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Veronica Raimo: una scrittrice fuori da ogni canone

La scrittrice Veronica Raimo con l’amata giacchetta del nonno. Tutte le altre foto che accompagnano il servizio hanno un elemento in comune: sono state scattate a Berlino (dove ha vissuto per anni) durante le sue permanenze in case d’altri C’è chi scrive nel nome di un ideale, una nobile aspirazione, una precisa idea di scrittura e di letteratura. Chi non vuole tradire la vocazione, il talento, oppure coltiva una comprensibile ambizione. Chi pensa di avere una missione per conto di Dio, del dáimōn, della “comunità” e affronta il foglio bianco come fosse una sfida cruciale, una questione di vita o di morte. Poi c’è Veronica Raimo. A noi piace questo “poi”, che assomiglia a un territorio sterminato, in gran parte ancora da esplorare, ma anche a una piccola stanza buia e misteriosa, in cui la scrittura è un muoversi a tentoni, lasciando una traccia che a volte è profonda e dolorosa come una ferita. Veronica Raimo ha scritto quattro romanzi per quattro editori diversi. Il dolore secondo Matteo (minimum fax), nel 2007, ha rivelato il suo talento, la forza della sua scrittura. La conferma è arrivata con Tutte le feste di domani (Rizzoli, 2013) e Miden (Mondadori, 2018). Ma Niente di vero (Einaudi, 2022) le ha portato in dote un successo improvviso e clamoroso, che l’ha presa quasi alla sprovvista: recensioni entusiastiche, testimonial eccellenti, l’approdo tra i finalisti dello Strega (e Premio Giovani), la vittoria del Premio Viareggio. Veronica Raimo - che è nata a Roma nel 1978 e ha vissuto per alcuni anni a Berlino - ha scritto anche per il teatro e per il cinema - vedi la sceneggiatura della Bella addormentata di Bellocchio (a sei mani, con il regista e Stefano Rulli) - ha tradotto libri di Francis Scott Fitgerald e Ray Bradbury, ha firmato articoli notevoli per vari giornali e riviste (dal manifesto a Rolling Stone), ha ideato con Marco Rossori un libro atipico e irriverente, in versi e immagini, Le bambinacce (per Feltrinelli, quinto editore). Un vasto universo creativo. Ma il suo approccio alla vita e alla scrittura non è mai cambiato: sobrio, minimalista, disincantato, genuino, acuminato. L’abbiamo tormentata per giorni, con le nostre domande e riflessioni, e lei si è gentilmente sottoposta a questa intervista anomala, diventata una specie di epistolario.

VERONICA RAIMO

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Un libro che abbiamo amato Una scrittrice fuori da ogni canone Un’intervista a distanza in forma di epistolario

di Fabrizio Tassi

Ti alzi la mattina e cosa fai? Cosa pensi? Sempre che tu abbia dei gesti e dei pensieri ricorrenti. Un certo modo di affrontare la giornata. Un programma.

«Appena mi alzo la mattina, bevo il caffè (se dormo con qualcuno, spero sempre che mi venga portato a letto) e subito dopo esco di casa. Non sopporto i tempi lunghi dopo il risveglio: farsi la doccia o la lentezza di una colazione preparata con cura. Devo uscire, il più presto possibile. Quindi esco e vado al bar, e lì il tempo si può invece dilatare. Prendo un altro caffè e qualcosa di rigorosamente salato e leggo i giornali che ci sono a disposizione. Faccio la rassegna stampa, mi incazzo quasi sempre per qualche articolo, mi viene in mente di scrivere un pezzo ispirato dall’incazzatura, ma in generale vince la pigrizia e non lo faccio. Poi vado al mercato, faccio la spesa per il pranzo, mando un messaggio a un’amica o un amico per prendermi il terzo caffè e ritardare il cominciamento di qualsiasi attività lavorativa abbia in programma per la giornata. È una routine piuttosto solida».

Quindi scrivi il pomeriggio, quando scrivi. O spesso vince la pigrizia? Al lettore piace credere che chi scrive sia posseduto dall’arte, arso dal fuoco dell’ispirazione. Forse dipende anche dallo scopo della scrittura: commissione, articolo per scopi alimentari, romanzo, cose tue che rimarranno tue.

