Redness Luglio Agosto 2024

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Dove si parla di boschi millenari e santuari per gli animali , di uomini che collaborano con la natura, di illustratori liberi e attori-scrittori che combattono la mentalità mafiosa, di Battiato l'alieno e di Yogananda maestro dei nuovi tempi N 18 | LUGLIO-AGOSTO 2024

Ninni Bruschetta
Maurizio Di Bona
Gyoetsu Epifanìa
Massimo Manni Niccolò Reverdini

REDness

è passione, arte, impresa, comunicazione.  È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.  Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare. La redness è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina. È l'entusiasmo, la motivazione, il senso,  il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.

REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità... Va bene tutto, purché sia fatto con redness.

In copertina: Un biacco sta per entrare in acqua, nel Bosco di Riazzolo

Foto di: Carlo Cinthi

(servizio a pag. 42)

Direttore: Fabrizio Tassi

Progetto grafico: Marta Carraro

Redazione: MondoRed

Redness è un mensile edito da MondoRed, Corso Buenos Aires 20, Milano

Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore

4 EDITORIALE

4 In questo attimo

6

INCONTRI

6 Annamaria Gyoetsu Epifanìa: una monaca zen che danza con le parole

22 Ninni Bruschetta: il tocco feroce di un attore che sa scrivere (e pensare)

34 Maurizio Di Bona: omaggio a Battiato di un illustratore libero

44

LUOGHI

44 Bosco di Riazzolo: la memoria verde del mondo

60

IDEE

60 Santuario Capra Liberi Tutti: dove gli animali vivono felici

64 Massimo Manni: "Se li ami, non puoi ucciderli o sfruttarli"

70

MEDITAZIONI

70 Il romanzo di Yogananda, mistico, poeta, maestro dei nuovi tempi

78

COMMIATO

78 Andrea Laprovitera e Ludovico Lo Cascio: "Il vecchio e il mare"

In questo attimo

Servono occhi limpidi, per riuscire a vedere che siamo legati uno all'altro, esseri umani e alberi, animali e pietre, campagne e città. Non per un qualche vago sentimentalismo, per una decisione “politica” o un'intenzione “filosofica” astratta. Legati dall'aria e la terra, dall'essere capitati su questo pianeta straordinariamente ricco di risorse, bellezza, possibilità. Una questione biologica e culturale. Anche spirituale.

Scrive Annamaria Gyoetsu Epifanìa: «Noi, voi, ogni creatura, siamo l’uno la voce dell’altro; la narrazione di un’unica esistenza. Tra visibile e invisibile la magia di spazi inesplorati gioca a palla tra fili d’erba e filo spinato. Esistiamo se sfiorati, toccati, colpiti. Nell’altro il nostro esserci, l’interconnessione a definirci». La rivista si apre con lei, che un tempo ha danzato accanto a Nureyev e Carla Fracci, e che oggi è una monaca zen, aiuta gli altri a meditare e a conoscersi meglio (ad esserci, a liberarsi) attraverso il movimento, prepara pasti in consapevolezza e scrive libri bellissimi come La Via degli Occhi Limpidi (Lindau). La sua storia ci

ricorda che la realtà è sempre più interessante di qualsiasi romanzo, più istruttiva di un saggio sull'arte di vivere, più venerabile di un testo sacro. L'idea che il compito più grande della vita sia imparare a stare con ciò che c'è - con tutto il nostro amore, la forza, l'attenzione, la curiosità, la creatività, l'abbandono – è di quelle che possono trasformare le persone e il mondo.

Lo sapeva bene un'anima grande come Franco Battiato, di cui abbiamo già parlato su Redness. Stavolta, però, celebriamo il suo lato più ironico, ludico, “alieno”. Merito di un disegnatore come Maurizio Di Bona (e di Alessio Cantarella), che ama gli esseri liberi e anticonformisti, pratica un culto personale per Giordano Bruno (condivisibilissimo) e ha il talento della semplicità arguta, l'arte di sorprendere senza trucchi ed effetti speciali. Non per niente alle religioni istituzionalizzate preferisce chi si apre al mistero e ritrova il senso del sacro nel quotidiano. C'era bisogno, in effetti, di togliere un po' di polvere dall'immagine pubblica di Battiato, ridotto spesso a un santino.

Ninni Bruschetta conosceva bene Franco Battiato. È anche grazie a lui che ha sviluppato il suo interesse per la metafisica e René Guénon, ed è stato lui il primo ad apprezzare il suo sapiente libro su Il mestiere dell'attore (Bompiani), ripubblicato poi da Luni con il titolo L'Officiante. Nel suo romanzo, La scuola del silenzio (HarperCollins), troviamo anche varie discussioni, semiserie, su temi religiosi e spirituali. Ma al centro del libro c'è soprattutto la Sicilia, la sua ricchezza dilapidata, la bellezza sfregiata dal malaffare, il menefreghismo, la burocrazia soffocante, la mentalità mafiosa. Ricordi e invenzioni si intrecciano con intelligenza, confermando il talento per la scrittura di un attore spesso “non protagonista” ma mai banale.

Tornando al legame tra cose e persone, natura e cultura, è un vero piacere - per gli occhi, i sensi, la mente - passeggiare nel Bosco di Riazzolo (millenario!), alle porte di Milano, insieme a Niccolò Reverdini, tra citazioni di Virgilio e Gadda, imparando i segreti di alberi e animali, riflettendo sulla tutela di queste oasi naturali, da cui dipende il nostro futuro.

Lo sa anche Massimo Manni, un tempo allevatore, oggi salvatore di animali destinati al macello, ospitati nel Santuario Capra Liberi Tutti. Un luogo straordinario, in cui animali di specie diverse vivono liberi, senza recinti, imparando a conoscersi, godendo per la prima volta la possibilità di essere ciò che sono, con le loro emozioni, non solo pezzi di carne destinati al consumo.

A proposito di libri capaci di cambiare la vita delle persone, questo mese omaggiamo l'Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda, maestro dei nuovi tempi, quelli in cui siamo chiamati non a credere ciecamente, ma a sperimentare, magari attraverso la meditazione, che ci porta alla fonte, il centro di ogni vera religione, tradizione, disciplina spirituale: l'esperienza del Divino. Che significa anche andare oltre il piccolo sé, ritrovare l'Uno.

In copertina c'è uno splendido biacco riflesso nelle acque del Bosco di Riazzolo. Il serpente, tradizionalmente, prima di diventare sinonimo di tentazione e inganno, era simbolo di rinascita e di immortalità. È la ciclicità del tempo in forma di "uroboro" (il serpente che si morde la coda). È l'energia divina Kundalini, che dorme in fondo alla coscienza, arrotolata alla base della spina dorsale. Può mordere e avvelenare. Ma se risvegli la sua forza nel modo giusto, con sapienza, consapevolezza, purezza di cuore, può trasformare, rigenerare.

Scrive ancora Gyoetsu: «La forza del cuore può dissolvere i pensieri. Nessuna via di scampo quando il corpo-mente ha un unico intento. Ciò che vede il cuore è ciò che la vita promuove. Molecole si aggrappano alle onde. Il fuoco, centro della terra, offre sé stesso. Ogni lampo, nuvola, pesca matura offrono sé stessi lasciandosi guardare e raccogliere. Le rughe, narrazioni sul nostro volto, pungono il cuore. Nella sua morbidezza, l’appuntamento con l’eternità è qui, in questo attimo». (f.t.)

Annamaria Gyoetsu Epifanìa

Ha ballato con Carla Fracci e Nureyev, oggi è monaca zen, aiuta le persone a guarire con la danza e scrive libri pieni di luce e poesia

di Fabrizio Tassi
«Non sappiamo niente, non siamo niente, possiamo amare tutto»

Gli occhi sono sempre gli stessi, grandi, azzurri, pieni di mare e di cielo. Ma un tempo quello sguardo era smanioso, selvaggio, impaziente.

Lo vedi nelle foto d'archivio, uno sguardo inquieto incastonato su un viso da diva del cinema muto, con i capelli lunghi e ricci, una folta criniera che circonda il corpo sinuoso, sempre in movimento. Un leone in gabbia. Oggi invece è uno sguardo sereno, penetrante, gli occhi sorridenti di una bambina curiosa che pratica la meraviglia, aperti a ogni possibilità. I capelli non ci sono più, la danzatrice ha lasciato il posto alla monaca, per questo l'azzurro sembra ancora più grande. Il corpo

A due anni e mezzo ho chiesto ai miei di danzare. Mi hanno detto: "Non se ne parla".

E a me è venuto il febbrone a 40. Al medico ho sussurrato all'orecchio: "Dica ai miei che se non mi mandano a danza, io muoio"

Annamaria Gyoetsu Epifanìa

La Via degli Occhi

Limpidi

L’arte di manifestarsi senza rumore

Prefazione di Guglielmo Doryu Cappelli

poesia che alla letteratura idee, suscita emozioni. ritmo segreto delle cose: mimare il silenzio, quanto un respiro. a fermare il mondo, dondolarci nella gioia.

Postfazione di Filippo La Porta

A cura di Katia Paoletti

ora è allenato a stare seduto, immobile, su un cuscino, ma non ha mai perso il gusto del movimento misurato, consapevole, del gesto libero, liberatorio.

È così che appare Annamaria Gyoetsu Epifanìa, guardandola da fuori. Poi c'è il suo mondo interiore, vastissimo, che possiamo solo intuire, o provare a leggere nei libri che scrive. «Braccia al cielo. Noi il cielo. Braccia al vento. Noi il vento. Tuffàti nella realtà, ogni parola è superflua. Tuffàti nella realtà, il nostro vero cuore batte. Mi inchino al dolore. Mi inchino alla grazia. La nostra vita non siamo noi. Non sappiamo niente, non siamo niente, possiamo amare tutto. A mani giunte, porgiamo la nuca alla terra. Il cielo piove sul viso, ci lasciamo innaffiare. Non sappiamo niente, non siamo niente, possiamo amare tutto. La terra ci respira»

Comincia in poesia La Via degli Occhi Limpidi, pubblicato da Lindau. E in un certo senso potremmo anche fermarci qui. Dietro certe intuizioni c'è qualcosa che assomiglia alla verità della vita, la premessa (più che la promessa) di una gioia incommensurabile. “Le parole sono superflue”, ma queste abbiamo, e bisogna provare a capire, articolare, comunicare. Per questo Gyoetsu condivide la sua pratica zen, insegna Danza Creativa (danzaterapia) e Tai Chi Qi Gong, esercita l'Ascolto Consapevole (un metodo terapeutico elaborato da lei), ma allo stesso tempo scrive libri e accetta volentieri di raccontare la sua esperienza - l'abbiamo ascoltata in trasmissioni tv come Geo e in storici programmi radiofonici come Uomini e Profeti Eccoci quindi davanti a lei, con il canto degli uccelli sullo sfondo, incantati dalla quiete e l'ordine del luogo in cui vive, il Centro Zen Anshin a Roma (“Pace nel cuore”, www.anshin.it). Ma non pensate allo stereotipo della monaca taciturna e distante, che vive in un'altra dimensione della realtà. Annamaria Gyoetsu è allegra e generosa, ride volentieri, di gusto, i suoi racconti sono estremamente vivaci. La voce si assottiglia, con pudore, solo quando deve parlare di cose grandi, sacre. Anche se alla base del suo modo di intendere la vita c'è l'idea che il sacro e il profano siano categorie illusorie: tutta la realtà è spirituale, non importa ciò che fai ma come lo fai. «La Verità dell’Universo è Illuminazione. Ogni foglia di bambù che nasce segue la Via. Ogni sguardo che si posa su di lei segue la Via. L’impegno totale nei nostri compiti segue la Via. Ogni argomentazione, anche se eccelsa, non possiede la Verità, eppure segue la Via».

Questo libro è un invito a coltivare un buon cuore così da rendere il nostro corpo e la nostra mente trasparenti come uno specchio d’acqua di montagna. Gli occhi limpidi nel quotidiano hanno il potere di cogliere in profondità il vero senso di ciò che accade, fugando così quei sentimenti di rabbia e paura che velano la realtà. Anche le emozioni, grazie a una costante pratica di ascolto che apre alla comprensione della fluidità di ogni attimo, si rivelano forme vive nel fiume dell’esistenza.

Scopriremo che la quiete dentro di noi è lì da sempre.

«Gyoetsu ascolta la voce di un mondo popolato da fiori, alberi, fili d’erba e nuvole.

Il suo sguardo nel quotidiano trasmette con disarmante semplicità, senza impoverirla, la profondità dell’insegnamento del Buddha. Riesce a cogliere il segreto percorso di pezzi di zucca che cuociono lentamente in pentola e ci rivela la struggente storia d’amore dello spengifiamma che incontra la cera del lumino sull’altare».

Guglielmo Doryu Cappelli

A. G. Epifanìa

Per dirla con il maestro zen Yunmen: “Riso nella ciotola, acqua nel secchio”. «Quello è il posto dove le cose sono. Esprimono la loro essenza così come sono. Stanno dove devono stare. Un bimbo corre tra le braccia della mamma, la mamma corre e accoglie tra le braccia il bimbo»

Ascoltandola parlare della sua vita, delle sue scoperte, degli incontri fatali, viene in mente ciò che scrive nell'introduzione il suo compagno, Guglielmo Doryu Cappelli, danzatore e monaco anche lui, oltre che insegnante: «Gyoetsu ascolta la voce di un mondo popolato da fiori, alberi, fili d’erba e nuvole. Ma non si tratta di un idilliaco paesaggio di campagna o di un remoto tempio zen nascosto fra le montagne della Cina. I fiori sono quelli che adornano le nostre case e presto appassiscono, gli alberi quelli che resistono in esigue aiuole in mezzo al rumore e allo smog, i fili d’erba quelli che crescono fra le crepe del cemento dei marciapiedi e le nuvole quelle che intravediamo fra le sagome dei palazzi delle nostre città»

Le sue non sono esperienze astratte, teoriche, vissute in una sorta di empireo astrale. Ed è emozionante vederla emozionarsi quando racconta del suo incontro con

Doryu: «Amo questa creatura con cui vivo da 40 anni, è l'unica persona al mondo che poteva sopportarmi. Come ci ha detto un'astrologa: siete nati uno per l'altra, e tutti e due per gli altri. Non abbiamo nessun merito quando accadono gli incontri. Me lo sono ritrovato davanti all'università, dove ero andata a insegnare e proporre audizioni. Quando l'ho visto ho sentito un tonfo nel petto, e lui pure. Ho chiesto: “Chi vuole fare l'audizione per entrare nella compagnia?”. Lui si è alzato e io stavo per cadere morta. “È lui!”. È stato bellissimo». Vivere una vita zen, praticare la meditazione, impegnarsi ogni giorno per andare oltre l'ego, i suoi condizionamenti, non significa rinunciare alla vita. Anzi. Vuol dire viverla al massimo delle sue possibilità, in tutte le sue sfumature, finalmente liberi. «Identificati, separati, non viviamo, sopravviviamo. Una mente disattenta prova e provoca confusione, insoddisfazione. Cos’è la disattenzione se non proiettarsi nel futuro o nel passato e vagare perduti, lontani dal presente?». E ancora: «Il mondo in cui viviamo è un dipinto della nostra mente. L’idea che abbiamo di noi stessi non siamo noi. Se puliamo il diamante della nostra mente, possiamo vivere nella trasparenza».

Gyoetsu Epifanìa

Il suo libro è così, fatto di aforismi, riflessioni, intuizioni luminose, ma anche ricordi, frammenti di esperienze passate, libri letti e film visti, anche solo cose e persone incontrate nella quotidianità, impressioni semplici, che acquistano il valore di un'illuminazione. Un libro gentile, che accarezza l'anima. Scritto da una donna che oggi è monaca, che ieri era danzatrice, ma che ha imparato a diffidare delle categorie, di tutto ciò che ci limita e ci costringe in un ruolo. «In ogni momento io posso restituire il mio vestito da monaca, ma adesso ringrazio questo abito che mi ricorda ciò che ho promesso a me stessa e al mondo»

Non facciamo fatica a immaginare quella bambina di due anni e mezzo (!) che pretende di andare a scuola di danza. Partiamo da qui, per provare a ricostruire l'incredibile avventura della sua vita. «Avevo la lingua lunga lunga. Amavo intrattenere le persone e consolarle. C'era già tutto in embrione. A due anni e mezzo ho chiesto ai miei di danzare. Abitavamo nelle case popolari di Bari. Mio padre era maresciallo dei carabinieri, mia madre casalinga, una donna di grande genio. Mi hanno detto: “Non se ne parla!”. E a me è venuto il febbrone a 40.

Quando è arrivato il medico gli ho detto che dovevo parlargli, ho chiuso la porta della camera dei miei, sono salita in piedi sul lettone, gli ho buttato le braccia al collo e gli ho detto, all'orecchio destro (me lo ricordo ancora): “Dica ai miei che se non mi mandano a danza, io muoio”. Uscendo ha chiuso la porta dietro di sé, e io mi sono messa a origliare. Ha detto a mio padre: “Maresciallo, la scuola è sulla strada della caserma, la porti, tanto tutte cominciano ma poi lasciano, non si preoccupi”. Mio padre non poteva sconfessare il consiglio del medico, e così è stato». Il fatto è che la sua maestra di danza, che arrivava dalla Scala di Milano, notò il talento di quella bambina. «Mi disse: “Tu te ne devi andare via, a Roma o a Milano”. Guardando in alto verso il cielo, quale era la città più vicina? E così feci l'audizione all'Accademia di Danza di Roma, accompagnata da mia madre. Eravamo 64 bambine in partenza. All'ultimo anno, l'ottavo, siamo rimaste in due, e io mi sono diplomata». Grazie soprattutto a Jia Ruskaja, fondatrice dell'Accademia, che dava di nascosto dei sussidi alla sua famiglia, pur di tenersi stretta quella bambina talentuosa: la Ruskaja, che dava un 6 solo a chi danzava come un Dio, al quarto anno le diede un 9.

Il problema è che Annamaria voleva semplicemente danzare, non aveva mai pensato al fatto che potesse diventare un lavoro. Alla fine fu espulsa “per atti di indisciplina”. «Si vede, no, che ho la faccia da bandito?», dice ridendo. Non è stata una vita facile la sua. Eccitante, creativa, ma non facile. «Buttata fuori dall'Accademia, sono stata buttata fuori anche dalla casa di mia madre, un mese dopo la morte di mio padre. Non sapevo dove andare. Ho bussato alla parrocchia, che mi ha mandato a casa di una coppia di ragazzi, che studiavano a Roma. E loro, gentilmente, hanno ospitato la pellegrina: mi davano da mangiare e un letto». Vaglielo a spiegare a una ragazza del genere, ribelle ma con la testa fra le nuvole, che avrebbe dovuto difendersi, andando al sindacato, per poter studiare gratuitamente. Si trovò a danzare in una specie di tugurio, «con un signore anziano che batteva un pezzo di legno su una sedia», ma che non ci pensò due volte a rispondere a un telegramma dell'Arena di Verona, che cercava una danzatrice in tutta Italia. Scrisse: «Vi

raccomando questo elemento straordinario...» Quando Annamaria venne assunta dall'Arena, per racimolare i soldi del viaggio andò a ballare su un set di Corbucci, «un western, quattro giorni a prendere ricotte in faccia». Dopo di che accadde una di quelle cose che capitano una sola volta nella vita, forse anche in varie vite: «Arrivo nella palestra vicino all'Arena, dove si tenevano le prove, entro, e mentre firmo la presenza, volto il capo e vedo Carla Fracci. Mi tremavano le gambe. Entro nella sala e viene annunciata l'audizione per scegliere le soliste. Eravamo 60-80, da tutto il mondo, e mi ritrovai tra le sei soliste che danzavano accanto alla Fracci. Questo è stato il mio botto... Ricordo che ogni due per tre vomitavo. C'era una sindacalista di Milano, molto amorevole, che ogni volta mi accompagnava in bagno, mi rimetteva in sesto e mi riportava sul palco. Arrivavo dall'espulsione, dalla morte di mio padre, da una vita in cui non uscivo di casa neanche la domenica per mangiare un gelato...».

Gyoetsu Epifanìa

Non tutti però sono nati per vivere sotto i riflettori. «Più andavo avanti, più mi rendevo conto come funzionava, la politica del parlarsi dietro, del farsi le scarpe gli uni con gli altri. Avevo creato il personaggio del clown per difendermi, “l'idiota”. Chi avrebbe mai invidiato un'idiota? Cercavo di non diventare un bersaglio per le colleghe. Ma cominciai a pensare: io non voglio passare la vita a fare Aida, Cenerentola, Coppelia, Il Lago dei cigni, non è questo che voglio. Io voglio realizzare la vera danza! Continuavo a farneticare, a delirare su una “danza dell'anima”. Non sapevo cosa fosse, ma dovevo trovarla». L'occasione per dire addio a quel mondo si presen-

tò nel 1982: «Nureyev è venuto all'Arena per il Don Chisciotte in veste di coreografo e primo ballerino, e lì ho deciso: questa è una buona conclusione. Quando c'è stata l'ultima replica, si sono spente le luci, ho baciato il palcoscenico, ringraziato tutto e tutti, e ho guardato il cielo dicendo “non so dove andrò, ma qui non ci torno”, e sono scoppiata in lacrime. C'è stata la piena dell'Adige... Non potevo rimanere. Era una spinta interiore, e queste spinte sono sacre, tutti dovremmo ascoltarle, sono la vera vita che ci scorre dentro. Allora non potevo capire. Non pensavo al fatto che avevo studiato tutta la vita per essere lì. C'era qualcos'altro che bussava alla porta del cuore».

Purtroppo non possiamo raccontare tutta la sua vita, anche se di aneddoti ce ne sarebbero a decine. Ma dovete immaginare una ragazza che segue un'intuizione e gira mezzo mondo per realizzarla, per lo più viaggiando in autostop.

In Sudamerica, dove è andata a cercare questa “nuova danza”, le capitò perfino di finire in carcere, dalle parti di Caracas, perché senza documenti («mi fecero il gioco della pistola davanti alla fronte»). E poi cucinò per i ministri di Fidel Castro, a casa di un fotografo che recitava a memoria le battute di un fumetto che anche lei conosceva, due libri con la firma di Annamaria, persi in un cinema a Roma nove anni prima; chi li aveva trovati? Proprio lui. Questo per dire che nella vita «accadono cose che non possiamo neppure immaginare, inventare». Il segreto è rimanere aperti a ogni possibilità e imparare a leggere i segnali che la vita ti manda. Prima o poi la tua strada la trovi.

