Press Novembre

Dove si parla del potere della parola e della poesia, di Dante e san Francesco, di teatro che "combatte" e musica che ti porta via, dei nomadi Jenisch e dei poveri accolti all'OSF di Milano, di cinema al servizio della realtà, di esicasmo N 14 | NOVEMBRE-DICEMBRE 2023

Iosif Brodskij CCCP Marta Del Grandi Giorgio Diritti Lucilla Giagnoni Fra Marcello Longhi OSF per i Poveri

REDness è passione, arte, impresa, comunicazione. È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.

Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare.

La redness è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina. È l'entusiasmo, la motivazione, il senso, il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.

REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi.

Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità...

Va bene tutto, purché sia fatto con redness.

In copertina: Franz Rogowski sul set di "Lubo" Fotografia: Francesca Scorzoni (servizio a pag. 20)

Direttore: Fabrizio Tassi Progetto grafico: Marta Carraro Redazione: MondoRed Redness è un mensile edito da MondoRed, Corso Buenos Aires 20, Milano Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore

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SOMMARIO

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MEDITAZIONI 56 Esicasmo, la via cristiana alla meditazione e all'Unione

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EDITORIALE 4 La bellezza del "noi"

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EVENTI

INCONTRI 6 Lucilla Giagnoni: parole che curano e incantano 20 Giorgio Diritti: "Lubo" è cinema al servizio della realtà 30 Marta Del Grandi: una voce magica, la natura e l'arte dell'altrove

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62 CCCP: punk, mistici e filosovietici quarant'anni dopo 68 «Si parlava di fine della storia.

Ma la storia si è vendicata» 74 L'ideologia c'entrava poco, era «una questione di qualità»

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STORIE D'IMPRESA

LUOGHI 42 Fra Marcello Longhi: dalla parte dei poveri, sempre 54 Opera San Francesco: un esempio di "carità organizzata"

78 SEN: l'azienda che fa funzionare le aziende (green) 82 Cereda Group: l'arte del relax ha settant'anni di storia

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COMMIATO 86 Iosif Brodskij: "La ballata del piccolo rimorchiatore"

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E D I TO R I A L E

La bellezza del "noi"

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iamo dalla parte degli indifesi. Poco importa la nazionalità, il credo, l'etnia, il reddito, la storia pregressa, l'ideologia. A noi, fortunatamente, non spetta la cronaca. Ma occuparsi di senso e di bellezza, parlare di musica, cinema o teatro, evocare Dante (poesia che rivela e trasforma) o Francesco (il santo che vede Dio nel lebbroso), riflettere su ciò che ci rende umani, non significa starsene comodamente in disparte, indifferenti. Al contrario. È una forma di resistenza. Un modo per combattere, con le armi migliori che abbiamo.

Leggete cosa dice Lucilla Giagnoni sulla fondamentale differenza tra il combattimento e la guerra - così come quella tra l'avversario e il nemico. Noi, come lei, continuiamo a credere nella forza delle parole, che sono in grado di "fare la pace", che possono curare, che ci aiutano anche a percepire ciò che ci supera, l'infinitamente grande. Lei, attrice e autrice di teatro, agitatrice culturale, mae-

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stra (nel senso alto e nobile che ha il termine quando lo usiamo al maschile, e che quindi deve avere anche al femminile), dopo aver studiato l'ebraico, ora sta studiando l'arabo, per risalire al senso originario dei "grandi testi", il cui significato viene distorto dall'abuso ideologico.

Noi crediamo nella bellezza che si fa musica, anche nell'arte per l'arte, soprattutto quando riesce a evocare altre dimensioni, che sono dentro e intorno a noi. E quindi amiamo la voce magica di Marta Del Grandi, le sue metamorfosi eccentriche, la selva di suoni in cui ci conduce, in cui troviamo «il cactus accanto all'acero rosso» (Selva è il titolo del suo nuovo disco).

