzofilmfestival.it

33 MARZO 2024
Fabrizio Bentivoglio

Giada Colagrande

Agadez: una musica che si fa rito, invocazione alla Dea Madre

L'arte come linguaggio che esprime la dimensione del sacro

Un nuovo nome. Un'altra metamorfosi. Perché Giada Colagrande è fatta così, è sempre in cammino, interiormente ed esteriormente. Non sorprende ritrovarla oggi, col nome di Agadez, avvolta in ritmi e melodie mediorientali, dentro un progetto musicale che sa di world music, ma che ha l'anima (e anche il corpo sonoro) di un rituale sacro, l'evocazione di un mondo ancestrale, l'invocazione alla Madre, la Dea, in tutte le sue forme.

Questo legame con l'eterno femminino la accompagna da sempre, nella sua vita come nel suo lavoro. Per l'importanza che ha sempre riconosciuto alle donne della sua esistenza, dalla madre alla nonna, di cui ha parlato spesso con riconoscenza e affetto profondo (una era marxista, femminista, atea convinta, l'altra invece molto religiosa, cattolica). Per il ruolo che le donne hanno sempre avuto nel suo cinema, da Aprimi il cuore, il film che la rivelò nel 2002 (al festival di Venezia come al Tribeca di New York) a Una donna (il suo terzo film, anche quello presentato in laguna), fino alla collaborazione e l'amicizia con Marina Abramović, che ha generato due opere belle e importanti: Bob Wilson Life & Death of Marina Abramović e The Abramović Method

Perché Giada Colagrande è regista e anche musicista, è attrice e sceneggiatrice, conosce molto bene l'arte contemporanea e le sue provocazioni, ma è anche ricercatrice appassionata di antiche tradizioni sacre ed esoteriche, di spiritualità, sulle orme di quella ricerca interiore che l'amico Franco Battiato ha portato avanti per tutta la vita, in totale libertà e sapiente sincretismo.

A proposito di incontri fatali. Battiato appare alla fine dell'ultimo film di Giada Colagrande, Padre (nel 2016, quasi al termine del suo percorso terreno), che è una sorta di manifesto di un certo modo di intendere il cinema, tra l'arte sacra, totale, votata all'invisibile, e il diario intimo. Un'opera-enigma alchemica, che nasce dall'elaborazione di un lutto – la scomparsa del padre compositore Giulio Fontana – e diventa la scoperta di una realtà ulteriore, una dimensione in cui la morte è solo un passaggio verso un'altra forma di esistenza. Presente, anche qui, naturalmente, Willem Dafoe, attore straordinario, compagno d'arte e d'amore, che è diventato suo marito nel 2005, anno in cui è uscito Before it Had a Name, il secondo film di Giada, scritto proprio insieme a lui.

35 MARZO 2024
I NCONTRI

Giada Colagrande è nata a Pescara, ma è diventata presto cittadina del mondo, spostandosi dalla Svizzera all'Australia per studiare, e poi girando giovanissima una serie di video su artisti come Jannis Kounellis, Alfredo Pirri, Gianni Dessì, Sol Lewitt. La musica è sempre stata una sua grande passione, come la danza. E così, nel 2017, è arrivato l'esordio in questo mondo, a modo suo, cioè attraverso un progetto dedicato alla Porta Magica di Roma, e quindi all'alchimia, da cui il nome The Magic Door e la collaborazione con gli arpisti e pluristrumentisti Vincenzo Zitello e Arthuan Rebis, in un primo tentativo di integrare ricerca spirituale ed espressione artistica.

"Queendoms" nasce dal desiderio di mettere in musica una dimensione interiore di tutte le donne, il sacro femminile

Ora ecco il ritorno in una nuova veste, quella di Agadez, e l'uscita dell'album Queendoms, prima tappa di una nuova avventura da solista. Un percorso esplicito fin dalle premesse ideali, nel loro sincretismo culturale e sapienziale: «In questa universalità trascendente giace la scintilla che Agadez desidera riaccendere, come un fuoco che non si è mai spento ma per millenni si è affievolito per la mancanza di aria, del Sacro. Una connessione ancestrale, attraverso il nostro corpo, con il cosmo e con l’invisibile. Un’esperienza mistica della musica, che faccia vibrare in noi il palpito originario della creazione artistica secondo Madre Natura». Voce, tamburi a cornice, chitarra, theremin. Sonorità antiche e ritmi tribali. Ma soprattutto un viaggio fra arcaici culti femminili, Dee Madri che si pongono oltre la polarità tra maschile e femminile, come punto di unione e superamento degli opposti. Ritroviamo Rebis (flauti e nickelharpa) e Zitello (arpa celtica e santur), ma ci sono anche il violoncello di Giovanna Barbati, le percussioni e i tamburi di Glen Velez, la voce di Loire Cotler. Dentro la musica, invece, ci sono Tanit, Isis e Aphrodite, Inanna, Dana e Vacuna, Cibele ed Ecate, Lilith e Tara.

Come nasce Agadez? È un nome che sa di carovane nel deserto, di miti e riti ancestrali. Un Oriente comunque vicino, a cui siamo legati, da un punto di vista storico e geografico, ma anche per vie invisibili, più misteriose, segrete.

Agadez è il nome che ho scelto come solista, come un talismano che mi accompagna in questo nuovo viaggio. Agadez è infatti una stella o croce Tuareg, che le donne della tribù indossano per non smarrirsi nel deserto e per ritrovare sempre la via di casa o il centro del proprio cuore. Ha quindi una doppia funzione: di protezione e di connessione.

Al centro di Queendoms c'è il sacro femminino, “la Dea” in tante sue forme, Madre Natura. Quasi un tentativo di riannodare i fili spezzati dal tempo, dal disincanto, dalla secolarizzazione. Come è nato questo progetto?

Queendoms nasce da un desiderio e da un’esigenza: il desiderio di mettere in musica una dimensione interiore di tutte le donne, il sacro femminile appunto, narrandolo attraverso gli archetipi delle dee ancestrali; l’esigenza è quella di “rimuovere” il danno del patriarcato, l’usurpazione di tale dimensione, riannodando il filo mai veramente spezzato della connessione naturale della donna con il divino. È il femminile che genera la vita.

36 MARZO 2024

Nella tua musica c'è il Medioriente, ma anche qualcosa di celtico, c'è un folk molto dark, che a volte richiama i Dead Can Dance, ma c'è perfino Badalamenti. Si direbbe che usi varie tradizioni e ispirazioni alla ricerca di qualcosa che sia fuori dal tempo e dallo spazio, anche se poi il risultato a volte suona moderno, una world music che unisce strumenti tradizionali e ritmi contemporanei.

Angelo Badalamenti, che ha composto la colonna sonora del mio film A Woman, ha ispirato in particolar modo Aphrodite. I Dead Can Dance sono stati tra le mie principali ispirazioni, così come Franco Battiato. In entrambi i casi, questi artisti hanno sperimentato associazioni inedite di strumenti e sonorità provenienti da luoghi e da epoche differenti, creando universi originali e non identificabili, ma immensamente suggestivi e inspiegabilmente familiari. La musica che mi incanta è quella che trasmette un senso di appartenenza, trascendendo la provenienza e naturalmente i generi musicali.

Mi è piaciuta l’idea di chiamarmi Agadez anche perché è il nome di una città, similmente alla scelta di altri due artisti che ammiro e che esprimono esattamente la qualità musicale di cui parlo: Beirut (un americano del New Mexico) e Rome (un cantautore lussemburghese).

Colagrande

37 MARZO 2024
Giada

Dal Sahara alla Valle dell'Indo, dal cerchio che sovrasta una croce, simbolo dell'antica dea berbera Tanit (con le voci ipnotiche di Angelique Kidjo e Loire Cotler), alla più nota Afrodite e il suo inno all'amore, inteso in senso alto, anti-sentimentale. È un intreccio di simbologie, narrazioni e culti che sembrano molto lontani da noi, ma che risuonano da qualche parte dentro di noi. Perché pensi che dovremmo riappropriarci di questa memoria?

Mi piacerebbe che attraverso l'ascolto si potesse rivivere il palpito primigenio che ha portato alla nascita della musica: il suono del tamburo riattiva la memoria prenatale

del battito del cuore di nostra madre

La risonanza a cui ti riferisci è proprio quello che ho definito “senso di appartenenza” relativamente alle ispirazioni musicali. Ma che vale ancor di più per il contenuto di questo disco.

Mi piacerebbe che attraverso l’ascolto si potesse rivivere il palpito primigenio che ha portato alla nascita della musica: il suono del tamburo riattiva la memoria prenatale del battito del cuore di nostra madre. Non è un caso che sia stato il primo strumento della storia, utilizzato per millenni in riti e cerimonie alla Dea. Ancora oggi è lo strumento che sciamane e sciamani usano per connettersi con le altre dimensioni. La musica è nata in un contesto rituale e sacro. E specificatamente nel sacro femminile: le prime sacerdotesse erano infatti donne. Penso dunque sia importante riappropriarci di questa “doppia” memoria: quella cultuale, ritualistica e simbolica e quella inerente alla scelta della musica (e dell’arte in generale) come linguaggio che esprime la dimensione del sacro. L’essere umano, svuotato di questa dimensione, non onora la propria “preziosa incarnazione”.

Più che un disco, infatti, sembra una performance rituale, una sorta di invocazione (evocazione?) che assume forme diverse, a seconda della divinità cantata. Risuonano anche parole in lingue sconosciute, frasi reiterate in forma di litania, cori magici.

38 MARZO 2024

Si direbbe un album che nasce più da una tua esigenza espressiva, interiore, che dalla volontà di aprirsi uno spazio nel “mercato musicale”.

È così, ma mi auguro comunque che trovi un suo pubblico “risonante”.

Dal punto di vista artistico, quali sono le tappe principali di questa tua presa di coscienza spirituale?

Quando avevo cinque anni mia madre ha preso la casa dove sono cresciuta in un borgo abruzzese, chiamato “covo degli artisti” perché c’erano Ettore Spalletti, Jannis Kounellis, e i De Domizio-Durini, frequentato da Joseph Beuys e da tanti altri artisti.

Prima tappa: da piccola, per anni, trascorrevo le mie giornate nello studio di Spalletti, guardandolo dipingere e mescolare i colori. Lì ho pensato: “Quindi un artista continua a giocare anche da grande. Voglio fare l’artista pure io.”

Seconda tappa: a 17 anni sono stata folgorata dal lavoro di Bill Viola e, guardando il suo Nantes Tryptic, ho capito che volevo fare esattamente quello, la video-arte.

Terza tappa: a 19 anni il cinema mi seduce e comincio a fare cortometraggi. In quel periodo conosco e mi lego a Marina Abramović, esempio di straordinaria artista donna, il cui lavoro esprime una evidente dimensione ritualistica e sacra/sacrificale.

Nel 2003 incontro mio marito, Willem Dafoe, e inizio con lui un percorso di vita e di arte. Pochi anni dopo avviene un altro incontro fondamentale, quello con Franco Battiato, mio preziosissimo amico e Maestro, che mi ispira ogni giorno anche ora.

Giada Colagrande con l'amico e maestro Franco Battiato, che è stato fondamentale nella sua vita e che ha anche recitato per lei nel suo ultimo film: "Padre".

Colagrande

Giada
Ho

Tu hai avuto una formazione cosmopolita, sei partita dall'arte contemporanea, la videoarte, e quando avevi solo 25 anni sei stata selezionata al festival di Venezia (con Aprimi il cuore, 2001). Hai vissuto anni molto intensi, dirigendo vari lungometraggi, collaborando con Willem Dafoe e Marina Abramović, ma hai anche scelto di percorrere una strada tutta tua, indipendente, fuori dai canoni.

La scelta di percorrere una strada fuori dai canoni viene dall’esigenza di libertà e di intimità, condizioni imprescindibili per il mio lavoro. Ho avuto da subito un approccio molto fisico alla regia, più simile a quello di una danzatrice che a quello di una cineasta, nel senso che vivo la realizzazione dei miei progetti in uno stato di simbiosi armonica tra corpo e mente, motivo per cui ho scelto di recitare in diversi miei film. I due artisti che citi, Marina e Willem, sono due eccellenti rappresentanti di questo approccio corporeo all’arte, ognuno nel suo campo. Parliamo quindi lo stesso linguaggio, senza bisogno di parole.

la Luna nera in Pesci:

sono la migliore custode di segreti! Amo la mia vita in campagna con gli animali. E amo condividerla con persone care e

intime

Padre, il tuo ultimo lungometraggio, datato 2016, è emblematico, dal punto di vista del messaggio e del contenuto ermetico, quasi esoterico. Probabilmente non è un caso che il film sia pressoché sconosciuto al grande pubblico. In quel film Battiato ha un ruolo piccolo e molto importante. Cosa ti ha insegnato?

Battiato mi ha insegnato “come è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”!

Credi veramente che la musica possa riappropriarsi delle sue radici sacre? Tu dici che “l'arte, nelle sue espressioni primordiali, è nata come strumento di unione col Divino”. Ma, come sai, viviamo in tempi in cui tutto sembra testimoniare il contrario. Sì, c'è un grande (confuso) fervore spirituale, ma il pensiero corrente, istituzionale, è ancora intriso di materialismo, e la società (anche la musica che produce) sembra affondare nell'individualismo, il consumismo, l'edonismo. Quali sono, oggi, i tuoi punti di riferimento dal punto di vista filosofico e spirituale?

Da diversi anni seguo gli insegnamenti di alcuni lama tibetani di lignaggio Gelug e ho intrapreso un percorso di studi e pratiche di femminile sacro con Luciana Percovich.

In un mondo di presenzialisti, tu sembri aver scelto la strada della discrezione, se non proprio della solitudine. Anche come stile di vita.

Scelta obbligata direi, visto che ho la Luna nera in Pesci: sono la migliore custode di segreti! Amo la mia vita in campagna con gli animali. E amo condividerla con persone care e intime.

Progetti immediati? Ti vedremo in tournée? Progetti lontani?

A inizio estate ci sarà la presentazione ufficiale di Queendoms, seguita da alcuni concerti. Per quanto riguarda il cinema, sto preparando due film, di cui uno è il mio primo horror!

41 MARZO 2024
Giada Colagrande

Sporgersi sull'abisso. L'inquietudine, l'orrore, l'osceno, l'assurdo, il deforme. Per poi rendersi conto che quell'abisso forse è un cielo, un'altezza. Che se attraversi l'inconscio fino in fondo, andando oltre le paure e i rimossi, se rifiuti le convenzioni, i luoghi comuni, una certa idea (stereotipata, quindi oppressiva) di “normalità”, puoi scoprirti inaspettatamente e finalmente libero. E quella libertà, quell'illuminazione, può diventare perfino contagiosa (liberatrice).

Questo è ciò che suscitano le fotografie di Roger Ballen e Joel-Peter Witkin, che non per niente evocano il simbolismo e il surrealismo, ma anche l'eversione romantica, le teorizzazioni di Carl Gustav Jung, le forme più estreme, esotiche del sacro. Sono due percorsi, due modi di intendere la fotografia, che si intrecciano e in un certo senso si completano, quasi commentandosi a vicenda.