«Sì, dipende molto dallo scopo della scrittura, anche se la parola “scopo” mi fa un po’ orrore. Non ho mai avuto una costanza rispetto alla scrittura di un romanzo, ci sono scrittori e scrittrici che si impongono un metodo, che scrivono un tot di ore al giorno, che ne fanno una questione di disciplina, che si forzano. Io non ci sono mai riuscita. Non so dire se vinca la pigrizia, comunque di sicuro non scrivo quando non ho voglia di scrivere. L’ispirazione può sembrare qualcosa di pretenzioso o poetico, ma in realtà è qualcosa di molto semplice, appunto una forma di desiderio piuttosto che la sua assenza. Ad ogni modo possono passare tranquillamente dei mesi senza che io scriva una riga. Rispetto agli orari, un articolo lo posso scrivere pure di pomeriggio al computer, ma i miei libri li scrivo tendenzialmente la sera e a penna, vado al bar a bere e mi porto il quaderno dietro quando ho voglia di scrivere. Può sembrare una posa, probabilmente lo è, ma non più di quanto lo sia dire che bisogna scrivere tre ore al giorno la mattina appena svegli, o dopo una nuotata (questa cosa del nuoto la trovo insopportabile, soprattutto perché io riesco a fare al massimo dieci bracciate di seguito), e comunque per me è così che funziona: mi piace scrivere al bar bevendo (vino). Penna a inchiostro liquido e quaderni con le pagine sottili a righe».

Suona romantico anche così. Il vino, il bar, il rumore della gente che va e viene, la scrittura che arriva quando vuole (e magari proprio per questo ha una sua grazia speciale). Non è lo sforzo titanico dell’artista che sollecita il suo “demone” davanti al foglio bianco. Tu quando hai capito che avevi bisogno di questa cosa? Quando sei diventata “la scrittrice Veronica Raimo”? Se vuoi possiamo anche prenderla alla larga: ci sono film, dischi o libri in cui ti riconosci, che ti hanno formato, non solo come scrittrice?

«Non c’è stato un momento in cui ho capito che avevo bisogno di questa cosa, io non riesco a dire che senza la scrittura non potrei vivere. Al di là dell’enfasi dietro un’affermazione simile, non riesco a sentirla vera. Non credo che la scrittura mi abbia salvato, né penso che mi abbia dannato. E non ho mai incontrato i famosi demoni di cui parli. Cioè anzi, quelli sì che li ho incontrati, ma non avevano niente a che vedere con la scrittura. Quando i demoni arrivano, mi sento disperata, con o senza la scrittura. Non ho mai cercato lì un approdo o una fuga. Quindi mi è difficile rispondere anche alla domanda quando sono diventata “la scrittrice Veronica Raimo”, ma mi viene da dirti questo. C’è un video imbarazzantissimo su YouTube che ho cercato in tutti i modi di far rimuovere, ma senza successo. Risale a poco dopo l’uscita del mio primo libro, quando avevo trent’anni. E lì dico che vorrei vedere la parola “scrittrice” sulla mia carta di identità. Metto in mezzo anche l’eventuale poliziotto che dovrebbe chiedermela. Ecco, ora questa cosa mi sembra una grande cazzata. Mi sembra una forma di narcisismo giovanile, e un po’ mi intenerisce pure (però vorrei comunque rimuovere il video!). Non solo non me ne frega nulla di vedere la parola “scrittrice” sulla mia carta di identità, ma non mi sento nemmeno rappresentata da quella identità. Se devo tirare fuori tre nomi di opere in cui mi sono sentita tirata parecchio dentro nei miei anni di formazione direi queste: libro “Tenera è la notte”, film “Withnail and I”, disco “What Would the Community Think” ». Sono molto spaventata dall’aspetto Se può consolarti, quel video l’ho cerformale delle cose. Voglio sempre illudermi cato ma non l’ho trovato. In compenso che debba accadere qualcosa di inaspettato, ne ho trovati altri, in cui succede quasi sempre la stessa cosa: ti fanno la prima di sincero pure nella sgradevolezza domanda, e tu sei lì, ma un po’ distan-

te, con un’espressione che non si capisce se è tormentata, impaurita, o forse già stanca. L’anti-performance. Poi però ti impegni seriamente nel cercare una risposta, nel corrispondere a ciò che ti si chiede dentro quel contesto. Forse è anche questo che piace nella Veronica del tuo romanzo, quel suo modo di essere “fuori luogo”, scentrata ma sincera, esibendo i suoi limiti, le sconfitte goffe. Ha una sua bellezza buffa e disperata, anche poetica. Parliamone, se ne hai voglia, di questa identità. Se non sei scrittrice cosa sei?