La strada di Annamaria Epifanìa si è incrociata con quella di personaggi come Dominot (ricordate La dolce vita di Fellini?) che incontrandola le disse «dov'eri? Voglio ballare con te!» e le procurò svariate esperienze e articoli di giornale.

Ma l'ha portata anche a costruire un suo gruppo di teatro danza, che raccoglieva anche chi non veniva accolto da altre scuole, e che la costrinse a lottare contro i mulini a vento della burocrazia, sempre in giro con la sua R4, a proporre spettacoli gratuiti. Un dirigente del Ministero, dopo averle fatto i complimenti per un suo spettacolo, le disse: «Lei deve andare via di qui, non è

per lei questo mondo»

L'esperienza più entusiasmante di quegli anni la fece nel carcere di Rebibbia. «Ho fatto fare spettacoli a donne di tutto il mondo. Ma erano loro a insegnare la danza a me. La loro danza. E ho capito che questo per loro significava attivare la propria dignità e storia personale. Si sentivano utili, importanti. È stata un'esperienza forte, che mi ha forgiata. A quel punto ho cominciato a lavorare con gli operatori nel sociale. Mai avrei immaginato di prendere questa strada, quella della comunicazione attraverso il corpo».

In quegli anni c'è stata anche lo scoperta dello zen. «Nell'85 ho visto un manifesto che parlava della meditazione e ho cominciato a piangere. Ogni tanto mi pigliavano queste fragilità. Ho sentito che dovevo andare. È stato bellissimo, ma non era ancora ciò che cercavo. Era la tradizione tibetana, con tutto un suo mondo di immagini, di preghiere. Io avevo bisogno di silenzio. Poi, un mattino, mi capita di sedermi su uno zafu. Me lo aveva suggerito un tecnico di teatro della mia compagnia. E accade che mi siedo per 45 minuti in silenzio. Quando mi alzo, mi dice: “Tu hai già meditato”. E io: “No, ma faccio quello che mi dicono, se sto ferma nel Lago dei cigni, posso anche stare seduta su un cuscino, a meditare. Lì è cominciata l'avventura»

La danza è soprattutto disciplina, alla ricerca ossessiva della perfezione. E c'è una disciplina anche nella pratica spirituale.

Gyoetsu Epifanìa

Si medita in ogni attimo in cui si è completamente presenti. Se hai un obiettivo, sei stretto dentro quel vicolo e vedi la tua mente illusa decidere che lì c'è la felicità. Se si rimane aperti, accade tutto ciò che deve accadere

Sedersi in meditazione richiede una decisione, devi fare uno sforzo. Però, in questo caso, si parla di una disciplina che vuole aprire invece di chiudere, vuole lasciare andare. È il contrario di quello che facevi nella danza classica.

«Esattamente. Ciò che differenzia le due discipline è che quando si danza si va rincorrendo il risultato, quindi c'è il “gol”, devo arrivare lì ed essere sempre la migliore. Anche nella meditazione a volte c'è competizione, tra monaci non scherziamo, ma la lezione più grande è che si medita in ogni attimo in cui si è completamente presenti: quindi c'è un attimo, un altro attimo, un altro ancora, che compongono quella che noi vediamo come la nostra storia. Nello zen si usa il termine mushotoku, “senza scopo”. Se hai un obiettivo, sei stretto dentro quel vicolo e vedi la tua mente illusa decidere che lì c'è la tua felicità. Se si rimane aperti, accade tutto ciò che deve accadere. Quando ho lasciato l'Arena ero sconvolta, ma sono rimasta aperta e lì si sono mosse delle situazioni, sono ac-

caduti vari incontri. Un importante regista di teatro a Caracas mi chiese di mostrargli il modo di una danzatrice classica di riscaldare i muscoli, e guardandomi mi disse: perché fai questo? Che cosa vuol dire per te? Cosa c'è della tua storia in questo gesto? Lì è l'onda del senso delle cose. Quando ti siedi per meditare, che cos'è “essere seduti”? Sei una montagna. Sei solamente seduto. Sei l'universo, finalmente. Non più in funzione di qualcosa. Non fai, sei, ed è una cosa ben diversa. E poi c'è questo corpo a corpo con chi è seduto accanto a te. Perché da soli è dura. È la tigre che va via dalla montagna e viene uccisa dal cacciatore. Se sta nel branco invece è protetta. Questo proteggersi uno con l'altro non c'è tra i danzatori»

Perché proprio lo zen?

«Mi sono avvicinata attraverso alcune letture, da Siddharta di Hermann Hesse a La via dello Zen di Alan Watts e la Vita di Siddharta il Buddha di Thich Nhath Hanh, visioni romantiche, piene di gentilezza amorevole, di bontà. Io mi scioglievo dentro quei mondi. Mi chiedevo se esistessero davvero da qualche parte. Un giorno un tecnico della mia compagnia mi presenta un medico della Nuova Guinea, perché avevo mal di testa. Noel mi guarda e mi dice che devo imparare a respirare. Si sdraia e mi fa vedere il suo stomaco che diventa una mongolfiera, e poi ritorna giù. Mi parla di equilibrio psicofisico. Intanto il mal di testa è sparito. Era figlio di un capotribù, venuto qui con l'ambasciata, aveva studiato medicina, era diventato dentista, ma era anche veggente.

Quando gli dicevo che volevo cercare un luogo per fare danza, all'ultimo piano di un palazzo, per vedere Roma, lui diceva: “No, sarà al piano terra”. E così è stato. Dopo il primo incontro con Guglielmo Doryu, lui diceva di sentire “profumo d'arancio”. Vedeva tutto ciò che stava per accadermi. Mi consigliò delle letture. E rimasi molto colpita dalla storia della tazza piena...».

Vale la pena ricordare la storia di questo incontro tra un monaco e uno studioso, così come viene raccontata nel libro di Gyoetsu: «Il monaco gli offrì un tè e riempita la tazza dell’ospite, continuò a versarne. «Ma è piena!», esclamò imbarazzato lo studioso, «Anche la sua mente! Di cosa potremmo mai parlare se non la svuota?». La tazza piena nella mia storia erano paillettes, applausi, riflettori accesi su una tecnica tenace, solitudine di chi rincorre la perfezione. La tazza vuota, all’apice di una carriera di successo come danzatrice classica, volle dire trovare il coraggio di rifiutare le offerte di prestigiosi teatri ed enti lirici. Restare «vuota» di prospettive significò voltare le spalle all’impegno e agli sforzi di una vita. Iniziò così il viaggio del corpo ad ali spiegate in una direzione sconosciuta»

Cosa ti ha dato la Pratica?

«Nella Pratica ho incontrato il senso della gioia. Quello che mi permette di poter dire a me stessa o all'altro “sii te stesso”, non “fai questo o fai quello”. Mi sono accorta che mi creava problemi quando un insegnante chiedeva di fare o essere qualcosa. La mia vocina interiore diceva: sì ma come? Il compito che mi sono data, all'inizio inconsapevolmente, era: vogliamo capire cosa significa essere compassionevoli? Vogliamo capire come poter diventare saggi? Perché io non lo so, non so dove sia?! Lì hanno cominciato a formarsi delle immagini davanti ai miei occhi. Tipo: incontro una persona e vedo il suo doppio “dietro” di lei, vedo la persona che soffre e si nasconde, devo parlare con quella, non con l'immagine che ha costruito per sopravvivere. Bisogna mettere in atto concretamente gli insegnamenti. Altrimenti rimangono solo delle belle parole».

Oggi si parla molto di meditazione, rispetto ad alcuni anni fa. Un tempo era vista come qualcosa di esotico, anche di vagamente hippy, fatto da gente che voleva scappare dal mondo.

Gyoetsu Epifanìa

Ora invece viene praticata anche nelle aziende, nelle palestre, se ne parla ovunque e in ogni momento, ma forse c'è il rischio di trasformare anche la meditazione in “un'esperienza” da consumare, in qualcosa in più da fare.

«Questa è la mindfulness che, pur con tutto il rispetto, non ha niente a che fare con lo zen. Anche lo yoga viene scorporato dall'induismo e diventa solo un esercizio. A volte mi chiedono il senso delle cerimonie. Dicono: “andiamo via dalle parrocchie e poi veniamo qui a mettere la testa a terra”. Ma il mio corpo è ciò che apprende nella vita, prima ancora della mente che specula. Corpo, mente e respiro sono una cosa sola. Quando metto la fronte a terra, sto invitando il mio ego a sciogliersi nella terra, e quando torno su magari è pieno di devozione. Lo faccio tre volte, lo ripeto, per affermarlo, confermarlo. Se metto le mani unite al petto, con attenzione, l'energia delle due mani esce ed entra... Ma bisogna ricordare che la

Se vogliamo veramente avere gli occhi limpidi, dobbiamo guardarci e chiederci:

perché corro così? Per arrivare dove? Siamo nati soli, ma vogliamo essere utili? Questo dà un senso enorme alle nostre vite

meditazione ha bisogno anche della generosità, del dono di se stessi con l'ascolto, dell'etica, ovvero la decisione di non nuocere neanche a una mosca, della pazienza, dello sforzo, perché c'è impegno in tutto questo, della saggezza del capire perché lo sto facendo, interrogandomi continuamente. Se non ci sono queste virtù, che io chiamo “le grazie”, rischiamo di essere un sacco di patate che va in un posto, si siede, medita, e poi torna a vivere esattamente come faceva prima. Diventa solo la conferma di quello che siamo».

La mentalità occidentale trasforma di segno tutto ciò di cui si appropria.

«È la fretta di ottenere il risultato. È l'avidità. È l'illusione, l'ignoranza. Se vogliamo veramente avere gli occhi limpidi, dobbiamo guardarci e chiederci: perché corro così? Per arrivare dove? Io l'ho fatto quando facevo la ballerina, volevo fare questo e quest'altro, volevo essere amata. Ma poi ero sola nel mio camerino, con i fiori di quello che voleva portarmi in albergo dopo cena. Siamo nati soli, viviamo soli, moriamo soli, ma vogliamo essere utili? A quel punto finalmente ci dimentichiamo di noi e viviamo l'avventura di ascoltare l'altro, di sostenerlo. Questo dà un senso incredibilmente enorme alle nostre vite».

Un'altra cosa difficile è amare il quotidiano. Ci sono pagine molto belle nel tuo libro sull'arte di cucinare, di preparare un pasto per gli altri. Noi ci sentiamo spesso intrappolati nel quotidiano, nell'obbligo di fare certe cose. Come si può trovare la liberazione nella ripetizione?

«Non hai idea di cosa uscisse dalla bocca di mia madre quando doveva fare qualcosa! Mangiavo delle pietanze così buone fatte da lei! Perché lei non era felice di cucinarle? Me lo chiedevo sempre. Lei diceva di essere una vittima, una schiava.

Non so neanche più come è cominciata l'avventura del Tenzo, la figura che nei templi Zen prepara i pasti per i praticanti. Mi sono ritrovata a fare i dolci per 350 persone in Francia, nel più grande tempio d'Europa. Non avvisata, ho consumato gli ingredienti di un mese in una settimana! Volevo preparare cose buone, e alla fine erano tutti felici.

Io non sapevo cucinare, non so cucinare, ma agli ingredienti dico: “Parlatemi!” Io parlo agli ingredienti, li ascolto. Sventolo ciò che è bollente invece di passarlo sotto l'acqua fredda. Il mio corpo si identifica con il corpo di ciò che cucina.

Anche questo è un insegnamento che viene dalla relazione con ciò che si incontra Questo momento è sacro. L'altare in cucina, l'incenso, un inchino agli elementi, tutto questo mi dà pace. E noi siamo contagiosi con la nostra pace: non viene il mal di pancia agli altri quan-

do mangiano il cibo cucinato così. Il cibo di mia madre era buono ma mi faceva venire le coliche. C'era dentro la sua rabbia.

La migliore dieta è quella dell'amore, per quello che si fa e si riceve. Io non sono vegetariana, non sono vegana, non sono niente, ringrazio ciò che ho davanti e mangio. Se devo scegliere, faccio delle scelte personali che hanno un senso per me, ma che non sono “la cosa giusta”. Altrimenti si entra dentro lo sforzo di essere in quello e non in altro. L'identificazione è sempre dolorosa».

Gyoetsu Epifanìa

Perché la scelta di diventare monaca, di avere un tempio zen? Nel tuo libro si parla dell'andare oltre Buddha e Dio... Ci sono anche queste parole ispirate: “Se abbiamo un disperato bisogno di raccoglierci, per farlo non stiamo a chiederci cosa sia la spiritualità. Proprio ora, dove siamo, possiamo guardare il cielo e toccare la terra. Se proviamo la necessità di fare grandi respiri, non chiediamoci quale sia il modo corretto. Proprio ora possiamo distendere le braccia e lasciare entrare tutto il respiro del mondo”. L'idea è: dobbiamo fare quella cosa, ma non attaccarci a quella cosa.

«Esatto. È utile creare uno spazio dove sedersi e stare in pace, dove ascoltare gli insegnamenti, dove accendere degli incensi, dove poter ricordare i defunti, dove potersi raccogliere e mandare al mondo l'energia della pace... Dove ci si forma. Ma io posso vivere questo nel mio cuore, ovunque. Magari entro in una chiesa, accendo una candela e sono felice di farlo. Non mi sottraggo all'unione con la diversità. Il maestro del mio maestro diceva: “Una violetta è una violetta, una rosa è una rosa,

ognuno è se stesso”. Se viviamo di paragoni, il dolore è assicurato».

Certe pagine del tuo libro, certe espressioni mistiche, fanno pensare a Giovanni della Croce, ma anche alla Bhagavad Gita, o al Taoismo. Alla fine tutte le tradizioni, discipline, spiritualità, hanno un nucleo in cui si incontrano, una volta tolto il superfluo.

«Ma il superfluo serve. Serve la nuotata che fai dalla riva. Poi ad un certo punto ti immergi nel profondo. Amo andare con la maschera a esplorare il fondo del mare. Io e Doryu ci prendiamo per mano e andiamo a fare queste passeggiate in acqua, fino a quando il fondale diventa sempre più intenso. C'è stato un momento pazzesco, una volta, di un blu totale, che mi ha completamente avvolta e non capivo più dov'ero; sono diventata blu come il blu che mi aveva avvolta. Quel fondale mi parlava dell'immensità, dell'incommensurabile. Se rimango a riva, mi perdo questa immersione nel totale, nel silenzio, dove non c'è separazione. Dove siamo Uno col Tutto.

Quando incontro i compagni del Dim, il Dialogo Interreligioso Monastico, dove ci sono musulmani, cristiani, buddhisti, mi faccio con loro delle gran risate. Ci sono monache che magari hanno avuto il permesso di uscire per la prima volta dalla clausura, e ci troviamo in camera quasi ballando, felici (sono scene felliniane). Una volta ci siamo interrogate: cos'è che ci fa così felici? Perché ci vogliamo così bene? E una di loro disse: è l'amicizia autentica.

L'autenticità di essere insieme per la gioia di essere insieme. Poi ognuno racconta le storie della sua via, ma ciò che ci tiene insieme è quel momento di silenzio totale che non vede diversità e che per me è fondamentale».

Se dovessi spiegare a un laico, che magari non ha mai meditato, che cos'è l'illuminazione, cosa diresti? È una parola che ci affascina e ci spaventa. Un po' astratta nella sua bellezza.

«Se in una stanza c'è il buio cosa dobbiamo fare? Accendiamo la luce! Accendere la luce ci fa vedere ciò che c'è, ma quello che vediamo c'era già prima. Uno e l'altro sono contemporaneamente insieme, l'illuminazione e il contrario dell'illuminazione, il buio e la luce. È il tema del mio prossimo libro. Non c'è uno “stato dell'illuminazione”. Seduti, siamo Buddha viventi, nel silenzio: pratica e illuminazione sono uno. Nel momento in cui io non mi sto dedicando a un'attività con avidità, sono dentro la pratica, che è illuminazione. Altrimenti se dico “questa è l'illuminazione e questa non è l'illuminazione”, sono nella mente dualistica. Ci sono dei micro attimi in cui cogliamo questo. Una volta ho acceso un fiammifero e ho detto: se si accende lui mi accendo anch’io! Esiste! A raccontarlo quasi mi vergogno... Quando Leonard Cohen – che io ho sempre amato - è morto, mi sono detta: allora posso morire anch'io, tranquilla, senza problemi. L'ego deve morire ogni momento, questo è fondamentale. A quel punto che preoccupazione abbiamo di illuminarci, se muore chi ci sta tenendo in schiavitù? Se io posso amare e posso andare incontro all'altro (la mia vicina, questa mattina, mi ha raccontato che sta meglio ed ero felice con lei) se io posso vivere questa felicità, non è l'illuminazione?».

Nel libro scrivi: “In questo momento della vita vorrei poter provare un amore infinito per tutto ciò che incontro.

Epifanìa

Gyoetsu

Ciò che posso fare lo devo fare qui: devo togliere la polvere, sistemare i cuscini della pratica, i fiori, mettere in ordine e ascoltare le cose. La relazione con i compiti quotidiani è qualcosa che porta benefici infiniti

Tuffarmi nel cuore di ogni esistenza, ridere, piangere, meravigliarmi, sperimentando insieme al Tutto la sorprendente bellezza della non paura e onorando la solennità dell’impermanenza in ogni istante”. È possibile?

«È possibile! Non dobbiamo guardare a chi vive in un altro continente per agire. La palestra vera, il luogo difficile, è la propria casa. Mia madre mi ha buttata fuori di casa, ma io l'ho curata negli ultimi quattro anni in cui ha avuto l'alzheimer. Quante botte ho preso a casa mia! Una volta mi hanno portato un uomo da sposare, che aveva non so quanti soldi, come nei film (non ce l'ho fatta a vedere il film della Cortellesi, dopo dieci minuti ero sudata dalla testa ai piedi, stavo male, quelle cose le ho vissute). Io però ho detto “no”, lui ha salutato e se n'è andato, e io preso un sacco di botte. Mia madre era stata una sposa bambina, piangeva e io la vedevo... Quando ha avuto l'alzheimer, lei è diventata la mia bambina. Lì ho capito che ero pazza a volere delle cose da lei, visto che era così indifesa. Lei non aveva colpa ad essere ciò che era. Nella follia dell'alzheimer ha detto cose che parlavano della sua tenerezza. Non mangiava se non mangiavano gli altri; voleva un gatto, lei che prima schifava gli animali. Mia madre non ha mai saputo che ero diventata monaca. Alla fine io ridevo con lei di tutte le cose che mi

avevano fatto piangere. Ero accanto a lei quando ha fatto l'ultimo respiro e ho avuto questo regalo di esserle vicina, di poterle tenere la mano e pregare. Ma chi se ne importa del dolore di prima! Tutti ci portiamo dietro questo malcontento della famiglia sbagliata. Ma non è sbagliata. Costa cara la lezione, ma ti apre il cuore».

Il messaggio più urgente oggi è che apparteniamo al Tutto. Non ha senso piangere davanti al telegiornale e poi non rispettare il vicino, il collega, la natura, il mondo.

«Davanti al telegiornale si piange, c'è poco da fare. Ma non ha senso dire: non posso fare niente. Ciò che posso fare lo devo fare qui: devo togliere la polvere, sistemare i cuscini della pratica, i fiori, mettere in ordine e ascoltare le cose. La relazione con gli oggetti, e con i compiti quotidiani, è qualcosa che porta benefici infiniti. Ci irrobustisce, ci rende vivi, non dobbiamo sottrarci. Per questo cucino volentieri, e poi mi piace mangiare bene!».

Citando ancora il suo libro: «La santa esistenza di un filo d’erba ogni istante prega con ogni parte di sé. Vive pienamente nel Tutto. La mente che si ritira dal suo raccontarsi può smettere di camminare sui carboni ardenti, senza voltarsi indietro né guardare oltre». Bisogna avere il coraggio di “dichiararsi vinti”. Di darsi completamente. «Nel film Francesco la mirabile arte di Liliana Cavani ci regala un momento altissimo quando Francesco va incontro al lebbroso che prima ha paura di lui e poi per lui. Mentre Francesco lo avvolge di puro amore tra le sue braccia e lo rassicura con indelebili parole «va tutto bene, va tutto bene». Cos’è la santità se non ricongiungersi al dolore dell’altro? L’unica possibilità che abbiamo è amare, amare con tutto il corpo, abbattendo così dentro e fuori muri di indifferenza e odio».

Il libro è diviso in “sette petali”, ma in realtà tutto è collegato a tutto, come nella vita. Quando lo capiamo, non possiamo che dire: grazie! «Godiamo dell’appartenenza al Tutto. Siamo il cuore del lago che riflette l’esistenza. Che la rugiada dissetante possa irrigare immensi prati e i fili d’erba uno a uno. Agli spiriti che popolano gli spazi tra i rami, la preghiera di aprire i nostri cuori così da proteggere con devozione e rispetto l’umida terra. Questo mondo è troppo intriso di bellezza: troppo!»

Gyoetsu Epifanìa

Ninni Bruschetta

Amata odiata Sicilia, terra bellissima, usurpata dai corrotti e i pigri.
Il tocco feroce e gentile di un attore-officiante che sa scrivere (e pensare)

Che avesse (anche) un talento per la scrittura, lo si poteva capire già leggendo La gentilezza del tocco, uscito una trentina d'anni fa per Sellerio, che raccoglieva le sceneggiature nate dalla collaborazione con Francesco Calogero. Anni incredibili gli Ottanta. Prima la creazione di "Nutrimenti terrestri", compagnia teatrale che Ninni Bruschetta fondò a soli 21 anni, poi “l'invenzione” del cinema indipendente siciliano. Qualcuno forse ricorda Visioni private, film sostanzialmente improvvisato durante il Festival di Taormina del 1988, con tanto di produttore assassinato, mentre una troupe si cimenta con il Faust di Goethe.

Tutto è cominciato dagli incassi inaspettati di quella follia, trasformati in progetti, spettacoli e una casa in affitto a Roma, da emigranti.

