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Apologia dell’oste. Giorgione cuoco “laido” e poeta del popolo
by MondoRed
«Baciozzi!». Mi scrive così, su WhatsApp. Col punto esclamativo. Ci siamo appena conosciuti al telefono, ma è come se fossi un vecchio amico. D’altra parte lui è Giorgione, schietto, diretto, guascone. Non perde tempo in formalità e ti travolge con la sua energia. Quasi tutti i suoi messaggi, in effetti, finiscono con un punto esclamativo. Dieci giorni prima gli avevo scritto per chiedergli un’intervista – per lui, una potenziale rottura di scatole - dandogli rigorosamente del “lei”. «Va bene, però vieni qui da me, così ci guardiamo nelle palle degli occhi», mi ha detto, telefonandomi pochi minuti dopo. “Qui da me” è a Montefalco, provincia di Perugia, Umbria. Ed è un luogo da visitare. Quelle magnifiche colline, ricoperte da vigneti e uliveti, quei borghi medievali con boschi che risalgono al Trecento (qui gli alberi muoiono di vecchiaia, nessuno li può toccare), sono l’ambiente ideale per vedere il re degli osti in azione. Leggo sul sito internet del suo ristorante Alla Via Di Mezzo: «Giorgio Barchiesi è grande e grosso, dal carattere aperto e sensibile come un vero compagno di avventure. Nel suo orto coltiva di tutto, alleva animali di ogni tipo e cucina come si deve». Menu fisso a 34 euro. Lui che potrebbe chiederne tranquillamente il doppio o il triplo. Ma se glielo dici, ti guarda male. C’entrano i trascorsi politici di un certo tipo, ma c’entra soprattutto la vocazione popolare, il piacere di cucinare per tutti, e tutti trattare come fossero vecchi amici.
Giorgione è uno che sa cosa dice, di qualsiasi cosa parli. È colto e carnale. Capace di esprimersi in un linguaggio forbito, per gioco, ma anche di lanciarsi in un turpiloquio creativo che avrebbe mandato in solluchero il Belli e il Catullo proibito della “nugae”
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La prima volta che l’ho visto, dieci anni orsono, stava sul tablet del mio primogenito, allora undicenne. Stupore. Perché mai un ragazzino dovrebbe divertirsi a guardare un cuoco barbuto in salopette che prepara ricette nella cucina di casa sua? Forse perché è un attore nato, anche se non ha nessun bisogno di recitare. È vero. È spontaneo. È uno spasso strampalato. “Giorgione, orto e cucina” - gentilmente offerto da Gambero Rosso Channel - diventò un’autorità in famiglia, tramandato da un fratello all’altro. E tutti cominciarono a citarlo: un «nonnulla» di questo, un «cicinino» di quell’altro, senza dimenticare «una smucinata propiziatoria». Imparammo a «tagliare il sederino dell’aglio» e a sorridere degli intellettuali stellati, che non conoscevano il piacere della cucina «laida e corrotta». E allora via, in Umbria, per incontrare questo anti-divo televisivo - cercato da tutte le trasmissioni (a cui dice di no) e gli organizzatori di cooking show dello Stivale - per provare a capire chi è, da dove viene e perché la cicoria non va assolutamente bollita. Ci vado accompagnato da due figli, due “vecchi fan” di 21 e 16 anni: non sia mai che ci scappi una lezione di vita.
MANNAGGIA
LI PESCETTI FRITTI IN PADELLA
In effetti la lezione è arrivata. Senza bisogno di cattedre, pose da star o “fisime borghesi”. Parlando di cibo, politica e libertà. Facendo buon uso di ricordi piccanti, calici di vino e un turpiloquio creativo che avrebbe mandato in solluchero il Belli e il Catullo proibito delle nugae. Perché questa è la prima cosa che noti, appena cominci a parlargli, al di là delle bretelle d’ordinanza e quella sua aura da personaggio d’altri tempi, a metà strada fra un Hemingway, un Gauguin ai Tropici e un contadino sempre indaffarato: la facilità di parola.