Ecco perché The Uncanny Lens –La Lente Inquietante è una mostra così importante: 60 opere a confronto (per la prima volta!) di due fotografi geniali, controversi, pro-

vocatori. Un “progetto indipendente”, che partirà da un allestimento a Castel Ivano, in Trentino, e che trova la sua prima incarnazione nel catalogo (molto bello) pubblicato da Fallone Editore. Tanto per ricordarci che in Italia esistono realtà piccole nelle dimensioni ma grandi nelle ambizioni culturali. Il progetto è "indipendente” per-

ché non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di due autori che professano l'anticonformismo e amano la marginalità, la diversità, che mettono in discussione i concetti di bello e brutto, che praticano l'arte della maschera per smascherare l'illusione, la finzione, l'alienazione, sia individuale che sociale.

Ballen + Witkin: dire l'indicibile attraverso l'assurdo e l'osceno
42 MESE 2022
I DUE FOTOGRAFI, GENIALI E PROVOCATORI, FINALMENTE A CONFRONTO: 60 OPERE IN MOSTRA E UN CATALOGO DOC E VENTI

Un percorso alla scoperta del vero sé (una liberazione, appunto) che va di pari passo con la denuncia dell'ipocrisia sociale.

Eppure parliamo di due biografie completamente diverse. Da una parte Witkin, con la sua infanzia difficile e quel trauma devastante che ha pesato sulla sua coscienza e la sua arte: l'incidente automobilistico di cui fu spettatore, ritrovandosi di fronte la testa di

una bambina sbalzata da un'auto. Viene anche da lì il dolore che attraversa il suo lavoro, l'estetica del martirio e del sangue sacrificale. Ma viene anche dal suo misticismo (se possiamo chiamarlo così) visto che, come spiega lui stessa nella doppia intervista alla fine del catalogo, «per me, tutte le cose sono simboli dell’accettazione o della negazione di Dio!». C'è chi l'ha definita fotografia terapeu-

tica, chi ha evocato figurazioni fantastiche di origine medievale, ma anche rinascimentale, chi ha sottolineato la poetica dei freaks, nani, giganti, obesi. Come spiega Fortunato D'Amico, curatore di The Uncanny Lens: «Witkin considera i “freaks” una manifestazioni della volontà divina, figure sacre che offrono una possibile chiave di lettura per comprendere il destino umano»

Underworld (2013) di Roger Ballen

43 MARZO 2024

Le sue tecniche, dalla graffiatura dei negativi alla stampa attraverso tessuti, sono forma e insieme contenuto, parte integrante della sua ricerca. Di tutt'altro genere la storia avventurosa di Ballen che, nato anche lui a New York (undici anni dopo, nel 1950), è cresciuto in un ambiente creativo e già a 19 anni si era ritrovato a documentare Woodstock e le manifestazioni contro il Vietnam. Segue un giro per mondo – e la “fuga dal materialismo occidentale” - fino ad approdare al

Sudafrica, che diventerà casa sua, e di cui documenterà l'Apartheid, ma non solo.

LA LORO OPERA ECHEGGIA SIMBOLISMO E SURREALISMO, MA ANCHE L'EVERSIONE ROMANTICA. C'È JUNG E C'È IL MISTICISMO

La sterzata verso la sua caratteristica fotografia, trasformata ormai in

un aggettivo, uno stile inconfondibile, risale agli anni '90, quando l'attitudine documentaristica ha lasciato il posto a una sorta di messinscena quasi teatrale, con l'obiettivo di rivelare il lato nascosto delle cose. Come dice lui, «le mie fotografie devono essere enigmatiche. Quando mediti sulla natura delle ombre e dell’oscurità, inizi a capire cos’è l’enigma. Se produci immagini che contengono enigmi, forse riescono ad attingere ad una dimensione profonda; l’oscurità e l’ombra nella maggior parte dei casi rivelano un significato archetipico (...) Le fotografie nascono dall’interazione tra la mia mente conscia e inconscia, tra me e il soggetto». Il catalogo, ovviamente, è accompagnato da un apparato critico, anche se il modo ideale per fruire di una fotografia del genere è stabilire un rapporto libero, diretto, non-mediato con le immagini, e lasciare che sia la psiche più profonda a rispondere, in qualche modo, a riflettersi, a respingere, a lasciarsi turbare o attrarre da ciò che vede.

Ci aiuta certamente il bianco e nero, adottato da entrambi, una sorta di ribellione alla manipolazione digitale e alla saturazione cromatica (come dice giustamente D'Amico).

Paolo Dolzan, direttore artistico del progetto insieme a Fulvio de Pellegrin, sottolinea quale dovrebbe essere sempre una delle funzioni dell'arte, «attivare il processo di reintegrazione delle parti sconnesse o celate dell’individuo», segnalando connessioni e rimandi dell'opera di Ballen e Witkin alla storia dell'arte e della letteratura.

44 MARZO 2024
Clock Faced Man (Paris, 1972) di Joel-Peter Witkin

«Queste ferite inflitte al corpo e continuamente piagate per aprire nuovi pertugi dai quali scrutare le viscere alla ricerca dell’immateriale soffio vitale, del fluire sottilissimo della psiche, sono le operazioni più frequenti con le quali Roger Ballen e Joel-Peter Witkin fabbricano la pelle del supporto fotografico parlandoci, attraverso le immagini, di morte, di oggetti, di ombre e maschere. Talvolta è un viaggio anatomico in regressione nella storia della pittura europea,

tra quarti e frattaglie animali e umane, dai Carracci a Rembrandt, da Géricault a Soutine. O forse è come una discarica di oggetti-giocattolo inceppati e rotti dove l’animato e l’inanimato si assorbono nella carne. Mancavano forse di quest’impeto sentimentale gli esperimenti del celebre Victor Frankenstein?».

Fondamentale è anche la dialettica tra normale e anormale, a cui alludono anche i personaggi con la testa ingabbiata. Come scrive

Sergio Fabio Berardini «all’interno vi è ciò che è prescritto come normale e accettabile, all’esterno c’è il mostruoso. Ma occorre chiedersi: la gabbia è stata costruita perché c’è il mostruoso o il mostruoso c’è perché è stata costruita la gabbia? Detto diversamente, il concetto di ciò che male e deviante non si origina proprio nel momento in cui viene definito ciò che è bene e nella norma? E allora, forse a essere mostruosi sono la gabbia e i pensieri e le azioni che essa promuove».

45 MARZO 2024
Bewildered (2003) di Roger Ballen

Sono opere che possono anche suscitare uno shock (propedeutico al risveglio). Che non temono di attingere al campo dell'osceno. Che espongono corpi nudi, anche nei loro aspetti deformi - dove la forma “giusta”, “bella”, “normale”, anche qui, è quella canonizzata da codici critici e senso comune.

C'è anche della pornografia, ma quella “non attraente”, che quindi non si limita ad assecondare desideri più o meno nascosti. Ci sono parti anatomiche esposte insieme a oggetti e fiori, in macabre nature morte. Qualcuno ha anche parlato di pulsione di morte. D'altra parte cosa c'è di più rimosso nella società occidentale? Come dice Witkin: «Volevo che le mie fotografie avessero la stessa forza dell’ultima cosa che una persona vede o ricorda prima di morire»

Ma sono anche opere evocative, che indicano qualcosa di ulteriore, un significato che non vuole essere razionalizzato. Il serpente che segue i contorni di una ragazza. Le maschere infisse su pali lignei che dialogano silenziosamente. Una sirena con i piedi che spuntano dai grandi seni e ali di farfalla che cercano di far volare una donna tatuata con segni misteriosi. Tanti graffiti, figure enigmatiche, elementi che ci riportano a qualcosa di ancestrale, primitivo, mitologico, a volte anche pre-umano.

Li hanno definiti provocatori scandalosi, hanno sottolineato la “perversione” che caratterizza certe composizioni, a volte senza chiedersi il perché di quella esplorazione dei lati più oscuri della condizione umana. Ciò che vogliono fare emergere.

46 MARZO 2024
In alto, Portrait of Joel (New Mexico, 1984) di Joel-Peter Witkin In basso, John behind a man called Mashillo (2000) di Roger Ballen

Modifications on a Sculpture (New York City, 1968) di Joel-Peter Witkin

Scrive Michelangelo Zizzi che in realtà in «Witkin e in Ballen non esiste altro che non sia quel che è, quello che è l’evidenza del residuo, della lotta contro un’immagine igienica, sufficiente al concetto di rappresentazione decente, a favore di un’altra immagine che diremmo impensabile, irreale, improponibile». Si tratta di «stare nell’indicibile, o meglio vedere l’indicibile»

Dice Ballen: «Mi occupo di relazioni visive. Non penso mai a parole.

Non posso davvero dire come una cosa sia collegata all’altra senza vederli insieme. Finché non lo faccio, non so quale sarà il risultato. Che sia un’idea oppure qualcosa che osservi ad innescare un concetto, c’è un livello di intuizione superiore che collega tutto insieme. Non puoi veramente sapere come si uniranno i pezzi finché non vedi la fotografia finale». E Witkin: «Le mie fotografie sono le mie reazioni alla vita, alla storia, ai miti e, soprat-

tutto, a Dio! Il mio lavoro è far sì che l’immagine abbia un contenuto universale».

La mostra, che sarà ospitata dal 16 marzo al 13 aprile nella cornice medievale di Castel Ivano, vuole essere solo una prima tappa. L'idea dell'associazione Chirone e di Fallone Editore è quella di portare le opere dei due artisti americani in giro per l'Italia. È un'occasione unica per conoscere la loro opera perturbante.

47 MARZO 2024

Tessere d'oro e mistici cieli blu, che ispirarono anche Dante

Un percorso tra i celebri mosaici di Ravenna: storie, simboli, significati spirituali

Hanno qualcosa di ultraterreno quelle figure fatte di tessere vitree e d'oro zecchino. E però, allo stesso tempo,

sono il frutto della terra, del lavoro materiale, di un artigianato che si fa arte sublime. Pezzi di cose e di colori trasfigurati in idee, simboli, storie.

I mosaici di Ravenna ci portano in una dimensione misteriosa, quando abbiamo la pazienza di contemplarli a lungo, con calma, immergendoci nel loro tempo sospeso, nel loro spazio immaginario. Complice lo stile bizantino, le figure immobili, ieratiche, o immortalate in un gesto che si riverbera nell'eternità, le forme che galleggiano sullo sfondo dorato, che evoca la luce divina. Ci guardano, spesso, da quell'altrove, come a indicarci la loro distanza incommensurabile, e però instaurando anche una relazione, aprendo a una possibilità di incontro.

La Basilica di San Vitale e quella di Sant'Apollinare Nuovo, il Battistero Neoniano e il Mausoleo di Galla Placidia, sono un concentrato di capolavori che ha pochi eguali, Patrimonio Mondiale dell'Unesco. «I monumenti ravennati sono pietra e oro, semplicità e ieraticità,

fisica e metafisica; nel mondo non ne esistono di eguali», come scrive l'Opera di Religione della Diocesi, che li gestisce. Monumenti resi ancora più importanti dal contesto naturale in cui sono immersi e da quello storico. Da una parte le pinete imponenti, gli specchi d'acqua, il mare, il delta del Po. Dall'altra i personaggi che hanno attraversato questa città che è stata per tre volte capitale: dell'Impero Romano d'Occidente, del re dei Goti Teodorico, dell'Impero di Bisanzio. Una città romana e gotica, bizantina e medievale, anche un po' veneziana, nobilitata dalle spoglie di Dante, capace di ispirare Gustav Klimt, di far innamorare Hermann Hesse, di stregare artisti e poeti di ogni epoca.

L'arte del mosaico ha una lunghissima storia, che ci riporta ai Sumeri, a Ur e Krur, a quando si usavano coni di argilla con una base di smalto, e poi tasselli di madreperla e terracotta. Li si trova in Egitto e nei pavimenti dell'antica Grecia, a Roma e nel mondo islamico. Ma è qui, a Ravenna, che l'arte del mosaico raggiunge il suo vertice.

«Sotto così bel ciel com’io diviso, / ventiquattro seniori, a due a due, / coronati venien di fiordaliso. / Tutti cantavan: “Benedicta tue / ne le figlie d’Adamo, e benedette / sieno in etterno le bellezze tue!»

Questo è uno dei brani ispirati a Dante dalla visione di quelle opere prodigiose. In particolare, in questo caso, la fonte d'ispirazione è il corteo che vediamo sfilare in Sant'Apollinare Nuovo.

48 MARZO 2024
L UOGHI

Quelle figure che hanno suscitato anche le parole commosse del filosofo Max Picard, quando fece visita a Ravenna alla fine del '49, tra le macerie della guerra, ricavandone l'intuizione di una verità che non sta nel singolo, ma nello sfondo dorato, nello splendore che circonda e tiene insieme i personaggi in cammino: «Raramente c'è qualcosa di tanto contrapposto come l'esistenza di quella comunità, in alto, e l'uomo isolato d'oggi. Se anche si togliesse una sola figura da lassù, tutte le altre la seguirebbero, tanto intensamente l'una appartiene all'altra (…) Grazie all'amore viene generata presenza, viene generato tempo: nel tempo generato dall'amore, un evento non se ne fugge più e può avere la sua durata. Ma se all'evento viene a mancare la dedizione umana, esso, non più trattenuto, se ne scivola

via rapidamente, e a un evento ne segue un altro, senza che vengano più generati né presenza né tempo, consumati a loro volta».

In Sant'Apollinare lo sfondo dorato dei mosaici proietta la vita di Gesù Cristo in una dimensione di luce, chiarezza, rivelazione. Lui, regale, con la veste color porpora, l'aureola con la croce gemmata, per evocare la sua umanità e la divinità insieme, il destino di morte e di resurrezione.

Sopra, il celebre mosaico che celebra Giustiniano nella basilica di San Vitale (foto bbcc-ibc-regione-emilia-romagna). In basso, i santi e martiri in processione in Sant'Apollinare Nuovo

Accanto a lui, in ogni tappa, in ogni mosaico, c'è un apostolo, anche quando l'episodio evangelico non lo richiederebbe, a richiamare la testimonianza, e invitare chi guarda a partecipare a quella storia: non bisogna accontentarsi di (ri)conoscerla, si tratta di (ri) viverla.

Sono scene costruite con sapienza, un compromesso ispirato tra la chiarezza del racconto e la composizione formale, i volumi, i colori e il messaggio di salvezza. Tutto è avvolto in un'aura solare, anche le scene più dolorose, tutto è insieme realistico, vivace, ma anche simbolico, geometrico, trasfigurato. Poco importano le proporzioni, di fronte alla sinfonia delle forme e i colori che dialogano tra loro, soprattutto se guardati da una certa distanza. Eppure è chiarissimo il gesto di Gesù quando tocca l'occhio del cieco che sta per schiudersi alla luce. È sorprendente l'espressione di disagio che si legge sul volto di Pilato, quando deve consegnare Gesù alla morte in croce. Ma anche il sorriso dell'angelo, di fronte allo sgomento

delle donne che si ritrovano davanti a una tomba vuota.

GIUSEPPE BOVINI: «SI TRATTA DI ORO SU ORO, DI LUCE SU LUCE, UNA LUCE CHE È DIVENTATA SONORA»

Bellissimo anche lo scorcio architettonico, ornato in modo sontuoso, da cui parte, simbolicamente, la processione che ci fa attraversare la chiesa, per approdare ai piedi di Gesù, seduto in trono, circondato da quattro angeli. La regalità del Cristo era fondamentale all'interno della logica dell'Impero, che esortava il suddito ad essere devoto, e il devoto ad essere un buon suddito.