Dopo di che Ninni Bruschetta – che intanto sfornava una regia teatrale dietro l'altra - è diventato l'attore emblema del professionista impeccabile, a prescindere dal ruolo, al cinema o in tv, il caratterista, l'interprete capace di dare forza e personalità anche a un “personaggio minore”. Su questo ci ha scritto un libro, ironico ma rivelatore, il Manuale di sopravvivenza dell'attore non protagonista (Fazi, 2016).

Anni prima, però, nel 2010, aveva scritto un testo su Il

mestiere dell'attore (Bompiani) che andava alla radice (mitica, sacra) di questo mestiere, e che infatti godeva della prefazione di Franco Battiato, a cui si era avvicinato con la timidezza dell'allievo-discepolo di fronte al maestro e con cui invece era nata un'amicizia e un'immediata sintonia. Perché Ninni Bruschetta è anche uomo dagli interessi vasti e le letture colte, appassionato di metafisica e di René Guénon, tanto che il suo libro è stato poi riedito da Luni, la casa italiana dei metafisici, con il suggestivo titolo L'officiante Ninni è uno di quegli attori che amiamo sempre, al cinema come a teatro. Poco importa che sia un film di Marco Tullio Giordana (I cento passi), Paolo Sorrentino (L'uomo in più) o Pif (La mafia uccide solo d'estate) Che si presenti nei panni eroici di Alfiere, il poliziotto di Squadra Antimafia – Palermo Oggi o quelli seriosamente grotteschi del Ministro Magnu, in Quo vado? con Checco Zalone.

In una soap storica come Un posto al sole (quest'anno forse lo avete visto in tv nella seconda stagione di Viola come il mare) o in una serie rivoluzionaria e controcorrente come Boris, dove ha dato vita al mitico Duccio Patanè, direttore della fotografia disilluso e cocainomane.

Abbiamo perso il conto dei film in cui è apparso al cinema - sicuramente sono più di cinquanta - e delle serie televisive a cui ha prestato il suo volto. Ma è giusto ricordare anche le regie – da I carabinieri di Beniamino Joppolo a Corruzione al Palazzo di Giustizia di Ugo

Betti, da Shakespeare (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Amleto) alla Medea di Franz Grillparzer - e la collaborazione con Claudio Fava, nel nome del padre Giuseppe, assassinato dalla mafia.

La scuola del silenzio, edito da HarperCollins, è una sorta di punto di congiunzione. C'è la sua esperienza nel teatro, anche come direttore artistico; la vasta cultura che gli permette di spaziare da André Gide a Simone Weil, passando per Meister Eckhart, abilmente integrata in una prosa che vuole comunque essere avvincente, accessibile a chiunque; l'amore per la scrittura, che qui può dispiegarsi liberamente, in un romanzo che ha anche i tratti del diario, se non proprio del memoir, la finzione che si mischia con la realtà ricordata e trasfigurata, il dialogo comico, il linguaggio esplicito, così come la digressione filosofica e poetica.

La Sicilia è la confluenza della bellezza e dell'orrore, una cosa che rasenta il sublime. Quelle cose estremamente belle che riescono a diventare brutte. Non si riesce mai a vivere quello spazio in modo adeguato alla sua bellezza

Ma qui c'è soprattutto la Sicilia, amata e odiata, bellissima ma usurpata dai furbi, i pigri, i mafiosi, i parassiti, i burocrati, gli intrallazzatori.

Questo è il romanzo di un siciliano che ha dovuto costruire la sua vita altrove, ma che non rinuncia a immaginare un'altra Sicilia, anche quando maledice la sua ottusità, una realtà vandalizzata «dalla gerarchia fasulla, bigotta, abusiva, dalle chiusure, dalle negligenze e dalla corruzione della politica, dalla mafia».

Da una parte c'è la storia di un obiettore di coscienza in un istituto di sordomuti (realtà che Ninni ha conosciuto da giovane), destinata ad assumere le fattezze di un giallo (esistenziale), dall'altra le peripezie di un professionista chiamato a dirigere un teatro, ma il cui lavoro viene reso impossibile.

Le due vicende si svolgono in un luogo imprecisato, che è chiaramente identificabile, e proprio per questo paradossalmente indeterminato. Come è giusto che sia quando si parla di temi universali, di personaggi unici che potremmo incontrare ovunque, di microcosmi geografici e sociali che danno corpo a quel macrocosmo metafisico che è “la provincia”.

Da una parte c'è una storia di formazione, con le sue implicazioni anche interiori, spirituali – l'istituto è religioso, attraversato da sacerdoti crudeli ma anche preti ispirati - tanto che non mancano discorsi (non banali) sulla fede e il peccato, sulla verità delle Scritture, il celibato, il senso del sacro, il credere inteso non come obbedienza ma conoscenza («La fede è una cosa concreta. Avere fede non significa credere ciecamente. La fede è conoscenza. La consapevolezza di far parte del disegno di Dio, di soggiacere alla necessità. La fede è certezza, è libertà, distacco»).

Dall'altra c'è il mondo della corruzione – umana, morale, interiore – del lavoro pubblico inteso come rifugio dei fannulloni, della cultura bistrattata e umiliata, in una storia che acquista risvolti farseschi, nella sua tragica verità, in un tempo in cui non si possono più chiamare le cose con il loro nome («Tu, ormai, ti sei adeguato a questo moderatismo verbale del cazzo»): «Ci sono vite distrutte dalla violenza del potere, comunque si esprima. La violenza dei nuovi farisei non è diversa da quella dei vecchi mafiosi. Tutto ciò che, in ogni campo, la burocrazia può fare a un comune cittadino è altrettanto crudele. Una piccola vita può essere distrutta con un banale impedimento, con un documento dolosamente disperso, con un’assenza ingiustificata, con una firma mancante, con la negligenza, con la pigrizia».

La Sicilia come luogo da cui fuggire, per trovare la propria strada, ma a cui vuoi sempre tornare, di cui è impossibile fare a meno. Una madre gelosa, possessiva, che a volte ti prende a schiaffoni, ma anche dolcissima, indispensabile.

Assolutamente. Mia madre non mi prendeva a schiaffoni ma mi rimetteva sempre coi piedi per terra, e ov-

viamente tornavo sempre da lei. Ci sono luoghi belli e controversi che suscitano questi sentimenti contrastanti. Anche i napoletani sono un po' così, forse anche più legati di noi al luogo in cui sono nati, tanto che non se ne vanno mai. È la confluenza della bellezza insieme all'orrore, una cosa che rasenta il sublime. Quelle cose così estremamente belle che riescono a diventare brutte. Non si riesce mai non dico a sfruttare, ma a vivere quello spazio in un modo adeguato alla sua bellezza. Sarà il caldo, sarà la pigrizia, la “putruneria” come diciamo noi (l'essere poltroni), ma non riusciamo a migliorare, a valorizzare quello che abbiamo. Faccio sempre questo esempio: nella Regione Sicilia l'assessorato meno ambito è quello alla Cultura, pur avendo la più alta concentrazione di patrimonio archeologico del mondo. In realtà dovremmo vivere di cultura, l'assessore alla Cultura dovrebbe quasi essere il presidente della Sicilia. Invece di solito non conta niente

Quanti anni avevi quando te ne sei andato?

Io me ne dovevo andare per forza, perché a quei tempi si poteva fare poco stando fuori Roma, ma me ne sono andato molto lentamente.

Ninni Bruschetta

Ho cominciato a frequentare Roma a 20 anni e mi sono trasferito quando ne avevo 28. Avevo paura di trasferirmi in una città senza punti di riferimento, quindi prima me li sono costruiti. Ho fondato una compagnia teatrale in Sicilia, abbiamo fatto i primi film indipendenti al di sotto di Roma. Poi, dopo che ci siamo creati questa credibilità, ho deciso di trasferirmi. Abbiamo fatto un secondo film con un attivo di 400 milioni, che a quei tempi era un risultato incredibile, erano soldi veri per dei ragazzi, abbiamo cominciato a stipendiarci e abbiamo affittato una casa. A quel punto ho deciso di stare a Roma. Dopo qualche anno ho incontrato mia moglie e ho costruito una famiglia lì.

Il tuo primo ritorno in Sicilia è stato per dirigere il Teatro di Messina.

Sono tornato prima a 34 anni, rimanendo per tre anni, e poi a 52 anni, per altri due anni. Ho diretto anche un altro teatro, in un paese vicino a Milazzo, che si chiama

Pace del Mela, ma ho lavorato tantissimo con tutti gli stabili siciliani. In Sicilia ho fatto anche tanto cinema e televisione. Ma non sono mai tornato veramente, nel senso di tornare per viverci. Ci sono tornato ciclicamente, un po' come il protagonista del romanzo.

Quando ci torni così, da emigrato, forse vedi anche più chiaramente i suoi difetti, perché hai vissuto un'altra realtà, e ti rendi conto ancora meglio di quello che si potrebbe fare.

Questo è quello che succede a chi si muove da una provincia. La grande differenza sta proprio qui, nel provincialismo. Che peraltro è un tema di cui tutti gli artisti si nutrono, da sempre. Perfino Woody Allen racconta New York come fosse una piccola provincia. Guardi quel particolare microcosmo per dire cose che diventano universali. Quando si ritorna, però, bisogna essere bravi a non guardare le cose con sufficienza o con disprezzo, perché quella è comunque la tua realtà. La devi accettare, anche se ne rimani un po' distante. È un po' come il rapporto con la madre, come dicevi tu. Viene in mente quel passo del Vangelo, esoterico, difficile da interpretare, quando Gesù Cristo dice: “Lascia tuo padre e tua madre e vieni con me”. Una cosa dal significato profondissimo. Non vuol dire che bisogna lasciare i genitori nel senso becero dell'espressione, ma che bisogna avere il coraggio di distaccarsi dalle proprie origini.

Per diventare “povero in spirito” bisogna rinunciare all'ego e quindi anche a certi legami.

Ci siamo capiti perfettamente...

Ma cosa pensa la Sicilia di te? Come ti vede? Parlo di amici, colleghi, ma anche proprio della Sicilia come fosse una sorta di entità, con la sua storia, la sua personalità.

Sono tornato molto presto a dirigere dei teatri e questo ha fatto la differenza. Sono stato subito accettato dalla città. La popolarità cinematografica e televisiva, poi, ti apre tutte le porte. Le stesse porte che si chiudono, invece, quando incontri quelli che volevano fare il tuo stesso percorso e non l'hanno fatto. Allora lì subentra una piccola invidia, che tante volte ti mette contro qualcuno.

Se guardo la tua filmografia, vedo quasi solo film interessanti, importanti, con registi che fanno cinema d'autore. Da Pappi Corsicato a Marco Tullio Giordana, da Il giudice ragazzino a Mio fratello è figlio unico, e poi Battiato, Maselli, Bruno, Leo... Ti cercano tutti e non è difficile capire il perché. Ma ci sono delle esperienze che ricordi in modo particolare, che ti hanno segnato?

Ti posso rispondere “no”, tranquillamente. Quando ti devi costruire tutto da solo, per giunta da emigrante, e non hai nessun punto di riferimento, non hai santi in paradiso, devi per forza essere autonomo, libero, e devi fare tutte le tappe necessarie, una dietro l'altra, senza che nessuno ti regali niente. Questo secondo me è un grande vantaggio. Spesso quelli che hanno un successo immediato o improvviso, non riescono a goderselo. Quando qualcuno mi chiede di fare una fotografia o vuole un autografo, quando mi parlano con la paura di disturbarmi, io dico sempre: non preoccuparti perché io ho fatto successo "da grande", quindi me lo godo tutto. Ho cominciato a essere riconosciuto per strada dopo i 40 anni. Quella

Ninni Bruschetta, insieme a Francesco Pannofino, nel secondo episodio dell'ultima serie di Boris (foto Andrea Pirrello e Loris Zambelli)

cosa l'ho conquistata e non mi dà nessun fastidio. Ci sono attori, invece, che hanno avuto un successo pazzesco da giovani e che non possono muoversi, non possono andarsi a prendere un gelato con un amico. Sono assediati. E questa cosa la vivono male.

È una cosa che dà alla testa, come fosse una sorta di elezione divina. Come quelli che hanno un impero senza esserselo guadagnato.

I miei figli ormai sono grandi. Ma quando la gente cominciò a fermarmi per strada erano piccolini e si eccitavano moltissimo per questa cosa, che a loro sembrava divertentissima. Io dicevo sempre: ricordatevi che tutto questo finirà. Questo va tenuto sempre presente. Non ti ci devi abituare. Quando giri un film o fai uno spettacolo, c'è un'attenzione intorno a te che diventa intensissima, apri i social e trovi mille messaggi, mille complimenti.

Ho fatto successo "da grande", quindi me lo godo tutto. Ho cominciato ad essere riconosciuto per strada dopo i 40 anni.

Ma ai miei figli ho sempre detto: ricordatevi che tutto questo finirà

Poi, passati dieci-quindici giorni, l'attenzione diminuisce in modo esponenziale e questa cosa la senti. Non è che ne soffri, se ne soffrissi saresti un cretino, ma percepisci un vuoto improvviso. Se sei troppo attaccato al successo e ne fai una questione di prestigio personale, di riconoscimento pubblico, questa cosa ti distrugge.

Così invece ti godi di più i successi guadagnati sul campo, anche quelli imprevedibili. Penso a Boris, su cui nessuno scommetteva, e che ha avuto un successo incredibile.

Pochi sanno che Boris è uscito per la prima volta su Fox, con dei dati disarmanti (sbagliati, perché allora non si riuscivano a registrare i numeri delle televisioni più pic-

Ninni Bruschetta alla première di Boris 4 alla Festa del Cinema di Roma, nell'ottobre 2022 (foto Disney)

cole): tipo 200 mila persone a puntata, vicino al niente. Inizialmente si pensava che non lo volesse nessuno. Io non mi occupo mai di queste cose, un po' per scaramanzia e un po' per sistema: quando finisco un lavoro penso che l'ho finito e basta, sperando di averlo fatto bene, poi quello che succede succede. Ma poco dopo l'uscita, Boris andò a incrociarsi con la nascita dello streaming, ed ebbe una diffusione pazzesca, in modo pirata. Noi non ci siamo resi conto subito di ciò che stava succedendo. Tanto è vero che un giorno andammo a una festa sulla Prenestina, dove c'era un mare di gente, centinaia di persone, che a un certo punto ci assediarono. Ricordo di aver visto alcuni attori e attrici che erano con me farsi prendere dal panico. Ci schiacciavano, proprio. A un certo punto sono salito su una sedia e ho detto: “Ragazzi, noi non siamo abituati ad essere famosi, quindi state attenti a quello che fate”. Non è stata una cosa immediata neanche quella. È nata piano piano ed è cresciuta continuamente, fino all'esplosione durante il lockdown, quando arrivò su Netflix e la videro tutti.

Quando il pubblico può scegliere... Lo streaming ha i suoi aspetti negativi, ma consente alle persone di costruirsi un proprio palinsesto.

La possibilità di scelta ha fatto venir meno quell'orrenda abitudine, raccontata anche nel libro, di chi dovrebbe creare l'offerta di cultura, teatro, cinema, e dice: “Questa cosa non piace alla gente”. No, caso mai non piace a te che non capisci un cazzo!

Tu hai scritto prima un libro su Il mestiere dell'attore e poi un Manuale di sopravvivenza dell'attore non protagonista. Come è cambiato il tuo modo di intendere il mestiere, in questi decenni? Perché parliamo di circa quarant'anni, ormai.

Sono esattamente quarant'anni che faccio questo lavoro. Sicuramente quando sei più grande sei molto più sereno. Ma sono convinto che noi non cambiamo mai, come il Dna. A volte trovo qualche mio scritto di quando ero molto più giovane, magari la forma è cambiata, migliorata, oggi scrivo più semplice, ma i concetti sono quelli,

le cose che ti interessano, il carattere, la personalità. Motivo per cui ci sentiamo sempre giovani anche quando abbiamo una certa età.

Difficile definire il genere a cui appartiene il tuo libro. È un romanzo, quasi un giallo, ma è anche un diario, una raccolta di memorie, ha dialoghi molto vivaci e pagine quasi saggistiche, è comico, grottesco, e drammatico. Ma è anche poetico. Il finale, ad esempio, è molto bello. Abbiamo riscoperto il tuo talento per la scrittura.

Grazie! In effetti mi piace scrivere. Ho scritto anche delle sceneggiature. Luni ha ripubblicato il mio libro sul mestiere dell'attore, con il titolo L'officiante, facendomi l'onore di mettermi nella stessa collana di Guénon e Rumi. Il libro sull'attore non protagonista invece l'ho scritto di getto, era più destrutturato. Ciò che ho cambiato, nel mio modo di scrivere, è l'attenzione per la struttura. In questo romanzo incrocio due storie, e la scrittura di getto non funzionava. Poi, a un certo punto, ho cominciato a invadere ogni capitolo che iniziava con la fine del precedente, con le stesse riflessioni che si modificavano.

Questo è il passo in avanti che ho fatto dal punto di vista strutturale. Usi un linguaggio e cerchi di adattarti a quel linguaggio, ma anche di essere innovativo nei limiti del possibile.

Il libro ha qualcosa di “sciasciano” fin dall'introduzione, che suona paradossale, col suo dire e non dire, appellandosi alla libertà della finzione, ma anche alla realtà indubitabile di ciò che si racconta.

Questa è una cosa che mi fa molto piacere e che mi dicono tutti. Io ho sempre amato Sciascia senza essere un fan di Sciascia, anche se curiosamente in questo periodo sto per mettere in scena il secondo testo di Sciascia in due anni: l'anno scorso Il mare colore del vino e quest'anno La morte di Stalin. La cosa che mi è rimasta stampata

nella mente, e che nel libro viene esplicitata in tutte le sue possibilità, è la sua definizione di mafia, la più bella che esista, quella che c'è nella postfazione de Il giorno della civetta, quando dice che la mafia non è soltanto un'organizzazione criminale, ma è soprattutto una borghesia parassitaria che non imprende ma sfrutta. Questo è proprio ciò che racconto.

L'istituto per sordomuti, al centro di una delle due storie, è sia un riferimento alla realtà, alla tua esperienza personale, che una metafora perfetta: quelli che non sentono e non parlano, in realtà, sono là fuori.

Tutti mi chiedono quanto c'è di autobiografico nel libro. E io rispondo: “niente fuorché lo spazio e il tempo”. Lo spazio teatrale è il mio spazio e il tempo dei sordomuti l'ho vissuto personalmente. Da quando ho fatto l'obiettore di coscienza con loro, ho sempre desiderato raccontare la meritocrazia di quella società. C'è una frase che a un certo punto dice un assistente (che a me disse invece il direttore, persona piacevolissima a cui per fortuna non successe nulla di ciò che invece accade nel romanzo), quando mi accorsi che il nuovo capo non aveva autorità nei confronti dei ragazzi: “è perché è asino a scuola”. Quella cosa mi risuonò nella mente per anni. Che meraviglia! Siccome non è bravo a scuola, non lo riconoscono come capo. Esattamente il contrario di ciò che accade nella nostra società.

Il libro ha anche degli spunti grotteschi, anche se l'argomento è drammatico.

Noi siamo tragediatori, come si dice in siciliano, perché veniamo dai Greci, la tragedia spesso si trasforma in farsa.

Qual è l'urgenza che ti ha spinto a scrivere?

L'infinita noia del lockdown. Sono stato magnificamente - avevo i figli già grandi, mi sono ritrovato tre mesi con loro e mia moglie - ma mi annoiavo come un disperato. Sono una persona molto socievole, mi piace stare con la gente. Allora me ne andavo nel mio studio e passavo le giornate intere a scrivere. All'inizio era veramente un diario. Ma sentivo che non era pronto.

Photocall alla Festa del Cinema di Roma
(foto Giulia Parmigiani per Disney)

Poi ho fatto come faccio a teatro; quando preparo una regia, alla fine, montata l'ultima scena dello spettacolo, dico agli attori: adesso dobbiamo rimontare tutto. Nel senso che rivedi tutto alla luce del linguaggio che hai compiuto. Il linguaggio si è definito e quindi tantissime cose devono essere modificate. Alla fine ho scoperto che il mio racconto - soprattutto nella parte più attuale, legata alla contemporaneità, quella che riguarda il teatro - rispondeva a un discorso sulla provincia. Allora mi sono concentrato su quello.

Tutti i personaggi sono inventati e nessuno è totalmente positivo o negativo. Il commissario, che di solito è un personaggio becero, è il più colto di tutti, cita Amleto e Sciascia. I personaggi di provincia sono così, ed è la cosa che ti fa dannare: persone anche straordinarie che a volte si fanno fottere da cose banali e cretine, a partire dalla vanità.

In effetti, al di là della sicilianità evidente, ci ho trovato molto della provincia milanese in cui sono cresciuto. Certi atteggiamenti e meschinità sono universali.

Questo è il trucco. Se ti attacchi al microcosmo, automaticamente dialoghi col macrocosmo. Se vai a vedere come funzionano gli atomi, capisci come funziona l'universo.

Coincidenze misteriose. Stai recitando a teatro in 1984, dove si parla anche di cancellazione della memoria, come strumento per privare un essere umano della sua identità, per trasformare il cittadino in un suddito. E nel libro rievochi Giuseppe Fava, secondo cui la mafia porta avanti da sempre questa idea, per cui un nemico non va solo ucciso, ma rimosso dalla memoria, come se non fosse mai esistito.

Ninni Bruschetta

Il libro in realtà l'ho finito prima, un anno e mezzo fa. Poi ho recitato in 1984 e ho trovato questa vicinanza pazzesca col discorso sull'annullamento della memoria. C'è una scena nello spettacolo in cui Winston Smith apre il computer e comincia a cancellare le persone. Secondo me è la scena più atroce.

Ci sono discorsi profondi, nella loro semplicità, sulle Scritture, sul credere, su cosa bisogna fare per diventare davvero esseri umani, che è un compito, non un dato di fatto. Tu sei molto legato alla figura di Battiato. Era una vicinanza anche spirituale, oltre che artistica e culturale?