Giorgione è uno che sa cosa dice, di qualsiasi cosa parli, è colto, ma anche felicemente pedestre, e quindi terragno e carnale. Capace di esprimersi in un linguaggio forbito, per gioco, con tanto di definizione da vocabolario delle parole più ricercate, ma anche di lanciarsi in funamboliche espressioni scurrili in endecasillabi che farebbero arrossire anche i più assidui frequentatori di bettole. E infatti i figli si divertono come matti. Io pure.
Ci racconta di quella volta in cui inciampò durante una ripresa televisiva, lui che non voleva tagli e montaggi strani nelle sue trasmissioni, e tirò fuori un’imprecazio-



ne talmente lunga ed elaborata che era impossibile da cancellare (e che qui, purtroppo, non possiamo riportare, per non correre il rischio che la rivista prenda fuoco). Telefonarono da Roma, per segnalare il «linguaggio poco consono». Lui accettò di auto-doppiarsi, e dopo due ore di tentativi venne fuori un «Mannaggia li pescetti fritti in padella». Ma questo, in fondo, è solo colore. La crosta. La sostanza è una storia avventurosa che affonda le sue radici nel passato di questa e di altre terre – da Roma a Trani, passando per la Val Pusteria, su e giù per l’Italia – nella buona borghesia laziale e nella sua bassa manovalanza contadina, in un tempo che sognava di cambiare il mondo, con la sua euforia di libertà e il gusto della trasgressione, nelle zuffe per strada fra studenti (fascisti e comunisti), ma anche nelle serate passate a suonare e cantare con un caro amico noto cantautore. Con Giorgione si parla di grandi temi universali e di torbidi aneddoti famigliari, di broccoli o di incomunicabilità, con la stessa serietà e la medesima ironica leggerezza. Lo show comincia fin dalla prima tappa dell’incontro, alla Cantina Antonelli di San Marco: 190 ettari di terreni argillosi, dieci dedicati a oliveti e cinquanta a vigneti, con una storia che comincia nel 1881 e da tredici anni si è convertita al bio integrale. «La vigna un tempo era maritata, stava attaccata ai gelsi e agli alberi da frutto, non c’era il concetto di filare, che è arrivato coi francesi, con Napoleone». Qui c’è un casale che un tempo era la residenza del vescovo di Spoleto, poi finito al «bisnonno di mia moglie, che era un facoltoso avvocato romano: si mormora che, per evitare la scomunica, quando confiscarono i beni della Chiesa, lo fece comprare a un ubriacone». Da queste parti c’è anche un paesino che si chiama Bastardo, «già osteria del Bastardo, perché dicono fosse del figlio del vescovo». La storia patria ha sempre dei risvolti grotteschi. Ma ciò che conta, qui, ora, è la cantina, le cui radici risalgono al 1979, quando il rosso di Montefalco divenne dop, seguito dal docg del Sagrantino. «È una cantina di medie dimensioni: 300 mila bottiglie. Siamo legati all’annata. Facciamo vini di qualità e un lavoro di ricerca sui vitigni scomparsi. Qui ad esempio c’è un Trebbiano Spoletino che fino a quindici anni fa era scomparso. È stato riclonato. E stiamo facendo esperimenti con la buccia, come se fosse vino rosso, in anfora. La sua straordinarietà è la capacità evolutiva: di solito il vino bianco dura duetre anni, dopo se ne va; questo appena imbottigliato non si beve, ma dopo dieci anni... tartufo bianco! Fantastico!».
Giorgione fa da cicerone, tra una sigaretta e l’altra. «Ma quante ne fumi?», «Sessanta al giorno», «Sono troppe!», «Ho appena fatto un esame: polmoni bianchi. Il dottore mi ha detto: “Non so dove lei mette il catrame e non lo voglio sapere”». I miei figli se la ridono, perché la spiegazione “scientifica” fa riferimento a immaginifici eccessi sessuali della sua gioventù. Ma poi diventa serio: «Occhio, però, ragazzi, che il fumo e l’alcol inibiscono il testosterone. Se volete uno sviluppo armonico, più tardi cominciate a bere e fumare, meglio è». Quanto alle droghe, non se ne parla proprio: «Io mi sono sempre piaciuto molto, non ne ho mai avuto bisogno». Che poi sarebbe un magnifico spot contro l’abuso, invece delle solite prediche e i moralismi da quattro soldi.