Ma oggi, che siamo così lontani, in tutti i sensi, da quel modo di intendere la sequela, l'immagine-simbolo del Cristo-Re, immersa in quel mare di tessere dorate, torna a riappropriarsi del suo significato più profondo, a sancire il trionfo di una nuova, diversa “nobiltà”, fondata sulla conversione, l'amore e la purezza di cuore, sulle beatitudini del Discorso della montagna, sull'essere umili, miti, semplici: il “rovesciamento dei valori” inaugurato da Gesù Cristo, il sacrificio della propria volontà egoistica nel nome dell'unione col Padre. A proposito di dire “sì” al progetto divino, sulla parete nord la processione si muove verso Maria, anche lei in trono, col suo pacifico esercito di angeli, seduta su un cuscino trapuntato di stelle, perché l'intero universo deve inchinarsi alla Madre di Dio.

Un piccolo Gesù, già adulto nell'espressione, seduto sul suo grembo, alza una mano, quasi a indicarla, a sottolineare la sua importanza, un gesto che si completa nel braccio alzato di Maria, quasi come se volesse prendere la parola, per dirci qualcosa di fondamentale sulla vita e la morte, sul credere e il salvarsi.

Ma l'occhio è rapito soprattutto da quei santi e martiri in fila indiana, lungo la navata, a partire da san Martino, che guida la processione; la barba folta e i capelli grigi di Clemente Romano, secondo successore di Pietro; Sisto II, con i baffi e i capelli ricci, che subì il martirio nell'anno 258 insieme a san Lorenzo, che lo segue, giovane e biondo, con un lieve sorriso impresso sulle labbra.

50 MARZO 2024

Ognuno di loro è distinguibile e riconoscibile per le caratteristiche fisiche, a volte anche per una sfumatura di carattere che si intravede sul volto, eppure l'effetto complessivo è quello di una comunità celeste, di una realtà sovrannaturale, un ideale che prende forma.

Stessa cosa per le figure femminili di sante e martiri dalla parte opposta della navata, anche se in questo caso prevale un'acconciatura particolare, con i capelli raccolti sulla nuca e una treccia arrotolata sulla sommità della testa.

A guidare il corteo qui è Eufemia di Calcedonia, in un tripudio di vesti dorate e sottovesti bianche, di corone, di stoffe preziose, di ornamenti, decorazioni a forma di stelle e fiori.

Anche qui, seppure ci siano dei tipi ben distinguibili, l'allusione a caratteri, storie, individualità diverse, volti e corpi tendono all'astrazione, alla dimensione del divino. Tanto che i corpi danno l'impressione di essere delle figure geometriche: non c'è nessun tentativo di renderli plastici, realistici. Come sottolinea Jutta Dresken-Weiland nel suo corposo studio dedicato ai Mosaici di Ravenna (un libro di grandi dimensioni e immagini molto belle, edito da Jaca Book, che citeremo più di una volta) «l'oro scintillante dei mosaici, che avvolge anche le figure negli intervalli tra le finestre, contribuisce notevolmente a creare l'idea di un raccoglimento in uno spazio mistico interiore. L'effetto di trovarsi in uno spazio surreale doveva essere ancor più esaltato grazie alla presenza sul soffitto di

travi e cassettoni in oro. La chiesa, secondo Agnello, veniva infatti descritta come “caelum aureum” (cielo dorato)». L'archeologo Giuseppe Bovini ne scriveva così: «Si tratta di oro su oro, di luce su luce, di una luce che è divenuta sonora, di una luce che concorre, insieme con l'infinito ripetersi dei motivi, a far sì che tutto il complesso pittorico diventi musicale».

Adifferenza della maestosa

Sant'Apollinare, il Mausoleo di Galla Placidia, un

L'abside spettacolare di S. Vitale, con un Cristo imberbe che siede su un globo azzurro. Nell'altra pagina, il mosaico in cui si incontrano Abele e Melchisedec

tempo unito alla chiesa di S.Croce, non ha nulla di spettacolare, con i suoi dodici metri per dieci, a croce, e i mattoni a vista. Ma quando entri, vieni proiettato in un'altra dimensione, tutt'altro che luttuosa, nonostante la funzione originaria dell'edificio, un concentrato di iconografia paleocristiana.

51 MARZO 2024

Veniamo accolti da un giovane Gesù nella forma del Buon Pastore, circondato dal suo gregge, anche se lo troviamo seduto su una roccia nella stessa posizione in cui un tempo si potevano trovare le divinità pagane, evocate dagli imperatori romani. Al posto dello scettro, una ferula, il bastone pastorale, a forma di croce.

Ma la prima immagine che salta all'occhio è quello di un santo, con un libro aperto in mano, che si muove verso sinistra, dove lo aspetta una graticola. Probabilmente è il martire Lorenzo, molto popolare un tempo, a cui venne anche dedicata la prima chiesa fatta erigere a Ravenna dalla famiglia imperiale. Tutto, qui, sembra movimento, azione, vita, in modo quasi paradossale, al contrario di ciò che accade nella dimensione senza tempo dei mosaici della basilica. Nelle lunette trasversali, due cervi si avvicinano a una fonte, richiamando il Salmo 42, in cui si chiarisce la metafora mistica: «Come la cerva

NEL

BATTISTERO NEONIANO

OGNI

APOSTOLO HA IL SUO CARATTERE, LA SUA STORIA

anela ai rivi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio». Anzi i cervi sono quattro, circondati da un paradiso di fiori e tralci, di verde e oro, decorazioni vegetali che alludono all'armonia ritrovata, alla pace che accoglie il fedele tornato alla patria celeste. Quattro profeti ostentano i rotoli, come a richiamarci a ciò che loro avevano detto ma nessuno aveva capito, l'annuncio del Redentore. C'è un cristogramma che lo evoca (XP), accanto all'Alfa e l'Omega. Gli apostoli, invece, percorrono le lunette tra navata e transetto, su uno sfondo azzurro e un piano verde che allude sempre al paradiso. Le colombe che bevono evocano lo Spirito Santo, ma forse anche l'anima. Ma è soprattutto quel cielo stellato

che attira lo sguardo e i cuori: 567 stelle su fondo blu, con una grande croce al centro rivolta a oriente, come ad aspettare il ritorno di Cristo: «Allora apparirà il segno del Figlio dell'uomo in cielo e piangeranno tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria».

Si esce dal mausoleo con lo sguardo che tende all'insù, quasi cercasse le stelle da qualche parte, proiettato in un altrove simbolico che trova il suo compimento nel Battistero Neoniano e la sua cupola immaginifica. Qui l'occhio si trova a girare lungo i cerchi concentrici, come fossero una spirale. A partire dal cerchio esterno, che sembra quasi dialogare con la profezia apocalittica, visto che il fregio è composto di nicchie in cui spiccano dei troni su cui stanno appoggiate stoffe color porpora e oro, quasi stessero aspettando il ritorno regale del Cristo.

52 MARZO 2024

Ci sono anche balaustre traforate, alberi, arbusti, un altare sorretto da quattro colonne, i Vangeli, e poi un catino a forma di conchiglia, una poltrona preziosa su cui è appoggiata una corona d'oro. La processione degli apostoli è pura astrazione ultraterrena, con figure inscritte nel verde e nel blu, vestite d'oro, alternate a candelabri vegetali dorati anche loro. Eppure le figure hanno ognuna un proprio carattere, e anche un nome inscritto. Sono esseri umani con una loro storia, le espressioni vivaci, i movimenti che li fanno sembrare vivi. Sono uomini che hanno risposto a una chiamata, che hanno guadagnato un posto nella storia della salvezza, in un'ottica cristiana, in cui l'incarnazione abolisce il confi-

ne tra il sacro e il profano. Qual è il momento in cui inizia ufficialmente quella storia? Il battesimo di Gesù, che qui sta nella sommità della cupola, un'immagine che al centro ha una croce gemmata, quasi a ricordarci quale sarà l'apoteosi di questa vicenda, la morte e la resurrezione del Cristo.

C'è una figura che è la rappresentazione allegorica del fiume Giordano. Gesù è immerso fino al bacino, il corpo visibile in trasparenza, con una barba e un'aureola che sono stati aggiunti dopo un antico restauro.

Probabilmente, in origine, doveva apparire come il giovinetto che vediamo nel Battistero degli Ariani, sul cui capo Giovanni pone la sua mano, mentre una colomba

sembra letteralmente precipitare dall'alto, illuminandolo con una luce azzurra-cielo. Qui è tutto più semplice e diretto, non c'è la spettacolare trasfigurazione del battesimo neoniano, gli apostoli mantengono una loro personalità, si differenziano per l'età, ma sono meno solenni nel loro incedere.

Nulla però è paragonabile all'effetto che suscitano i mosaici di S. Vitale, che accoglie il visitatore dentro uno spazio ottagonale, sormontato da una cupola, che attrae lo sguardo e lo spirito. Marmi, stucchi, pavimenti riccamente decorati, colonne imponenti, archi, fregi; gli occhi si aggirano stupefatti, fino ad approdare al presbiterio.

Gesù in forma di "buon pastore" ci accoglie all'interno del Mausoleo di Galla Placidia. Nell'altra pagina, il battesimo di Gesù al centro del Battistero Neoniano (foto bbcc-ibc-regione-emilia-romagna)

53 MARZO 2024

Qui il busto di Cristo, con i capelli e la barba particolarmente lunghi, e il libro dell'Apocalisse tenuto chiuso tra le mani, è affiancato da Pietro e Paolo. Qui i mosaici, sono stupefacenti per la ricchezza di forme e colori, la nitidezza, la raffinata eleganza.

Vecchio e Nuovo Testamento dialogano tra loro. C'è Abramo, con Sara, che accoglie tre uomini presso la quercia di Mamre, e c'è il sacrificio di Isacco, nel momento in cui la mano del padre, con la spada in mano, viene fermata da quella di Dio, che sbuca dalle nuvole. Si evoca il sacrificio del Figlio di Dio, ma anche l'eucaristia, esattamente come accade nell'altra lunetta, in cui incontriamo Abele (figura del Cristo sacrificato) e Melchisedec (il primo ad offrire pane e vino nella Genesi biblica). Ma qui lo sguardo viene catturato, inevitabilmente,

dalla mano che scende dal cielo, in dialogo, come tutto il mosaico, con l'immagine contrapposta. In quelle pareti dai colori vividi, i verdi brillanti, i blu profondi, incontriamo anche Isaia, Geremia e Mosé, il “piano salvifico di Dio”, e i quattro evangelisti.

IN S.VITALE C'È UN DIALOGO TRA VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO E LA MANO DI DIO CHE SBUCA DALLE NUVOLE

Gira quasi la testa quando lo sguardo finisce sulla volta, un tripudio di forme vegetali e animali, circoscritti in tralci e in macchie dorate, che sembrano la personificazione dell'idea creativa divina, esaltata da questo Eden lussureggiante, mentre gli angeli ai quattro punti cardinali

reggono un cerchio, le cime della volta, dentro cui è inscritto l'Agnello, in un cielo di 27 stelle (tre per tre per tre). Tutto è chiaro, da godere con la vista, e tutto è simbolico ed esoterico, da capire con l'intelletto d'amore, non solo con la ragione. Nell'abside troviamo un altro Cristo, questa volta giovane e imberbe, il cui trono è un globo azzurro: non solo la Terra, ma il cosmo intero. Sta regalando una corona tempestata di pietre preziose al martire Vitale, mentre il vescovo Ecclesio gli dona un modellino della chiesa. Ma i mosaici più ammirati in questo luogo non sono quelli più significativi da un punto di vista spirituale o teologico. Non c'è ombra di dubbio sul fatto che il più impressionante in assoluto sia quello che ritrae l'imperatore Giustiniano, insieme all'arcivescovo Massimiano e a un gruppo di soldati e di chierici. Un'opera realizzata completamente in tessere di pietra. L'espressione, per entrambi, è quella della concentrazione, il volto corrucciato, come fosse impegnato in chissà quale grande pensiero riguardo il governo dell'Impero e della Chiesa. Ma se Giustiniano è un tipo ideale, un volto per così dire standard, nella sua forza, bellezza, nettezza, quello di Massimiano sembra un ritratto quasi realistico, se non proprio impressionistico, con una forte caratterizzazione individuale. Sulla parete sud, invece, troviamo Teodora, ritratta molto più giovane di come doveva apparire a quei tempi, mentre un cortigiano le fa strada, scostando una tenda. Il volto è incastonato in pietre di ogni tipo, una corona sfarzosa, gemme, perle, smeraldi.

54 MARZO 2024

Le mani reggono un calice, che assume i caratteri del dono, visto il richiamo ai re Magi sulla sua veste. La accompagnano sette dame di corte, riccamente vestite anche loro. L'imperatore e la sua consorte portano i loro doni a Cristo, verso il quale sono rivolti, sottolineando il fatto che il potere politico è sottoposto a quello divino, con la mediazione del vescovo.

Per completare questa immersione nell'arte del mosaico, bisogna spostarsi a sud di Ravenna, a 5 chilometri circa, un doveroso omaggio a Sant'Apollinare in Classe, con la sua veste tempestata d'api (simbolo dell'abilità retorica), la figura insieme semplice e imponente, isolata com'è dentro un verde Eden, popolato di piante sempreverdi che evoca-

no l'eternità, da pini e cipressi, alberi di alloro e di ulivo, ma anche uccelli, pietre e, naturalmente, le pecore, il gregge cristiano. Con il santo che allarga le braccia, come a suggerire la sua “imitatio Christi”. Sopra di lui, la celeberrima trasfigurazione. «Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Pietro disse: “Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosé e una per Elia. Non sapeva infatti cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». Ma se il racconto del Vangelo è chiaro, diretto, quasi realista (realismo magico, metafisico, mistico), nel mosaico l'episodio

acquista un carattere visionario e astratto, con Elia e Mosé a mezzo busto, immersi in nubi luminose, la mano di Dio che spunta dal cielo dorato, gli apostoli in forma di pecore, e Gesù trasfigurato in una croce enorme (il suo volto è al centro), immersa in un cielo tempestato di stelle. “Salus mundi”, recita una scritta alla base, per rendere esplicito il concetto. La salvezza, dice il mosaico, è in quella croce. E chi guarda, a prescindere dalla fede o dalla mancanza di fede, si ritrova con lo sguardo pieno di blu, illuminato d'oro, la luce divina, che permette di vedere la realtà oltre l'apparenza, la sostanza invisibile dell'universo, dentro cui siamo immersi. Un invisibile che possiamo contemplare guardando il mosaico, che possiamo intuire, facendolo risuonare in noi.