La mia passione per la metafisica - so che è uno strano hobby - mi viene proprio da Franco. Quando scrissi il li-

Ho uno strano hobby, la metafisica, che mi viene da Battiato. Anche se io sono un grande amante di Guénon, che odiava

Gurdjieff, amato da Franco. Come tutti i grandi, lui era di un'umiltà disarmante. Lesse il mio libro sull'attore e mi aiutò a pubblicarlo

bro sull'attore, lo feci a leggere a lui: la cosa incredibile è che l'ha letto davvero. Franco, come tutti i grandi, era una persona di un'umiltà disarmante. Io sono un grande amante di Guénon, che odiava Gurdjieff, e Franco una volta mi disse: guarda che però noi gurdjieffiani ci divertiamo, ci vediamo anche al Café de la Paix, a Parigi, ci incontriamo, c'è anche un tuo collega, Peter Brook. Io l'ho guardato come dire “ma che cavolo dici?”, quello è il più grande regista del mondo, altro che “collega”... Franco era un personaggio incredibile. Feci il film con lui, Il perduto amor, e misi anche delle sue canzoni nel mio Giulio Cesare. Lo seguivo sempre e ci incontravamo relativamente spesso. Dopo aver finito il suo secondo film, lui molto carinamente mi telefonò e mi disse: ho fatto un altro film, lo vieni a vedere e mi dici cosa ne pensi? Io mi sentivo sempre un bambino di fronte a lui, che aveva 16-17 anni più di me; sono andato, l'ho visto e gli ho detto ciò che pensavo. Poi gli ho chiesto se aveva voglia di leggere un mio manoscritto. Il 24 dicembre mi chiamò per farmi gli auguri e per dirmi che il libro gli era piaciuto moltissimo. Io non conoscevo nessun editore, fu lui a mandarlo a Elisabetta Sgarbi, che poi lo pubblicò per Bompiani.

Ci vuole coraggio per amare Guénon, in questi tempi. Si passa facilmente per dei reazionari.

Il problema è l'interpretazione dei suoi scritti. Come dice il grande Pavel Florenskij: il dogma è la vera libertà. Tu scegli di essere ortodosso. Ed esserlo è una fatica, una disciplina. Questo però porta al rischio dell'ortodossia dell'occhio per occhio, o degli islamici estremisti che interpretano il Corano a cazzo.

Programmi per l'immediato futuro?

Ora sto girando con il libro per tutta Italia. Proprio ieri (a inizio giugno, ndr) è uscito un film Netflix molto carino, di Giovanni Bognetti, Ricchi a tutti i costi, in cui ho recitato con Christian De Sica e Angela Finocchiaro. Il 22 ottobre cominciamo la tournée di 1984, un giro favoloso, che durerà fino a dicembre, in tutta Italia. Poi ho altri due progetti teatrali, tra cui uno spettacolo di Giancarlo Nicoletti, un testo che è andato a prendere in Inghilterra, Mirror: una figata pazzesca, metateatrale, che debutterà il 19 marzo 2025. Il teatro non mi stanca mai.

Ninni Bruschetta

Maurizio Di Bona

Battiato liberato. Omaggio irriverente a un genio ironico. Firmato The Hand, illustratore nomade che ama gli anticonformisti

«Che c'è da guardare? Non avete mai visto un fottuto genio avanti anni luce?». Ci accoglie così Franco Battiato, con uno sguardo di vago compatimento, i capelli lunghi e gli occhialoni da rocker anni Settanta. Se ne sta seduto, con le gambe accavallate, su un divano che sembra aver sfondato un muro, o bucato la carta del libro che stiamo sfogliando, emerso da qualche dimensione parallela, un altro pianeta, un altro tempo. L'eternità, probabilmente.

Battiato l'alieno (edizioni Mimesis) parte da qui, dopo una prefazione di Syusy Blady, che giustamente ricorda il lato simpatico, arguto, empatico, battutista, di un artista di cui solitamente si parla solo con devota deferenza, assunto nell'empireo dei santi seriosi, i geni alteri, i semidei capitati per caso sulla Terra.

Questo libro buffo e intelligente, pieno di ricordi inediti e immagini spiritose, è l'omaggio che mancava a un musicista-maestro-popstar su cui è stato scritto di tutto, tranne che era una persona dotata di una squisita ironia.

I disegni sono di Maurizio Di Bona, conosciuto anche come The Hand, artista libero (e libertario), che ha la virtù di non prendersi troppo sul serio, e per questo riesce a passare con nonchalance da Giordano Bruno ai robot e i supereroi, dalle vignette satiriche ai ritratti d'autore (Gian Maria Volonté), dai fumetti surreali al merchandising creato per i Cranberries.

Alessio Cantarella, che ha frequentato sia Franco Battiato che Manlio Sgalambro (il sodalizio tra i due è stato tra i più inaspettati e riusciti di sempre), ha messo insieme decine di ricordi, pieni di aneddoti curiosi, di gesti e parole che svelano anche lati inediti della personalità di Battiato. A partire da quello divertente di Riccardo Sgalambro, figlio di Manlio, che rispondeva al citofono, quando suonava Battiato, e ricorda che al suo “Pronto” lui diceva: “Sarò Franchissimo!”. Ci sono omaggi e brevi riflessioni, dimostrazioni di affetto, testimonianze che sottolineano la sua «incredibile follia da bambino che si meraviglia, ma soprattutto che crea senza paura» (Chiara Conti).

Di Bona si inventa anche una discografia disegnata (utile ed efficace) e poi ci racconta un Battiato stralunato, comico, magico, alle prese con John Cage e Gurdjieff, Stockausen e Guénon, Pannella e Jodorowsky, mentre parla con animali o alieni.

Una satira gentile, con squarci metafisici e poetici. Come scrive nella postfazione: «Mi sono sentito in debito e perdermi allegramente nella galassia Battiato a satireggiare sull’alieno in oggetto mi è sembrato il modo più congeniale per ringraziare il Maestro dell’enorme eredità lasciata. Non solo in termini di suoni, di stimoli, di frequenze, di scoperte, di ispirazioni e di ipertesti, quando ancora non c’era il mouse, ma anche per un ritrovato senso del sacro».

Abbiamo colto l'occasione per conoscere questo disegnatore intelligente, cittadino del mondo (ora è in Polonia), che non ama i dogmatici e sogna un mecenate innamorato dell'arte e della libertà, per trasformare in realtà certi progetti che nutrono le sue fantasie (e le sue corse), come quello che vorrebbe dedicare a Francesco Nuti, o un fumetto definitivo su Maradona. Intanto presto arriverà un nuovo libro-omaggio all'alieno Battiato.

Te lo ricordi il primo disegno che hai fatto? Quello che ti ha reso consapevole di saper disegnare? Che ti ha fatto immaginare di poter vivere di questo talento?

Ho avuto un'infanzia bella e spensierata nella città di Massimo Troisi. Poi è arrivato Maradona e l'essere a Napoli in quegli anni si è riempito di ulteriore magia

Faccio fatica a ricordare il primo, ma circostanze e situazioni sì. Alle elementari, succedeva che mi mettessi a disegnare e gli altri bambini si raccoglievano intorno al banco per vedere cosa venisse fuori. La scena si è ripetuta negli anni a seguire in contesti e modalità diverse, finché sono arrivate le prime richieste e commissioni.

È sempre stato il tuo desiderio o avevi altri piani da bambino? La tua famiglia incoraggiava la tua creatività o ti chiedevano di dedicarti a cose più "serie"?

Che genitori anomali sarebbero stati se non avessero spinto verso cose “serie”?

Finite le medie, avrei dovuto fare il liceo artistico e invece sono finito in quello scientifico. Ma anche i percorsi apparentemente sbagliati poi si rivelano utili perché ho potuto scoprire la passione per la filosofia. Sarebbero stati certamente contenti se in seguito avessi completato gli studi universitari di Architettura, ma dopo i primi esami ho capito che aveva poco senso restare a Napoli e sono andato a Milano a lavorare in una agenzia di grafica web.

Che infanzia hai avuto a Napoli?

Bella, spensierata e solare nella San Giorgio a Cremano di Massimo Troisi. Poi è arrivato Maradona e l'essere a Napoli in quegli anni si è riempito di ulteriore valore e magia.

Oggi tra satira, graphic novel, manga, Marvel e disegnatori-autori-impegnati, questo mondo ha trovato una sua risonanza culturale e critica, oltre che popolare. Ma fino a pochi decenni fa era considerata una sottocultura, una cosa da ragazzini che non avevano voglia di leggere e studiare.

L'offerta di “letteratura disegnata” in tutte le sue varianti in Italia è decisamente vasta e lo rilevo anche facendo il confronto con i paesi stranieri in cui ho vissuto, dove le pubblicazioni a fumetti sono scarse o si limitano alle solite produzioni americane e giapponesi. E di pari passo sembra cresciuta la considerazione che si ha degli autori della nona arte. Ma è davvero così? Quando mi chiedono che lavoro faccio, e alla risposta mi controbattono “sì, ma di lavoro?”, il dubbio resta.

Cosa leggevi da ragazzo? C'erano cose di cui aspettavi l'uscita con trepidazione?

Leggevo Dylan Dog e seguivo con attenzione il moltiplicarsi di nuovi personaggi seriali in edicola. Mi ero messo in testa che dovevo crearne uno anch'io e proporlo alla Bonelli. Disegnai allora Diane999, una guerriera bionica che vive in una dimensione parallela, trattava di “entanglement quantistico”, quando non sapevo neanch'io cosa fosse, ma non ebbe fortuna.

Di Bona

Maurizio

Mi proposero di fare un provino con uno dei loro personaggi e mi cimentai con Brendon Darkness, in uscita. Superai le prime due fasi, poi al fatidico “le faremo sapere” capii che potevo tornare ad occuparmi di Diane, che ancora giace nel cassetto in attesa di chi ne scriva le storie.

Quando hai capito che poteva diventare un lavoro, oltre che una passione?

In realtà non l'ho ancora capito perché i riscontri arrivano a intermittenza e nei momenti bui mi viene da pensare che ho sbagliato tutto. Avrei dovuto fare l'idraulico!

Riformuliamo. Quando hai compreso pienamente che non era un lavoro come gli altri, che si trattava di vivere nel precariato più totale, e quindi era necessario che la passione fosse davvero tanta?

Ecco, ora siamo più vicini alla realtà dei fatti. Mi capita di dover rispondere ad amici con figli che disegnano e che vorrebbero fare fumetti: l'unico consiglio che ho da dare è di lasciar perdere. Tanto poi se proprio devono e vogliono, sarà per l'appunto la passione a sorreggerli davanti a tutte le porte chiuse. Sono curioso ora di vedere come l'intelligenza artificiale sconquasserà anche questo settore nel bene e nel male.

Tu hai lavorato molto anche fuori dall'Italia. È più facile all'estero? Cosa fai, principalmente, per esigenze "alimentari", al di là di quei lavori che senti di dover fare, come artista, anche un po' idealista e filosofo?

Vado in cerca di opportunità e faccio in modo che le cose accadano, direbbe a questo punto il filosofo. Ovviamente non va sempre bene perché la legge degli alti e bassi regna a tutte le latitudini. All'estero le cose non sono più facili ma diverse. Nel mio caso poi, a parte qualche piccola collaborazione nei luoghi in cui ho vissuto, Germania, Irlanda e Polonia, ho sempre gestito dei lavori a distanza e, ironia della sorte, capita quasi sempre che le commissioni arrivino da un altrove rispetto al dove mi trovo. Prevedo trasformazioni e cambiamenti nell'immediato e occorrerà reinventarsi in parte per adeguarsi ad un mondo che gira sempre più intorno a criptovalute, contenuti digitali, autopubblicazione e una fruizione dannatamente schizofrenica su smartphone.

Quando è nata The Hand?

Erano i primi anni '90 e firmare con nome e cognome mi sembrava lungo. Cercavo una cosa essenziale che facesse anche da logo. Fissando la mano mentre ci pensavo mi sarò detto una cosa del tipo: “in fondo il lavoro lo fa lei, è giusto che si prenda oneri e onori”.

Di Bona

Maurizio

La tua prima striscia? Il tuo primo fumetto?

Avevo inventato un personaggio: una strega che, bruciata nel Medioevo, rispuntava con un nuovo corpo in tuta di latex nero, nelle lande islandesi tra geyser, vulcani e ghiacciai. Disegnai alcune strisce e le inviai a Milo Manara. Evidentemente gli piacque perché poi la ritrovai pubblicata sul suo sito. Il primo fumetto aveva i Cranberries come protagonisti e in contemporanea diedi forma ad una storia con protagonista Bjork che incontrava le sue alter ego. Li piantai come semi nelle rispettive isole di appartenenza, in Irlanda e in Islanda. Il primo ha dato frutti, il secondo evidentemente è ancora dormiente fra i ghiacci.

Parlaci della tua passione per Giordano Bruno, diventata quasi un'ossessione, per la difficoltà di portare a termine un progetto dedicato a lui. Cosa ti attrae della sua storia? Perché pensi che il suo pensiero sia ancora importante per noi?

Sto pensando a un secondo libro sui runners.

Suonerà strano a qualcuno, ma io vado a correre proprio per pensare e trovare ispirazione.

Funziona! Negli anni è diventata una necessità, come disegnare, una dipendenza buona e sana

Giordano Bruno è un gigante del pensiero che, vuoi per le sue vicende storiche, a dir poco travagliate, vuoi per tutte le implicazioni di una filosofia dirompente, si impone come faro a cui rivolgere sempre rinnovata attenzione. È colui che nel 1500 capovolge il modello tolemaico propinato dalla Chiesa, mettendo il sole al centro e i pianeti a girargli intorno, prima che Galileo potesse verificare e confermare con il cannocchiale. E va oltre, sostenendo l'esistenza di altri soli e altri sistemi solari con altri pianeti abitabili simili al nostro, in un universo infinito e multicentrico. Me ne sono occupato negli anni del liceo scientifico di cui sopra, ed effettivamente, ripensandoci, in modo davvero maniacale, leggendo i suoi scritti e tentando di dar forma ad un graphic novel che poi per tante ragioni non sono riuscito a completare.

Poi ci sono i lavori dedicati ad artisti come Gian Maria Volonté, Massimo Troisi, Pino Daniele. Simboli? Punti di riferimento?

Nel tempo comincio a vedere una concatenazione fra tutti. I due calendari disegnati dedicati a Gian Maria Volonté sono figli proprio del film capolavoro su Giordano Bruno girato da Giuliano Montaldo nel 1973, senza il quale l'interesse per il filosofo nolano sarebbe terminata sui banchi di scuola. Su Massimo Troisi e Pino Daniele, al netto di tante bozze sparse, ci sono solo dei vagheggiamenti di progetti mai definiti. Dal sequel disegnato di Non ci resta che piangere ad un'idea di film su due anarchici che Volonté avrebbe voluto girare con Troisi e che mi piacerebbe disegnare.

Ma resiste anche la passione per il mondo dei supereroi e per i manga. Anche se con un taglio ironico. Un modo per omaggiare quei mondi senza prenderli (prendersi) troppo sul serio.

Alena Ettea

Le due pubblicazioni a cui fai riferimento (è tutto un Manga Manga e Supereroi) sono un debito pagato alle tante cose belle che hanno reso la nostra infanzia godibile, divertente e spensierata. Realizzate con Roberto Corradi, glorioso ideatore e direttore de Il Misfatto. Non avremmo saputo fare diversamente, considerati i trascorsi satirici e le rispettive corde. Ci siamo divertiti un sacco a ricordare e raccontare a modo nostro i robottoni giapponesi da un lato e gli eroi mascherati e mantellati dall'altro.

Hai scritto anche un libro sui runners (Cose da runners). Questa è l'altra tua passione. Ancora viva? Quanto/dove/come corri? Come organizzi le tue giornate tra lavoro, corsa, tempo libero per cercare l'ispirazione?

Di Bona

Maurizio

Ho ricominciato a correre in veste di padre con una certa regolarità da un anno, quando le due bimbe piccole hanno permesso di ri-trovare tempo ed energie per un ritorno alla normalità. Tanto che starei pensando anche ad un secondo libro sul tema, in cui dettaglio, sempre con lo stesso registro narrativo, un prima, un durante e un dopo. Suonerà strano a qualcuno, ma vado a correre proprio per pensare e trovare ispirazione. Funziona! Negli anni è diventata una necessità proprio come fare disegni, una dipendenza buona e sana. In Polonia ho la fortuna di abitare vicino un bosco enorme ed è bello uscire con le prime luci dell'alba, perché si incontrano gli animali che lo abitano: uccelli strambi, daini, scoiattoli, e con un po' di fortuna la volpe che va a bere allo stagno. Poesia.

Ci racconti l'incontro con Beppe Grillo? Fare satira politica e sociale, in un Paese come il nostro, è un lavoro difficile. Sia perché la realtà supera spesso la fantasia più grottesca, sia perché si viene subito identificati con una parte, e quindi derubricati a vignettisti ideologici.

Avevo da poco cominciato a fare esperimenti di vignette di satira politica. Le postavo a mezzanotte firmandole come “il vignettaro della notte” sul forum di Sabina Guzzanti, a cui la Rai aveva bloccato il programma Rai8t. Poi Beppe Grillo lanciò il suo blog nel 2005. Pensai di proporgli un po' di cose disegnate e l'occasione fu un post in cui Mina lo invitava “a tenere alta la fiaccola della verità”. Disegnai la scena e gliela mandai.

Il giorno dopo l'immagine era sulla home del blog e le visite al mio sito erano schizzate a mille, segnando l'inizio di una lunga collaborazione. Ma è proprio come dici e, chiusa l'esperienza con il Fatto Quotidiano, ho smesso con la satira politica. Mi è sembrato un esercizio inutile star dietro a politici che volontariamente e involontariamente fanno i comici per “giganteggiare” sui social, tra meme e cose raffazzonate dove il disegno diventa anche inutile.

Altri lavori di cui vai fiero? Pensiamo soprattutto alla collaborazione con i Cranberries

Sono passati sei anni dalla sciagurata scomparsa di Dolores O'Riordan e a ripensarci sono ancora incredulo e rattristato. Si sarebbero potute fare tante altre cose insieme. Nel '95 riuscivo a metter piede in Irlanda e andai a Limerick, città natale dei quattro della band, perché volevo incontrarli. I disegni arrivarono fra le mani del loro manager, nonché marito di Dolores, che mi chiamò ed entusiasta mi propose di creare il merchandising per il tour. Qualche anno dopo ci vedemmo al concerto di Firenze per definire nuovi progetti, rimasti purtroppo a metà, nel cassetto, perché la band si prese una lunga pausa e con Dolores finita in Canada ci fu solo l'occasione per realizzare un calendario nel 2008 e delle t-shirt. Un gran peccato.

Di Bona

Maurizio

Arriviamo a Battiato, l'alieno, un omaggio particolarmente originale, libero, di un personaggio che spesso è stato ridotto a un santino, una specie di guru-artista inaccessibile. Immagino che il primo scopo fosse questo, ricordare il Battiato ironico, dissacrante, sempre pronto alla battuta.

Non potevo fare diversamente. Su Battiato esistono già tante pubblicazioni che raccontano in modo serio e accurato tutto quello che c'è da sapere sul cantautore siciliano. Nessuno aveva mai osato scarabocchiarlo, ad eccezione del compianto Cavezzali, che con delle strisce strepitose si era prodotto negli anni '70 in un esercizio analogo al mio. Il mio intento era quello di alleggerire e donargli un paio d'ali, come chiede in una canzone (Come un cammello in una grondaia). Capovolgere il personaggio anche assecondando quell'indole autoironica della persona che traspariva poco in pubblico. Dal consenso che il libro continua a raccogliere direi che l'operazione è riuscita. Non solo compresa, ma, salvo l'integralista di turno che non manca mai, anche apprezzata dai fans.

Però allo stesso tempo c'è grande rispetto per la sua spiritualità, molto legata al sacro della terra e a una sorta di dimensione cosmica, in cui non contano chiese, dogmi, mediazioni sacerdotali, ma la ricerca interiore, la pratica della meditazione, la coerenza etica, nel rispetto (non clericale) delle varie forme religiose.

Mi piace evidenziare, in Battiato, la riscoperta del sacro e del divino che permea la natura, al di là delle confessioni religiose, spesso corrotte e fuorvianti. Sento risuonare echi del pensiero di Giordano Bruno, di cui mi occupo da anni

Assolutamente. Non è dissacrazione fine a se stessa. Si tratta di un atto di amore e gratitudine verso una figura geniale che ha fatto da ponte tra dimensioni alte e terrene, veicolando in musica concetti profondi, rimandi mistici e citazioni di maestri illuminati, utili a incuriosire e da approfondire. Personalmente la riscoperta del sacro e del divino che permea la natura, quel tendere ad una matrice demiurgica che è punto d'arrivo delle singole confessioni, spesso corrotte e fuorvianti, è l'aspetto che più mi piace evidenziare. Anche perché in esso risuonano echi del pensiero bruniano, non a caso spesso citato nelle interviste e omaggiato con un brano elettronico.

Ti ricordi la prima volta che hai incontrato una canzone di Battiato? Che cosa ami particolarmente della sua musica e del suo universo ideale?

Bandiera bianca, che partiva ripetutamente dalle radio. Non ero un suo fan, ma il personaggio era naturalmente tanto strano da non passare inosservato negli anni dei grandi successi pop. Solo in seguito ho cominciato ad interessarmene e a seguirlo, per l'esattezza nel 1989, quando andai a comprarmi il doppio album Giubbe Rosse, stregato dalla canzone Mesopotamia. Ascoltare Battiato apre la mente, e il tema del viaggio e dell'esplorazione declinato in tutte le forme arriva come insegnamento totale. Alcuni brani con le loro frequenze vibrazionali danno davvero la sensazione di trasporto ed elevazione spirituale. Io credo che sia riuscito a “nascondere” nei suoni dinamiche meditative che vanno a toccare certe corde emozionali e innescano meccanismi di trasformazione interiore.

Anche i ricordi raccolti da Alessio Cantarella sono aneddotici ma rivelatori, si parla di incontri a volte casuali, dialoghi, gesti che raccontano la persona, più che il personaggio.

Ecco. Alessio di contro è il grande fan che può dire di avere tutti i suoi dischi. Ha avuto la fortuna di frequentare sia Battiato che Sgalambro e ha fatto un lavoro titanico, partito con la raccolta delle testimonianze da mettere insieme per il docufilm  Tra cento miliardi di ricordi, in occasione di una celebrazione a Montalbano Elicona nel 2021, e poi proseguito con le presentazioni in ogni dove. Superfluo dire che se non ci fossimo incrociati il libro sarebbe ancora un ammasso di fogli scarabocchiati nel solito cassetto.