Il ricordo più fulgido che ho, è di questa donna che fa l’impasto per lo strudel, quello di Salisburgo, con la farina di segale, senza mattarello, solo con polsi e avambracci. Per me la trasformazione del prodotto in cibo era un’alchimia, una magia
Giorgione è arrivato a pesare 186 kg, anche se è sempre stato un «obeso grave sano» (definizione geniale del medico di fiducia). Essendo impossibile imporgli una dieta - «per me la dieta è una pausa di riflessione tra un pasto e l’altro» - il medico amico gli consigliò una riduzione dello stomaco. Oggi pesa 95 kg. E lo stomaco non è cresciuto di un millimetro. Per provare il suo stato di forma da splendido sessantacinquenne, mi sfida in un paio di pose ginniche. Io rimango di stucco quando lo vedo alzare la gamba come fosse Heather Parisi. Fa anche una specie di plié da contorsionista, che a me ovviamente non riesce. I figli invece li sfida sul vocabolario, a suon di definizioni, de “reprobo” a “pedissequo”. Tutto questo mentre facciamo un tuffo nella sua infanzia... montessoriana.
EDUCAZIONE MONTESSORIANA
«I miei erano molto cattolici, ma non bigotti, grazie a Dio. Eravamo sei figli, cinque maschi e una femmina. Genitori borghesi, un po’ fru fru. Mio padre era un ingegnere edile, mia madre aveva una famiglia con radici nobili». Ma sua madre era, soprattutto, una pedagoga montessoriana. Non avevano la tv in casa («era uno strumento del demonio»). In compenso però godevano di «un’apertura mentale e una libertà individuale, fin da

piccoli, che i miei amici non avevano». Vedi il discorso che la madre gli fece a 14 anni e che ricorda ancora come se fosse adesso: «Vai incontro alle cose con la curiosità e non con la diffidenza, soprattutto nei confronti della diversità. Non mettere muri, filtri, barriere, vai con le emozioni che ti dà quella cosa in quel momento». E via con gli aneddoti, tipo il viaggio a 15 anni da Roma alla Val Pusteria, 780 km con un Corsarino, un cinquantino della Moto Morini. Lassù il padre si era comprato un maso, dopo essere fuggito da Courmayeur, che tra il ‘55 e il ‘65 si era riempita di gente (troppa gente) alla ricerca della bella vita. Ma prima ancora c’è la scelta di fare l’Istituto Tecnico Agrario e l’esperienza nell’azienda agricola di famiglia - a due passi da Roma, proprietà del nonno, commercialista romano, che ai tempi del fascismo non aveva problemi ad aiutare gli ebrei, e fu uno dei pochi a restituire ogni cosa, con gli interessi, ai suoi assistiti, quando tornarono a casa. Il padre fece questa raccomandazione al fattore: «Fategli fare ciò che gli operai non vogliono fare. Paga sindacale. Divieto assoluto ai contadini di accudirlo». Lavorò di notte, fino alle 6.30 del mattino, spostando i tubi dell’irrigazione, completamente coperto di fango, per evitare di ferirsi con le foglie di granturco. Tutto questo per comprarsi il motorino. Montessoriani, sì, e pure benestanti, ma le cose bisognava guadagnarsele. E imparare sulla propria pelle. Vedi quegli anni in cui era facile finire in Questura, dopo una “retata politica”, e il babbo faceva in modo che il figlio minorenne passasse la notte in cella. E la cucina, direte voi? Tutto cominciò quando aveva 7 anni, e viveva in un villino liberty di fronte a Piazza del Popolo. La regola famigliare diceva che bisognava andare a letto alle 19.30. Lui sgattaiolava fuori dalla camera, di nascosto, e andava in cucina. Passava le sue serate così. Ma le cose più importanti le ha imparate dalla tata tirolese. «Il ricordo più fulgido che ho, è di questa donna che fa l’impasto per lo strudel, ma non quello tirolese, quello di Salisburgo, con la farina di segale, quindi un po’ più duro e compatto. Lei, senza mattarello, solo