55 MARZO 2024
La croce immersa in un cielo stellato in Sant'Apollinare in Classe (foto bbcc-ibc-regione-emilia-romagna)

Quella pace "trascendentale" che può guarire il mondo

LA MEDITAZIONE È GIOIA E PIENEZZA, MA È ANCHE SOCIALMENTE UTILE NE PARLIAMO CON GABRIELE FANCELLO, DELLA FONDAZIONE MAHARISHI

Immaginate un uomo condannato all'ergastolo, un pluriomicida, che vive nella sua gabbia mentale, invisibile, forse, ma non meno oppressiva di quell'altra, fatta di cemento e sbarre d'acciaio. Immaginate cosa possa pensare un uomo diventato un assassino, vittima dei suoi impulsi e della sua rabbia, della Meditazione Trascendentale. Con quell'aggettivo così impegnativo, che evoca qualcosa di misteriosamente spirituale. Con l'equivoco che accompagna questa pratica un po' esotica (per l'uomo d'azione), l'idea peregrina di doversi sforzare per rimanere immobili, a occhi chiusi, e immergersi dentro di sé. Ma di fronte alla possibilità di godersi un po' di pace, di sperimentare un “profondo riposo” – perché di

questo si tratta – decide di provarci. Si fida dell'uomo che è venuto a parlargli di questa tecnica, una persona gentile, appassionata, che dedica la sua vita a portare la meditazione ovunque, convinto che possa aiutare le persone e cambiare il mondo. Il carcerato medita per 20 minuti, due volte al giorno, la mattina e la sera, giudiziosamente. E cosa succede? Che qualcosa si apre in lui. Che il buio improvvisamente si illumina. Che intuisce chi è veramente, cosa c'è dentro di sé, nel profondo, e prova una gioia misteriosa, senza perché. Immaginate quest'uomo, destinato a vivere in una cella per il resto dei suoi anni, con la sua espressione solitamente truce, i modi spicci, dopo una settimana di meditazione. Incontra di nuovo la persona che lo ha convinto a provarci, e lo abbraccia, con tutta la forza che ha, mettendosi a piangere per l'emozione. Ecco cosa può fare la meditazione. Bisognerebbe parlare anche di questo, quando si affronta il tema, perché non passi l'idea che si tratti di una banale “tecnica del benessere psicofisico”, con l'unica funzione di rendere la vita un po' meno stressante. Anche se poi, tra i suoi effetti, c'è anche questo, un senso di calma interiore e anche di gioia, di chiarezza mentale, una nuova consapevolezza, che ti permette di gustare meglio le cose della vita, che ti rende più efficace ed efficiente nelle cose che fai, più creativo, ma anche più attento agli altri, e intuitivo, più sensibile al visibile e all'invisibile.

La Meditazione Trascendentale è una tecnica capace di cambiare la vita delle persone. Ma proprio per questo ha anche una funzione sociale.

I DEE
56 MARZO 2024
Gabriele Fancello

È utile nelle carceri e negli ospedali, ha un effetto potente sui bambini, a scuola, così come sugli insegnanti, è un modo per rendere il lavoro nelle aziende più gratificante e quindi anche produttivo. Sembrerebbe quasi una panacea, e in effetti, in un certo senso, lo è. Se non fosse che la nostra mente è complicata, così come la società creata dalle nostre menti, alimentata da pregiudizi, sentimenti contrastanti, istinti inconsapevoli.

Ci sono i materialisti, allergici a qualsiasi cosa evochi una ricerca interiore. E ci sono gli spiritualisti, che invece guardano con sospetto alla semplicità di questa tecnica e alla sua utilità pratica. Gli uni e gli altri sono fermi a un'idea della realtà fondata sul dualismo tra spirituale e materiale, che Maharishi Mahesh Yogi ha inteso superare con la diffusione della MT (Meditazione Trascendentale) e l'idea che alla base, alla radice di ogni cosa, ci sia l'Essere – che ognuno può chiamare come vuole, secondo le proprie convinzioni filosofiche o religiose, perché non si tratta di credere in qualcosa, ma di farne esperienza, portando alla coscienza ciò che di solito è relegato nel “non-manifestato” (trascendentale, appunto).

Una lettura illuminante, da questo punto di vista, è La scienza dell'essere e l'arte di vivere, letteralmente dettato da Maharishi nel giro di qualche settimana, nel 1963, a chi gli chiedeva di mettere su carta il suo insegnamento, maturato dopo dodici anni trascorsi tra le montagne dell'Himalaya insieme al suo guru, Swami Brahmananda Saraswati. Tutto è partito dall'India, dove Maharishi si è anche laureato in fisica

all'Università di Allahabad, per poi diffondersi in Occidente come una marea, grazie a una serie di incontri ed eventi che possono apparire fortuiti solo a chi crede che il mondo sia governato dal caso. Di fatto oggi esistono più di mille centri MT diffusi nel mondo e decine di enti, associazioni, aziende legate a questa realtà, nata come “Movimento per la rigenerazione spirituale”.

In quel libro Maharishi propone un incontro fra il pensiero millenario dei Veda e le scoperte più recenti della scienza (soprattutto della fisica quantistica).

L'Essere è Sat-Chit-Ananda, coscienza di beatitudine, è l'Assoluto e il Divino, la Realtà ultima, il Brahman, illimitato e immutabile, ma che si esprime nei mutevoli stati relativi della creazione. È la natura essenziale della mente, ciò che sta alla radice del pensiero, ma anche di tutte le cose che esistono nell'universo. Per Maharishi «l'espansione della felicità è lo scopo della creazione». L'evoluzione è crescita, espansione, la natura procede verso la consapevolezza, e il nostro compito è quello di provare a entrare in sintonia con questa realtà profonda, intelligente, creativa.

Da più di sessant'anni la pratica della Meditazione Trascendentale continua a portare i suoi frutti, nella vita di milioni di persone, ma anche in scuole, ospedali, carceri, in situazioni di disagio e marginalità
57 MARZO 2024
Foto di gruppo dei 10.000 meditanti MT che hanno partecipato all'Assemblea per la Pace in India

Una storia cominciata nel 1958, che ha coinvolto anche i Beatles e che oggi vede tra i suoi praticanti più fedeli artisti geniali come il regista David Lynch

C'è chi continua a sostenere che «una vita di attività nel mondo è opposta allo stato dell'assoluta coscienza di beatitudine. Questa interpretazione sbagliata ha creato l'abisso che esiste da molti secoli fra i valori spirituali e materiali», con tutto ciò che questo comporta in termini di nevrosi, facendo crescere «la sofferenza, l'infelicità, le tensioni».

La via della MT è quella dell'armonizzazione tra i valori dell'Essere e quelli dell'attività (il campo del karma, che va “glorificato”, invece di diventarne schiavi), di renderci consapevoli che la nostra onda (la vita individuale) è parte di un oceano più vasto. La pratica meditativa consente di andare oltre la superficie dell'attività mentale, immergendosi in profondità in quell'oceano, portando l'attenzione oltre i pensieri e le sensazioni più sottili, fino a vivere l'esperienza della trascendenza. Primo passo indispensabile per far sì che l'Essere, giorno dopo giorno, entri sempre più nella nostra vita cosciente, apportando pace, sicurezza, gioia, in ogni aspetto della nostra realtà quotidiana.

L'uomo o la donna d'azione, poco sensibile allo spirituale, può pensarlo come il “campo unificato” che genera le leggi della natura, una forza a cui attingere per riuscire ad esprimere al meglio i propri talenti e utilizzare il cervello alla sua massima potenzialità. Lo spirito

religioso, invece, può viverla come un cammino verso la realizzazione del Sé, avendo come orizzonte «una vita di eterna libertà nella pienezza», in cui «l'amore universale fluisce e trabocca dal cuore e l'intelligenza divina colma la mente», perché «la coscienza di Dio unifica i valori assoluti e relativi della vita».

Tutto questo, in un certo senso, si ottiene quasi automaticamente, accettando il fatto che non si tratta di compiere qualcosa, di fare, sforzarsi, concentrarsi, ma di “arrendersi”, lasciare andare, abbandonarsi alla pace e alla beatitudine (la tecnica è semplice, ma non facile, bisogna uscire da certi schemi mentali ed esercitarsi con costanza, dopo di che tutto accade spontaneamente). Si tratta di tornare in sintonia con le leggi dell'universo, con cui possiamo collaborare, invece di continuare a fare la guerra alla natura e agli altri uomini, a una vita che non ci piace, al destino. «Continuando costantemente ad addentrarsi nel dominio del trascendente, e a ritornare nel campo dell'esistenza relativa, la familiarità con la natura essenziale dell'Essere si approfondisce e la mente diventa gradatamente più consapevole della propria natura essenziale»

C'è stato un tempo, decenni fa (tutto parte dal 1958), in cui la MT era diventata un fenomeno quasi pop, grazie anche ai Beatles e al loro rapporto privilegiato con Maharishi. Oggi l'uomo simbolo è il geniale regista David Lynch, che questa tecnica la pratica da decenni, quotidianamente, e che è diventato uno dei più impegnati nella sua diffusione nel mondo, soprattutto in progetti speciali nati per raggiungere le persone più disagiate.

58 MARZO 2024

In effetti la MT gode di un seguito stupefacente nel mondo del cinema, dello sport, dell'economia: da Clint Eastwood a Cameron Diaz, da Kate Perry a Oprah Winfrey, e poi Martin Scorsese, Jim Carrey, Jennifer Aniston, Nicole Kidman, ma anche Moby, il musicista, e il tennista Djokovic, Sting e Paul McCartney, l'imprenditore Ray Dalio e numerosi manager di grandi aziende. Quasi inutile sottolineare il perché:

i suoi effetti benefici sulla performance e sull'umore, sull'equilibrio emotivo e la chiarezza mentale, sono fondamentali per chi vive una vita particolarmente stressante e creativa.

Il rischio però, quando si citano vip e testimonial, è quello di perdere di vista il centro della questione. Quello di una tecnica semplice, alla portata di tutti –la praticano oltre 10 milioni di persone nel mondo, più di 60 mila in Italia - che richiede solo due sedute di 20 minuti al giorno, praticabili ovunque, fondate

sulla ripetizione di un mantra (un suono più che una parola), assegnato da un insegnante qualificato (ognuno ha il suo), dopo una semplice cerimonia di iniziazione. Si parte da una conferenza introduttiva, si impara la tecnica, dopo aver ricevuto il mantra, poi ci sono tre sedute di controllo, da un'ora e mezza ciascuna.

C'è chi critica il fatto che venga richiesto un pagamento in denaro. Esiste tutta una pubblicistica velenosa, con risvolti anche un po' qualunquisti, che parla di un impero costruito intorno alla MT. Ma quel pagamento, quel sacrificio richiesto al meditante, una sorta di pegno anche simbolico, vale come promessa di impegno, come un investimento sulla propria vita, che in Occidente - dove tutto si misura in denaro - non può che passare attraverso il pagamento di un obolo (paragonabile alle cifre che si spendono in palestre, viaggi e altri divertimenti “a fondo perduto”).

Esercizi di pranayama durante l'Assemblea di Hyderabad. Nell'altra pagina, "lezione di quiete" a scuola

59 MARZO 2024

Come dire: ho intenzione di prendere sul serio quello che sto facendo. In cambio si ottiene una specie di iscrizione a vita, la possibilità cioè di avere un insegnante a cui rivolgersi in ogni momento, in qualsiasi Paese. E comunque chi non se lo può permette viene aiutato dall'organizzazione: il principio è che la MT deve arrivare a tutti; chi ha disponibilità economiche finanzia anche progetti e borse di studio che vanno incontro a chi non ha questa possibilità.

Poi c'è l'altro lato della questione: il finanziamento di una realtà che nei decenni si è diffusa in modo capillare in giro per il mondo, e che dedica molte risorse alla formazione di nuovi insegnanti, ma anche alla fondazione di centri di studio e università, oltre che alla realizzazione di importanti progetti sociali. E qui torniamo al punto da cui siamo partiti. Perché la MT è anche una sorta di progetto utopico, in realtà estremamente concreto, pratico, che porta i suoi frutti ormai da decenni.

Motivo per cui abbiamo voluto incontrare Gabriele Fancello, presidente della Fondazione Maharishi in Italia, che porta avanti numerosi progetti, anche in situazioni di degrado sociale, a rischio di marginalità. Andate sul sito, fondazionemaharishi.org, per scoprire cosa può fare la meditazione, i risultati raggiunti in ospedali e scuole (il progetto “Scuola Senza Stress”,

per promuovere “momenti di quiete in classe”), le aziende importanti che hanno offerto la MT ai propri lavoratori, l'esperimento nelle carceri chiamato “Freedom Behind the Barriers” (libertà dietro le sbarre), le proposte per chi lavora nelle forze dell'ordine. Gabriele Fancello ha fatto anche esperienze dirette del cosiddetto Effetto Maharishi, forse l'aspetto più misterioso e difficile da recepire per gli scettici. Quella forza che si produce quando molte persone si riuniscono per meditare insieme, generando un'energia che influenza anche chi non medita.

Abbiamo parlato anche di questo, in un incontro-intervista particolarmente emozionante. Incontrare persone come Gabriele – che comunicano pace, serenità, verità umana, che sorridono spesso e volentieri, che si commuovono parlando delle persone “guarite” dalla meditazione – vale più di mille parole. Abbiamo parlato di come ha scoperto la MT, lui che di mestiere fa l'assicuratore, e il modo in cui gli ha cambiato la vita; di come agisce la tecnica, “in accordo con le leggi della natura”, ma anche della sua funzione sociale; dell'esperienza illuminante che porta a scoprire la “mente cosmica”, ma anche di quanto sia bello fare del bene, ogni giorno.

Raccontaci come hai scoperto la Meditazione Trascendentale e come ha cambiato la tua vita.

Io ho cominciato a meditare nel 1987. Era un periodo in cui lavoravo tantissimo, facevo corsi di vendita per diverse aziende. Ero a un livello di stress a rischio di burn-out. Un giorno un mio carissimo amico mi dice: “Sai, io faccio Meditazione Trascendentale”. Gli dico: “Cos'è che fai?”; “Meditazione”; “No, quell'altra cosa che hai detto”... Ecco, quel termine, “trascendentale”, mi ha catturato. Mi ha dato l'idea di qualcosa che cercavo dentro di me: il trascendere, l'andare oltre. Gli ho detto: “Voglio subito iniziare questa cosa!”. Ci ho messo tre secondi a decidere. Ha risuonato nella mia mente e nel mio cuore.

Anche se eri una persona molto razionale. Lo sono ancora. Ma la razionalità è solo un aspetto dell’esistenza, è come usare solo una parte del cervello, in questo caso l’emisfero sinistro, che è analitico, pratico, organizzato, che è logico e razionale.

60 MARZO 2024
Gabriele Fancello

Noi, come ci insegna la psicologia, utilizziamo solo il 5-10 % delle nostre possibilità mentali, ma abbiamo un cervello che, se integrato, ci permette di vivere la totalità del nostro potenziale.

Tutti noi, anche se non pratichiamo la meditazione, quando andiamo a letto, viviamo quel momento in cui chiudiamo gli occhi e stiamo per addormentarci, quando l'attenzione si rivolge all'interno. Lì, tra la veglia e il sonno, c'è inevitabilmente il contatto con quel Sé profondo che sta all'origine di tutti quanti noi, e che si trova al livello trascendentale.

Io non sapevo queste cose, le ho scoperte dopo, ma sentivo l'impulso interiore, la trascendenza che mi chiamava. Tutti quanti ce l'abbiamo! Qualcosa dentro di noi, che non sappiamo cos'è. Questa cosa avvia una ricerca, che di solito, per educazione, cultura, formazione, facciamo all'esterno di noi. Una ricerca che risponde a un impulso ben preciso, quello dell'evoluzione. L'impulso invincibile a portare a compimento la vita di ogni essere, dal filo d'erba all'essere umano.