Hai già in programma un nuovo lavoro dedicato a Battiato. C'era ancora tanto da dire...

Infatti. C'è il Battiato regista e il Battiato pittore, che in buona parte ignoravo io stesso e che ha già generato tante vignette. Ma è l'accoppiata con il filosofo Manlio Sgalambro, del quale ricorre il centenario della nascita quest'anno, che ha rivelato nei disegni una forza comica anche inaspettata, soprattutto quando mi diverto a decontestualizzarli o li metto a interloquire con creature improbabili, animali parlanti e insetti giganti.

Altri progetti personali? Sogni?

Di Bona

Mi accontenterei di poter completare le tante cose lasciate a metà. Mi balena da tempo nella testa anche un progetto da dedicare a Francesco Nuti, ma servono energie e tempo e non guasterebbe un mecenate che nel nome di Lorenzo il Magnifico si prodigasse per farmi lavorare in totale tranquillità. Un sogno, appunto.

Maurizio

La memoria verde del mondo Forse il bosco ci salverà

INSIEME A REVERDINI, IL "FILOLOGO CONTADINO", ALLA SCOPERTA DEL RIAZZOLO E DELLA FORESTINA, DOVE L'UOMO COLLABORA CON LA NATURA

(foto di Carlo Cinthi e Sebastiano Tassi)

Un bosco millenario a quindici chilometri da Milano.  Un luogo dove puoi incontrare una quercia farnia (Quercus robur) che ha più di trecento anni, e che osservi incantato, pensando che era lì prima della Rivoluzione francese e dell'invenzione della macchina a vapore, insieme a Mozart e Voltaire.  Un pezzo di storia (naturale) vivente, “reliquia dell'originaria foresta planiziale lombarda”, dove le specie vegetali autoctone hanno ripreso il sopravvento e si è ristabilita la catena alimentare: le cataste di fascine e ramaglie, lasciate appositamente nel bosco, sono un

habitat ideale per gli insetti, cibo per passeri e rane, cacciate a loro volta dalla biscia dal collare, facile preda del riccio, spesso catturato dalle volpi...

Un'oasi naturale in cui contempli i bellissimi noccioli (Corylus avellana), che sembrano grandi ombrelli vegetali, le foglie fitte che giocano coi raggi del sole, e pensi a Virgilio, poeta lombardo, quando nelle Bucoliche (I, vv. 14-15) ricorda Melibeo, «pastore espropriato dalla guerra, che cammina verso un futuro incerto, avviandosi al tramonto, con le sue caprette, “inter densas corylos” (tra i folti noccioli)».

Perché qui natura e cultura si incontrano e si nutrono a vicenda – da una parte c'è la fecondità, nasci, nascere, dall'altra il colěre, il coltivare – seguendo anche la vocazione di colui che è diventato il custode di questi luoghi, Niccolò Reverdini, il “filologo contadino” (copyright di Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 2017). È lui la nostra guida, il cicerone (è proprio il caso di dirlo) di questo mondo fatato, che unisce passato e presente, tradizione e innovazione, imprenditoria (verde) e amore per la natura.   Studi classici, Filologia all'Università di Pavia, ma anche fatiche manuali, zappa e cesoie, la cultura della campagna e del bosco, imparata da chi la pratica da generazioni, tramandata oralmente, o per imitazione di gesti antichi. Da una parte gli amati libri, dall'altra il rapporto diretto con agricoltori e personaggi del luogo, spesso originali, sempre dotati di humour e ricchi di un sapere pratico preziosissimo. È grazie a loro che Reverdini, a metà degli anni '90, si è cimentato nell'agricoltura biologica, in tempi in cui la praticavano ancora in pochi e rischiavi di apparire un utopista un po' naïf. Anche se il “bio”, in realtà, recupera vecchi modi di coltivare la terra, senza impoverirla - non l'aratura, ad esempio,

Reverdini ci mostra una quercia che ha più di 300 anni. A fronte, un'immagine della Forestina

«ma la fenditura verticale del terreno, in modo che ci sia sempre una buona riserva di sostanza organica, senza bisogno di forzare la terra» – e i grandi vecchi del posto impararono presto a fidarsi di quel giovane letterato innamorato del bosco, con il pallino della biodiversità.

Il Bosco di Riazzolo è strettamente legato alla Forestina di Cisliano, un tempo cascina in abbandono, fino alla metà degli anni Novanta, oggi luogo di ristorazione e ospitalità, di attività didattiche e coltivazioni biologiche, punto chiave del Parco Agricolo Sud Milano. L'elenco dei riconoscimenti ottenuti dalla Forestina è lunghissimo, a partire dalla Medaglia d'oro per i metodi dell'agricoltura biologica del 2001 (CCIAA, Premio Milano Produttiva), per proseguire con il Marchio d'Oro come Produttore di Qualità Ambientale (Parco Agricolo Sud Milano), la Bandiera Verde per l'Agricoltura (un premio nazionale della CIA), l'Attestato di eccellenza Rurale (dal Ministero per le Politiche Agricole), l'iscrizione al Registro delle Imprese Responsabili della Regione Lombardia, l'accoglimento fra gli Ambasciatori del Territorio di Legambiente nel 2023.

Tony Nader
(foto Sebastiano Tassi)

Ma la storia risale ai Visconti e agli Sforza, che facevano di queste terre un luogo di caccia, e successivamente a uno scrittore fondamentale per la scapigliatura milanese, che era anche un nobile diplomatico: Alberto Carlo Pisani Dossi, conosciuto da tutti come Carlo Dossi.  È grazie a suo figlio, Franco Pisani Dossi, che Niccolò Reverdini ha scoperto la magia del bosco. Lo racconta in un libro molto bello, pieno di ricordi, avventure, incontri, contemplazioni, anche immagini e vecchie fotografie, un saggio-diario in forma di romanzo (o viceversa), che tutti possono apprezzare, nella sua colta semplicità, la scrittura dagli echi antichi: Anche l'usignolo. Vita di città, di bosco e di campagna (Mondadori, 2021): «Un ricordo iniziatico, silvestre, ottobrino. Sono sull’aia della Cascina Capanna: sciamano polli, oche, tacchini. Un bel chiasso vitale, fra granaglie e pastone, secchi e carriole. La Carla mima il verso delle faraone: «Fa frècc, fa frècc, fa frècc...». E il nonno mi prende per mano, conducendomi piano nel Bosco: lungo i laghetti, sopra le rive d’edera e pervinca. Ci sono il riccio, il cerchio delle streghe, i maschi colorati dei germani. Ciascuna creatura ha una sua forma, un suo moto, un suo nome. Ecco, nel limpido, le carpe a specchi, le scardole, i vaironi. Il brivido, l’iridescenza della vita. La mano tiepida del nonno, il naso freddo che sente il muschio e la terra, le

Una vitella di Varzese ci viene incontro, all'ingresso dell'agriturismo.

A fianco, un allocco porta una preda ai suoi piccoli

foglie secche, il fiato che vapora».

Quel brivido, la meraviglia del mondo che si disvela, insieme alle conoscenze accumulate nel corso degli anni, ora le trasmette ai numerosi bambini e ragazzi che vengono qui in visita, con le loro scuole, per guardare, toccare la terra, annusare gli odori. Ma è anche importante ricordare che il cambiamento climatico si combatte custodendo anzitutto la qualità dei suoli, come ha recentemente mostrato il Progetto ValSos (2021), curato dall’Università Bicocca di Milano, dedicato alla valorizzazione della sostanza organica nei suoli selvatici e rurali: «Quanto al Bosco di Riazzolo, il prof. Roberto Comolli, geopedologo, ha riscontrato che un metro quadrato di suolo, a 70 cm di profondità, contiene almeno 20 kg di sostanza organica, corrispondenti al sequestro di oltre 40 kg di anidride carbonica, per la durata di secoli o millenni – ci spiega Niccolò. – Si tratta di un progetto promosso dal Distretto neorurale delle Tre Acque, che accorpa una trentina di aziende agricole site a ovest di Milano, in un territorio compreso fra il Ticino, il Naviglio Pavese e il Canale Villoresi». Il messaggio è chiaro: luoghi del genere vanno tutelati in ogni modo.

Attraversiamo un bellissimo prato, all'interno dell'Agriturismo La Forestina, e una vitella di Varzese (razza lombarda) ci corre incontro, lasciandosi accarezzare.

Tutto qui è pensato per incentivare la biodiversità. «La sera i prati attorno alla Cascina si riempiono di anfibi, rane verdi e rospi smeraldini, che vengono a cacciare, approfittando dell'erba più bassa, irrigata e tagliata ogni settimana. In tal modo, raggiungono più facilmente le prede. E nelle corti interne ci sono pure le bisce dal collare che approfittano della situazione».  Anche le siepi, lì attorno, hanno una funzione ecologica: «Sono fatte con gli stessi arbusti del bosco, per dare continuità all'ecosistema. Ci cono cornioli, biancospini, sanguinelli, evonimi, ligustri...».

Niccolò frequenta questi luoghi da quando aveva 3-4 anni, insieme alla sua famiglia che viveva a Milano.

«Tra i miei primi ricordi c'è il recinto in cui mio nonno materno allevava cervi, caprioli e daini. Per me questo luogo è sempre un ritorno alle origini». La Forestina è circondata da alberi a perdita d'occhio. 65 ettari di bosco, compresi nei comuni di Cisliano, Albairate e Corbetta, divisi in appezzamenti che hanno diverse identità, a seconda del microclima, la quantità di acqua presente, l'intervento dell'uomo. Il toponimo Riaz-

zolo deriva da riazzoeu, «un termine tecnico venatorio registrato dal Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (1839-1856): indicava una reticella che si stendeva sui corsi d'acqua per catturare le gallinelle e le anatre selvatiche. Il toponimo racchiude due dati essenziali relativi al bosco: la sua natura umida, per la ricca presenza di risorgive, e gli usi venatori andati avanti per secoli». Sia i Visconti che gli Sforza amavano la caccia al falcone e a cavallo, che praticavano ad esempio nel vicino bosco di Cusago.

Chi viene qui, può anche semplicemente lasciarsi guidare dall'istinto, seguire gli odori, le forme degli alberi, il sole che penetra fra i rami e crea dei giochi di luce che non finiremmo mai di contemplare ammirati, soprattutto nell'ora che precede il tramonto.

«Un ricordo iniziatico, silvestre, ottobrino. Il nonno mi prende per mano, conducendomi piano nel Bosco. Ci sono il riccio, il cerchio delle streghe, i maschi colorati dei germani. Ciascuna creatura ha una sua forma, un suo moto, un suo nome...»
(foto Carlo Cinthi)
«I bambini scoprono anche attraverso un'esperienza di tipo sensoriale - tramite la vista, l'odorato, il tatto - la grande avventura della flora (...) Nel bosco vedi perfettamente come si stringono una all'altra la vita e la morte»

Ma il modo migliore per visitare questo bosco è facendosi accompagnare da Reverdini, nella sua duplice veste, poetica ed ecologica, la sua grande cultura umanistica e la decennale frequentazione del bosco, di cui si occupa personalmente, mantenendo le strade e i sentieri. «Non è mai un percorso solo letterario o meramente ecologico. Le cose si mescolano. C'è la visione sincronica: ciò che hai di fronte, hic et nunc, la vita della flora e della fauna. E c'è la visione diacronica, che ti permette di relazionarti ai dati storici, anche rapportati alla nostra tradizione letteraria, in cui prevale, da Virgilio a Gadda, l'osservazione diretta, il ritratto dal vero».

Ci fa notare i ciliegi selvatici (Prunus avium), così caratteristici per questo paesaggio, ma anche la berretta del prete (Euonimus europaeus). Le piante antiche, secolari, che convivono con quelle più giovani, assicurando la continuità generazionale. Ci sono anche dei “ciliegi bambini”, generati dalla caduta dei frutti, oppure dagli uccelli che collaborano involontariamente alla riproduzione delle piante. «Mi è sempre piaciuto camminare accanto agli anziani del posto, che mi hanno insegnato moltissimo. Un uomo di bosco e di riviera si divertiva a farmi osservare certi ciliegi selvatici isolati, in mezzo a una radura, spiegandomi i vari modi in cui possono nascere, mimando anche un uccello intento a defecare. Mi diceva: “Sa capissa?” (si capisce?)» Mentre entriamo nel bosco ascoltiamo il verso di una raganella, ma anche lo scampanio lontano delle vacche Varzesi. Qui vanno attivati tutti i sensi. L'idea è quella di scoprire il bosco partendo dal suolo e alzando a poco a poco lo sguardo verso l'alto. Niccolò si china e ci mostra il terreno, come fa con i bambini che vengono in visita al Bosco di Riazzolo, invitati a sporcarsi le mani, ma anche a capire che la morte non è solo quella cosa spaventosa a cui non vogliamo pensare: «Nel bosco vedi perfettamente come si stringono una all'altra la vita e la morte. Se non avessimo questo sostrato di foglie e rametti che lentamente si umifica, il bosco non avrebbe il nutrimento per potersi rinnovare di anno in anno» Il terreno è soffice. Mentre Niccolò affonda la mano, vediamo la sostanza vegetale che si sbriciola e diventa humus vitalissimo. «I bambini scoprono anche attraverso un'esperienza di tipo sensoriale – tramite la vista, l’odorato e il tatto - la grande avventura della flora. Dal sottobosco di edera e mughetti, agli arbusti lì attorno: come i prugnoli e i biancospini.

(foto Sebastiano Tassi)

Un platano ha "lanciato" una radice lontano, nel terreno, come fosse un'àncora.

Fino alle piante più alte: meli selvatici, carpini bianchi e querce farnie. Imparano a riconoscere le cortecce e le foglie: scoprono la bellezza e la ricchezza della biodiversità, mentre iniziano a riflettere sui valori del suolo».   Troviamo una nocciola, rosicchiata da un ghiro o forse da un moscardino, «un roditore molto simpatico, rossiccio». L’Università Bicocca ne sta censendo la popolazione a ovest di Milano e ha posizionato anche qui alcuni nidi per favorirne la riproduzione (DISAT, PNRR National Biodiversity Future Center). Sì, perché la Forestina lavora anche con le università, sia dal punto di vista scientifico che umanistico, così come con altre istituzioni culturali. Il Teatro Franco Parenti, con cui Reverdini ha già collaborato in passato, gli ha chiesto di recente un progetto di valorizzazione della cultura letteraria lombarda (in collaborazione con la Regione), e lui ha proposto un’indagine intitolata “Gli autori fuori porta: geografia e storia dei paesaggi lombardi”, concentrandosi al momento sul territorio tra Milano e il Ticino. Nella convinzione che la lettura dei classici possa anche aiutarci a interpretare meglio l'attualità e a misurare con cura il drammatico impatto dei cambiamenti climatici.

«Basti pensare, rispetto all’attuale emergenza idrica lombarda, alle Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) di Carlo Cattaneo, che testimoniano puntualmente una piovosità primaverile e autunnale oggi scomparsa, lasciandoci quindi toccare con mano l’avanzato grado di compromissione del sistema alpino: “Da noi l’estate è costante e arida; e la pianura erratica e silicea potrebbe per sé inaridirsi, come le steppe del Volga, (…) se nei recessi della regione montana non avessimo il tesoro dei ghiacci e delle nevi, onde le vene dei fiumi si fanno più larghe col crescere dell’arsura”. C’è da mettere oggettivamente in crisi anche i più agguerriti negazionisti!».

Anche l'approccio al bosco è di tipo filologico. Reverdini ce lo spiega citando Gadda, che nella Cognizione del dolore «si scagliava umoristicamente contro il Manzoni, indicandolo come uno dei grandi introduttori della Robinia pseudoacacia, di cui aveva sperimentato le virtù economiche. Gadda scriveva che la robinia “non ha nobiltà di carme”.

(foto Sebastiano Tassi)

Un picchio rosso nutre il suo piccolo. Sotto, uno sparviero femmina con la sua preda. A fronte, la vasca e i nidi costruiti per ospitare gli uccelli

Ecco, noi cerchiamo invece di preservare le specie dotate di questa nobiltà» (bellissimo quel passaggio, come tutto in Gadda, irriverente e ardito: «(...) la robinia tacque, senza nobiltà di carme, ignota al fuggitivo pavore delle Driadi, come alla fistola dell’antico bicorne: radice utili-

taria e propagativa dedotta in quella campagna dell’ Australasia e subito fronzuta e pungente alla tutela dei broli, al sostegno delle ripe»).   L'approccio utilizzato è quello dell'ascolto e della collaborazione con la natura. «Noi cerchiamo di contenere la presenza delle esotiche proprio per consentire alle specie autoctone di recuperare il loro equilibrio». Si interviene anche massicciamente, ma assecondando lo sviluppo biologico. «Qui ad esempio è caduto il ramo vecchio di un nocciolo, che è stato ricoperto di edera. Noi lasciamo che l'edera continui a crescere, visto che offre nidificazione, e che il ramo si umifichi. Qui intorno sono nati frattanto altri piccoli noccioli». Incontriamo anche un maiantemo (Maianthemum bifolium), «un importante indicatore biologico, perché cresce e resiste solo su suoli lontani da fonti di inquinamento» e poco più avanti un grande platano che ha più di duecento anni – «un albero di origine asiatica, molto caro ai romani, solitamente presente lungo i viali»:  per trovare la sua stabilità su un suolo che si presenta ondulato, a conche e collinette, «ha lanciato una radice lontano, come fosse un àncora», aggrappandosi al terreno.

Ancora più antica la quercia farnia, «la pianta più nobile e maestosa del bosco planiziale originario», che potresti rimanere a guardare per tutto il giorno, talmente è impressionante la forza del suo tronco e dei suoi rami, la bellezza perfetta della sua chioma. Tre secoli di vita, e non sentirli. Un ramo è stato colpito da un fulmine, il che suscita una citazione da Virgilio, figlio di un tempo in cui una quercia ferita da un fulmine era presagio di esilio: «Saepe de caelo tactas quercus…»

(foto Carlo Cinthi)
(foto Carlo Cinthi)

Niccolò Reverdini è anche l'autore di un prezioso Sentiero virgiliano (Punto Parco Cascina Forestina, 2012), una piccola guida botanica in cui sono censite le specie della flora planiziale lombarda accolte nelle Bucoliche e tuttora presenti al Bosco di Riazzolo. Anche qui possiamo incontrare i flessibili viburni (lenta viburna), i meli selvatici (silvestri ex arbore lecta / aurea mala) o le bacche sanguigne del sambuco (sanguineis ebuli bacis), spremendone lo scuro succo fra le dita, come certo avrà fatto lo stesso Virgilio da bambino.   Quando accompagna qualcuno nei boschi, Niccolò porta con sé brevi letture, nate dall'osservazione di alberi, boschi e campagne, da Carlo Cattaneo a Bonvesin da la Riva. Ma non fa mai mancare l'esperienza diretta del bosco, qui e ora, anche solo il gusto di calpestare il suolo reso soffice da un fondo di foglie e rametti che scricchiolano, sotto i lunghi fili verdi del cariceto (Carex brizoides). Mentre lo sperimentiamo, ecco arrivare tre bambini, che vanno a farsi una passeggiata sul sentiero. Sono a piedi nudi ("a pé in tèra"). Un piacere che abbiamo dimenticato.

Reverdini è una sorta di uomo-ponte, che ama unire generazioni diverse, oltre che agricoltori e persone di cultura. Ma è anche un imprendi-

tore-studioso che unisce il locale e il globale, che nutre un grande amore per il territorio, la sua specificità da tutelare, ma ha anche uno spirito europeista. «Un'esperienza per me importante e fondante è stata quella fatta nell'ambito della Politica Agricola Comune, nei primissimi anni Novanta, che incentivava i metodi di coltivazione a basso impatto ambientale e la multifunzionalità delle aziende agricole. Nonostante le delusioni, mi sono sentito parte integrante di un respiro rurale europeo, oggi purtroppo rimesso in discussione». Del resto lo stesso Carlo Cattaneo promuoveva il vivo confronto fra le identità regionali delle nazioni, un dialogo aperto fra la cultura umanistica e scientifica, auspicando la nascita degli “Stati Uniti d’Europa”.   Nonostante tutto ci sono dei motivi di ottimismo, «degli squarci che si aprono. Una delle cose importanti che sto cercando di fare con i PCTO, in collaborazione con le scuole, è mostrare come l'articolo 9 della nostra Costituzione stringa una relazione vitale fra “il patrimonio storico e artistico” e “il  paesaggio” della nostra nazione, ponendoli entrambi sotto “tutela”. Peraltro una recente integrazione dell’articolo 9 (8 febbraio 2022) ha esteso la tutela all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, richiamando “l’interesse delle future generazioni”».

(foto Sebastiano Tassi)

Ci crede molto, Niccolò Reverdini, nelle nuove generazioni. Ci racconta lo stupore dei ragazzi che ha accompagnato a vedere gli Arazzi Trivulzio del Bramantino al Castello Sforzesco di Milano, dedicati ai dodici mesi dell'anno, per poi portarli alla Forestina, di fronte al primo taglio dei prati (maggengo), ai ciliegi riboccanti di frutti, entrambi ricordati nell’Arazzo di Maggio. Il suo obiettivo è quello di far dialogare i vari livelli, le aziende agricole, le scuole, le università, le associazioni.

Ne parliamo mentre ci fa notare «i miracoli della luce nel bosco, le venature delle foglie accese dall’ultimo sole». Anche in questo tratto del bosco hanno fatto della “filologia”, per contenere il ciliegio tardivo americano (Prunus serotina) «introdotto nel gallaratese e nel varesotto per ottenere buon legname da opera, perché cresce più velocemente e più alto dei nostri ciliegi. Meriti che però il mercato non ha accolto, tanto che la pianta è stata abbandonata a se stessa, creando poi forti alterazioni nei boschi. Qui per contenerla abbiamo incrementato il Carpino bianco (Carpinus betulus) e il Ciliegio selvatico (Prunus avium), creando una copertura sempre più folta, che impedisce il rinnovo del Prunus serotina»

Il fatto è che non esistono finanziamenti per aiutare

Un fringuello riflesso nelle acque del Bosco di Riazzolo. Nall'altra pagina, una vista dal basso del grande orto biologico, in cui vengono utilizzati teli in amido di mais per tenere lontane le infestanti

chi porta avanti questo lavoro. «Mancano purtroppo i sostegni economici al miglioramento dei boschi planiziali residui. Noi in trent'anni abbiamo ricevuto solo tre contributi una tantum: due comunitari (1998 e 2012) e uno regionale (1999). Continuiamo ad augurarci che possa esservi maggiore attenzione istituzionale, poiché si tratta di opere molto onerose e con ampie ricadute benefiche sugli ecosistemi e sulla collettività».