«Durante il tour dello Strega mi prendevano in giro perché la mia prima reazione a qualunque cosa mi chiedesse il presentatore o la presentatrice di turno era una sintesi di quello che descrivi, una reazione che è stata ribattezzata “i dieci secondi Raimo”. Poi di solito esordivo con un “no” e cominciavo a elaborare la mia risposta. Dunque, ovviamente - o forse non è

così scontato - io non sono consapevole di quei dieci secondi, non so cos’è che mi succeda. Mi rendo conto che anche questa ha tutta l’aria di una posa, ma le pose poi finiscono per essere involontarie. So soltanto che sono molto spaventata dall’aspetto formale delle cose, che sia una presentazione, una cena con gli amici, una telefonata con la zia. Voglio sempre illudermi che debba accadere qualcosa di inaspettato, di sincero pure nella sgradevolezza, così sprofondo in una specie di luogo fragilissimo, e molto spesso carico di disagio, per scongiurare l’idea di ritrovarmi dentro una rete collaudata di formalismi. Da lì non sempre riemergo in forma smagliante, e a volte davvero - parlando di presentazioni - sarebbe molto più semplice aderire a quel ruolo, definirsi scrittore o scrittrice, e citare delle frasi di altri scrittori e scrittrici per dire cos’è o cosa non è la letteratura. Non è una forma di giudizio verso chi lo fa, anzi forse è invidia pura. Comunque l’autocertificazione della propria identità per me risponde allo stesso genere di formalismo e ho sempre molti problemi a parlare di identità. Dall’altro lato mi infastidisce anche chi si autocertifica in opposizione a chissà quali etichette prestabilite, insomma tutta quella retorica dell’essere non-etichettabili. Credo che occorra dare un grande valore alle etichette per volersene smarcare, ed è come se si finisse per aumentare il loro peso ontologico. Ecco, non so come definirmi non perché sia indefinibile, ma perché ai miei fini non vedo l’utilità di questa cosa».

In realtà quei “dieci secondi” sono proprio il contrario di una posa. Credo sia il segreto del loro fascino. Come tutto ciò che non segue un canone prestabilito e rassicurante. I “vuoti narrativi” di certi film e romanzi speciali. Oggi, in effetti, se non ti definisci in modo chiaro e netto, possibilmente in poche parole, non esisti. Sarebbe una bella liberazione poter stare semplicemente con ciò che c’è, accettando la fragilità, l’ambiguità. Mi viene da pensare a una regista che ami (che amo anch’io, che tutti dovrebbero amare), Lucrecia Martel, e a quei suoi film in cui ciò che conta è ai margini dell’azione e della parola, sta nel vuoto, nei suoni, in qualcosa di indefinibile, che però è legato alla materialità dei corpi, alla loro pesantezza. Non so se c’entri qualcosa con la tua scrittura. Sei riuscita a spiegarti il consenso unanime che ha raccolto Niente di vero? In fondo è “solo” il tuo quarto romanzo, e in mezzo ci sono i racconti, i testi per il teatro, Le bambinacce... Ci vedi una possibile “trappola”? Come si sopravvive a un’autofiction di successo?

«No, non sono riuscita a spiegarmelo, ma non mi va neanche di capirlo fino in fondo perché appunto rischierei di finire in una trappola. So solo che mentre lo scrivevo ero molto insicura di cosa sarebbe stato questo libro.

Non ho mai dei progetti chiari quando scrivo, ma in questo caso ero in un territorio ancora diverso, sono stata parecchio a macerarmi nel dubbio di avere del materiale troppo sconclusionato, senza struttura, senza capo né coda - insomma ci siamo capiti - quindi mi chiedevo se il mio non andare da nessuna parte si sarebbe rivelato per quello che era: un non andare da nessuna parte. Ed è questo l’aspetto un po’ paradossale della questione, perché in effetti rispetto a quel materiale, non ho preso poi delle decisioni che l’abbiano indirizzato verso questa famosa parte dove andare. In un certo senso questo romanzo sembra un esordio, però, ad esempio, tra le cose che citi, Le bambinacce è un libro che ne ha costituito in parte la genesi, per quanto possa suonare strano che un libro di filastrocche scritto a quattro mani con un altro scrittore possa essere la genesi di un’autofiction. Detto ciò, magari riuscissi a scrivere qualcosa che sia l’equivalente letterario di quello che Martel fa cinematograficamente. E non mi vengono in mente nemmeno tanti esempi di scrittori o scrittrici in grado di farlo. Forse stare al margine dell’azione e della parola letterariamente è ancora più difficile, o creare una coralità di corpi come fa lei. Insomma un “vuoto” sulla pagina ha un peso specifico diverso rispetto al “vuoto” in un film».