La nostra risposta a questo impulso, che possiamo anche chiamare ricerca del benessere e della felicità, può essere consapevole o inconsapevole. In realtà stiamo cercando di realizzare la nostra essenza. In qualsiasi situazione ci troviamo noi vogliamo stare bene: se stiamo male vogliamo stare bene, se stiamo bene vogliamo stare

meglio... Questo è un impulso naturale, invincibile, che tutti noi conosciamo.

Vogliamo sentirci compiuti.

Il girasole cerca il sole per vivere, noi cerchiamo relazioni, lavoro, emozioni. Ma l'impulso è lo stesso. La differenza è che noi esseri umani abbiamo qualcosa che non ha nessun altro, la corteccia prefrontale, che è in grado di elaborare, decidere, calcolare, essere consapevole di sé.

È anche in grado di complicarci la vita. Infatti. Io cerco, ma cerco cosa? Cerco la soddisfazione di quell'impulso naturale, primordiale, profondo, ma purtroppo lo cerco nel luogo sbagliato, ad esempio negli oggetti: compro una cosa e mi dà una sensazione di realizzazione, ma dopo ho bisogno di una cosa più grande. Questa è la cosiddetta “felicità effimera” di cui ormai parlano tutti.

Ma a me piace stare sulle cose semplici, perché la natura è semplice, anche se noi complichiamo le cose. A un certo punto c'è un momento in cui ci stiamo acquietando, stacchiamo il contatto con l'esterno, e l'attenzione va per una frazione di secondo all'interno; però in quel punto perdiamo la vigilanza e ci addormentiamo, perché il nostro sistema nervoso non è in grado di mantenere la coscienza di quel pensiero sottile.

61 MARZO 2024

La Meditazione Trascendentale consente quindi di arrivare a quella profondità mantenendo la coscienza vigile.

Esattamente. La Meditazione Trascendentale è una tecnica, è una leva per spostare grandi massi. Quando ho sentito “trascendentale” è stata come una bomba dentro di me. Il giorno dopo sono andato da un'insegnante di MT, a Bressanone, ho seguito la conferenza introduttiva, ed ero così affascinato da ciò che ascoltavo, ogni parola corrispondeva esattamente a ciò che stavo cercando, senza saperlo. Risuonava nella mia natura, la mia fisiologia.

Cosa è cambiato in te da quando hai cominciato a praticare?

Nell'arco di due settimane si è svuotato il mio “recipiente” che ormai era pieno di immondizia, tutte quelle cose che accumuliamo nella mente, nel cervello, nei sistemi nervoso, cardiovascolare e linfatico. Cose che non riusciamo a elaborare, a digerire e a eliminare, e che ci portano pian piano alla malattia. Nell'arco di quelle due settimane ho avuto un'esperienza così piacevolmente devastante, che ha cambiato tutti gli aspetti della

Sono centinaia, ormai, le ricerche scientifiche che studiano gli effetti della Meditazione Trascendentale sul cervello, misurabili con l'elettroencefalogramma e la risonanza magnetica

mia esistenza, liberandomi da ogni tipo di stress. Stavo così bene che, tornato dalla mia insegnante, ritenendomi “guarito”, le ho chiesto se invece di 20 minuti potevo meditarne 5. Lei, perplessa, quasi mettendosi a ridere, mi ha detto: “Se vuoi, va bene”. Dopo un paio di settimane ho capito quanto ero stato cretino. Se una cosa ti fa così bene anche con soli 5 minuti, cosa vuoi che siano 20 minuti al mattino e al pomeriggio? Quanto tempo spendiamo in stupidaggini spesso dannose per la nostra salute e il nostro benessere?

Adesso che pratico tutte le tecniche avanzate, medito circa un'ora la mattina e un'ora la sera e faccio quattro volte le cose che facevo prima di meditare. Il bello è che ora quelle cose me le godo. Dove è andato a finire il tempo? Quando la mente si libera dalle tensioni, dagli stress, sa benissimo ciò che deve fare, e invece di metterci un'ora a decidere o a organizzare, ci mette un secondo. Il tempo si dilata.

Il tuo era un approccio completamente laico. Non parlavi di Essere, Divino, Assoluto. Assolutamente no, era qualcosa che riguardava la mia natura, il mio bisogno psicofisiologico che risuonava dentro. Ora lo chiamo Sé, ma ai tempi lo chiamavo “quel qualcosa che è dentro di me”, la matrice. Questa tecnica permette alla mente, in maniera del tutto spontanea, senza sforzo, di acquietarsi fino a un livello che è due volte più profondo di quello che ottieni dormendo. In quello stato, la mente trova la sua stessa sorgente, che si trova al di là dei nostri pensieri. Ne abbiamo un'esperienza diretta. Non abbiamo solo l'idea di conoscerla, ma la viviamo, è lì.

Difficile spiegare l'esperienza della trascendenza a chi non l'ha mai sperimentata.

La nostra capacità di spiegare arriva fino a un certo punto. Abbiamo delle apparecchiature che possono spiegare cos'è l'energia, cos'è la materia, ma a un certo punto la materia si fonda su qualcosa che non è materiale, e così anche l'energia. Non ci sono strumenti per indagare ciò che è alla base di ciò che c'è. Gli antichi rishi lo chiamavano “campo di pura coscienza”. L'unico strumento per indagare quel campo è la coscienza stessa, facendone esperienza. Ipotizzarlo o immaginarlo non serve a nulla, solo l’esperienza diretta di questo campo ce lo fa conoscere.

62 MARZO 2024

Le parole sono limitate. Non puoi spiegare l'amore in termini biochimici. Il gusto della fragola come lo spieghi? Il biologo ti può parlare di come reagiscono i sensi, il chimico può dirti la composizione della fragola, ma io non conoscerò quel sapore finché non lo assaggio. La stessa cosa accade per quel livello della coscienza che è dentro di noi, che tutti possiamo percepire, nel dormiveglia, tra uno stato di coscienza e l’altro, perché riguarda la nostra natura più profonda, non la cultura o la religione. I nomi, le parole e il significato che gli diamo spesso confondono, e a pensarci, spesso sono causa di conflitti! Ma quando sperimenti quel Campo le parole non servono. Puoi chiamarlo Dio, Pura Coscienza, Campo unificato di tutte le leggi di natura, come lo chiama la fisica quantistica… ma parliamo della stessa cosa, la sorgente di ogni cosa visibile e invisibile nell’intero universo, che è onnisciente, onnipresente e onnipotente.

Quando si sperimenta quello stato di coscienza, si possono vivere esperienze liberatorie. A un certo punto ho vissuto davvero un'esperienza “cosmica”, come viene chiamata. Dentro di me si è aperto l'universo. Come se potessi sperimentare in un istante la portata dell'infinito. Mi sono detto: “Ma allora io sono questo?” Un conto è leggere i grandi filosofi e maestri che parlano dell'infinito, del macrocosmo e del microcosmo, a livello intellettuale, un altro è sperimentarlo. Perdi le paratie del tempo e dello spazio, i limiti dell'intelletto, dell'ego. Tutto si apre, tutto diventa uno, per una frazione di secondo, perché di più non lo potresti sopportare. Lì mi sono detto: questa cosa mi nutre per l'eternità!

A quel punto ti è venuto il desiderio di condividere quell'esperienza. Di contribuire a diffonderla.

Volevo dare alla persona che mi ha donato questa esperienza (Maharishi), ciò che la natura mi ha dato di meglio. In quel momento io avevo una sub-agenzia di assicurazioni a Bolzano. Dopo aver fatto quel pensiero, tempo un quarto d'ora, hanno suonato il campanello e sono arrivati quelli che io chiamo, scherzando, i “Re Magi”. Tre tedeschi, tre fratelli, oggi miei amici, che mi hanno chiesto di partecipare a un progetto di Maharishi. Mi sono detto: “Ho espresso un desiderio solo un quarto d'ora fa. È così che funziona?”.

63 MARZO 2024
A fianco, Maharishi Mahesh Yogi In alto, Tony Nader, il neuroscienziato che sta portando avanti la sua missione nel mondo

All'Assemblea della Pace, in India, i meditanti, provenienti da 139 Paesi del mondo, hanno continuato a praticare per settimane, a tutte le ore del giorno, con qualsiasi condizione metereologica.

Ero strabiliato. Da quel momento ho dato il mio tempo e tutto ciò che potevo per portare l'esperienza della trascendenza al maggior numero possibile di persone. Anche se io preferisco chiamarla “esperienza di profondissimo riposo”. Perché se la chiamo trascendenza rischio di confondere le persone. Quando parlo nelle scuole, nelle carceri o nelle aziende di un'esperienza di profondo riposo, sono tutti interessati, perché tutti ne hanno bisogno. Di nuovo, l’importanza delle parole, anche se poi l’esperienza è la stessa!

È anche un'esperienza di gioia, che ti lascia con un sorriso stampato sulla faccia. E il senso di “fare la cosa giusta”, di “tornare a casa”.

Fare la cosa giusta! Quanto è bella e profonda questa cosa. Sì, fare la cosa giusta ti dà una sensazione molto bella, nutriente, è una sensazione dolce, di calore nel petto!

“Se cerchi qualcosa, cercala dentro di te”, è una di quelle frasi che ci sentiamo ripetere da sempre. Lo dicevano i filosofi greci e sant'Agostino, i Veda e il buddhismo, le religioni di ogni tempo e latitudine, ma anche la poesia e la letteratura. Il problema è: come? Le risposte sono sempre state estremamente diverse. Oggi, ad esempio, si parla molto di mindfulness. Perché pensi che la MT sia la risposta giusta?

Tengo a precisare che ognuno deve seguire il percorso a lui più consono, ma se vogliamo capire empiricamente la differenza tra una tecnica e l’altra, ci viene in soccorso la scienza, strumento straordinario per acquisire conoscenza. Ogni tipo di esperienza che facciamo ha un suo corrispettivo nella fisiologia, con una caratteristica cerebrale ben precisa, misurabile con gli strumenti che abbiamo, tipo l'elettroencefalogramma. C'è una ricerca molto bella, randomizzata, che ha analizzato 146 studi, sulle tecniche esistenti per combattere l'ansia.

64 MARZO 2024

L'ansia è il primo campanello di allarme di uno stress tossico. La ricerca dice che quasi tutte le tecniche hanno dato un buon risultato, ma solo fino all'effetto placebo: cioè ci dice che devi crederci perché funzioni. Invece la concentrazione, ad esempio nella meditazione zen, aumenta l'ansia, perché si tratta di un esercizio impegnativo per la mente, facciamo molta fatica a concentrarci. Perché? Perché è innaturale.

Ma il dato impressionante è quello relativo alla MT, perché in questo caso l'efficacia non dipende dal fatto di crederci: bypassa l'organo di controllo del cervello e l'amigdala, gli strumenti di cui il cervello dispone per mettersi in allarme. La MT ha dato risultati due volte più significativi della tecnica più efficace dal punto di vista dell'effetto placebo.

Le forme di meditazione non sono tutte uguali. Ce ne sono di tre tipologie. La prima è la contemplazione, quando contempli e ragioni su qualcosa, ti immergi nel suo significato emotivo. Ma per farlo, la mente deve rimanere in superficie, perché deve elaborare, quindi non c'è trascendenza. L'encefalogramma, in questo caso, mostra onde cerebrali che indicano una certa fatica nel meditante. La seconda è la concentrazione: si tratta di dirigere la mente in un punto, una tecnica diametralmente opposta alla trascendenza. Se ti concentri, stai cercando di riempire un recipiente che è già pieno e che invece andrebbe svuotato. Come lo svuotiamo? Con l'auto-trascendenza. La MT sviluppa onde cerebrali completamente diverse dagli altri tipi di meditazione, onde “alfa di tipo 1”, caratteristiche di un quarto livello di coscienza completamente diverso da quelli che conosciamo di solito, cioè lo stato di veglia, di sogno e di sonno. Il quarto livello di coscienza è caratterizzato da uno stato di profondissimo riposo, due volte più profondo di quello che otteniamo in una notte di sonno, ma le sue onde sono caratterizzate da uno stato di veglia.

Tecnicamente si definisce “stato ipometabolico di chiara vigilanza”.

Uno stato di profondo rilassamento in cui però sei vigile, e che ti permette di ritornare all'attività perfettamente riposato. Fare mindfulness è come andare in vacanza, è bellissimo, ma poi non vuoi più tornare al lavoro. Con la MT, invece, liberi la mente e torni ad

apprezzare ciò che fai nella vita. Quante persone sono vicine al burn-out e non riescono a godersi più il loro lavoro, che magari è bellissimo? Penso ad esempio ai medici o agli insegnanti.

Se sei un recipiente pieno, non riesci neanche a chiudere gli occhi, non ti godi niente, diventi un robot, intollerante e irascibile. Ma se elimini gli stress e tutto ciò che è tossico nella tua fisiologia e nella tua mente, ricominci a fare le cose che ami con piacere e gioia.

La critica fatta spesso alla MT è che sembra troppo facile. Si dice: sono secoli, millenni, che cerchiamo un modo efficace per trovare la pace interiore, la realizzazione del Sé. Come è possibile che bastino 20 minuti di meditazione, due volte al giorno, per riuscirci?

È molto semplice perché è naturale. La MT è facile da praticare e senza sforzo. Al che uno potrebbe dire: va beh, e io sono Babbo Natale...

«A un certo punto ho vissuto davvero un'esperienza "cosmica". Dentro di me si è aperto l'universo. Come se potessi sperimentare in un istante la portata dell'infinito»
65 MARZO 2024

Provo allora a spiegarlo con un esempio. Se tu leggi un libro che ti piace, non fai nessuna fatica a leggerlo, risulta scorrevole, sei completamente immerso nella storia. Ma se qualcuno, mentre leggi, accende la radio e parte un brano che per te è il più bello in assoluto, dove va a finire la tua mente?

Alla musica.

Certo, è naturale. Perché quel brano è più affascinante del libro. La tendenza della mente è quella di andare là dove c'è maggior fascino. Ed è questo il meccanismo utilizzato dalla MT. È un po' come un tuffatore che va sul trampolino e deve fare solo una cosa, un piccolo balzo, perché il resto lo fa la legge di gravità, che è naturale. Per questo la MT è così semplice. Sfrutta una qualità della mente, per cui va dove si sente più appagata. La mente non conosce “l'indirizzo interiore”, conosce la soddisfazione dei suoi bisogni.

La MT insegna alla mente a tuffarsi, dopo di che percepisce questa attrazione fatale verso la propria stessa sorgente. Come un bambino quando incontra la mamma che non vede da una settimana. Cosa fa? Corre verso di lei e la abbraccia. La meditazione è così: meno fai e più ottieni. È così semplice che è difficile capirlo, perché nella coscienza collettiva si associa la meditazione alla fatica, alla necessità di avere doti particolari, ecc. Niente di più falso! Possono farla i bimbi da 4/5 anni in su, è sufficiente una sedia e la capacità di pensare, che tutti abbiamo. Fine, non serve altro!

«Per meditare non servono doti particolari. Non bisogna "fare fatica". La possono fare anche i bambini. Basta una sedia e la capacità di pensare, non serve altro!»