Così come amiamo i CCCP, la loro estetica estatica, forgiata in un "filo-sovietismo" che era un atteggiamento punk, uno spirito iconoclasta, più che un'idea, e che ha trovato l'humus perfetto (un ideale) in terra emiliana quarant'anni fa.

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Reggio Emilia oggi celebra questa epopea musicale ed esistenziale con una mostra che abbiamo visitato per voi (e che tutti voi dovreste visitare). Non una celebrazione nostalgica, ma un viaggio dentro le tante anime di questa band, che ci fa riscoprire la sua modernità. Nella rivista troverete anche le parole, mai banali, di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, di Annarella e Fatur. Nel 1990, quando si sciolsero, si parlava di fine della storia: oggi sappiamo che la storia e la geografia si sono prese una drammatica rivincita.

Noi siamo coi bambini sempre e comunque, e non possiamo che amare un film come Lubo di Giorgio Diritti, che porta al cinema, e alla nostra coscienza, la storia degli Jenish, colpevoli solo di essere nomadi. Nella civilissima Svizzera, i bambini Jenisch venivano portati via ai genitori, rinchiusi in orfanotrofi, carceri, ospedali psichiatrici, oppure dati in adozione. Lubo è un padre deciso a ritrovare i suoi bambini, dentro un film che è la storia di un uomo dilaniato ed è anche una metafora dei tempi in cui viviamo. Da sempre Diritti sa come raccontare la realtà, soprattutto le ragioni della diversità.

Noi siamo con i poveri che trovano ospitalità all'Opera San Francesco di Milano, poco importa che siano immigrati o italiani in difficoltà, senzatetto, emarginati o sbandati. Bisognerebbe farsi

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un giro laggiù e guardare negli occhi quelle persone, ascoltare le loro parole, vergognarsi per la vergogna che provano certi padri e certe madri, con i loro bambini in braccio, di fronte alla necessità di chiedere un piatto di pasta, un vestito per cambiarsi, una visita medica, possibilmente anche un lavoro.

Di tutte queste cose ci parla fra Marcello Longhi, che a 15 anni si prese "una cotta" (come dice lui) per i frati e per san Francesco, e che ora si ritrova a guidare l'Opera, il suo pacifico esercito di professionisti e di volontari, esempio di carità che funziona.

Con lui riflettiamo su ciò che sta alla radice di quell'atto di carità: se espelli Dio dalla vita, dice fra Marcello, gli esseri umani sono ridotti a numeri, cose, di cui il potere (qualsiasi esso sia) è libero di disporre come meglio crede. Ma accadono meraviglie «quando le persone "umanamente intelligenti" e quelle "sinceramente credenti" si mettono insieme».

La “povertà nello spirito”, di cui parliamo anche parlando di esicasmo, che Francesco conosceva bene, è qualcosa che va oltre l'essere esteriormente poveri o ricchi, ha a che vedere con la nostra capacità di uscire dalla prigione interiore dell'io, l'egoismo che ci separa dagli altri (e da noi stessi), per ritrovare l'unità originaria, la bellezza dell'essere un "noi".

Fabrizio Tassi

INCONTRI

Lucilla Giagnoni Parole che curano e incantano, che combattono e fanno la pace, che dicono l'infinitamente grande. A teatro come nella vita di Fabrizio Tassi

«Anche se sei l'essere umano più sapiente, se non vivi la vita, non sai niente.