con polsi e avambracci, faceva questo metro quadro di sfoglia... Per me, la trasformazione del prodotto in cibo era un’alchimia, una magia: stavo lì a guardarla a occhi spalancati. Poi ha cominciato anche a insegnarmi». Gli ha insegnato anche come si fa a guarire dalla malinconia. Aveva appena compiuto 17 anni, la madre non c’era più, si era lasciato con la “pischelletta” e stava un po’ “strapazzato”. La raggiunse in Val Pusteria, nella pensioncina in cui c’era una camera tutta per lui, lo fece lavorare come un matto, lo portò a fare spese in Austria, chiedendogli di guidare l’auto («Ma non ho la patente!», «Ma guidi meglio di me», «Ma ci sono le dogane», «Ma io conosco tutti»), e poi in tirolese stretto gli disse: «Ora Giorgiolino mi racconti tutto». Catartica. Il giorno stesso se ne andò a rimorchiare. Ma non ci soffermeremo sulle sue disavventure amorose, essendo in gran parte vietate ai minori (per citare Gaber, a quei tempi non si andava per il sottile: «Donne, uomini, animali, caloriferi», andava bene tutto). Va ricordata, invece, la sua vocazione di sempre, quella del veterinario, che lo portò a studiare a Perugia (il padre gli disse: «Vai pure, ma io non ti posso aiutare»). «Non sono mai più tornato a casa. Stavo con una ragazza, in un casale sperduto, mezzo diroccato, che all’inizio era senza corrente. Avevo subaffittato la camera più carina a una coppia di omosessuali e c’avevo in casa anche un tossico». L’incontro con la moglie, invece, risale al ‘75, con matrimonio nell’81 («Un rapporto spensierato, ma non vedo un’esistenza senza di lei»).


C’era un’acqua che voleva darmi 70 mila euro per dire alla fine: “Quanto è buona quest’acqua, mi fa digerire le cose laide e corrotte che cucino”. Bevitela tu! Vuoi Giorgione? Io sono Giorgione! Sono l’autore di me stesso. A casa mia, metto il dito nella pentola e me lo ciuccio
In questa vita disordinata, a cui nessun film o romanzo potrebbe rendere merito – ma prima o poi glielo propongo – ci sta anche una parentesi in Corsica, in un’altra situazione equivoca. In quel periodo ci fu la fatidica telefonata al fratello (per fargli gli auguri), che gli raccontò di una situazione disperata, con l’azienda famigliare allo sbando. «Io non me la sono sentita di dire di no. Dalle stelle alle stalle, in senso proprio». Alla fine portarono via tutto, e per Giorgio Barchiesi si aprì la parentesi di Trani, a fare il consulente per un’azienda di supermercati, settore carni. Si guadagnava bene, ma furono dieci anni difficili («Fui aiutato dai cognati, sempre molto affettuosi»). La facciamo corta. Un nuovo lavoro, oltre all’amicizia con il noto cantautore di cui sopra - aveva comprato un casale circondato dagli uliveti a Spello e aveva bisogno di qualcuno che sapesse gestire un’azienda agricola – lo portarono in Umbria. «Io avevo cominciato a cucinare. Facevo pranzi a casa mia, anche per tante persone, ma per gioco. Avevo questo casale e cucinavo per anniversari di matrimonio, compleanni. La mia casa era aperta. Era un punto di aggregazione. Una sera avevo preparato una cena per 150 persone. E c’erano anche due ragazzi milanesi, che avevano un ristorante a Torre del Colle, ma la cosa non funzionava. Un vecchio frantoio riattato, meraviglioso. Mi si accese la lampadina del matto....». Grande antipasto a buffet, due primi, due secondi, tris di dolci, 15 euro. «Dopo un mese che avevo aperto, avevamo sei mesi di prenotazioni il sabato e la domenica». Come si dice: il resto è storia. E se dopo quindici anni il costo del pasto è arrivato a 34 euro, è solo per stare al passo con le spese. «Ho sempre fatto un prezzo politico. Io sono questo. Finito il mio programma televisivo, io sono sempre Giorgiolino».
