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Alberto Barbera: «Rivoluzione in atto, ma il cinema è vivo»
by MondoRed
Non sono tempi facili per chi organizza un festival. L’attesa è tanta. I film
in arrivo tantissimi.
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«Mai abbiamo lavorato come quest’anno. I film hanno cominciato ad arrivare prestissimo, a novembre, contro ogni tradizione. Di solito cominciavamo a febbraio-marzo e il grosso arrivava a luglio»
È saltato il tappo del Covid.
«Sì, tutti quelli che avevano un film lo hanno mandato. È saltato anche il calendario. Una volta ci si provava con Berlino, con Cannes e poi toccava a noi. Oggi chiunque ha un film pronto lo manda a tutti contemporaneamente. Ho visto film tutto l’anno, con un ritmo impossibile».
Ripensando ai film visti quest’anno (quasi 4000, alla fine) sai dirci qual è lo stato di salute del cinema? Sia dal punto di vista produttivo che da quello artistico, espressivo.
«Dal punto di vista produttivo il cinema sta benissimo. Non ci sono mai state tante risorse economiche come in questo momento.Sostegni e aiuti alla produzione di ogni tipo. Sembra di essere tornati all’epoca d’oro, gli anni ‘50-’60. Nell’ultimo anno, soprattutto, si è prodotto ovunque e tantissimo, nonostante le difficoltà dovute ai protocolli anti-Covid sui set, l’aumento dei costi e i tempi allungati. In Italia la produzione è più che raddoppiata».
Le risorse da dove arrivano?
«Dalle piattaforme che stanno crescendo in peso, numero e quantità, dai sussidi europei, dai governi che iniettano risorse economiche enormi a sostegno delle produzioni, dalle film commission, che stanno sorgendo un po’ ovunque, dai fondi di investimento. In Italia, in particolare, arrivano dal tax credit: risparmiare il 40% sui costi di produzione vuol dire abbattere quasi della metà l’investimento per realizzare un film. Non a caso ci sono società straniere che aprono filiali o nuove società in Italia, per usufruire di questi vantaggi».
Ma la quantità non genera automaticamente la qualità.
«No, purtroppo no. L’ho detto in conferenza stampa, attirandomi le “simpatie” di quasi tutti i produttori. Per adesso non genera la qualità, magari poi ci riuscirà. Ma temo si stia creando una bolla artificiale che prima o poi dovrà esplodere. Se manca la qualità, questo non farà che aumentare il fossato che separa il pubblico dal cinema italiano. Un disamore
«C’è una rivoluzione in atto Ma il cinema è vivo, vitale»
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che in certi casi è comprensibile. A volte escono in sala film che sembrano fondi di magazzino. Tutti si sono lanciati a produrre quanti più film potevano, per poter intercettare le risorse finanziarie a disposizione, e hanno tirato fuori tutte le sceneggiature che avevano nel cassetto, senza badare alla qualità».
C’è anche la questione del rapporto con lo streaming, le piattaforme sempre più forti, le difficoltà di distribuzione.
«C’è una trasformazione in atto, e questo è evidente. La rivoluzione dei meccanismi distributivi ha subito un’accelerazione pazzesca durante la pandemia. Adesso il mercato è in cerca di un assestamento, che chissà quando raggiungerà. Le sale hanno riaperto da poco: in alcuni Paesi sono ripartite alla grande, in altri molto lentamente. Tra gli ultimi c’è l’Italia, naturalmente. Ma per tanti motivi, non solo per la paura dei contagi o per il fatto che il pubblico anziano è più reticente a tornare in sala. La qualità dell’offerta non aiuta, anche se ci sono film americani che hanno incassato benissimo, riportando i giovani in sala. Diciamo che mentre le sale stanno ancora aspettando di recuperare il proprio pubblico, le piattaforme si stanno consolidando in una posizione di privilegio e di forza. Quale sarà il punto di caduta, nessuno può ancora dirlo. Io sono abbastanza convinto che si andrà verso una coesistenza tra circuito tradizionale e piattaforme».