A proposito di comunità. C'è anche quella umana, varia e vivace, che vive il bosco insieme ai soci che gestiscono la Forestina. Incontriamo ad esempio Carlo Cinthi, che qui ha un suo capanno e che si diletta in fotografia naturalistica. Sono sue le incredibili immagini scattate a un allocco mentre porta le sue prede ai piccoli, dopo aver nidificato in un boschetto a est della Cascina. Favorendo la nidificazione, Carlo è riuscito anche ad aiutare dei picchi rossi e delle splendide cinciallegre, che sono molto utili alla lotta biologica, visto che portano ai propri pulcini centinaia di lepidotteri e coleotteri, dannosi per i grandi orti della Forestina.  Ci racconta di sette nuovi nati, dicendosi però preoccupato dal fatto che la madre abbia scelto un luogo sbagliato in cui nidificare, accessibile alle bisce. Neanche il tempo di dirlo, e di andare a controllare come stanno i piccoli, ed ecco che scopriamo nel nido un grosso colubro di Esculapio. Se ne sta a poltrire, dopo il fiero pasto. Un giorno toccherà a lui diventare preda del riccio, della poiana o di un allocco.

(foto Carlo Cinthi)

Una disavventura che si può guardare da due prospettive diverse. Quella di Carlo, ovviamente dispiaciuto per l'accaduto, che si maledice per non aver favorito un posto più sicuro. E quello di Niccolò, che vede in questa “tragedia” lo spettacolo spietato e affascinante della natura al lavoro, con la sua catena alimentare. La biodiversità.

Una tappa d'obbligo è quella alla scoperta dei magnifici fontanili. Reverdini evoca Jean Renoir, la sua capacità di fotografare la natura, e cita Cattaneo, che elogiava le acque lombarde: «Le aque sotterranee, tratte per arte alla luce del sole, e condutte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse sovra campi più bassi, scòrrono a diversi livelli con calcolate velocità, s’incontrano, si sorpàssano a ponte-canale, si sottopàssano a sifone, s’intrecciano in mille modi (Notizie naturali e civili su la Lombardia, 1844)». Le vediamo in azione davanti a noi, su due livelli, a pochi metri una dall'altra: un fontanile le cui acque placide si muovono lentamente, e un altro più vivace, con la corrente che procede spedita verso la sua meta.   Dentro il fontanile D’Adda ci sono dei sassi di un rosso

«L'indagine scientifica mostra quanto sia importante mantenere alto il livello di sostanza organica nel terreno coltivato.
Se incentivassimo queste pratiche, sarebbe un risultato estremamente positivo per la collettività»

splendente, forse dovuto ai licheni. Uno spettacolo formidabile. Che si può anche apprezzare da vicino, visto che qui i bambini (e i grandi) possono percorrere il corso d'acqua immergendosi fino ai polpacci.  La temperatura è perfetta, l'acqua purissima.   Attraversiamo un boschetto di carpini, mentre parliamo di cambiamenti climatici e agricoltura industriale da emendare: «L'indagine scientifica mostra quanto sia importante mantenere alto il livello di sostanza organica, non solo con l'agricoltura biologica, ma anche con forme di coltivazione a minore impatto ambientale, come quella integrata, dove i prodotti sintetici si riducono sotto il 50%. Se su un suolo millenario, come quello del Basso Milanese, incentivassimo queste pratiche, sarebbe un risultato estremamente positivo per la collettività».

(foto Sebastiano Tassi)

Anche l'usignolo, pubblicato nel 2021 da Mondadori, ripercorre l'intera esperienza di vita e di lavoro di Niccolò Reverdini alla Forestina.

Scrive l'editore: «Un saggio narrativo en plein air, che descrive dal vivo i metodi dell’agricoltura biologica e il recupero di un bosco millenario, inserendoli nelle politiche dell’Unione Europea, volte a promuovere la biodiversità e la tutela dell’ambiente (...) Spiccano, fin dal principio, l’accoglienza donata e ricevuta in cammino, le persone incontrate fra le opere e i giorni: il campionario del gran teatro di campagna.

L’autore attinge a fresche fonti letterarie, classiche e moderne, dialogando a tratti con esse riguardo a esperienze comuni e perfino allo stesso paesaggio»

Anche nel rispetto dello spirito tradizionale dell'agricoltura. «Il lavoro in campagna ha sempre avuto una finalità economica, ma ben nutrita di estetica e moralità. Mentre lavoravi un terreno con tanti sassi, avevi cura di spostarli per riempire le buche dell’adiacente strada poderale. Quando tagliavi l’erba dei fossi, perché l’acqua rifluisse libera ai campi, facevi anche il fieno per i tuoi conigli. Nulla andava disperso o sprecato e gli occhi misuravano il lavoro, rimanendone appagati. Erano opere eseguite a regola d’arte».

“Bellezza” è la prima parola che viene in mente, guardando la Forestina, i boschi intorno, i corsi d'acqua, il grande orto biologico. Vediamo scorrere l’antica Roggia Soncina, fatta scavare dal Duca Francesco Sforza nel 1463,  «un'importante opera idraulica, che da Pontevecchio Ticino, per presa diretta dal Naviglio Grande, portava l'acqua al Castello di Cusago, scorrendo da ovest a est». C'è tanta storia qui. Di natura, di opere e anche di uomini. Come quella della famiglia inglese che si è messa a cercare gli eredi di chi aveva aiutato un loro caro prozio (George M. Noakes), fatto prigioniero durante la Guerra d’Africa e accolto dopo l’8 settembre 1943, per una settimana, alla Forestina, insieme a tre commilitoni, prima di riuscire a raggiungere la Svizzera: «Sono stati accolti da Alberto Introini, guardiacaccia di mio nonno Franco, a stretto contatto con Carlo Oldani, fattore dell’omonimo Cascinello confinante con i nostri terreni. Sono riuscito a ricostruire alcuni anelli essenziali di questa vicenda proprio grazie alle limpide testimonianze orali dei più anziani».   Che dire della questione “accoglienza”? Un tempo le cascine ospitavano i fragili, i lunatici, i viandanti, le persone in difficoltà. Il valore dell'accoglienza lo troviamo nella tradizione cristiana, ma anche in quella classica, virgiliana.

(foto Sebastiano Tassi)

Uno dei lavoratori della Forestina è originario del Ghana: «Ha fatto un percorso molto lungo, partendo da un tirocinio di inclusione socio-lavorativa e pervenendo a un contratto di apprendistato. Ora è assunto a tempo indeterminato, lavora in campagna e in cucina».  È anche merito suo, questo orto pieno di prelibatezze biologiche. A partire dalle patate dolci americane, protette da «un telo in amido di mais, che alla fine della stagione si disgrega e va ad arricchire il terreno di sostanza organica. Un po' come lavora il bosco. Così non crescono erbe infestanti, che di solito vengono uccise con i diserbanti. Le erbe spontanee crescono però sull’interfila, e alcune, come l'amaranto e la galinsoga (che sa un po' di carciofo), sono commestibili e possono arricchire le propo-

Il Bosco di Riazzolo è un luogo ricco d'acqua, con fontanili molto belli e suggestivi. Nella pagina a fronte, giochi di luce tra rami e foglie.

ste della nostra cucina rurale. Valorizziamo anche queste specie». Vediamo file di melanzane, lattughe, pomodori, fagiolini, zucchine, basilico viola (che ha un profumo straordinario), sedano, cavolo cappuccio bianco e nero, zucche. Tutto utilizzato nella ristorazione agrituristica. «Facciamo una programmazione, a seconda dei mesi e delle stagioni. In questo periodo, ad esempio, utilizziamo il cavolo nero come ripieno per le crespelle, e con il basilico viola facciamo un freschissimo risotto» Ultima tappa, gli animali. Polli di varie razze, «anche qui perseguiamo la biodiversità», tra le quali la Milanino, la Mericanel della Brianza e la Gallina della Ritirata. Ci sono le anatre, purtroppo spesso preda delle volpi. Ci sono asini e vacche Varzesi. Si chiama “multifunzionalità” ed è giusto che le istituzioni la favoriscano: ospitalità e ristorazione, coltivazione biologica ed educazione ambientale, natura e cultura.  Il presente e il futuro dell'imprenditoria agricola.

(foto Sebastiano Tassi)

Nel progetto dedicato da Reverdini agli “Autori fuori porta”, c'è una parte dedicata proprio agli Arazzi dei Mesi, associati alle Georgiche di Virgilio:  il committente Gian Giacomo Trivulzio invitava il Bramantino a un parallelismo, molto audace, fra sé e Augusto, restauratore dell'ordine e della pace, indispensabili garanzie per la produzione agricola. Nell'arazzo del mese di marzo, infatti, si vede un paesaggio rurale sconvolto dalla guerra e dall'incuria, contrapposto a una scena di armonia, con i contadini al lavoro e gli innesti sugli alberi da frutto. E qui torniamo anche a Melibeo e al primo libro delle Bucoliche: «La riflessione di Virgilio sul tema dei migranti e della guerra appare attualissima e ci invita a considerare l’importanza vitale della produzione agricola, in uno scenario internazionale sempre più minato dai conflitti e dalle loro conseguenze anche economiche» Tutto si tiene, nel succedersi delle epoche, col rischio di cadere negli stessi identici errori.   Viene in mente l'ultimo capitolo di Anche l'usignolo, in

Il bosco riserva grandi sorprese, ma anche piccole meraviglie che bisogna saper guardare, colori, luci, chiaroscuri. Nella pagina a fronte, un'altra vista dell'Agriturismo La Forestina

cui la contemplazione del paesaggio diventa riflessione sul mondo in cui vorremmo/dovremmo vivere. Prima Reverdini cita Hermann Hesse, omaggiando Federica Galli (bellissime le sue incisioni) e ribadendo il proprio amore per gli alberi: «Per me gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi. Li venero quando vivono in popoli e famiglie, in selve e boschi. E li venero ancora di più quando se ne stanno isolati. Sono come uomini solitari. Non come gli eremiti, che se ne sono andati di soppiatto per sfuggire a una debolezza, ma come grandi uomini solitari, come Beethoven e Nietzsche. Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte».  Poi ricorda una pagina di Bonvesin da la Riva, in cui parla dei nostri territori fertili che «producono una così grande e così mirabile abbondanza di ogni sorta di granaglie, grano, segale, miglio, panico (…) e poi fave, ceci, fagioli, cicerchie, lenticchie», tante che oltre a sopperire alle necessità del territorio, potrebbero rifocillare «anche i popoli transalpini»

(foto Sebastiano Tassi)

Scrive Reverdini: «È questa la consapevolezza che oggi dobbiamo preservare, non certo come colore locale, ma per principio etico valido in ogni luogo in cui si possa osservare e a maggior ragione in quelli che riescano a offrire il proprio prodotto anche altrove»

La contemplazione diventa azione. La capacità di apprezzare la bellezza del mondo, diventa cultura della solidarietà, della collaborazione, nella convinzione che possiamo “salvarci” solo tutti insieme. Oggi come ieri, ai tempi di Bonvesin o di Virgilio. «Ho varcato la voragine del Canale Scolmatore, spingendomi, lungo le alzaie, fino al pioppeto del Giuse e poi più in là, di fronte al prato e al Bosco, proprio mentre muore la luce e il respiro è un vapore alle labbra. Avverto, pur da lontano, le gemme tendersi sui rami, già presaghe di marzo (…) Eppure, qui resiste un chiarore e intravedo lontana la Cascina Fornace, i suoi coppi bagnati dal freddo, o più in alto un baleno dorato sulle Alpi. Se fossi Melibeo, qualcuno là mi accoglierebbe: “Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem / fronde sub viridi: sunt nobis mitia poma, / castaneae molles, et pressi copia lactis. / Et iam summa procul villarum culmina fumant, / maioresque cadunt altis de montibus umbrae”».

Le Bucoliche, in effetti, sono la conclusione ideale: «Ma questa notte potevi qui riposare con me, / su un giaciglio di verdi frasche: ho frutti maturi, / tenere castagne e formaggio fresco in abbondanza. / E già lontano fumano i tetti dei casolari / e più lunghe discendono dagli alti monti le ombre»

(f.t.)

«Il lavoro in campagna ha sempre avuto una finalità pratica, ma ben nutrita di estetica e moralità. Nulla andava disperso o sprecato e gli occhi misuravano il lavoro, rimanendone appagati. Erano opere eseguite a regola d'arte»
(foto Sebastiano Tassi)

Animali liberi, protetti, felici: l'utopia reale del Santuario

Massimo Manni, ex allevatore, ha creato un luogo in cui convivono specie diverse, senza recinti e senza costrizioni

(foto di Violetta Canitano)

Cinquecento (o quasi) animali scampati al macello. Che detto così, mette già di buonumore.

Ancora meglio: cinquecento animali che vivono liberi, senza recinzioni, seguendo il proprio istinto, costruendo rapporti di amicizia (spesso sorprendenti) con individui di specie diverse, godendo l'ebbrezza del libero arbitrio.

Il Santuario Capra Liberi Tutti si presenta così. Come un luogo speciale, anzi unico, nato da una conversione. Perché di questo si tratta. Un tempo Massimo Manni, prima di mettersi a salvare gli animali, era un allevatore. E ogni allevamento sta alla base di quella

catena (produttiva), fondata sullo sfruttamento, che alla fine approda inevitabilmente al macello, tra le sofferenze più atroci. La storia di questa commovente rivoluzione personale, che dovrebbe diventare collettiva, globale, viene raccontata in un libro che si intitola Parola agli animali, edito da Vallardi. Comprarlo fa bene al cuore di chi legge e aiuta gli animali del Santuario a trovare cibo e protezione. Animali che hanno un nome e

una storia. Li potete anche vedere, nelle foto e i video raccolti nel sito www.capraliberitutti.org, oltre che sui social, perché il Santuario godo di un gruppo di attivisti generosi e creativi, che aiutano questa realtà a perseguire la sua missione. Sembra quasi di vederla, la finestra di cui parla Massimo, sotto cui sfilano gli animali a salutarlo, la mattina, ognuno col suo modo di interagire, la sua personalità. Tipo Carmen, la cavalla, che arriva agitando il secchio, in cerca di carote.

Oppure il vitellino Lorenzino, che si diverte a prendere il suo posto, dentro casa, per affacciarsi e guardare fuori. Massimo ha sempre amato gli animali, fin da piccolo. Non poteva farne a meno e i genitori furono costretti ad assecondare questa sua “fissazione”. Tanto che a quattordici anni già lavorava in un negozio di animali. L'incontro casuale con un agnellino sperduto, fu l'inizio di una nuova vita. Si ritrovò a nutrirne sette, liberati dalle grinfie di un allevatore spietato. Quando, tempo dopo, fu costretto a vendere alcuni cuccioli, per ripagare dei debiti, visse l'esperienza del loro pianto disperato, nel momento in cui vennero separati dalle madri. Fu il momento decisivo di una riflessione che aveva cominciato già da tempo, sulle

contraddizioni di chi lavora con gli animali, e dice di amarli, ma poi li mangia, e contribuisce a una catena di sofferenze a cui di solito cerchiamo di non pensare, che generalmente viene nascosta alla vista del consumatore.

L'aspetto più affascinante del Santuario è forse la capacità degli animali di stringere amicizie e creare rapporti di collaborazione e sostegno reciproco, a prescindere dalla specie di appartenenza. Fondamentale l'apporto dei volontari e di tutte le persone che sostengono questa realtà, anche solo con una donazione online

88,5 mm

Tutto è partito da un post sui social, nel 2015: «Nella mia testa c’è l’idea di un luogo che chiunque di voi potrà visitare liberamente, per passare una giornata in compagnia di questi splendidi esseri… Loro avranno il loro cibo, e noi il nostro, vegano. Io metto a disposizione la mia terra e tutto ciò che posseggo. Ma mi rendo conto che tutto questo, che solo questo, non basta: c’è bisogno di ristrutturare le strutture esistenti, eventualmente crearne di nuove per gli animali che vi alloggeranno, e tanti altri piccoli interventi affinché la loro vita sia la più confortevole possibile. È un pensiero più grande anche di quello che potevo immaginare, ma se crederete come me in questo so-

IL "SANTUARIO CAPRA LIBERA TUTTI" OSPITA CINQUECENTO ANIMALI, PER LO PIÙ SALVATI DAL MACELLO. UN LUOGO DI PACE

E DI ALLEGRIA

gno, insieme, tutti insieme, potremo farcela».

Ce l'hanno fatta. Come dimostrano le storie raccontate nel libro, buffe e commoventi. A partire da quella di Bruno, il vitello curioso e affamato di coccole che gli ha fatto cambiare idea sui bovini schivi, e della sua sorellina Alice, destinata al

mattatoio a sei mesi di vita: questi animali hanno una ricchezza e profondità di sentimenti che non conosciamo, perché non diamo loro la possibilità di svilupparla ed esprimerla. C'è Pierporco il maiale, intelligente come tutti i maiali –noi li costringiamo a ingrassare e vivere ammassati – che ha scelto di vivere insieme ai bovini. C'è la gallina Filomena, arrivata con le zampe malformate, a cui piaceva dormire nelle cucce dei cani. C'è Kruzco, il lama, diventato famosissimo grazie ai social, che ha aiutato Massimo a fare un salto di qualità nella gestione del Santuario, quando ha evitato di separarlo dalle femmine arrivate al rifugio (come si usa di solito, per evitare aggressioni).

Alla fine hanno trovato il loro equilibrio “selvaggio”, autonomamente, tanto per ribadire che non si tratta di allevare gli animali, ma di lasciarli essere ciò che sono. Sono arrivati anche dei cuccioli, nati liberi e destinati a esserlo per sempre!

Ci sono poi una quindicina di cani, soprattutto maremmani, che tengono lontani i predatori, una cosa che hanno imparato da soli, per istinto: «Mi colpisce molto la

loro gentilezza, è interessante vedere come i più grandi insegnano ai cuccioli a non essere aggressivi con le galline e gli agnelli. Dimostrano agli altri animali lo stesso affetto che manifestano verso gli esseri umani».

Tante belle storie, insieme a riflessioni semplici e importanti sulla dignità degli animali, su come funzionano allevamenti a macelli, su un'economia malata che può essere cambiata solo da noi, cittadini

Una delle prime scoperte è stata l'affettuosità dei bovini, animali capaci di sentimenti profondi

e consumatori, con le nostre scelte.

“Un altro mondo è possibile”, scrive Massimo alla fine del libro.

Lasciamo quindi a lui la parola (il primo capitolo del libro, intitolato

“Ti racconto il Santuario Capra Libera Tutti”, che pubblichiamo di seguito), invitandovi a partecipare a questa impresa: leggete e donate!

«Chi

li

ama

non li può uccidere o sfruttare»

Un libro istruttivo, buffo, commovente, in cui ogni animale ha un nome, una storia, una personalità

di Massimo Manni

(© 2023 Antonio Vallardi Editore, Milano)

«Tu ami gli animali?» Se avete questo libro fra le mani, probabilmente la vostra risposta è sì. E questo sì, questo amore che abbiamo in comune, è il punto di partenza per qualcosa di più grande. Mi chiamo Massimo Manni, ho 50 anni e amo gli animali. Questo però non mi ha impedito di venderli, di mangiarli e di allevarli prima di arrivare a liberarli. Sì, perché il posto dove vivo, a Nerola, su una montagna a quaranta chilometri da Roma, è nato come allevamento di pecore: ora invece ospita una struttura che si chiama Santuario Capra Libera Tutti. Nei prossimi capitoli vi racconterò tutta la storia di questa evoluzione. All’inizio non mi rendevo conto che potesse esserci un altro modo per stare vicino agli animali, oltre

ad allevarli. Ho dovuto superare passaggi difficili, affrontare una per una le mie contraddizioni, ma alla fine grazie alla rete di attivisti conosciuti attraverso i social sono riuscito a trovare una soluzione. E la soluzione è il Santuario Capra Libera Tutti, un centro che vive delle donazioni degli attivisti e dei simpatizzanti, dove oggi abitano in totale libertà gli animali che imparerete a conoscere nelle prossime pagine, insieme a centinaia di altri, di ogni specie e con ogni tipo di storia alle spalle. Qui accogliamo gli animali che hanno subìto soprusi da parte degli esseri umani e cerchiamo di restituire loro la dignità dell’autodeterminazione e di una vita libera. Ci sono ovini, bovini, suini, equini, lama, uccelli, cani, gatti e perfino pesci, e tutti vivono in armonia senza nessuna forma di coercizione. Sui social raccontiamo le loro prodezze e le loro vicende per far capire al maggior numero di persone possibili che ogni essere vivente è un individuo unico, che ha diritto alla vita e alla libertà per cui è nato. In queste pagine abbiamo raccolto alcune delle loro incredibili storie per diffondere ancora di più il messaggio. Questo libro nasce per raccontare una storia fatta di infinite storie.

Perché la fondazione del Santuario Capra Libera Tutti è legata alle vite degli animali che ha salvato, ma anche al numero incalcolabile di vite perdute nel sistema di sfruttamento creato dall’uomo nel corso dei secoli e dei millenni. Sono storie di liberazione e resistenza, di coraggio e determinazione per raggiungere la libertà, che testimoniano al contempo le tragedie che non siamo riusciti a evitare.

Raccontano la caparbietà con cui gli animali che ho conosciuto si sono aggrappati alla vita, nonostante il loro destino sembrasse segnato dalla nascita. Dimostrano la volontà di aiutarli, nonostante la sola idea di andare contro uno stile di vita nel quale io stesso ero stato cresciuto, e che avevo seguito fino a quel momento, sembrasse più impensabile di lottare contro i mulini a vento.