BEVIAMO!
Pausa vino. Se vi capita, fatevi un giro in questa cantina. Possibilmente accompagnati da Giorgione, che racconta le cose a modo suo, con amore, competenza e senza peli sulla lingua. Scendiamo sottoterra («diffidate delle cantine che stanno in superficie») dentro un ascensore che è un viaggio nel tempo, costellato di foto d’epoca, in bianco e nero, gente al lavoro, la famiglia, il fattore, i contadini nella vigna. E comincia il viaggio nel magico mondo dell’uva che diventa vino. Non staremo a raccontare tutto quello che abbiamo visto, in quegli spazi enormi, dall’uva lavorata «per caduta, senza pompe», alle magnifiche botti («non è vero che la botte vecchia fa il vino buono, la botte ha una sua vita»), dalla linea di imbottigliamento all’avanguardia, alle famose anfore per il Trebbiano Spoletino in buccia, con l’interno ruvido, effetto coccio («costano un orrore!»). Giorgione saluta calorosamente tutti quelli che incontra, ringrazia un elettricista per il suo lavoro, scherza con una signora che sta gonfiando dei palloncini – qui c’è anche uno spazio spettacolare, circondato da vetrate, che dà su un panorama di colline, vigneti e uliveti, in cui si organizzano feste ed eventi – e si arrabbia al telefono con
un fornitore che non fornisce le carni promesse, con un tono tra lo scherzoso e l’omicida, usando parole irripetibili che scatenano l’ilarità dei figli. Ci spiega come funziona il docg, che la cantina non genera profitti ma soldi reinvestiti nella cantina stessa, che si sopravvive grazie al fatto che il 60% va all’estero (dal Canada a Dubai, dalla Francia all’Inghilterra, dall’Olanda al Belgio, senza dimenticare l’America) e arriviamo al sancta sanctorum, l’enoteca aziendale che conserva le vecchie annate. «Questo ci serve a capire cosa eravamo e cosa stiamo facendo. Il Sagrantino nasce quarant’anni fa. Prima era solo passito, ed è diventato secco. Clinton aveva il Sagrantino sulla sua scrivania nello Studio Ovale, ma non tutti lo conoscono, è ancora un vino di nicchia. È il vino più tannico al mondo, è ruvido, ti arriva in bocca e ti fa l’effetto cachi immaturo, ha bisogno di tempo, se tu lo vendi a sei anni è un bambino, deve crescere, si deve sviluppare... Noi una volta all’anno ci vediamo qui, tra giovani alcolizzati, e ci facciamo le trasversali per capire quell’annata quanto dura, quanto migliora, quanto rimane stabile. Devi giocare con la tua storia, ci devi ragionare su, la devi rispettare». I figli (come il padre) sono letteralmente rapiti dall’affabulazione, il carisma e – diciamolo – anche i vini della cantina. Perché non si può conoscere qualcosa senza farne esperienza. Solo un dito, visto che i calici si susseguono uno dopo l’altro, con le istruzioni di Giorgione per una degustazione come si deve. Il palato esulta “masticando” l’Anteprima Tonda Trebbiano Spoletino, si gode il Montefalco Rosso e il modo in cui si aggrappa alle papille gustative, e infine va in estasi col Sagrantino Passito. Ora Giorgione potrebbe raccontarci qualsiasi cosa, visto che la lucidità vacilla. Ma una cosa che non ci ha ancora raccontato è come è diventato Giorgione. Tutto comincia (o continua) con la visita a sorpresa di due emissari del Gambero Rosso e l’amicizia con l’allora segretaria di