Il mio lavoro è questo: trasformare il sapere in esperienza» (foto Migliavacca)

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ttrice. La professione è quella. È così che la conosciamo, per i suoi spettacoli teatrali che accendono il cuore e la mente. Ma Lucilla Giagnoni è anche “autrice”, di parole e pensieri, non si limita a dire o interpretare, pratica la poesia, crea, dà vita, mette in luce connessioni misteriose. È “agitatrice culturale”, come dimostra la vicenda del Teatro Faraggiana di Novara, che ha contribuito a far rinascere e di cui è direttrice artistica dal 2016. È “maestra”, attra-

Avevo 7-8 anni, ricordo che mi ero messa in piedi su una seggiolina, mi sono affacciata allo specchio e ho detto: farò l'attrice di teatro! Questo momento ce lo abbiamo tutti, solo che non ce ne accorgiamo, perché passa in mezzo al disordine, alle infinite immagini della vita Vergine Madre (foto Migliavacca)

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verso i corsi di teatro, comunicazione, narrazione, la formazione dei formatori, le collaborazioni con realtà educative come la Scuola Holden.

Lucilla Giagnoni studia l'arabo, dopo aver studiato l'ebraico, conosce il greco e il latino, oltre a un po' di sanscrito, vuole andare all'origine dei testi, forse anche cercare una parola originaria, quel linguaggio che sta alla radice di tutte le lingue, il fondamento che unisce.

E cosa c'è di più fondamentale, originario, della Divina Commedia, che lei studia da sempre? La verità di quella parola, ma anche il ritmo e il suono, la magia, la malìa, così spesso evocata nel corso della sua carriera teatrale.

Su Raiplay, se volete, potete trovare i suoi Vespri danteschi: tutti i canti della Divina Commedia, in lettura integrale, realizzata in videostreaming durante il lockdown del 2020. E presto potrete vedere i suoi contributi sulla piattaforma di Emotion Network, dedicata a “contenuti ispirazionali”. Perché ogni strumento è buono per seminare senso e bellezza.

Ma è soprattutto sul palcoscenico che l'incantesimo prende forma, come liturgia laica, a tratti perfino mistica, come racconto confidenziale, narrazione, visione interiore che prende forma anche in musica e video, condivisione di parole alte, di emozioni in quantità.

La Trilogia della spiritualità, da Vergine Madre all'Apocalisse, passando per il Big Bang, dove c'è la Genesi ma anche la scienza e il genio di Einstein, dove Dante incontra Shakespeare. La Trilogia dell'umanità, che parte dell'Ecce Homo e che in Furiosa mente propone anche una riflessione sull'uomo come cittadino del mondo (una nuova umanità), per approdare poi al Magnificat («magnificare è quel che col mio mestiere io posso fare»). E poi le “meditazioni”: sulla misericordia, sulla pace, su Francesco, “santo fra i santi, uomo molto umano” (ne parliamo anche altrove in questo numero di Redness, ci piace la sua sintesi: «È la nostra radice, il nostro antenato più nobile, più libero. Mondano e ascetico, combattente, sognatore, teologo e poeta, armato di una fede incrollabile, rivoluzionario fino al limite dell’eresia e nello stesso tempo capace della più umile obbedienza. E soprattutto gioioso. Ancora oggi ci insegna ad amare e vivere intensamente ogni momento che la vita ci offre, soprattutto quelli, in questa nostra contemporaneità quasi incomprensibile, che ci sembra di non poter tollerare»).

L'ultimo approdo è a Giacomo Leopardi, con Anima Mundi, in realtà un nuovo inizio, un percorso dedicato al “generare”, un invito ad allargare lo sguardo.

Il pensiero va proprio all'infinito leopardiano, inevitabilmente, guardando l'alta siepe che circonda il giardino di Lucilla Giagnoni, nella sua casa di Novara – un angolo di verde, calore e musica, visto che al piano di sopra c'è anche lo studio di registrazione del marito Paolo Antonio Pizzimenti. Ma pensiamo anche alla donna reclusa in un giardino, che racconta storie dantesche, in Vergine Madre. Profetica anticipazione dell'attrice costretta a correre in tondo, in quel quadrato d'erba, ai tempi del Covid, come tutti noi (ma non tutti avevamo Dante a confortarci). A proposito di connessioni... Ne escono a decine, dalle parole di Lucilla, che sgorgano come un fiume in piena, immagini, ricordi, idee che si accavallano e lasciano presagire altri innumerevoli sviluppi.