Lei è sempre stato molto aperto alle novità, dal rapporto con le piattaforme alle possibilità dello streaming, dal VR alla sala virtuale per vedere i film di Venezia. Non si è arroccato nel fortino.
I film hanno cominciato ad arriva a novembre. In Italia la produzione è praticamente raddoppiata. Però un conto è la quantità, un altro è la qualità

«Sarebbe una cosa antistorica, controproducente, e che soprattutto non farebbe bene al cinema. Non è che se non esistessero le piattaforme i problemi del circuito tradizionale sarebbero risolti. Tutt’altro. Bisogna prendere atto di questi cambiamenti, affrontarli con strumenti nuovi, inediti, e capire come si possono aiutare le sale, che rimangono il modo migliore per vedere un film, su questo non ci piove. Ci vogliono anche nuove regole: prima o poi anche le piattaforme saranno costrette a scendere a patti con la distribuzione tradizionale, anche se in una posizione di forza. Prevedo un periodo di turbolenza che potrebbe essere anche lungo, ma vedo anche un futuro per il cinema tutt’altro che pessimistico. Il cinema è vivo, vitale, si produce tantissimo ovunque, e prima o poi si tornerà a investire anche sulla qualità, che è l’unica cosa che garantisce un rapporto col pubblico fondato sulla credibilità e la fiducia».
Nessuna apocalissi, ma anche nessun facile entusiasmo.
«Ho una posizione di sano realismo. Questa è la realtà con cui bisogna fare i conti. Bisogna misurarsi con le novità, lasciar perdere certe vecchie abitudini, riflettere sul fatto che siamo in tutt’altra epoca rispetto a quella che ha preceduto la pandemia».
Guardando i film selezionati, c’è un umore che spicca, un’atmosfera, un tema particolare?
«Se parliamo di toni, sicuramente quello prevalente non è la commedia. C’è prevalenza di approcci drammatici, toni cupi, preoccupati. C’è la volontà di prendere di petto alcune questioni contemporanee. Dal punto di vista tematico c’è un po’ di tutto, come sempre, ma c’è anche un numero significativo di film che affrontano problematiche relative alla famiglia, soprattutto al rapporto tra genitori i figli. Sappiamo benissimo che in questi due anni di pandemia, chi ha sofferto di più per il lockdown sono stati i giovani, e questo ha messo in crisi anche i genitori, la loro capacità di trovare soluzioni. Molti registi, costretti a loro volta a subire le conseguenze del lockdown, hanno deciso di raccontare le loro vite private, le problematiche più personali. Ci sono anche i film politici, a partire da quelli iraniani, tutte metafore della situazione di tensione e preoccupazione di quel Paese. Ma c’è anche un ripiegamento nel privato, e questo è il segno più forte che ha lasciato la pandemia».
Cose di cui va particolarmente fiero?
«Alcuni film non sono stati completati in tempo. Ma ci sono quasi tutti i più attesi della nuova stagione. Siamo molto soddisfatti per questo. Da Iñárritua Baumbach, da Joanna Hogg a McDonagh, da Aronofsky a Blonde di Andrew Dominik. Sono i film che la gente si aspettava di vedere a Venezia. L’unico che ci è scappato, per scelte di marketing diverse, è quello di Spielberg, che aprirà a Toronto. Alla Universal hanno deciso di non farlo vedere a nessuno. Mi dispiace per questa strana scelta. Anche perché chi lo ha visto dice che è molto bello».
Noi che viviamo nella bolla veneziana per due settimane, a volte abbiamo l’impressione di essere fuori dal mondo, in un’isola felice, staccata dalla realtà. Come si evita questo effetto?