Le bambinacce, in effetti, ha un po’ quell’umore e quella libertà stravagante. Forse Niente di vero è il suo “negativo”, nel senso che invece della meraviglia c’è la disillusione. Ma la libertà e la sincerità con cui Veronica parla

Non ho mai un progetto chiaro quando scrivo, delle sue cose (di tutte le cose, anche le ma in questo caso sono stata a macerarmi nel dubbio più intime e infime) ha un’impertinendi avere del materiale troppo sconclusionato za che la rende liberatoria. Ricordo il titolo di una recensione a Le bambinac-

ce su Rolling Stone, che diceva: “Amiamo, odiamo e facciamo la cacca”. Penso anche al modo in cui parli di sesso, e alla fatica che invece tutti continuano a fare, in genere, quando scrivono di sesso o mostrano il sesso, in un romanzo come in un film. Quando Bazin suggeriva di lasciare l’atto sessuale (e la morte) fuoricampo, forse non immaginava che ci saremmo trovati tra i due fuochi della stilizzazione (poco) erotica, l’edulcorazione “lirica” e “romantica”, e lo sdoganamento popolare dell’osceno di consumo alla Pornhub.

«Io in realtà lascerei volentieri tutto fuori campo, mi rendo conto che spesso questo è quasi un ostacolo che mi metto da sola nella scrittura. Ho sempre il timore di cedere all’enfasi e quindi tendo a spostare l’evento principale al margine della narrazione, o a raccontare attraverso

una sfocatura che può essere data da un elemento di indeterminatezza (la labilità della memoria, l’ambiguità del desiderio, la stratificazione di menzogne...). Rispetto alla polarizzazione di cui parli, mi sembra che però esista anche una terza tendenza, che è quella di entrare nella terra di mezzo tra le due polarità con un intento sociologico. Capisco le ragioni storiche e politiche di questa operazione, ma da un punto di vista estetico sono molto scettica. Ti faccio due esempi, un film e un libro di cui si è parlato molto. “Pleasure” di Ninja Thyberg e “Servirsi” di Lillian Fishman. In entrambi i casi per restituire una visione più complessa del sesso e del desiderio si finisce paradossalmente per creare dei personaggi altamente stereotipati con delle caratteristiche precise e autodichiarate.

Mi piacerebbe tornare a scrivere per il cinema, ma non al servizio di una visione altrui. Non riesco a considerarlo un lavoro e basta, ad avere il grado necessario di distacco o alienazione

Il gioco delle identità deve essere chiarissimo, solo così ci si può permettere di muoversi e desiderare qualcosa in conflitto col nostro presunto desiderio corrispondente a quell’identità. Mi sembra una nuova trappola. Lasciando da parte la questione sesso, è come se dovessimo immaginare una scena tra due persone che hanno una conversazione. Se definiamo a priori chi sono queste due persone, abbiamo due scelte: o faranno una conversazione aderente alle loro identità, oppure una delle due dirà qualcosa di strano, di sconveniente, di weird.

E quell’elemento di stranezza connoterà la conversazione in un modo che in teoria non dovremmo aspettarci. Ma dal mio punto di vista un rovesciamento di questo tipo è tarato in partenza. Io non voglio già sapere chi sono quelle due persone. Non mi interessa l’inquietudine di personaggi già programmati per provarla al minuto tot del film o a pagina X».