Siamo nel suo studio, tappezzato di libri, organizzati in file e onde lungo le pareti, tra foto di Marilyn e Madonne. La trascrizione del dialogo forse non rende la musica e l'espressione, ma suona comunque bene.

L

a vocazione, come l'hai trovata? Quando hai capito cosa volevi fare nella vita?

Io sono nata il 4 ottobre, il giorno di san Francesco, e questa è già una vocazione: nascere in un giorno così, con un nome così, Lucilla. Per un po' di tempo sei piccola, e quindi è così e basta, poi arriva il momento in cui te lo chiedi. Adesso ho 59 anni, compiuti da poco, sono entrata nell'età di Saturno, quella in cui raccogli ciò che hai fatto nella vita. Ed è proprio ciò che mi sta succedendo.

Non guardo mai al passato, non ce la faccio, ma dal passato emergono delle immagini come se fossero presenti.

L'ho raccontato in Anima Mundi.

La mia vocazione corrisponde al modo in cui scelgo di fare un certo spettacolo. A un certo punto non puoi fare altro.

Succede che devi fare “quella cosa”. Percepisci un'ombra scura, che ti muove, e vai in quella direzione. Non ha forma, eppure sai che quella è la strada giusta, e andando in quella direzione pian piano si chiarisce. Adesso che la forma generale della mia vita è data, mi compaiono nitide le immagini del passato, che mi hanno fatto fare questo percorso, che sono state delle apocalissi, delle rivelazioni.

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Lucilla Giagnoni

(foto Marianna Cappelli)

Furiosa mente (foto Umberto Favretto)

In Anima Mundi racconti di te bambina davanti a uno specchio.

Avevo 7-8 anni, ricordo che mi ero messa in piedi su una seggiolina per guardarmi. Mi sono affacciata allo specchio e ho detto: farò l'attrice di teatro! Ricordo perfettamente il lavandino, ricordo il bagno, la mia faccia dentro lo specchio, e quella certezza.

All'epoca non sapevo cosa fosse il teatro. Forse posso immaginare di aver visto qualcosa in televisione, Eduardo, oppure quei grandi attori di teatro che facevano gli sceneggiati televisivi, Gino Cervi, Paolo Stoppa. Non lo so.

Penso però che venga più dall'anima cosmica del mondo. Mia nonna Bianca, donna molto povera ma piena di grazia, faceva l'attrice nel suo paesino di montagna di trenta anime e cantava a messa. Mio nonno, veneto, era un intrattenitore. Geneticamente forse qualcosa mi è stato passato. Ma il concetto di teatro l'ho avuto come rivelazione, in quel togliere il velo, lì davanti allo specchio.

Allo stesso modo, mentre mi specchiavo, ho visto gli occhi della tigre che mi guardavano. La tigre è il mio animale totemico di sempre, fin da quando ero bambina. Poi nella maturità si è trasmutato nell'oca. Tigre e oca sono i miei “spiriti guida”.

Bello quando è così: una rivelazione. Quando capisci che non puoi fare a meno di quella cosa.

Sono stata molto fortunata. Però ho anche la sensazione che questo accada nella vita di ognuno di noi.

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Questo momento ce l'abbiano tutti, solo che non ce ne accorgiamo perché passa in mezzo al disordine, alle infinite immagini della vita. Quell'immagine allo specchio è emersa adesso, io la so adesso, come qualcosa di compiuto, non so se la bambina di allora ne fosse così consapevole. Si tratta di entrare in una dimensione che va al di là dello spazio-tempo. La propria vocazione non è qualcosa che sarà. C'è già, bisogna solo togliere tutti gli orpelli (questo ad esempio lo dice James Hillman). C'è il daimon che ti chiama. Ma bisogna stare a sentirlo.