Quindi, in un certo senso, è come se Maharishi avesse trovato il modo di tradurre la millenaria scienza vedica nel modo più efficace per l'uomo moderno, l'uomo d'azione, che deve ritrovare l'armonia con la sua natura più profonda. Maharishi raccontava che quando è venuto in Occidente, dall'India, cinquant'anni fa, ha cominciato a tenere delle conferenze negli Stati Uniti in cui spiegava

che la sua tecnica di meditazione garantiva un profondo riposo e tra le altre cose consentiva anche di dormire meglio. Cosa titolò il New York Times? “Ecco la tecnica per dormire meglio”. Ma lui in realtà voleva svegliare le coscienze. Gli venne voglia di andarsene, di tornare nella sua grotta.

Poi ha capito che quello era il nostro modo di recepire il messaggio.

Come detto, noi utilizziamo il 5-10% del nostro potenziale mentale. È come avere un Ferrari e viaggiare sempre in prima. Maharishi è venuto per dirci che noi abbiamo altre sei marce (infatti parlava di sette stati di coscienza). Una volta, per ottenere certi risultati, ci mettevi vent'anni di pratica al servizio del Maestro. A noi occidentali, che abbiamo un certo stile di vita, che abbiamo la tendenza a controllare ogni cosa, ha dato una tecnica che bypassa l'organo di controllo. Ha affidato alla natura la possibilità di rimuovere gli stress, quella stessa natura che fa battere il nostro cuore, l'intelligenza che governa l'intero universo e il nostro corpo. Questa tecnica l'ha scelta insieme al suo maestro proprio per noi, che abbiamo un cervello evoluto, ma abbiamo bisogno di aumentare la coerenza cerebrale, un lavoro di integrazione che produce godimento allo stato puro. Parliamo di gioia, più che di felicità, una beatitudine permanente. A quel punto tu cammini per strada e quando vedi un fiore lo guardi davvero. Quando mai lo vedi di solito? Quando mai riesci ad essere una cosa sola con quel fiore? Più affini la coscienza e più la percezione delle cose circostanti è raffinata, sei anche più empatico, ascolti di più le persone. Quando sei un recipiente pieno, non ascolti nessuno, neanche te stesso.

Maharishi parla anche del superamento della divisione tra spirituale e materiale, sacro e profano. Non serve più fuggire in una grotta per trovare la realizzazione. L'idea è quella di realizzarsi sia interiormente che esteriormente.

Prendiamo il seme del baobab, che è vuoto. Da quel seme si sviluppa un albero gigantesco. Il vuoto è l'aspetto spirituale, interiore, nascosto, la matrice di quell'albero, di ciò che è materiale e visibile. Se curi l'aspetto spirituale, cresce anche l'aspetto materiale. Il problema dell'era dell'ignoranza è che abbiamo messo le paratie tra questo e quello.

66 MARZO 2024

Cos'è che nutre la parte materiale se non quel vuoto? Da dove nasce quell’albero se non dal seme? La MT mette lo spirituale in relazione con il materiale, di cui è fondamento, li connette tra loro, così come il campo unificato della fisica sta alla base di tutte le leggi che regolano l'universo. In passato è stato fatto un gigantesco sbaglio. Serve integrazione. Maharishi dice: dobbiamo vivere il 200%. Il 100% di vita spirituale e il 100% di vita materiale. Altrimenti ti ritiri in una grotta, per non avere a che fare con questo mondo. Ma noi siamo in questo mondo, noi dobbiamo vivere. Perché mai dovrei rinunciare a due spaghetti al pomodoro? Posso godermeli? Posso essere in estasi ogni volta che guardo un fiore? Che cos'è quell'estasi? È il contatto profondo della spiritualità con la materialità. Vivi una materialità che è pura come la spiritualità. È quando le cose sono separate che il materiale diventa “sporco” e “brutto”. Quando cammini per strada e sei in uno stato di trascendenza, vedi purezza ovunque. Ciò che tu vedi è ciò che tu sei.

Anche l'etica, quindi, non è più solo una questione di volontà, uno sforzarsi per aderire a certe regole morali. Il contato con l'Essere, con la pura coscienza, fa sì che il nostro comportamento sia naturalmente più giusto.

Hai toccato il punto. Sai perché ci ammaliamo? Perché commettiamo i crimini? Perché soffriamo? Perché violiamo le leggi di natura. Più violiamo queste leggi, più sofferenza c'è. Le leggi di natura sono quel pacchetto di intelligenza che la natura fa sgorgare dal campo del nulla, dall'assoluto, il non-manifesto, il purusha, che diventa prakriti, forma. Leggi di natura che regolano l'intera esistenza. Noi abbiamo limitato la nostra percezione di queste leggi al 5-10% delle nostre possibilità. Se io mangio troppo, mi viene il mal di pancia: ho violato le leggi di natura. Se non conosciamo quella sorgente, finiamo per violare le leggi di natura e quindi creiamo tensione fisiologica, psicologica, sociale. Più alto è il livello di stress, più alto è il pericolo di guerre.

La legge del karma dice che se faccio del male a qualcuno, quel male poi torna. E il bene che faccio, produce degli effetti che si riflettono nella mia vita. Anche meditare produce “energia positiva”.

Azione-reazione, c'è poco da fare, quello è. Uno dei motivi per cui sono andato avanti con la meditazione, è la sua applicazione sociale. L'Effetto Maharishi ha a che fare con questo. Quando agisci rispettando le leggi di natura spontaneamente, senza che nessuno ti dica cosa devi fare, ti comporti in modo nutriente per te e per il resto del mondo.

67 MARZO 2024

Altrimenti diventi un egoista che arraffa, viola, ruba, prende, violenta. Quando l'individuo è beato, perché è sostenuto dalle leggi di natura, il suo intelletto si è sintonizzato con l'intelligenza cosmica. Non è una cosa filosofica: parliamo di quell'intelligenza che regola tutti i corpi dell'universo. La MT aiuta l'intelletto a sintonizzarsi con il campo da cui sgorgano le leggi di natura.

La tua vita adesso è strettamente legata alla Fondazione Maharishi, all'impegno sociale. Una cosa che hai scoperto lungo il cammino e ha cambiato anche il tuo modo di vivere e lavorare. Lo voglio raccontare, perché riguarda tutte le professioni che hanno a che fare col denaro. Io ero entrato in crisi perché mi chiedevo cosa facessi io per gli altri come assicuratore. La mia agenzia stava per chiudere, perché non riuscivo più a fare nulla. Un giorno stavamo elaborando un progetto con Maharishi, sui gruppi di coerenza, e una di quelle persone che si dedicano completamente alla meditazione gli ha chiesto: ma noi dobbiamo assicurarci per questo progetto? Lui, sorprendentemente, ci ha messo un po' a rispondere. Generalmente non succedeva, di solito rispondeva subito, magari ridendo, come faceva spesso. Invece ci ha pensato un attimo e ha detto, seriamente: “Finché non abbiamo la sfera di cristallo è meglio assicurarsi”.

Allora ho capito: forse è meglio che gli assicuratori siano come me, piuttosto che come certi squali. Da quel momento, nell'arco di sei mesi, ho quadruplicato il fatturato della mia agenzia. Ho capito, finalmente. Ci sono persone a cui accadono incendi, incidenti, malattie, e questo dal nostro punto di vista, spirituale, ha a che fare con il karma. Poter avere un assicuratore che almeno attenui finanziariamente il problema, che le aiuti a vivere meglio quei momenti difficili, è un buon karma. Ho trovato la mia collocazione. Amo aiutare le persone. Mi alzo la mattina e mi chiedo come fare ad aiutarle sempre meglio. Farlo è una gioia. Io, che una volta odiavo il mio mestiere, ho imparato ad amarlo.

La Fondazione lavora con scuole, aziende, carceri... Cambiare il mondo attraverso la meditazione sembra una grande utopia. Quando vai in un carcere di massima sicurezza, dove ci sono pluriomicidi che devono scontare l'ergastolo, ti viene mal di pancia per la paura. Quando ti guardano quelle persone, lo fanno con l'energia dell'assassino. Però tu sei lì a portare un'esperienza di profondo riposo. Sai che loro hanno sbagliato perché hanno violato le leggi di natura. Leggi che violiamo perché viviamo nell'ignoranza, nel non sapere, perché se lo avessimo saputo non lo avremmo fatto. C'è chi risponde a un bisogno reale in modo completamente sbagliato.

68 MARZO 2024

In una condizione normale, un uomo corteggia una donna con il tempo e le attenzioni necessarie, e se sono rose fioriranno. Una persona che è un recipiente pieno, con il cervello danneggiato dallo stress, invece, arraffa e stupra. Ma quando la sua coscienza si sintonizza con il Sé, con quell'esperienza che è al di là della materia, non c'è pena peggiore dell'essere consapevoli di ciò che ha fatto.

Se tu dici a una persona del genere di “fare il bravo”, quella ti uccide. Se gli chiedi di deporre le armi, come minimo ti sputa in un occhio. Ma se gli offri un'esperienza interiore come quella della MT, dopo una settimana viene da te, piangendo, ti abbraccia forte, perfino troppo, e ti dice “grazie”. Una settimana, non dieci anni! Questo accade. Ed è una cosa davvero emozionante. Quell'esperienza è così potente!

I bambini piccoli, a scuola, praticano solo per 5 minuti, perché per loro è una cosa troppo forte. Li facciamo girare per la classe, poi si siedono, chiudono gli occhi per un attimo, e quando li riaprono, dai loro occhi sgorga una luce immensa. Questo è cambiare il mondo! Portare i bambini a crescere pienamente consapevoli di ciò che sono.

Il problema è superare la diffidenza degli adulti. Abbiamo imparato come fare. Vent'anni fa mi chiudevano tutte le porte, ora bastano tre minuti per convin-

cerli a portare avanti il progetto, perché si rendono conto che stiamo dando una risposta a un problema reale. La MT, in certi contesti, è come l'acqua nel deserto. Ci sono dieci suicidi al giorno nel settore dell'istruzione. Dove stiamo andando? Persone che dovrebbero costruire le nuove generazioni, per colpa dello stress eccessivo diventano robot, finiscono in burn-out. Ecco perché è così importante questa tecnica anche da un punto di vista sociale.

Un tempo la Chiesa pensava che la MT avesse a che fare con la religione e quindi si opponeva. Ma noi abbiamo spiegato tante volte che la MT, in realtà, ha che fare con la natura. Uno volta ho detto a un vescovo: ti assumi la responsabilità di bloccare un progetto che fa così bene ai bambini, nel nome di Gesù? I bambini, grazie alla MT, sono felicissimi, forse dopo torneranno anche in Chiesa. E il progetto è stato approvato.

Crescono anche le aziende che utilizzano la meditazione.

Perché si è vista l'enorme differenza, nell'arco di breve tempo, tra un lavoratore stressato e uno che pratica la MT. Il lavoratore è la prima risorsa di un'azienda, quando la risorsa funziona, perché è felice, sia essa manager o semplice impiegato, rende il doppio. Quindi fa bene anche al business dell'azienda, oltre a far bene alla vita del lavoratore.

69 MARZO 2024
Il luogo in cui si è tenuta la Conferenza della Pace in India

Le persone imparano a godersi ciò che fanno. È anche l'esperienza vissuta nel mio ufficio, dove tutti stanno bene, sono felici, e non hanno neanche più bisogno di me. L'ufficio va avanti da solo.

Non è facile credere all'Effetto Maharishi. Non si tratta di credere, ma di sperimentare. Si è constatato che quando si riunisce l'1% della popolazione che pratica la MT, si ha un determinato effetto. È una vera e propria formula. Quell'esperienza di pace e di riposo che ogni meditante vive dentro di sé, si espande e arriva anche alle persone che non meditano. Si ha quindi un effetto sulla coscienza collettiva. Le tendenze negative crollano spontaneamente. Chi medita sente da dentro quelle onde (io ho fatte diverse esperienze del genere) e le persone che non meditano, fuori, si sentono meglio. Faccio un esempio. Quando entri in una stanza e c'è una persona arrabbiata, anche se è di spalle, non c'è bisogno che ti dica che è arrabbiata, tu senti qualcosa, anche se non sai dire cosa. La sua “frequenza” si espande nell'ambiente circostante. Quando invece nella stanza c'è una persona calma, profonda, quieta, tu non vorresti più uscire da quella stanza, perché la sua presenza è una cosa nutriente, piacevole.

L'Effetto Maharishi è stato monitorato per sessanta volte nel mondo. Si tratta di esperimenti di tipo sociologico, in cui bisogna misurare il prima, il durante e il

dopo, verificando il calo di crimini, incidenti, ricoveri ospedalieri. Particolarmente famoso è quello di Washington. Quando annunciammo, prima di iniziare, che i crimini sarebbero calati del 20%, il capo della polizia si mise a ridere. Disse: “Perché accada una cosa del genere dovrebbero cadere quaranta centimetri di neve ad agosto”. A Washington, in agosto, i crimini aumentano del 17%, perché aumenta lo stress delle persone. Finito l'esperimento, lui stesso ha voluto presentare i primi dati. Piangeva, era emozionato: “Questi dati sono veri, perché li ho presi io, e sono pazzeschi”. I crimini erano calati del 20%, come previsto, anzi, contando il mancato aumento, c'era stato un miglioramento del 37%. Tutto questo grazie a due settimane di meditazione portata avanti da centinaia di persone insieme.

Di recente sei stato in India, tra dicembre e gennaio. Lì eravate in diecimila. Anche perché il mondo sta attraversando un momento drammatico. Ce ne vuole di energia positiva. Abbiamo fatto un'Assemblea per la Pace a Hyderabad, in memoria di un'altra, realizzata quarant'anni fa, che si intitolava Assaggio dell'Utopia. Si sono incontrate diecimila persone, con punte di undicimila, provenienti da 139 Paesi del mondo, esperti di MT, tecniche avanzate e volo yoga.

70 MARZO 2024

C'era anche una bellissima delegazione di 121 italiani. Abbiamo praticato quasi tutto il giorno: si partiva dalle 7 e mezza del mattino e si finiva alle 9 e mezzo di sera. Era come essere in trincea. La sensazione era proprio quella di stare in guerra: una grande lavatrice, che ripulisce le tendenze negative della coscienza collettiva. Pensiamo a tutto quello che sta succedendo in questo momento nel mondo! Il livello di tensione è altissimo e molto pericoloso.

Si raccontano incontri straordinari avvenuti in quei giorni.