Non posso dire che sia stato un atto di coraggio. In realtà, una volta smascherate le mie illusioni, la scelta che ho fatto era l’unica possibile: se amo gli animali, devo rispettarli nella loro individualità e nei loro diritti. Non posso mangiarli né contribuire in qualsiasi modo al loro sfruttamento e alle sevizie che subiscono per mano dei miei simili. Non si fa del male a chi si ama. La storia del Santuario Capra Libera Tutti e degli animali che ha

accolto, e continua ogni giorno ad accogliere, in fondo si riassume in questa semplice constatazione, che ovviamente tanto semplice non è. Perché scardinare la propria vita e gettare scompiglio in famiglia e tra gli amici, esplorare le conseguenze di un istinto di cura e condivisione verso gli altri esseri viventi, accettare le difficoltà e i conflitti che si generano di fronte a qualsiasi cambiamento è una bella sfida. Ma posso dire di averla superata soltanto grazie alle persone e agli attivisti conosciuti attraverso i social, che mi hanno accompagnato nel mio percorso di consapevolezza e hanno reso possibile la realizzazione di un progetto che era superiore alle mie sole forze.

Le storie che troverete in queste pagine vogliono dimostrare la complessità e la profondità della vita degli animali quando vengono messi nelle condizioni di esprimere

appieno la loro natura e la loro libertà. Sono una fonte di stupore continuo, ciascuno di loro esprime una personalità e una capacità di costruire relazioni, di comprendere situazioni ed emozioni e di comunicare al di là della specie di appartenenza che sono uniche. Così ogni cane sceglie quale tipo di erbivoro proteggere, così un cavallo e un lama possono stringere un’amicizia inossidabile, così un toro gigantesco può decidere di insegnare a un uomo come avvicinarsi al suo mondo. Perché il contatto con gli animali ci riporta alla nostra condizione originaria, fa riemergere in noi l’identità più profonda di esseri viventi in connessione con una natura che ha ancora molto da insegnarci, se ci fermiamo ad ascoltarla. Lasciare che gli animali siano liberi di esprimere la loro indole è un arricchimento per la nostra vita e per il nostro pianeta.

Sono tanti gli insegnamenti che possiamo ricevere anche soltanto osservandoli, e alcuni di questi ho voluto condividerli nelle prossime pagine.

In questo senso, uno dei momenti che mi ha segnato di più è stato quello della morte di Bruno, il primo bovino che ho accolto al Santuario, forse il primo animale con cui sono stato in grado di stabilire un legame profondo, certo il primo che mi ha dimostrato che era possibile comunicare e comprendersi al di là delle specie di appartenenza. Mi ha insegnato che possiamo riconoscerci come abitatori dello stesso pianeta, partecipi dello stesso miracolo della vita, e fare un pezzo di strada insieme. Il vuoto lasciato dalla sua perdita ha gettato le premesse per trasformare il rifugio che avevo costruito

in un vero e proprio santuario. Il dolore che ho provato mi ha messo di fronte alla scelta più importante della mia vita: mollare e arrendermi alla disperazione oppure trovare nuove energie per evolvere. E sono state le persone che hanno condiviso questo dolore a sostenermi e a donarmi la forza e le risorse per andare avanti. Bruno è stato un grande attivista anche nella morte, perché la sua storia le ha avvicinate al Santuario e ci ha permesso così di avviare tanti nuovi progetti.

L’affetto che Bruno ha suscitato sui social e il circolo di energia positiva innescato dalla commozione per la sua morte prematura mi hanno dimostrato una volta di più che il nostro primo istinto verso ciò che amiamo è di protezione, non di prevaricazione. Quando

impariamo a conoscere un animale ed entriamo in contatto con lui, l’idea di mangiarlo è l’ultima che ci verrebbe in mente. Forse un discorso diverso si dovrebbe fare per i piccoli allevatori, che danno addirittura un nome ai cuccioli che allevano ma li usano poi per sfamare se stessi e la propria famiglia. È un paradosso che mi ha sempre lasciato stupito: ho buoni rapporti con molti di loro, ma non sono ancora riuscito a capire fino in fondo quale sia il meccanismo mentale che li protegge da questa contraddizione. Immagino che gli insegnamenti ricevuti da bambini, la tradizione famigliare e l’esempio delle generazioni precedenti li abbiano convinti che non ci siano alternative, che non è pensabile un rapporto diverso tra l’uomo e l’animale.

In fondo, però, questa è la contraddizione in cui viviamo tutti, finché non decidiamo di guardare in faccia la realtà. È scomodo pensare che il cibo che mangiamo ogni giorno proviene dalla sofferenza e dall’angoscia di altri esseri viventi che non ci hanno fatto nulla di male. Quindi preferiamo non pensarci. E se qualcuno viene a ricordarcelo, possiamo anche reagire con rabbia. Quando ho cominciato a informarmi, a toccare con mano quello che accade ogni giorno nei mattatoi e negli allevamenti ittici, quando ho capito che mangiare gli animali non era compatibile con l’amore per la vita in ogni sua forma, ho iniziato a provare rabbia verso chi ancora non l’aveva compreso, sebbene io stesso avessi vissuto così fino a poco tempo prima. È stato soltanto grazie agli insegnamenti di altri attivisti più consapevoli che mi sono reso conto dell’errore.

Le persone non si convincono con le accuse e gli scontri, ma con la conoscenza e la discussione aperta. Ed è questo il senso ultimo delle storie che vi racconterò in queste pagine: permettervi di vedere ogni animale come un individuo dotato di una propria vita interiore, della capacità di amare e di dare un apporto all’ambiente in cui vive, interagendo con gli esseri viventi che lo circondano.

È il primo passo per riconoscere il rispetto che dobbiamo a ogni forma di vita. Perché, se desideriamo salvare un agnello dall’orrore di un’uccisione violenta a meno di un mese dalla nascita, non accetteremo che sia solo la sua vita a essere risparmiata. Se ci fermiamo a pensare alla gioia di averlo salvato

e di vederlo zampettare allegramente in un prato, se evitiamo di nasconderci dietro l’indifferenza che ci hanno insegnato, non ce la faremo a mangiare suo fratello. E nessun altro agnello. E poi nessun altro animale.

Ognuno degli animali che vi farò conoscere rappresenta tutti gli altri, quelli che non avranno mai un nome ma soltanto numeri associati al peso della carne che forniscono e al valore economico che rappresentano per gli esseri umani. Perché ogni storia testimonia anche l’immenso spreco di tutte quelle che invece sono finite male. Un altro aspetto importante che vorrei chiarire è che gli animali che

vivono qui non sono «addomesticati». Anche quelli che hanno vissuto in casa per un periodo sono sempre stati liberi di muoversi e lo hanno fatto per motivi di cura e di riabilitazione, non certo per uniformarli al nostro modo di vivere. Lo scopo del Santuario è quello di restituire loro un ambiente sicuro dove poter essere totalmente liberi di seguire il proprio istinto e la propria natura. Anche questo è stato un percorso, perché inizialmente avevo molte ansie sul modo migliore di proteggerli, per esempio dal maltempo o dagli altri esemplari. E invece sono stati loro a insegnarmi che non c’era nessun bisogno del mio intervento.

«Gli animali che vivono qui non sono "addomesticati". Lo scopo del Santuario è di restituire loro un ambiente sicuro dove essere liberi di seguire il proprio istinto e la propria natura»

Quando ho costruito stalle e ripari per la pioggia, sono rimasti nel bosco; e quando è arrivato un toro esuberante come Casimiro nessuna delle mie paure si è realizzata: la grande famiglia multispecie del Santuario è stata in grado di accoglierlo e di incanalare le sue emozioni nel giro di pochi minuti. Il momento del suo arrivo ha segnato infatti un’altra lezione importante per me, dimostrandomi quanto fossero state inutili le settimane di ansia ed elucubrazioni nel tentativo di prevedere ogni scenario catastrofico. Gli animali ospitati al Santuario mi hanno insegnato una volta di più quanto sia importante la fiducia. La fiducia nella loro capacità di comprensione e di accoglienza anche delle situazioni complesse o dolorose; la fiducia nel loro istinto di sopravvivenza che spesso è molto più efficace degli

espedienti escogitati dall’uomo. Loro hanno bisogno soltanto di poter vivere in libertà.

E insieme alla restituzione del diritto alla libertà, ciò che posso offrire agli animali del Santuario è un po’ di cibo extra, l’assistenza medica quando stanno male e la mia presenza se vogliono avvicinarsi. È un piccolo risarcimento per quello che hanno subìto dall’uomo, e in cambio non chiedo riconoscenza o affetto. Perché l’amore non si può mai pretendere e perché non sarebbe giusto salvare soltanto quanti ricambiano il sentimento. Il mio amore per gli animali si traduce in un assoluto rispetto, nel garantire loro anche la libertà di non amarmi o di sfuggirmi.

Non ho costruito il Santuario per ottenere l’amore degli animali, ma per dimostrare che è possibile vivere in armonia con loro senza

«L'ingegnosità dei maiali, l'intelligenza emotiva dei bovini, le complesse relazioni sociali delle galline, tutto questo va perduto quando li consideriamo solo cibo per sfamarci»

prevaricazione e senza mettersi su un piano di superiorità. Finora mi hanno insegnato che sanno meglio di me come gestire i momenti più importanti della vita. Alla morte di Bruno, sono stati gli altri animali a circondarci e a consolarci con il loro respiro lento, mentre insieme a noi si radunavano per piangere il compagno perduto. Quando arriva una femmina gravida, anche se cresciuta in cattività e priva delle cure materne, scopro che sa meglio di noi come accudire il proprio cucciolo. E quando vado a cercare la mandria in montagna, magari dopo giorni in cui non la vedo tornare alla mia finestra, spesso sono quegli stessi animali a mostrarmi la via di casa.

Vivere al Santuario è perciò una dimostrazione continua che la nostra presunta superiorità è molto relativa. Nessun animale ha mai esercitato la crudeltà nei confronti di un altro. Nessun predatore infierisce sulla preda, dopo averla uccisa. E il nostro modo di sfruttare la vita degli altri esseri non è l’unico possibile.

C’è una ricchezza di relazioni e di emozioni nella vita degli animali che soltanto in condizioni di libertà può dispiegarsi pienamente. L’ingegnosità dei maiali, l’intelligenza emotiva dei bovini, le complesse relazioni sociali delle galline, la singolarità di ogni intenzione che porta tanti animali ad affacciarsi alla mia finestra, per curiosità, per gioco, per simpatia, per fare uno spuntino, per un moto di affetto, per un semplice saluto: tutto questo va perduto quando li consideriamo solo cibo per sfamarci.

Quella che si svolge al Santuario è semplicemente la vita nella sua interezza, una vita in cui ogni individuo ha lo stesso valore degli altri e non esiste una gerarchia di chi possa essere sacrificato per primo. Per questo, quando ci troviamo di fronte alle famose «cause perse», situazioni gravi di disabilità che troppo facilmente portano all’abbattimento di cuccioli di poche settimane, facciamo di tutto

per ricreare le condizioni di una vita dignitosa. Lo abbiamo fatto con i vitelli Niccolò e Ferruccio, che per motivi diversi presentavano disabilità importanti a pochi giorni dalla nascita e sembravano quindi condannati in partenza all’abbattimento, avventurandoci in lande inesplorate perché nessun veterinario aveva mai approfondito come curare i bovini, tranne che per debellare le malattie trasmissibili all’uomo. Lo abbiamo fatto per sovvertire il sistema in cui il valore di una vita si calcola secondo i criteri dell’economia e dello sfruttamento. E in entrambi i casi siamo riusciti a dimostrare che un altro modo di curare è possibile, quando si uniscono la buona volontà e la determinazione di tante persone. Questi concetti, il rispetto della vita in ogni sua forma, l’indegnità delle condizioni in cui vengono allevati gli animali cosiddetti «da reddito», la contraddizione in cui vivono tanti allevatori, e in fondo tutti noi

finché continuiamo a mangiare gli animali, sono molto importanti per noi e capiterà che li ripeta all’interno delle storie di questo libro. Un po’ perché vorrei che ogni racconto fosse completo nei significati che racchiude e nelle riflessioni che suscita; un po’ perché anche chi legge qualche storia qua e là possa farsi un’idea generale della filosofia che guida il nostro Santuario; infine un po’ perché repetita iuvant, dicevano i latini, e chissà che a furia di ripeterli, questi pensieri non riescano a diffondersi più in fretta!

Ognuna delle storie qui raccolte mi ha insegnato qualcosa, ciascuno di questi animali ha arricchito e arricchisce ogni giorno la mia vita.

E quando mi sembra che il nostro lavoro si disperda in un mare troppo grande, ciascuno di loro mi ricorda che ogni individuo vale quanto tutto il mondo.

Spero che possano fare lo stesso per voi.

Il romanzo di Yogananda, mistico, poeta, maestro dei nuovi tempi

L'AUTOBIOGRAFIA DI UNO YOGI È UNO DEI TESTI SPIRITUALI PIÙ AFFASCINANTI E AMATI DI SEMPRE, ISPIRATO E AVVENTUROSO, TRADOTTO IN PIÙ DI 50 LINGUE

(ringraziamo per le foto la Self-Realization Fellowship, Los Angeles, California)

«Dio è amore; il suo progetto creativo può essere fondato solo sull'amore. Questo semplice pensiero non offre forse al cuore umano una consolazione maggiore di ogni ragionamento erudito? Tutti i santi che sono penetrati nel cuore della Realtà, hanno dato testimonianza dell'esistenza di un divino disegno universale che è meraviglioso e pieno di gioia». Partiamo da qui, dalla fine, che in realtà è un inizio. L'ultimo capitolo dell'Autobiografia di uno Yogi (libro edito in Italia da Astrolabio su licenza della Self-Rea-

lization Fellowship), quello in cui Paramahansa Yogananda spiega che «la sacra missione del Kriya Yoga in Oriente e in Occidente è soltanto ai suoi inizi. Possano tutti gli esserei umani giungere a sapere che esiste una precisa tecnica scientifica per la realizzazione del Sé, grazie alla quale si può sconfiggere ogni infelicità umana!».

In queste pagine cita il Vangelo di Giovanni e il profeta Isaia, evoca Frate Lorenzo, mistico cristiano, che come sottolinea Yogananda «racconta di aver percepito il primo barlume di realizzazione divina mentre guardava un albero», e ricorda le parole della Bhagavad Gita, per evocare il senso più alto, e insieme concreto, della sua missione: «Sapendo che la conoscenza di tipo puramente filosofico ed etico non basta a risvegliare l'uomo dal suo doloroso sogno di vivere un'esistenza separata da Dio, il Signore Krishna indicò la sacra scienza che permette allo yogi di dominare il corpo e scegliere a suo piacimento di trasformarlo in pura energia»

Partiamo da qui, perché quel “disegno pieno di gioia” può suonare quasi paradossale, nel tempo difficile in cui viviamo. Ma lo era anche di più nel 1945, quando Yogananda finì di scrivere questo libro, destinato a diventare un classico della letteratura spirituale, amato e letto in tutto il mondo da milioni di persone, tradotto in più di cinquanta lingue diverse, foriero di intuizioni, illuminazioni, conversioni. Il fatto è che le verità dello spirito vanno oltre l'apparenza della realtà esteriore. Ciò che a uno sguardo superficiale può sembrare ovvio – il caos del mondo, il dolore, la fatica di vivere - si rivela un'illusione, un insieme di circostanze impermanenti, una volta che viene guardato con occhi nuovi, quelli del Sé (che è cosa ben diversa dall'io-ego, prodotto dai condizionamenti, i desideri, le impressioni dei sensi).

Paramahansa Yogananda, fotografato il 20 agosto del 1950, giorno della consacrazione del SelfRealization Fellowship Lake Shrine (@Self-Realization Fellowship)

Daya Mata, una delle prime e più strette discepole americane di Yogananda, diventata poi presidente della Self-Realization Fellowship - che prosegue la sua missione nel mondo - ricorda che il maestro, nell'eremitaggio di Encinitas, sulla costa meridionale della California, dedicava tutto il suo tempo al libro, «e tutto il

tempo significava dall'alba di ogni giorno fino all'alba del giorno dopo!». Daya Mata e molti altri discepoli stretti si alternavano per trascrivere i suoi pensieri e i suoi ricordi. «Mentre scriveva, Paramahansaji riviveva interiormente le sacre esperienze che narrava. Il divino intento che si prefiggeva era condividere la gioia e le rivelazioni ricevute in presenza dei santi e dei grandi maestri, e la sua personale realizzazione del Divino.

Spesso si interrompeva per qualche tempo, con lo sguardo rivolto verso l'alto e il corpo immobile, assorto nel samadhi, lo stato di profonda comunione con Dio. L'intera stanza era pervasa da un'atmosfera straordinariamente potente d'amore divino. Per noi discepole, il solo essere presenti in tali occasioni significava sentirsi elevate a uno stato di coscienza superiore». Lui lo sapeva e lo disse, il giorno in cui sentì di aver concluso l'opera: «Questo libro cambierà la vita di milioni di persone»

La Self-Realization Fellowship porta avanti la missione universale di Paramahansa Yogananda, fondata sulla meditazione, la devozione, la pace fra i popoli

Ci sono libri che hanno un valore incommensurabile, che va molto al di là del significato delle parole, dei temi affrontati, delle storie raccontate. Sono libri che hanno un'aura speciale, un'energia potente, percepita chiaramente da chi li legge con animo aperto. Li riconosci perché danno l'impressione di essere ispirati da qualcosa che supera la nostra comprensione più superficiale.

L'Autobiografia di uno Yogi è uno di quei libri. Sembra provenire da un tempo e uno spazio mitici, quello dei “testi sacri”, ma racconta una storia che comincia in un tempo e in luogo ben precisi: il 5 gennaio del 1893, nella città di Gorakhpur, nell'India nord-orientale, dove nacque Mukunda Lal Ghosh, i cui genitori erano bengali della casta Kshatriya, molto devoti. Un bambino che aveva desideri e aspirazioni diverse dagli altri bambini. E che all'età di otto anni, dopo una guarigione miracolosa, ebbe una «profonda visione spirituale», un lampo luminoso in cui apparvero «divine figure di santi», gli yogi dell'Himalaya, e poi la Luce in persona, che disse: «Io sono Ishwara» (nome che in sanscrito indica Dio nel suo aspetto di sovrano nel cosmo), con una voce «simile a un mormorio di nubi». Mukunda disse: «“Voglio essere una cosa sola con Te!”. La mia estasi divina si dissolse lentamente, ma io ne ritenni un dono perenne: l'ispirazione di cercare Dio. “Egli è Gioia eterna e sempre nuova!” Questo ricordo rimase vivo nella mia memoria a lungo dopo il giorno di quella estatica visione»

L'Autobiografia, per certi versi, appare come una raccol-

ta di visioni e rivelazioni, di piccoli e grandi miracoli, di guru con poteri misteriosi, che sembrano violare le leggi della fisica, di eventi che danno l'impressione di procedere verso un destino ineluttabile, luminoso. D'altra parte gli esseri umani, per lo più, hanno bisogno di prove del genere per credere nel sacro e nel Divino. Yogananda ne era perfettamente consapevole, come dimostra la citazione del Vangelo di Giovanni messa in esergo: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete»

Ma la sostanza del racconto, il nucleo di questa testimonianza preziosa, è lo svelamento di ciò che è davvero lo yoga, al di là delle semplificazioni, le banalizzazioni, le definizioni astratte a cui siamo abituati. Una scienza-disciplina incarnata nella vita di Yogananda e dei santi e maestri incontrati lungo la via, percorrendo i vari sentieri possibili, basati su diverse qualità divine, «l'amore, la saggezza, il discernimento, la devozione, il servizio».

Lo yoga può essere praticato da chiunque, a prescindere dalla fede, dall'età, la provenienza, la classe sociale, il ruolo svolto nella società (con la raccomandazione di partire dalla base, l'etica, yama e niyama). Dice Yogananda: «Un vero yogi può rimanere nel mondo e adempiervi i propri doveri... L'ottemperanza ai doveri terreni non comporta necessariamente la separazione da Dio, purché si resti mentalmente distaccati dai desideri egoistici e si svolga nella vita il ruolo di volenterosi strumenti del Divino».

Sta qui l'essenza del messaggio della Bhagavad Gita. Ma anche dei Vangeli, quando Gesù dice: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Il messaggio di Yogananda unisce pensiero orientale e occidentale, l'insegnamento di Krishna e quello del Cristo, che infatti compaiono ancora oggi al centro dell'altare Self-Realization Fellowship. «I grandi maestri dell'India modellano la propria vita secondo gli stessi ideali divini che hanno ispirato Gesù». Non si tratta di un banale sincretismo, ma della necessità di andare oltre la superficie teologica delle diverse dottrine, oltre i dogmi, i riti, le tradizioni prodotte dagli urti della storia. Si tratta di cercare un'autentica “esperienza di Dio”, attraverso la meditazione, le tecniche del Kriya Yoga, unite a uno spirito di devozione autentica.

Se c'è una caratteristica della missione di Yogananda e della Self-Realization Fellowship che è particolarmente urgente in questi tempi bellicosi, è la necessità di andare oltre «ogni pregiudizio di casta, fede, classe, colore, sesso e razza», seguendo i precetti della «fratellanza umana».

Le monache della Self-Realization Fellowship guidano un kirtan (canti devozionali).

Ogni anno migliaia di persone di riuniscono per un'immersione di una settimana nella meditazione yoga (@Self-Realization Fellowship)

Lo scopo dello yoga è «l'unione assoluta con lo Spirito. Compenetrando la propria coscienza, sia nel sonno che nella veglia, del pensiero: “Io sono Lui”». C'è chi dice che il sentiero dello yoga sia adatto solo agli orientali, ma Yogananda sottolinea che si tratta di un'opinione infondata, come d'altra parte dimostra l'esperienza di migliaia e migliaia di persone che anche in Occidente hanno percorso il sentiero del Kriya Yoga. Yogananda scrive: «Lo yoga è un metodo volto a calmare la turbolenza naturale dei pensieri che impedisce indifferentemente a qualsiasi individuo, di qualsiasi paese, di percepire la propria vera natura di spirito. Come la luce risanatrice del sole, lo yoga è ugualmente benefico per gli orientali e per gli occidentali. I pensieri della grande maggioranza delle persone sono irrequieti e mutevoli; esiste dunque un palese bisogno di yoga: la scienza del controllo della mente».