Non c'è bisogno anche di qualcuno che ti aiuti a estrarre l'oro? Che ti dica: questa è la cosa che sai fare bene?

Sai che questo è il primo esercizio che faccio nei miei laboratori di teatro? Chiedo: “Dimmi la cosa che sai fare meglio”. È un esercizio di narrazione, che comporta una sintesi estrema. “Facciamo conto che abbiate 33 anni di età” (perché tutti abbiamo sempre 33 anni, forse i corpi mistici di cui parla san Paolo, in cui ci trasmuteremo, hanno 33 anni come Cristo, altrimenti bisognerebbe capire qual è il corpo che risorgerà: il corpo da bambina? da vecchia?). Quando mi chiedono un aiuto, io suggerisco di pensare a ciò che dicono i nostri amici: “tu sei bravissimo in questa cosa”.

Sì, ci vuole un maestro, una maestra. I maestri sono utili per chi magari questa immagine non ha saputo vederla.

Ma di nuovo, anche qui, io non credo nella casualità.

Non esiste il caso, ma la capacità di giocare la propria partita in questo gioco di dadi, il gioco dell'oca della vita. Nella mia esistenza è successo questo: in prima media, quando vivevo a Firenze, si faceva teatro a scuola. E siccome i fiorentini sono molto autarchici, si faceva il Boccaccio, la storia di Calandrino e Buffalmacco. Abbiamo messo i biglietti con i nomi dei personaggi dentro una cesta e ognuno estraeva chi doveva interpretare. Quando ho estratto la mano da quel cestino io pensavo: voglio essere la protagonista! Ed è quello che è successo. Questa immagine sta tornando ora, non ci avevo mai ripensato. Per questo dico che non esiste il caso. Ricordo che la professoressa rimaneva a bocca aperta per le soluzioni che trovavo. Mi disse: tu devi fare teatro nella vita, sei fatta per questa cosa. Piccoli richiami dell'anima del mondo... Lei era la mia professoressa di inglese, ma di inglese non mi ha insegnato niente, però è stata utile a indirizzarmi sulla strada del teatro. Mi ha riconosciuto con chiarezza. Quando si dice: specchiarsi nell'altro.

Questa, forse, è un'altra cosa che potrebbero fare tutti, se ci si allenasse a vedere i segni, le tracce del “destino”. Oggi è difficile, perché ci dicono che tutto è casuale, che siamo ingranaggi di un meccanismo senza senso. Ma la vita è disseminata di piccoli e grandi segnali.

Se non avessi fatto teatro, io avrei fatto il medico. Mi sarebbe piaciuto altrettanto. Da piccola dicevo che volevo fare la chirurga del cervello o del cuore. Era il modo in cui, attraverso la lingua fragile di una bambina, cercavo di dire che volevo andare nel cuore e nella mente delle persone. Questo lo capisco adesso.

Trovo comunque che medicina e teatro siano due discipline molto vicine. Esculapio, dio della medicina, figlio di Apollo, usava il teatro. Le due cose, all'epoca dei riti misterici, erano integrate. Andavi alla rappresentazione teatrale, poi dormivi lì a fianco, negli hospitales, e attraverso i sogni e gli incubi, agevolati da funghi, fumi, suggestioni di parole, emergeva l'ombra, la patologia, e la capacità di auto-curarsi.

(foto Massimo Pinca)

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Lucilla Giagnoni

Ti aiutano anche a capire in quale direzione andare.

far nuovo il mondo. Il primo mese di scuola dovrebbe servire unicamente a generare uno sguardo poetico, che secondo Einstein è lo sguardo dello scienziato, ed è anche lo sguardo dell'innamorato, lo sguardo del mistico, lo sguardo dell'artista. Dovrebbe essere anche lo sguardo del manager, dell'imprenditore, del politico. Il politico ha smesso di farci vedere mondi nuovi, nuove potenzialità. Il crollo della politica dipende dall'aver rinunciato alla poesia, alla poiesis, al fare nuova la terra perché si sanno vedere cieli nuovi.