«È la prima cosa che ho detto in conferenza stampa, ricordando che i film non stanno in una bolla separata dalla realtà. Se è vero che sono finestre sul mondo, non possiamo evitare di prendere atto anche delle cose che non vorremmo vedere, dalla guerra alla recrudescenza della censura in tanti Paesi del mondo, che siano l’Iran, la Cina o la Turchia. Casi di censura, più o meno subdola, sono frequenti in tanti Paesi. Avremo due occasioni forti per ricordare questi problemi. Da una parte ci sarà una giornata dedicata all’Ucraina, alla solidarietà con quel popolo, e dall’altra ci sarà un incontro per fare
il punto sull’ultimo anno di attacchi alla libertà di espressione, sui cineasti imprigionati e condannati. Il giorno della proiezione del film di Panahi in concorso, ci sarà un flash mob sul tappeto rosso, con tutta la gente di cinema che vorrà partecipare, una grande fotografia collettiva per chiedere la liberazione di Panahi, Rasoulof e Aleahmad, arrestati di recente. Viviamo dodici giorni all’interno di un mondo fantastico, che è quello del cinema, ma non chiudiamo gli occhi su ciò che succede intorno».
Passando dall’universale al personale: ha mai fatto un conto dei film che guarda nel giro di un anno?
«Mai. Ne vedo una quantità tale che quasi mi spaventa. Quest’anno, da novembre a oggi, non ho mai visto meno di quattro film al giorno, qualche volta anche sei».
Quindi al cinema, per piacere, non ci va mai.
«Credo di esserci andato una o due volte, quest’anno, per vedere film che mi ero perso. Ad esempio Spielberg. Altrimenti è solo lavoro. Poi, certo, parliamo di un lavoro fantastico, che è anche un piacere. Ma quando i film sono brutti, è il lavoro più usurante che ci sia».
Com’è la giornata tipo del direttore di festival? Lei è un metodico o uno di quelli che preferiscono improvvisare?
«Scrivo tutto ciò che devo fare, altrimenti mi dimentico. La memoria ormai è satura. Sono sempre di corsa. Oltre a vedere i film, c’è tutta l’altra parte del lavoro: tenere i contatti, rispondere alle mail che ti arrivano e alle telefonate, gestire i rapporti internazionali. Tra un film e l’altro devo fare anche questo, quindi è sempre una lotta contro il tempo. Ho dei taccuini su cui scrivo giornalmente le cose da fare, poi però mi sveglio alle 5 del mattino, dicendo “non ho fatto quella cosa”».
C’è anche il peso della responsabilità. Chi fa un lavoro come il suo, può decidere il destino di un film o un cineasta, nel bene e nel male.
«È una responsabilità enorme di cui sono consapevole. Ed è la parte peggiore del mio lavoro. È facile capire quando sei davanti a un film bellissimo o bruttissimo. Poi c’è tutta una zona grigia, intermedia, di film sufficientemente interessanti da non dover essere scartati subito, ma per i quali magari non c’è posto: quindi vanno fatte scelte, confronti, valutazioni, a volte i film bisogna rivederli. La tensione è sempre molto alta. Non è mai una scelta fatta con leggerezza. Mai come quest’anno ho ricevuto sollecitazioni, pressioni, richieste di riconsiderare una decisione negativa. Come se l’incertezza dominante, la precarietà del momento, rendesse il festival ancora più decisivo, perché ti dà la possibilità di emergere e di farti notare. Mai come quest’anno ho sentito questa pressione. La cosa più difficile è dire di no a persone che conosci, a produttori con cui hai un rapporto, a cineasti famosi che hanno fatto un film meno bello del solito e a cui devi spiegare che è meglio se saltano un turno».
Poi, dopo il festival, ci vuole almeno un mese di vacanza.
«Assolutamente no. Vado via dieci giorni e poi si ricomincia subito: una riunione per parlare di cosa ha funzionato e cosa no, pensare i primi cambiamenti, poi due o tre viaggi strategici ai festival, per incontrare registi e produttori, dopo di che arrivano i primi film. Quando arrivano i film, comincio subito a guardarli».
Anche perché si spera sempre di trovare il nuovo fenomeno del cinema contemporaneo, il cineasta del futuro.
«C’è sempre la speranza di essere sorpreso da qualcosa che non ti aspetti. E per fortuna ogni anno succede».