produzione (oggi direttrice del canale). Gli offrirono di diventare il protagonista di un programma tv. La sua risposta? «Venite a casa mia, io ho l’orto, ho gli animali, in un posto bellissimo. Parliamo di territorio, di prodotti, di persone». Insomma, una cosa che costava dieci volte tanto, rispetto al solito programma in uno studio tv. L’occasione è arrivata con la nascita dell’HD e la possibilità di registrare un programma pilota, seguendo le regole (anarchiche) di Giorgio Barchiesi, ormai pronto a diventare Giorgione: «Nessun copione. Io apro la bocca e gli do fiato. Ciak, scena, ciak, scena, tre telecamere, totale e dettagli da assemblare, senza tagliare niente. Bravissimo il regista, con cui è nata una bella amicizia». Fu un trionfo inaspettato. Che sdoganò in cucina il “laido e corrotto”. L’esatto contrario di un’operazione studiata a tavolino. «Il popolo lo ha capito». Ha capito soprattutto che qui non c’era spazio per marchi e marchette. «C’era un’acqua che mi voleva dare 70 mila euro per dire alla fine: “Quanto è buona quest’acqua, mi fa digerire le cose laide e corrotte che cucino”. Ma bevitela tu!». Ed ecco “Giorgione, orto e cucina”, le escursioni al “porto” e ai “monti”, fino alla serie del 2021 “A grande richiesta” e quest’anno “Essere Giorgione”, con le telecamere che sono entrate in casa sua. A settembre ripartirà una nuova serie de “L’alfabeto di Giorgione” (e chi se la perde?). Ma non chiedetegli di fare comparsate, anche se sono arrivate richieste dai vari Hell’s Kitchen, Prova del cuoco, Masterchef. «L’unico marchettone che ho fatto, perché non potevo non farlo, è stato a Bake Off». Lui è lontano mille miglia da quel format, con il copione scritto dagli autori e l’auricolare all’orecchio. «Non c’entro niente con quella roba lì. Io sono l’autore di me stesso. Vuoi Giorgione? Io sono Giorgione! A casa mia, io metto il dito nella pentola e me lo ciuccio. Mi piaccio, ed è quello che arriva. Sono inter-generazionale e inter-classista. Faccio cose semplici e buone, non metto undici mila ingredienti. Non ho mai mischiato l’aglio con la cipolla».

NON UCCIDETE LA CICORIA
Ed eccoci al gran finale, seduti intorno a un tavolone di legno, a parlare di questi tempi assurdi in cui viviamo, dove le farmacie hanno «trenta metri di integratori. Hai sudato? Prendi questo. Sei depresso? Prendi quell’altro... Magna tutto, amore, che non te serve un cazzo. Se stai male prendi il farmaco, non l’integratore». E basta con tutti questi luoghi comuni: «Dice: “la dieta mediterranea”, ma perché, cosa siamo, ceceni? Devi mangiare quello che hai intorno. Dice “chilometro zero”. Che vor dì? Diciamo “chilometro buono”, perché non è la provenienza che ti fa il prodotto buono, ma chi lo fa. Vatti a cercare i prodotti! Io nei miei programmi parlo di un vitigno, di un territorio, una persona, non di un marchio». Questo non vuol dire disprezzare il lavoro degli altri. Se gli dici che è l’anti-chef, lui si arrabbia. «Ma perché anti? Così sembra che mi metto in competizione. Non ci penso proprio. C’è spazio per tutti. Un conto è il programma di cucina, un altro la trasmissione spettacolo». E comunque, va detto che chef e ristoratori chiamano volentieri Giorgione per un cooking show, se c’è da riempire una sala.