È successo subito qualcosa di molto bello. Sono arrivati i responsabili di varie tradizioni spirituali, che di solito si guardano con sospetto, dai discepoli di Sai Baba e Aurobindo ai praticanti di Kriya, e sono venuti a darci la loro benedizione, dicendo che quello che stavamo facendo era la cosa più bella che fosse mai stata fatta. È anche nata la proposta di creare dei gruppi permanenti. A noi veniva da piangere, talmente era grande ed emozionante quella cosa che stava accadendo. Sua santità Amma Sri Karunamayi, affettuosamente conosciuta dai suoi seguaci come “Amma”, ci ha lasciato un messaggio semplice e importante: "La meditazione è il miglior farmaco. Tutti i problemi possono essere risolti praticando la meditazione due volte al giorno”. A un certo punto è arrivato l'imam più importante di tutta l'India, il dr. Umer Ahmed Ilyasi, capo dell’All India Imam Organization, per benedire i partecipanti all’assemblea e le "tecnologie della coscienza" utilizzate per favorire la pace nel mondo. Dopo aver fatto una ghirlanda al dr. Tony Nader, il successore di Maharishi, l'imam ha detto: "Tutti voi siete un'ispirazione per il mondo. Venite da tutti i Paesi, da tutte le religioni e da tutti i ceti sociali e condividete la pratica

Diecimila praticanti hanno meditato in India per la pace: «Sta crescendo una nuova generazione di persone più evolute, che ci aiuterà a cambiare il mondo»

di queste potenti tecnologie della coscienza. Saluto voi e l'eccezionale esempio di unione che avete dimostrato qui". Che lezione da un imam! Dovremmo smetterla di confondere certi criminali che usano l'Islam con la vera, meravigliosa idea di pace che sta alla base della religione islamica. Lui ce l'ha raccontata, ce l'ha fatta conoscere e alla fine ci ha abbracciato tutti.

L'utopia che diventa realtà. Sono arrivate anche persone legate al mondo della scuola in India, l'equivalente del nostro Ministero dell'Istruzione, intenzionati a insegnare la tecnica a tutti gli studenti di quel distretto. Milioni di ragazzi. E poi sono arrivati rappresentanti dell'alta finanza, che vogliono aiutarci nei nostri progetti. Sta cominciando a risvegliarsi la coscienza di tante persone, che in teoria hanno già tutto, ma che cominciano a chiedersi perché sono infelici. Il loro risveglio sarà fondamentale, perché potrà indirizzare molte risorse al benessere della società. Questo è quello che abbiamo visto e intuito in India. I guerrafondai devono esaurire la loro energia cinetica, ma sotto la superficie sta crescendo una nuova generazione di persone più evolute, più lucide mentalmente, che hanno le risorse per aiutarci a cambiare il mondo. Le risorse non andranno più nella direzione della distruzione, ma in quello della creazione, del benessere delle persone. Sta accadendo davvero! (f.t.)

71 MARZO 2024
Sopra, un'immagine di Amma, che ha voluto dare il suo contributo all'Assemblea della Pace. A fianco, l'incontro tra Tony Nader e l'imam Umer Ahmed Ilyasi

La rivolta del Lucio, che l'Italia (quella "nuova") non poteva capire

QUELLA VOLTA IN CUI IL MAESTRO DI VIGEVANO SPIEGÒ AI COMUNISTI CHE IL COMUNISMO ERA IMPOSSIBILE. OMAGGIO AL GENIO DI MASTRONARDI

«Tagliatemi le palle, ma gli occhi, quelli, lasciatemeli stare!» urlava così ai pestiferi ragazzotti che, in quel Natale, saettavano petardi in Piazza Ducale. Gli si poteva rancar via tutto, sì. Ma non gli occhi. Quegli stessi che, in poco più di una decina di anni, era come se avessero compiuto la transumanza dei secoli secolorum.

Dal mondo contadino e del fine mestiere di bottega, al turbine incessante del prodotto industriale. Dal pasto condiviso al cannibalismo di massa. Perché così lui si sentiva; questo, la vita gli aveva dato in sorte: d'essere ingoiato, sbranato. Gli restavano gli occhi, i suoi, come malconci fanali che pure seguitavano a rischiarare una terra di nebbie. C'è chi si sarebbe senz'altro fermato. Lui no. Su quella strada, il Lucio Mastronardi, voleva andarci fino in fondo. L'ha fatto.

Qualche giorno prima, come spesso in quei tempi accadeva, faceva un freddo bestia. La sera di quel giorno, la sala era strapiena. Età media, suppergiù vent'anni. Non era affatto una novità. In quegli anni, i settanta del secolo scorso, spesso capitava di trovarsi insieme per cercar di cavare il ragno fuori dal buco, capir l'andazzo del mondo. Si era tutti lì, dunque, ad accogliere il verbo di taluni caporioni, bell'apposta venuti giù da Milano: con in testa nientemeno che la Rivolusiòn.

T ERRE DI CONFINE

In ogni dove la si era sparsa la voce. Da tutta la Lomellina, da Novara, dall'Oltrepo, in centinaia l'avevano raccolta. La sala ribolliva di umori sanguigni, voci, risate, bave di fumo come segnali che, tra quelle mura, tutti ci si era dati appuntamento con la storia. Quella che conta. Barbe nere, larghi camicioni, anfibi, clark, eskimo e gonne a quadri, lì tutti insieme ci si ammucchia, ci si prude, ci si scalda. Si è davvero una caterva. Si è, come dire e non per scherzo, all'avanguardia; l’avanguardia delle sterminate città operaie, una sull'altra, in appena un pugno di anni, in fretta e furia e con mirabolante ottimismo, tirate verso il cielo. Sì. Le città di quella classe operaia che, senza dubbio, una via al Comunismo, prima o poi, la troverà. Ed è proprio di questo che, quella sera, si va a parlare.

Proprio lì, a Vigevano. Prima fabbrica di scarpe. Nel 1856. Regno Sabaudo. Ora capitale della scarpa italiana. Il che vuol dire del mondo intero. Vigevano che, nel dopoguerra, in anni venti, da poco più di quarantamila anime, passa a sfiorare i settantamila.

La sala ribolliva di umori sanguigni, voci, risate, bave di fumo. A Vigevano, capitale della scarpa italiana. Passata, nel dopoguerra, da quarantamila anime a sfiorare i settantamila. Sono le "tribù fameliche", come le appella il Giorgio Bocca, con cruda ironia

Sono le “tribù fameliche”, come, con cruda ironia, le appella il Giorgio Bocca, qui rabattate dal Polesine, dai picchi di Calabria, dalla Sicilia rurale, ma anche dai paesini lomellini, che si vanno via via a spopolare. Le si accampa perlopiù nei fetidi rioni di un centro antico, che cade a tòcch. Ai più fortunati sono invece destinati due locali e un balconcino in case sghembe, tirate su in fretta e furia, in questa o in quell'altra riva della città. Vigevano: settantamila anime... novantacinquemila para da scarp fatte in appena un giorno! Più tacchi che teste.

73 MARZO 2024

Vigevano, sì. La Stalingrado di Lomellina. Che assicura al Partito Comunista il quarantasette per cento dei voti. Un collegio strasicuro, per il foresto Armando Cossutta, il sovietico di ferro, che pochi qui han mai visto in giro, ma a cui, le cosiddette masse operaie, tutte obbediscono nel voto.

Di lui dicono sia un originale, di sinistra intendiamoci, ma del tutto irregolare. Gli danno del matto. In molti non gli perdonano di aver fatto fare a Vigevano una figura di cacca.

Perché? Perché nel suo romanzo, in quel film, ci si son visti...

La capitale del boom economico è per questo una terra fertile e attrattiva. Per chi è arrabbiato. Per i sanculotti di varia e composita natura. Per quelli che son fuori e a sinistra del Partito. I rivoluzionari del Mao e Che Guevara. Carta che urla: Lotta Continua, il Manifesto, Il Quotidiano dei Lavoratori. Ed è appunto perché la lotta deve ad ogni costo continuare, produrre i suoi frutti che, quella sera, ci si ritrova tutti alla Sala Leoni, storico approdo della politica locale. Inizia l’assemblea. Con grande sorpresa dei caporioni milanesi, la sala ammorba di un pestifero tanfo. Cos'è? È il modernissimo tenacio. Appena qualche anno prima, così puzzolente, lo conosceva nessuno. Ora, a Vigevano, ci fan tutti i conti. Con il tenacio, la colla industriale che vien dai crucchi, se non addirittura dagli americani, si impataccano a perfezione le suole delle scarpe. Respirarlo a grandi dosi è peggio che attaccarsi a un tubo di scappamento. Di quei tempi se ne usa a tonnellate. In molti ci lasceranno la pelle. Pur col freddo, quindi, si sbarattano le finestre. Nessun problema. Ci si scalda a suon di parole. Le parole sono vespe impazzite che ronzano tra gonne, jeans, chiome bisunte. La sala è una nave che, alla deriva della Storia, colta da ormoni di bufera, barcolla, si sfalda, ribolle di furenti ammutinati. In mezzo a cotanta ciurma, c'è un uomo, un omino che, a così vederlo, nessuno gli darebbe due lire. È piscinin, mingherlino; nervoso, con l'aria di chi è lì per puro caso, fuma sigarette nazionali senza filtro. Non è giovane, non è vecchio, è sempre lui. Ci ha su un paltorin che dà sul liso; un para di scarpe con la suola un po' conciata dalle lunghe vasche quotidiane sotto i portici della piazza. Puzza un po'. Di Negroni. Il suo amaro preferito. Una sera, in un abbaino vigevanese, una di quelle sere tra amici stretti, si dice se ne sia bevuta un'intera bottiglia. Sono voci che corrono.

È lui. Il Lucio. Il Lucio Mastronardi. Di mestee fa da sempre il maestar elementar. Oltre a quello, da qualche tempo, gli è venuto il birlo dello scrittore. Mica uno di poco conto.

74 MARZO 2024

Il Vittorini lo ha preso sotto braccio; il Calvino ne è stato folgorato. È così che il suo romanzo, Il maestro di Vigevano, dopo aver venduto un fracco, si è ritrovato finalista allo Strega. È così che a Vigevano è quindi sbarcato l'Alberto Sordi, in compagnia del Petri regista. Di quel romanzo han fatto un film. Lo han visto in tanti.

Nel giro di poco, il Lucio Mastronardi diventa famoso. Un suo amico, capitato per caso in quel di Nuova York, tornato a Vigevano, fa restar tutti a bocca aperta. Giura di aver visto in bella mostra, in una libreria vicino alla fift aveniu, il libro del maestar... tradotto nientemeno che in americano! È vero? Non è vero? Non importa. Basta questo per capir quanto, nella Vigevano capitale del boom, sul Lucio, se ne contano di tutti i colori.

Di lui dicono sia un originale, di sinistra intendiamoci, ma del tutto irregolare. Questi, son gli affetti degli amici. Gli altri, gli altri tutti, quando lo vedono girano dall'altra parte, gli danno a stretta voce del matt, del foeura ad testa, di quello che si sa mai quello che fa e quello che dice. In molti non gli perdonano di aver fatto fare a Vigevano una figura di cacca. Perché? Perché nel suo romanzo, in quel film, ci si son visti...

Inizia l'assemblea. Vagonate di parole. Invettive. Direttive. La Rivoluzione scalpita, sfugge, d'imperio la si riacchiappa. Gli animi si scaldano eccome. La verve è certo a un buon livello. Parla questo, parla quello, parlan tutti. Ad un tratto, il Lucio, alza la sghemba manina. Da quel corpo mingherlino, prorompe una voce alta, decisa, che chiede gli sia data la sacrosanta parola. Anche lui vuol dire la sua. Qualcuno storge il naso, altri si toccano le balle. Già... col Lucio, si sa mai. Tra i più buoni, tra gli amici, c’è chi ridacchia sotto i baffi. A tutti vien da pensare: “toh... e adesso cosa dice?”.

S’impone il silenzio. Parla lui...

«Scusate, compagni, volevo solo dire una cosa. Solo una e poi bòn - sibila sbìrolo. - Me mi sa che, tutti questi vostri discorsi, son davvero inutili».

Nella sala, cala un gelo che sa di Siberia. I caporioni milanesi (ma chi è questo qua?) sgranano gli occhi, qua e là cigola qualche risatina soffocata.

«Datemi un po' retta. Il Comunismo... - sfiata il Lucio - non ci sarà mai! Dico mai! E volete sapere il perché?»

75 MARZO 2024
La bellissima Piazza Ducale di Vigevano

Alza il braccio. Ingrossa il petto. Alla Lenin, alla Petrolini. Il Lucio ha il senso della teatralità storica.

«Perché gli operai vogliono diventare come i borghesi!!! Ecco perché!»

Apriti cielo! Pernacchie, "scemo scemo", fischi a iosa. Lucio si incazza. Sommerso dal bailamme, blatera, urla. Vorrebbe ancora parlare, tentar di spiegare. Ma va là! Mai domo, attacca a questionare, punta il dito. Giusto allora, anime amiche lo raccattano sottobraccio; gli spiegano che davvero non è il caso, che è meglio se va foeura di ball. Così fa...

C’è stato un momento in cui, questo nostro strano paese, ha avuto in sorte una autentica genia di profeti. Son spuntati tra tonnellate di carabattole e cianfrusaglie; tra i feticci di quell’insorgenza produttiva, quel delirio di ricchezza a tutti i costi, il definitivo passo di cambio della Storia, che va sotto il nome di boom industriale.

Lucio Mastronardi ne ha svelato l'altra faccia, il ghigno scuro, quello stesso che, in quegli anni, ha fatto di Vigevano il laboratorio sociale dell’ipotesi ultima: in barba a tutto e tutti, conquistare il paradiso del consumo! Lo ha fatto non da vanaglorioso intellettuale, che scatarra nel piatto dove, il più delle volte, lui stesso mangia. No. Il Lucio, dentro il piatto, era l'avanzo. Tra gli avanzi ha trovato i suoi eroi al contrario... eroi per il semplice fatto di incarnare appieno tutta la nullità dei loro tempi.

Ecco allora sortir dalla sua penna il maestro Mombelli, il Sala che fa lo scarparo, il meridionale impiegato del fisco, tutti condannati ad una vita da cronici infelici; tutti miseri, tutti vinti, banalissime pietruzze della gran macina che ogni cosa travolge. Nessuna grazia, nessun fronzolo, nessun adornamento. Per dir delle loro vite, il Lucio se ne sbatte del neorealismo, della critica sociale, così in voga di quei tempi. La sua è una scrittura spiazzante, che par abbia la tosse del catarro, quello secco di chi fuma tanfo e fiele. È una scrittura senza alcuna invettiva; di uno che per caso traversa una strada, vede, sputa, poi svolta di fretta il cantone. Come a dire che nulla resta da fare. Che il Mombelli, il Sala, tutta la compagnia cantante, una volta apparsi in scena, devono per forza di cose canticchiar la canzonetta che altri, per loro, hanno scritto e musicato. Non è una canzone d'autore. È un coro solenne. Un peana indistinto in onore del dio.