Concordo su Pleasure e la sociologia che crea stereotipi. Ma le alternative forse ci sono. Sempre usando il sesso come esempio, penso alla libertà con cui viene rappresentato in Ken Park di Larry Clark, nei momenti più ispirati di Kechiche o in certi film di Andrea Arnold, la logica del flusso, dell’abbandonarsi al momento senza badare alla misura (narrativa, espressiva, ecc). In alternativa, c’è Henri Fonda che abbassa la gonna di Barbara Stanwyck, caduta fra le sue braccia in Lady Eva, e con quel gesto lascia immaginare tutto l’immaginabile, esalta l’erotismo del momento. Ecco, tra il massimo della forma classica (chi la sa ancora maneggiare?) e il massimo dell’anarchia (che diventa facilmente maniera), una via percorribile penso sia proprio il tuo modo di sdrammatizzare senza banalizzare: l’autore che dice io, la mia esperienza, i miei ricordi, con tutti i rischi del caso. Suona vero. E la “verità” della cosa, allegra o drammatica che sia, credo sia ciò che cerca un lettore o uno spettatore. Tu hai trovato ciò che cercavi, ultimamente, in qualche film, libro, disco? Hai capito cosa hai voglia di fare ora? Tornerai a scrivere per il cinema? Oppure ti stai dedicando a un nuovo romanzo?

«Hai citato Andrea Arnold e per me la scena di seduzione tra Katie Jarvis e Micheal Fassbender (in Fish Tank, ndr) è un ottimo esempio di quello che vorrei vedere al cinema se si parla di sesso (non per forza performato).

Ultimamente non so bene cosa cercassi, ma proprio in questi giorni ho letto un libro che ho amato tantissimo, Ritratto di giovane donna con mostri (in originale semplicemente Mona) di Pola Oloixarac, che deve aver toccato qualcosa di molto profondo e molto mio, tanto che mi sono messa a piangere sul finale, ed è una cosa veramente rara ormai con un libro (per “ormai” parlo di me, non dei libri. Cioè quando ero più giovane mi capitava molto di più di piangere per un libro). E poi recentemente mi hanno consigliato una serie per una cosa che dovevo scrivere e che ho visto appunto con la sola aspettativa che mi potesse servire, e invece l’ho trovata molto bella: I Hate Suzie, un esempio di scrittura intelligente che tiene insieme melodramma e commedia. Invece ho sempre più problemi a trovare cose che mi piacciono che vengano dagli Stati Uniti. Al momento no, non sto scrivendo un nuovo romanzo, sto scrivendo dei racconti. E sì, mi piacerebbe tornare a scrivere per il cinema se si tratta di un progetto che sento molto mio. Ho capito che non mi interessa fare un lavoro di sceneggiatura a servizio di una visione altrui, e non ne sono nemmeno in grado. Cioè, non riesco a considerarlo un lavoro e basta, ad avere il grado necessario di distacco o alienazione (un modo di guadagnare più soldi che nell’editoria, ad esempio), quindi so che entrerei in conflitto dopo cinque minuti e non sarebbe utile a nessuno».

Aspettiamo con curiosità che arrivi quel progetto per il cinema. Nel caso, proporrei anche di lasciare a te la scelta musicale. Mi verrebbe da chiederti chi dovrebbe o potrebbe essere il/la regista (massima libertà, vanno bene anche registi passati a miglior vita, tanto per giocare).

«Un regista con cui avrei voluto tantissimo lavorare è Kieslowski, ma direi che non aveva esattamente bisogno di me. E sicuramente non avrei avuto niente da ridire nemmeno su Preisner per quanto riguarda la musica. Passando a tutt’altro genere, mi piacerebbe riuscire a scrivere un adattamento cinematografico da Niente di vero e, non so, sarebbe bello immaginare qualcosa che tiene insieme Ricomincio da tre, Estate romana, Il dramma della gelosia, Ecce Bombo con quel gusto da commedia indie americana da anni 2000, alla Little Miss Sunshine»

Per chiudere questo dialogo a distanza, ti chiederei un regalo: due o tre righe, una frase o una cosa qualsiasi che hai scritto in questi giorni, magari in quel famoso bar, bevendo del vino.

«Ecco l’incipit del racconto che sto scrivendo al momento: “Non l’avevo mai fatto prima” mi dice. Non lo so perché ci tenga a dirmelo. Non lo so perché gli uomini che tradiscono le loro donne ti dicano che è la loro prima volta. Sorrido per quel privilegio non richiesto e dubito che sia vero. Quando mi è capitato di esternare il dubbio, ne ho subito le conseguenze: un broncio che mette fine alla serata o la fa diventare complicata».

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