Non pensate a un libro noioso, dottrinario, un insieme di storie edificanti e riflessioni filosofiche e religiose. L'Autobiografia di uno Yogi, in realtà, è scritto con grande (profonda) semplicità e vivacità, ed è anche pieno di ironia, un tratto del carattere di Yogananda che i discepoli hanno sempre sottolineato, la sua attitudine al gioco, la risata, l'allegria, come è giusto che sia per chi vive nella gioia della comunione divina.

È un libro pieno di incontri affascinanti e aneddoti curiosi, un caleidoscopio di personaggi diversi, a volte anche bizzarri, e di esperienze avventurose. Non c'è la seriosità dell'asceta che rifiuta il mondo, sdegnosamente, ma un amore totale per la vita, la natura, l'umanità. Il “distacco” dell'uomo illuminato non porta all'insensibilità, ma alla capacità di gustare la vita in tutte le sue sfumature, ben sapendo che si tratta solo della superficie delle cose, che la vera gioia, la pace, la verità, l'amore infinito, si trovano solo quando realizziamo il nostro Sé, la nostra natura spirituale, in comunione con gli altri e con Dio, quando riusciamo finalmente a vedere l'Uno al di là dei molti. La metafora utilizzata spesso è quella delle onde e del mare: ci siamo noi, diversi uno dall'altro, ognuno alle prese con quell'ammasso di cose-impressioni-eredità genetiche-karma che chiamiamo “io”, e poi c'è l'oceano profondissimo e imperturbabile, di cui facciamo parte.

Il dramma della morte della madre – che Mukunda, undicenne, “vede” prima che accada – è la premessa dolorosa a una ricerca ostinata, fatta di amuleti misteriosi, di fughe comiche verso l'Himalaya, di incontri con vari guru e swami. Il grande maestro Lahiri Mahasaya l'aveva detto a sua madre, benedicendo Mukunda appena nato: «Tuo figlio sarà uno yogi. Come una possente dinamo spirituale, condurrà molte anime al regno di Dio». Lahiri Mahasaya aveva predetto che cinquant'anni dopo la sua morte qualcuno avrebbe scritto la sua storia, infatti l'Autobiografia fu terminata esattamente mezzo secolo dopo, e molte delle sue pagine raccontano la vita e le opere di questo grande guru.

Un maestro che ha avuto un ruolo fondamentale nella rinascita dello yoga nei tempi moderni e nella diffusione del Kriya, tecnica che ha ricevuto dal Mahavatar Babaji e che poi ha trasmesso al suo discepolo Sri Yukteswar, il guru di Paramahansa Yogananda. Lahiri Mahasaya è la dimostrazione vivente che è possibile diventare un grande yogi, e raggiungere le più alte realizzazioni spirituali, pur avendo una famiglia e un lavoro (in ufficio) con le relative responsabilità. Scrive Yogananda: «La sua unicità come profeta consiste nell'aver posto l'accento su un metodo ben definito, il Kriya, e nell'aver schiuso per primo le porte liberatrici dello yoga a tutti gli uomini»

Il giovane Mukunda era straziato dal desiderio di vedere la Madre Divina (che poi gli apparirà, «circondata da un fulgido alone di luce»). Essere ebbro di Dio, ecco cosa desiderava quel ragazzo più di ogni altra cosa. Yogananda scrive nella sua Autobiografia: «Santi di tutte le religioni hanno raggiunto l'illuminazione divina concependo Dio semplicemente come l'Amato cosmico. Poiché l'Assoluto è nirguna, “privo di qualità”, e acintya, “inconcepibile”, il pensiero e il desiderio umano lo hanno personificato nella Madre universale. La combinazione del teismo personale con la filosofia

Paramahansa Yogananda a Boston, nell'ottobre del 1920, con alcuni delegati dell'International Congress of Religious Liberals, l'evento in cui fece il suo primo discorso in America sulla "Scienza della Religione" (@Self-Realization Fellowship)

dell'Assoluto è un'antica conquista del pensiero indiano, descritta nei Veda e nella Bhagavad Gita. Questa “conciliazione degli opposti” soddisfa il cuore e la mente. Bhakti (devozione) e jnana (saggezza) sono essenzialmente una cosa sola (…) L'umiltà del maestro Mahasaya e di tutti gli altri santi nasce dalla consapevolezza della propria totale dipendenza (seshatva) dal Signore, unica Vita e unico Giudice. Poiché la natura stessa di Dio è beatitudine, l'uomo che è in sintonia con Lui prova una gioia pura e senza limiti».

Il racconto dell'incontro con il suo guru, Sri Yukteswar, è commovente. La sua disciplina ferrea fu indispensabile per la crescita umana e spirituale di Mukunda. Il guru lo obbligò anche a portare a termine il suo percorso scolastico e laurearsi, per prepararsi in modo adeguato a quello che sapeva essere il suo destino: l'approdo in America.

Da Sri Yukteswar, Yogananda ricevette l'iniziazione al Kriya Yoga. Grazie a lui visse una fondamentale esperienza di “coscienza cosmica”.

Yogananda scrive: «Il mio corpo divenne immobile, radicato al suolo; come se un gigantesco magnete mi avesse risucchiato l'aria dai polmoni, non respiravo più. L'anima e la mente sciolsero all'istante i loro legami con il corpo e si riversarono all'esterno da ogni suo poro, come sottili e fluidi raggi di luce. Il corpo era come morto, eppure avevo la profonda consapevolezza di non essere mai stato completamente vivo prima di allora (…) Il mio abituale campo visivo frontale si era mutato in una vasta visuale sferica, che mi permetteva di percepire simultaneamente ogni cosa (…) Sulle placide, infinite sponde della mia anima irruppe un oceano di gioia. Compresi che lo spirito di Dio è beatitudine inesauribile, che il suo corpo è intessuto di un'infinità di raggi di luce. Dentro di me un meraviglioso, crescente splendore cominciò ad avviluppare le città, i continenti, la terra, il sistema solare e i sistemi stellari, le evanescenti nebulose e i fluttuanti universi. Il cosmo intero, soffuso di una dolce luminosità, come una città vista in lontananza di notte, riluceva nell'infinità del mio essere (…) Udii la voce creativa di Dio risuonare nell'Aum, la vibrazione del motore cosmico». Yogananda aveva un talento poetico formidabile. Lo dimostrano questi passi in cui cerca di tradurre in parole ciò che è letteralmente indicibile, lo testimoniano i suoi scritti, le sue conferenze e il suo libro Canti Cosmici.

Una statua di Bhagavan Krishna al SelfRealization Fellowship Lake Shrine di Los Angeles. Gli insegnamenti spirituali di Yogananda sottolineano la profonda unità tra lo yoga originale di Krishna e gli insegnamenti originali di Gesù Cristo (@Self-Realization Fellowship)

Ma scoprì di avere anche un grande talento pratico, nella consapevolezza (come diceva il suo guru) che non doveva “inebriarsi troppo d'estasi” ma compiere anche il suo dovere nel mondo.

Sri Yukteswar concesse a Mukunda di scegliersi il nuovo nome, quando lo consacrò swami, e così diventò Yogananda, che significa «beatitudine (ananda) attraverso l'unione divina (yoga)». Successivamente riceverà anche il titolo monastico e onorifico più alto della tradizione indù: Paramahansa, “Cigno Supremo”.

Nell'Autobiografia si spiegano anche i principi su cui si basa il Kriya, si racconta Babaji, “uno yogi dell'India moderna simile al Cristo”, e si dicono parole chiare sull'unica vera possibilità di pace per il mondo, fondata sulla conversione delle coscienze, la pratica spirituale, la collaborazione tra fedi diverse: «Una Lega delle Nazioni davvero risolutiva sarà una lega di cuori umani, anonima e spontanea. La solidarietà globale, il discernimento e la perspicacia che sono necessari per sanare i mali della terra non possono scaturire da una semplice riflessione intellettuale sulle differenze fra gli uomini, ma dalla conoscenza di ciò che più di ogni altra cosa unisce gli esseri umani, la comune condizione di figli di Dio. Per realizzare l'ideale più alto dell'umanità, la pace fondata sulla fratellanza, possa lo yoga, la scienza della comunione personale con il Divino, diffondersi nel tempo fra tutti gli uomini di ogni paese».

Tre anni dopo aver dato inizio alla sua opera, in India, fondando una scuola per ragazzi dedicata all'arte di vivere, Yogananda nel 1920 partì in nave per raggiungere Boston, e partecipare come delegato indiano all'International Congress of Religious Liberals. L'apparizione di Babaji, prima della partenza («Tu sei colui che ho scelto per diffondere il messaggio del Kriya Yoga in Occidente»), fu il sigillo posto all'inizio di questa avventura incredibile, che grazie a incontri ed eventi fatali, portò alla creazione della Self-Realization Fellowship, subito dopo il suo arrivo in America, a un ciclo di conferenze seguito da migliaia di persone e all'istituzione a Los Angeles, nel 1925, sulla collina di Mount Washington, della sede internazionale della Self-Realization Fellowship, che ancora oggi è il cuore spirituale e amministrativo dell'organizzazione (l'opera di Yogananda in India invece è conosciuta come Yogoda Satsanga Society of India).

Sono molto belle anche le pagine del ritorno in India, dopo quindici anni trascorsi a sviluppare il lavoro della Self-Realization Fellowship, e il racconto di alcuni incontri straordinari, con Therese Neumann, “la mistica cattolica con le stigmate”, con Ananda Moyi Ma, la “madre permeata di gioia del Bengala”, e con “la yogini che non mangia mai”. Tutti caratterizzati da un'immediata simpatia umana e da un'aura mistica che passava dal riconoscimento reciproco, dal vedere uno nell'altra la stessa esperienza di Dio, declinata secondo i modi della propria cultura e vocazione.

Spicca in particolare l'incontro con il Mahatma Gandhi, verso il quale Yogananda nutriva una speciale venerazione, e che a sua volta gli chiese di essere iniziato al Kriya. Gandhi parlava della Bibbia, del Corano e degli Zend-Avesta, testi “divinamente ispirati”, con lo stesso rispetto con cui parlava dei Veda: «L'induismo insegna ad ogni essere umano ad adorare Dio secondo la propria fede o dharma, e perciò vive in pace con tutte le religioni». Nella sua autobiografia Yogananda ricorda quei giorni idilliaci a Wardha trascorsi insieme a Gandhi, e la sua convinzione che «per raggiungere uno stato mentale di non-violenza occorre uno duro tirocinio: una vita disciplinata, come quella di un soldato. (…) Dovunque vi sia ostilità, dovunque incontriamo l'opposizione di un avversario, dobbiamo conquistarlo con la forza dell'amore. Nella mia vita ho potuto constatare che la sicura legge dell'amore funziona sempre molto meglio della legge della distruzione».

Sri Yukteswar, che aveva richiamato Yogananda in India, morì proprio in quel periodo, e si presentò poi al discepolo (provato dal dolore) «in carne e ossa», “risorto”, per rivelargli la realtà dei mondi astrali, come viene raccontata in uno dei capitoli più celebri e misteriosi dell'Autobiografia. La realtà dell'uomo comune è quella di una serie ininterrotta di incarnazioni in corpi, storie, personalità diverse, seguendo le traiettorie determinate dal karma accumulato in ogni vita, passando attraverso varie sfere astrali.

Ma il cammino di perfezionamento non finisce mai, a meno di conseguire lo stato di nirbikalpa samadhi e andare oltre il “corpo causale” (che sta alla radice di quello astrale e di quello fisico). Alla fine Yogananda scrive che «entrando in stati estatici via via più profondi, l'anima, sempre più libera, si ritrae dal piccolo corpo causale per rivestirsi dell'immensità dell'universo causale. I singoli vortici di idee – queste onde individualizzate di potere, amore, volontà, gioia, pace, intuizione, calma, autocontrollo e concentrazione – si fondono tutte nel mare sempre gioioso della beatitudine»

L'Autobiografia di uno Yogi è stata pubblicata per la prima volta nel 1946. Nel 1952 Yogananda è entrato nel mahasamadhi, l'uscita finale cosciente dal corpo di uno yogi che ha realizzato Dio. Da allora il suo insegnamento ha continuato a generare frutti, grazie ai discepoli monastici e ai praticanti diffusi in tutto il mondo. La sua missione è portata avanti dalla Self-Realization Fellowship, i cui scopi e ideali includono: «Diffondere in tutti i Paesi la conoscenza di precise tecniche scientifiche per ottenere un’esperienza di Dio personale e diretta. Insegnare che lo scopo del-

Il Golden Lothus Archway, un tempio senza mura al Self-Realization Fellowship Lake Shrine, che racchiude il Mahatma Gandhi World Peace Memorial (@Self-Realization Fellowship)

la vita è l’evoluzione della limitata coscienza mortale dell’uomo verso la consapevolezza di Dio, ottenuta grazie al proprio sforzo (...). Mostrare la perfetta armonia e l’unità fondamentale del cristianesimo originale insegnato da Gesù Cristo e dello yoga originale insegnato da Bhagavan Krishna e dimostrare che questi principi di verità sono la base scientifica comune a tutte le religioni. (…) Servire l’umanità come il proprio più grande Sé». Per rendersi conto di quanto sia ancora viva (anzi, sempre più viva e feconda) questa missione, basterebbe ascoltare qualcuno degli innumerevoli “discorsi ispiranti” offerti dai monaci e le monache dell'Self-Realization Fellowship, che trovate sui social dell'organizzazione o sul sito ufficiale (www.yogananda.org) e che comunicano una serenità e una gioia contagiosi, con semplicità, ironia, sapienza, affrontando anche le questioni più spinose della vita dell'uomo contemporaneo, offrendo consigli pratici e meditazioni guidate. Basterebbe entrare in uno dei tanti centri sparsi in giro per l'Italia (l'elenco lo trovate sul sito internet www. yogananda-srf-italia.com), ognuno con il suo gruppo dedicato alla meditazione collettiva e alla condivisione di letture e canti, dove si vive un'atmosfera di quiete, devozione e fratellanza sincera.

Sono tanti i libri pubblicati dalla Self-Realization Fellowship. Ci sono le raccolte di discorsi di Yogananda, ma anche i suoi commenti alla Bhagavad Gita (God Talks with Arjuna) e ai Vangelo (The Second Coming of Christ: the Resurrection of the Christ Within You), entrambi in due volumi, forse i suoi testi più rivoluzionari. E ci sono anche i libri scritti dai discepoli, a partire dall'ispiratissimo Soltanto Amore di Sri Daya Mata (Astrolabio), che è stata accanto a Yogananda per vent'anni e che ricordava così il primo incontro con lui, durante una serie di lezioni che stava dando a Salt Lake City, nello Utah: «Potevo solo pensare: "Quest'uomo ama Dio come io ho sempre desiderato amarlo. Lui conosce Dio. Io lo seguirò». Alla fine di quell'incontro, Yogananda la guarì da una malattia del sangue che i medici non erano riusciti a curare.

Lei è stata fedele custode del nucleo più profondo dell'insegnamento di Yogananda, che poco prima di morire le disse: «Ricordati: quando avrò lasciato questo mondo, soltanto l'amore potrà prendere il mio posto. Sii così ebbra dell'amore di Dio, giorno e notte, da non pensare a nient'altro che a Dio; e dà questo amore per tutti».

Così ha fatto ogni giorno della sua vita, come sa bene chi l'ha conosciuta, ricavandone l'impressione di aver incontrato una persona di grande devozione e umiltà, una mistica in odore di santità. Il nucleo dell'insegnamento di Yogananda sta racchiuso nelle “Lezioni della Self-Realization Fellowship”. C'è stato un tempo in cui certi insegnamenti venivano trasmessi oralmente, direttamente da guru a discepolo. Yogananda, con le Lezioni, ha inaugurato una nuova era, quella della scienza del Kriya Yoga offerta a tutti, nella convinzione che certe conoscenze arrivino al momento giusto nel cammino spirituale di ognuno. Chiunque può farne richiesta (nel sito della Self-Realization Fellowship, yogananda.org). Le Lezioni – inviate ogni due settimane per 9 mesi, accessibili anche in formato digitale - sono un programma di studio individuale, che fin dall'inizio insegna come ottenere benefici immediati dalla meditazione. In quelle pagine potete trovare le parole di Yogananda, consigli su come coltivare la propria vita interiore, anche su come vivere il rapporto con gli altri, il lavoro, il mondo in generale. Si spiega come funziona lo yoga, non quell'esercizio ginnico, fatto quasi solo di asana, che viene praticato spesso in Occidente, ma il Raja Yoga, la scienza completa della realizzazione di Dio. Ci sono le istruzioni su come praticare gli “Esercizi di ricarica”, un potente strumento per il controllo dell'energia vitale, la tecnica di concentrazione “Hong-So”, basata sul respiro e la ripetizione mentale di un mantra, e la tecnica di meditazione OM Terminate le lezioni, chi sente di aver fatto dei progressi importanti e intende procedere nel cammino, può richiedere l'iniziazione al Kriya Yoga, che implica un

Un meditante al Self-Realization Fellowship Meditation Gardens a Encinitas, California, parte dell'eremitaggio e dell'ashram sulla scogliera, in cui Yogananda scrisse gran parte della sua autobiografia (@Self-Realization Fellowship)

impegno ancora più profondo in questo percorso. Qui si entra in una dimensione speciale, che è antica e moderna insieme, eterna come la verità a cui aspira, in una relazione diretta con la linea dei Guru, frutto di una promessa e di un impegno che investe tutta l'esistenza. Viviamo in tempi complicati, in cui è difficile distinguere il vero dal falso, in cui convivono innumerevoli forme religiose e organizzazioni spirituali. Un'era che esalta la libertà della coscienza, ma finisce per confonderla con un pericoloso egoismo individualista. La via tracciata da Yogananda affonda le sue radici in una delle tradizioni più antiche della storia dell'uomo, ricongiungendola al messaggio cristiano, e offre la possibilità di conoscere e sperimentare in prima persona un percorso che porta al Divino, fuori da ogni dogma. Ecco qual è la funzione della Self-Realization Fellowship: essere «un alveare per il miele spirituale». Come scrive Yogananda nell'Autobiografia: «Sarebbe senz'altro un immenso vantaggio per ogni discepolo poter avere al proprio fianco un guru dalla perfetta saggezza divina; ma il mondo è abitato da molti peccatori e da pochi santi (…) L'unica alternativa sarebbe quella di ignorare l'uomo comune privandolo della conoscenza dello yoga. Ma questo non è il disegno di Dio per la nuova era. Babaji ha promesso di proteggere e guidare tutti i sinceri Kriya Yogi sul loro sentiero verso la Meta. C'è bisogno di centinaia di migliaia, e non solo dozzine, di Kriya Yogi per realizzare quel mondo di pace e di abbondanza che attende gli uomini, una volta che si siano impegnati nel giusto modo per ristabilire la loro condizione di figli del Padre Celeste».

La vita è semplice, anche quando sembra complicata. Volendo ridurla alla sua essenza, assomiglia a un vecchio pescatore che esce da solo in mare (alto mare) e si ritrova a lottare con un pesce enorme, il più grande che abbia mai visto. Nel pesce, un gigantesco marlin lungo cinque metri, potete vedere ciò che volete: il destino, il mistero dell'esistenza, la morte sempre incombente, la spaventosa bellezza della vita, l'altro da sé, il vero Sé, la personificazione della natura di cui facciamo parte e con cui vorremmo vivere in armonia... Oppure potete vedere "solo" un vecchio (Santiago), un pesce e il mare, oltre al ragazzo (Manolin) che lo aspetta a riva, e che vorrebbe accanto a sé nel momento più critico della sua sfida solitaria all'orgoglioso marlin. È proprio ciò che hanno fatto Andrea Laprovitera e Ludovico Lo Cascio nella loro versione a fumetti. Hanno rispettato lo stile asciutto, l'essenzialità narrativa, la concretezza vivida, in cui si incarna una potente simbologia.

Da una parte c'è il lavoro per sottrazione dello sceneggiatore, che ha l'umiltà di non aggiungere, rielaborare, trasfigurare, sapendo che la grande letteratura non ha bisogno di essere spiegata.

Dall'altra c'è un illustratore che utilizza un tratto semplice, ruvido, essenziale, senza avere paura del vuoto (il mare, il cielo, gli spazi infiniti), ma anche di tratteggiare i corpi e i volti in modo espressivo, allungare le linee buie della notte e del mare profondo, o quelle oblique delle cose in (selvaggio) movimento.

Un lavoro del 2016 riproposto oggi da NPE, “la casa editrice del fumetto d'autore”, in una bella edizione, che ti accoglie con una copertina tutta blu, una luna enorme, luminosa, e l'ombra di un vecchio pescatore sulla sua barca. Dentro, però, trovi una storia rigorosamente in bianco e nero, come è giusto che sia, dovendo tradurre in immagini un'opera di pura letteratura come questa, priva di fronzoli letterari. È semplice, ma non banale, anche la struttura e la disposizione delle vignette, il movimento delle inquadrature, che, a dispetto della dimensione orizzontale del mare, si dispiega volentieri in tavole verticali, quasi visionarie, pagine che a volte si animano in un montaggio improvvisamente frenetico, per poi aprirsi su grandi tavole mute, contemplative. Scriveva Hemingway: «La vita ci spezza tutti, solo alcuni diventano più forti nei punti in cui sono stati spezzati». In quei punti nascono immagini, storie, romanzi.

«Resilienza: capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento. In psicologia si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di restare sensibile a quello che il mondo o la vita può (ancora) offrire.

Chissà se Hemingway voleva parlare di questo (o anche di questo) quando nel 1952 ha scritto Il vecchio e il mare (…)

Il vecchio pescatore lotta contro la sfortuna, il grande pesce spada (che assume anche altre valenze e trasfigura l’animale in qualcosa di più), l’età e forse contro il nemico più forte… la solitudine. C’è tutto questo in un libro così breve che si legge in un tempo esiguo. Il punto poi, come è successo a me, è che si torna a leggerlo più volte, anche in periodi e momenti diversi della propria vita, come se dentro ci fosse qualcosa di magico (…)

Come scriveva Hemingway “La vita (o “il mondo”, secondo altre versioni) ci spezza tutti, solo alcuni diventano più forti nei punti in cui sono stati spezzati”» (Andrea Laprovitera)

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