Pensa ai danni che fanno alla cicoria: la mettono nell’acqua a bollire, la strizzano, la ripassano in padella... Mangiano fibra. Dice: “Così mando via l’amaro”. Ma allora mangia gli spinaci! La cicoria è amara, se le togli l’amaro, le hai tolto il buono che c’è
Filosofia del cibo? «Non mi interessa. Mi interessa la fascia aromatica, quello sì. Tutto ciò che mangiamo ha una fascia aromatica, che è termolabile nella parte più delicata e idrosolubile nella parte più grossolana. Pensa ai danni che fanno con la cicoria: la mettono nell’acqua a bollire, poi la strizzano, la ripassano in padella... Mangiano fibra. Dice: “Così mando via l’amaro”. Ma allora mangia gli spinaci. La cicoria è amara, se le togli l’amaro le hai tolto tutto il buono che c’è, l’hai rovinata. Vuoi fare la cicoria? Pentola alta e stretta, un goccino d’olio, una becca d’aglio, un’acciughina, un po’ di peperoncino. L’hai lavata, un po’ d’acqua ci rimane, lei per il 90% è fatta d’acqua, metti il fuoco piano piano e aspetti... Quando vai in una casa in cui fanno bollire i broccoli, cosa senti? Puzza di broccoli. Ma se sta nell’aria, non sta più nel broccolo. Perché lo devi mettere nell’acqua? Il broccolo lo metti in un tegame, non lo devi spappolare. Le cosiddette tradizioni spesso sono abitudini sbagliate». Va bene la tradizione, ma servono anche conoscenza, innovazione, tecnologia. Vallo a capire come e perché passiamo dalla cicoria a Veltroni («Mannaggia a lui»), dal broccolo alle sorti del mondo. «Sono preoccupato per loro», dice, indicando i miei figli. «Gli lasciamo un mondo di merda, noi che lo volevamo cambiare. Nel ‘68 operai e studenti si misero insieme, e il potere ebbe paura. Immediatamente è arrivata la droga, poi i gruppi extraparlamentari, hanno cominciato a dividere le intelligenze, e all’operaio hanno fatto credere di essere cresciuto socialmente ed economicamente, creando questa enorme piccola borghesia, senza una crescita culturale». Tocca rimpiangere i tempi in cui la gente
si ritrovava al bar per guardare gli sceneggiati della Dc e i programmi di Alberto Manzi. Per non parlare del virtuale. «Io non demonizzo questi aggeggi, ma il tdbslmcmc. Perché mi mandi un messaggino? Almeno il tono della voce me lo vuoi far sentire? Noi avevamo un “privato”. Oggi se non condividi non sei nessuno. Non vedo, intorno a me, ragazzi stupidi, ma ragazzi incapaci di dire ciò che gli passa per la capoccia. Oggi tutto è scontro, è la violenza che fa share in tv. Allora è fondamentale che noi genitori diamo un esempio. I figli sono sconosciuti che ti entrano dentro casa, i genitori non si scelgono, ma è da qui che si comincia». Si comincia attorno a un tavolo. Dove la parentesi pessimista lascia il posto ai piaceri della vita e alle chiacchiere in libertà, al sapore, il buonumore. L’ultima tappa è Alla Via Di Mezzo, il ristorante di Giorgione a Montefalco. «Voi siete stati invitati, non rompete il cazzo», dice perentorio, quando provo a sottrarmi, come impongono le buone maniere (in realtà io e i miei figli esultiamo in silenzio, scambiandoci occhiate affamate). Non staremo a raccontare nei dettagli il godimento di quel pranzo che ne valeva quattro o cinque, per le quantità e soprattutto la qualità. Materia prima super, lavorazioni semplici e mirabilmente “laide”, e Giorgione che passa dopo ogni portata a spiegare, chiedere e perfino a imboccarti, se osi lasciare nel piatto un cucchiaio sporco di pomodoro o ragù. Lo fa con tutti, girando per i tavoli, scherzando ad alta voce, dentro un locale in cui trovi appesa una storica salopette, il quadro o la poesia regalata da un’ammiratrice, la bottiglia di vino con dedica: «A quel laido del nostro amico Giorgio». Ci alziamo a fatica, scambiandoci esclamazioni di gioia e pacche sulle spalle. Alla fine arrivano i baciozzi, quelli veri. E la promessa di rivedersi al più presto, anche solo i figli senza il padre, se capita. Montessorianamente. Che fenomeno, Giorgione! Che gran pezzo di essere umano!
Giorgione