76 MARZO 2024
Alberto Sordi è il protagonista de "Il maestro di Vigevano", film del 1963 diretto da Elio Petri

Mastronardi racconta i miseri, i vinti. Mentre tutto ormai è ridotto a roba da avere e da comprare. Nessuno ha colto fino in fondo la tragedia, il collettivo impazzimento, con la sua disarmante ferocia

Quale dio? Il dio che c'è adesso. Che veglia sui destini del cittadino ignoto, della formica che formicola nell'enorme formicaio. È la massa che puzza come un brodo andato a male. Il dito, la penna, del Lucio, indica nessun luogo. Come un cronista di nera si limita ai nomi, ai fatti. C'è dell'altro? C'è una via d'uscita, un fare diverso, un'estrema ridotta che sa di salvezza? No. Non più. Qui giunti; qui finisce. Come a dire che tutto, l'ammasso delle idee, delle parole vuote e vane, tutto, qui dove si è capitati, è oramai roba da averci e da comprare. L'è una storia de danee. Tutto questo ha visto il Lucio. Al pari di un Grosz, ha dipinto, nel grottesco, il collettivo impazzimento. Nessuno al pari di Mastronardi ne ha colto fino in fondo la tragedia. Ci han provato il Bianciardi, il Calvino, il Piovene. Lo ha cantato il Pasolini. Nessuno, con pari, disarmante, ferocia. L'identica ferocia che, da parte a parte, ha infilzato la sua vita. Fino al punto di non capirci più nulla. Di farla per sempre finita. Perché, a un certo punto, a furia di sbatter la testa di qui e di là, a questo ha pensato il Lucio. Che un bel dì tenta di ammazzarsi buttandosi giù dal balcone di casa. Un gesto tragico, senza dubbio. Che assume, come di chi vive nei suoi romanzi, i contorni della tragica farsa. Quel giorno, giù dal balcone, invece di sfracellarsi sull'asfalto, il Lucio centra in pieno il tettuccio decappottabile di un'utilitaria. Lo sfonda. Si rompe qua e là. È vivo. Dirà gli è andata male. Nel frattempo, litiga di brutto con il suo direttore scolastico. Lascia indietro la scuola. Va a lavorare alla biblioteca Sormani di Milano. Non sopporta la città. Lascia anche Milano. Torna a Vigevano. Litiga ancora; per questo, condannato, passa alcuni giorni in cella a San Vittore. Esce. Va in pensione. Crede di avercela fatta. Di poter finalmente scrivere in pace. Ma va là. Dai che fuma come un turco, di lì a poco respira più. Sta male. La visita a Pavia è perentoria: ha un brutto cancro.

L'ultima volta che lo vedono vivo, cammina come un matto avanti indree sul ponte di quel Ticino di cui tanto, nei suoi romanzi, ha parlato. Lo cercano per giorni. Poi, lo trova un pescatore. Bon. Ciao Lucio. Fin de la storia.

77 MARZO 2024

UNA CASA SU MISURA: L'INTERIOR DESIGN "CHIAVI IN MANO"

In.Casa è l'evoluzione del mobiliere: dal progetto personalizzato alla ristrutturazione completa

C'era una volta il mobiliere, anzi c'è ancora. Il commerciante di mobili, in certi casi anche fabbricante, sopravvissuto all'era dell'usa e getta, al prodotto di importazione a basso costo, la grande distribuzione, il grande bluff della vendita online, in cui diventa virtuale anche l'esperienza della scelta, lasciata alla casualità, all'approssimazione. C'è il grande magazzino, dove trovi un po' di tutto alla rinfusa, per chi si accontenta di allestire arredamenti casua-

li, un pezzo qui e un pezzo là, senza badare troppo all'estetica d'insieme e alla funzionalità.

Ma c'è anche chi si è reinventato, per vincere la sfida dell'era della quantità, usando l'arma della qualità. Il mobiliere che diventa interior designer, ma anche uno specialista in ristrutturazioni. Che al cliente non offre solo un'esposizione di mobili, ma un progetto, un'idea di casa, una fantasia da trasformare in realtà, attraverso gli strumenti offerti dalla tecnologia, oltre che le qualità

umane che l'economia virtuale vorrebbe sostituire con robot e software: la capacità di ascolto, l'empatia, il confronto creativo. Perché oggi più che mai è fondamentale vivere in una casa che ci assomigli, che ci faccia sentire bene, e non c'è modo migliore per farlo che confrontarsi con professionisti capaci di accompagnarci in tutte le fasi del percorso, dalla A alla Z, “chiavi in mano”. In.Casa nasce tre anni fa a Como (Grandate) proprio con questa idea diversa, moderna e antica, di vendere arredamenti. Non per niente nasce dall'incontro tra un ex dirigente di grandi gruppi come Cesare Grieco e Ferruccio Broggi, che lavorava in uno studio di architettura, ma proviene da generazioni di mobilieri (il padre aveva un negozio molto grande negli anni Ottanta, gli anni d'oro del settore).

Da una parte c'è una grande esposizione di 500 metri quadri, con sei vetrine centrali e due laterali, sulla Statale dei Giovi, una delle più frequentate d'Italia (la visibilità non manca, visto che ci passano 35 mila auto al giorno). Dall'altra ci sono servizi a 360° che vanno dalla progettazione alla ristrutturazione, dalle pratiche burocratiche al trasporto e allestimento, ma anche il ritiro e smaltimento di mobili usati, all'insegna della sostenibilità, promuovendo il riciclaggio e la donazione quando possibile.

«I nostri prodotti sono di fascia media, medio-alta», ci spiega Cesare Grieco, nel suo ufficio, dove il cliente ha a disposizione lo schermo di un computer su cui condividere la progettazione della casa, o l'arredamento del locale che vuole rinnovare.

S TORIE DI VITA E D’IMPRESA 78 MARZO 2024

«Lavoriamo solo con il made in Italy. Qui non si trovano mobili di bassa qualità. Abbiamo l'esclusiva con Moretti nell'area di Como. E lavoriamo anche con Arredo3, uno dei marchi di cucina più venduti insieme a Veneta e Scavolini, non solo in Italia, visto che hanno fatto anche dei grattacieli a Dubai. Non c'è concorrenza che tenga, visto i prezzi che abbiamo, con questi prodotti di qualità, anche per chi vuole la “cucina economy”. Possiamo fare un allestimento da 5 mila euro come da 50 mila, dipende da quello che vuole il cliente, gli elettrodomestici, i piani di lavoro, il tipo di finiture»

La parola d'ordine è “personalizzazione”. Si tratta di preparare arredamenti su misura, prendendosi cura di ogni aspetto, visto che qui è possibile trovare il geometra e l'architetto, oltre al falegname. Ma volendo, ci sono anche l'idraulico o l'elettricista. Insomma, l'ideale per chi non ama perdere tempo e farsi venire il

Non un negozio, ma un servizio completo. E 500 metri quadri di esposizione lungo la Statale dei Giovi, a Grandate (Como). Tanto lavoro, sette giorni su sette, e passione vera

mal di testa, cercando varie aziende e artigiani, occupandosi personalmente di traslochi e pratiche edilizie. In-Casa provvede a tutto.

A partire dalla progettazione, perché prima di acquistare dei mobili, bisogna essere sicuri di come sarà il risultato finale.

79 MARZO 2024

«Utilizziamo programmi grafici, render. In casi particolari anche la realtà virtuale». Il cliente può muoversi all'interno di un'immagine tridimensionale della propria casa, rendendosi conto di come diventerà. «Lo dico sempre ai clienti: la differenza, rispetto ad altri, è che noi non siamo venditori di mobili, ma interior designer. Il nostro obiettivo non è vendere per fatturare, noi accompagniamo il cliente. È un concetto sottile, ma importante. Poi c'è chi lo capisce e chi no».

Chi non lo capisce, può comunque farsi un giro nello store e trovare di tutto: arredobagno, camere da letto, camerette per bambini e ragazzi, soggiorni, tavoli, sedie, madie, cucine, divani... Ma c'è anche la possibilità di allestire un box doccia, di rifare i sanitari. Ci sono i professionisti in grado di risolvere un problema architettonico, anche minimo. «Dobbiamo montare la cucina e c'è un muretto che dà fastidio? Possiamo tirarlo via e magari mettere una colonna a giorno. Facciamo anche ristrutturazioni complete, con porte, finestre, pavimenti, imbiancatura». Il primo passo, però, è sempre la visualizzazione dell'ambiente. «Ti aiutiamo a progettare la casa. Vuoi questo mobile, questo spazio, ma più

piccolo o più grande? Lo sistemiamo in tempo reale. E alla fine facciamo il preventivo, senza nessun impegno». Ovviamente disegni e misure rimangono a chi li fa, se non si procede nel lavoro. Ma di solito il cliente è impressionato dalla precisione, oltre che dalla disponibilità. «Una signora, a cui ho venduto l'ultima cucina, mi ha detto che aveva fatto fare dieci preventivi e poi ha scelto

noi. L'ho ringraziata. Sono cose che fanno piacere». Trattandosi di un'azienda che si occupa anche di ristrutturazioni, oggi il mercato principale è quello dei bed & breakfast, soprattutto nel Comasco. «Figli e nipoti che ricevono una casa in eredità, ma ne hanno già una e quindi la mettono a reddito. Oggi il reddito migliore è l'affitto turistico. Qui nel Comasco si parla di un 70% di affitti. In estate non trovi un buco libero».

Ma In.Casa arriva ovunque, in Italia e non solo. «Abbiamo fatto arredamenti anche a Montecarlo. Li abbiamo fatti in Sicilia, Sardegna, Puglia. In Liguria. Non siamo dei produttori, ma si affidano a noi perché hanno fiducia nel nostro lavoro. Ovviamente in questo caso c'è da pagare il trasporto, ma il servizio tutto incluso facilita le cose.

Capita il cliente che ti ha fatto fare un arredamento a Como e magari ti chieda di farne un altro a Sanremo». Anche qui, come sempre, quando c'è di mezzo la qualità, più che la quantità, funziona il passaparola. Ma anche la capacità di costruire una rete di bravi professionisti e di proporre delle convenzioni ad aziende e grandi realtà. Si va dalle Ferrovie, con gli sconti garantiti ai dipendenti del Cral, fino ai clienti di MacDonald, che possono usufruire di uno sconto su alcuni prodotti (le camerette, ad esempio).

In.Casa (www.incasa.srl) pensa proprio a tutto, anche al tempo dei clienti. «Delle pratiche burocratiche, volendo, possiamo occuparci noi. Abbiamo geometri e architetti che vanno abitualmente in Comune. Così evitiamo alle persone di perdere giornate intere per il disbrigo delle pratiche».

Quanto al trasporto e all'allestimento, ci si rivolge a chi fa questo mestiere da anni. «C'è gente che si affida al conoscente, al vicino, al pensionato, per risparmiare. Che magari riesce a montare dei moduli, ma mentre lo fa lascia il parquet graffiato. E te lo tieni così, perché già ti ha fatto una cortesia. Ci sono tanti improvvisati, specialmente a livello di montaggio, tanti “traslocatori” tra virgolette. Il mio caposquadra è un falegname, le mani sui mobili le mette solo lui, e se sbaglia qualcosa ripariamo i danni.

Ai falegnami diamo 500 euro più iva al giorno, molto più di quello che paga la grande distribuzione. Quindi da loro pretendo una certa qualità del lavoro».

In azienda c'è anche una piccola falegnameria. «La utilizziamo solo per le modifiche minime. Se capita l'inghippo, ci pensiamo noi, interviene il falegname che gestisce il magazzino. Abbiamo anche un servizio di assistenza. C'è un problema? Un'anta caduta, un angolo rovinato? Lo risolviamo. Siamo flessibili, ci adeguiamo a tutte le situazioni». Si spiega così la crescita di questa azienda che ha aperto i battenti alla fine dell'era Covid e ha già triplicato il fatturato. Non si tratta di gestire

un negozio, ma di offrire un servizio. Con tutto il lavoro che ci vuole. «Io sono qua tutti i giorni, sette giorni su sette. Vengo a lavorare anche il giorno di riposo, perché tanto a casa mi rompo le scatole, penso al lavoro da fare. L'interior designer a volte mi vede e dice: che cosa sei venuto a fare oggi? Ma a me non piace stare a casa “a riposare”. Riposo la notte. Nella vita mi sono sempre fatto un mazzo così. Ma non è un sacrificio, è una passione. Quando lavoro mi bolle il sangue, non ho più fame né sete. Lavoriamo concentrati, facciamo belle cose, cresciamo. E se sbagliamo qualcosa, perché capita, la risolviamo immediatamente». Ecco il segreto numero uno: la passione.

81 MARZO 2024

Diventato un bestseller dopo essere stato rifiutato da 121 editori, Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta è uno di quei libri su cui ci si potrebbe scrivere un romanzo. Così come sull'infanzia problematica da bambino prodigio di Robert M. Pirsig, la sua vulnerabilità emotiva, il viaggio in India alla ricerca di risposte, la depressione e i ricoveri in cui subì l'elettroshock, l'approdo allo Zen Soto, il lavoro da autore di manuali tecnici e quello come professore universitario di Filosofia, il mito della Honda Super Hawk del 1966 e il viaggio da cui è scaturito il suo romanzo autobiografico. Era inevitabile che un uomo e un artista del genere fosse originale anche nel pensiero. Non è facile, in effetti, capire fino in fondo il significato del concetto-realtà che è al centro della sua opera: la Qualità. Come non è facile capire cosa siano il Tao, il Dharma o il vuoto pienissimo che sta al centro della pratica Zen.

Molto utile, da questo punto di vista, è il libro, piccolo e prezioso, edito da Adelphi, Sulla Qualità, pubblicato per la prima volta nel 2022 per volontà della seconda meglio dello scrittore, Wendy Pirsig, che nella prefazione racconta come è nata questa raccolta di appunti, note, lezioni, citazioni. La Qualità, nel pensiero di Pirsig, ha una sua metafisica, ma si può cogliere davvero solo attraverso l'intuizione, e quindi la pratica del frammento, l'aforisma, l'illuminazione improvvisa. Tutti sanno cos'è, intuitivamente, ma è impossibile definirla in modo adeguato. Questi frammenti ci danno l'idea del percorso intellettuale e interiore fatto da Pirsig, anche attraverso similitudini con concetti antichi, come l'areté greca o la rta indiana, “l'ordine cosmico delle cose”. Si parla di qualcosa che va oltre la mente e la materia, una specie di terza entità, al di là del soggetto e dell'oggetto, la possibilità stessa del loro rapporto, la realtà originaria della coscienza.

I testi sono di vario genere, tratti anche da occasioni estemporanee, come l'incontro nel 1974 con gli studenti di un college, a cui raccontò le origini del suo bestseller, che diventò possibile quando rinunciò all'idea di “scrivere un libro” (cioè di creare qualcosa a tavolino), lasciandosi guidare invece da “un bisogno reale”: «Questa è la lezione più importante. Lasciate che venga dal profondo di voi stessi, non tenete le distanze». L'approdo è inevitabilmente e necessariamente mistico, con riferimenti all'importanza delle tecniche di meditazione. La Qualità come esperienza, ma anche la sua parentela stretta con ciò che chiamiamo Dio o "natura di Buddha", fino ad approdare a una “metafisica dell'amore”: «Se dovessimo usare seriamente il termine "amore" nella scienza, diremmo che l’idrogeno e l’ossigeno si combinano perché si amano!».

«Il passato esiste solo nella nostra memoria, il futuro solo nei nostri progetti. Il presente è l’unica nostra realtà. L’albero di cui sei consapevole intellettualmente, a causa di quel piccolissimo intervallo di tempo è sempre nel passato, e pertanto è sempre irreale. Qualsiasi oggetto concepito intellettualmente è sempre nel passato e pertanto è irreale. La realtà è sempre il momento della visione che precede la concettualizzazione. Non c’è nessun’altra realtà. Questa realtà preintellettuale è quanto Fedro sentiva di avere giustamente individuato come Qualità. Dato che tutte le cose identificabili intellettualmente devono emergere da questa realtà preintellettuale, la Qualità è la genitrice, la fonte di tutti i soggetti e gli oggetti... La Qualità come la insegnava Fedro no non era solo una parte della realtà, era il tutto»

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