In un certo momento della storia, abbiamo avuto l'illusione che fosse più semplice conoscere il mondo separando le cose: scienza e religione, letteratura e matematica... Chi si occupa di poesia oggi guarda quasi con sospetto chi si occupa di economia, e viceversa.

Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta". Un verso e mezzo che racchiude il senso di tutta la Divina Commedia: fare l'impossibile.

Unire ciò che apparentemente non si può unire. Poi dicono che la poesia è inutile Questa cosa della “parola che cura” tu la porti avanti da anni.

A inizio ottobre sono stata a un forum a Rimini, dove c'erano 300 persone, manager della HSE, Health Safety Environment, quelli che si devono occupare della sicurezza e della salute. Mi hanno chiesto proprio una meditazione sulla parola che cura. È venuto fuori un discorso potente.

Bello che anche quel mondo si apra al mistero della parola e del teatro.

Quella cosa che dicevi, il saper vedere i segni, la stiamo perdendo perché perdiamo la nostra capacità poetica.

Che, attenzione, non è solo la capacità di scrivere la poesia, ma è lo sguardo connettivo, la capacità di mettere insieme cose che apparentemente insieme non possono stare. Chi sa unire gli opposti, chi sa dare armonia ai contrari, è capace di generare una nuova realtà, di

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Questo è il frutto del positivismo. Dal Settecento in poi abbiamo deciso che dovevamo dominare la natura e per farlo bisognava diventare specialisti ognuno nel proprio campo. Evidentemente ci dovevamo passare. Intendiamoci, essere specialisti è importante e necessario. Ma lo specialista non deve perdere la propria capacità poetica.

Cioè la capacità di aprirsi al mondo, di vivere. Bisogna mantenere lo sguardo del bambino, lo stupore, senza dare nulla per scontato. Anche se sei l'essere umano più sapiente del mondo nel tuo settore, se conosci solo quello e non vivi la vita, in realtà non sai niente. Il tuo sapere, penetrante come la punta di un diamante, deve diventare esperienza, e come un laser fare luce per illuminare il cammino. Il mio lavoro, da quando ho cominciato ad avere una voce mia, è stato questo: trasformare il sapere in esperienza.

Il primo passo, dopo gli spettacoli sul paesaggio, è stato Vergine Madre.

“Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta”. Un verso e mezzo, con i suoi ossimori, che racchiude il senso di tutta la Divina Commedia: fare l'impossibile. Un compito che ha segnato l'essere umano. Non a caso è un'energia femminile che fa questo. Unire ciò che apparentemente agli occhi degli altri non si può unire, e cambiare il corso della storia. Dante lo dice in un verso e mezzo. E poi mi dicono che la poesia è inutile.

Non possiamo ripercorrere tutta la tua storia, troppa ricca, ma vorrei almeno ricordare il Laboratorio Teatro Settimo, che ha rivoluzionato la scena in Italia. Per noi ragazzi era la scoperta del teatro come qualcosa di vivo e vero. Tu sei cresciuta in quel mondo, dopo la scuola teatrale a Firenze.

Eh, quante cose... Io sono stata presa alla scuola di Vittorio Gassman, che durava due anni. L'estate, alla fine del primo anno, insieme a Paolo, mio fidanzato e ora marito, che lavorava con la Banda Osiris, sono andata a vedere un festival in cui il Teatro Settimo faceva una performance all'aperto. Mi sono presentata e ho detto che volevo fare anch'io quel teatro così vivo. Mi dissero che stavano iniziando le prove di uno spettacolo importante, prodotto da Sant'Arcangelo, e mi invitarono da loro. A quel tempo non avevano ancora uno spazio e quindi provavano alla Casa del Popolo; però siccome la Casa era praticata fino alle dieci di sera, le prove le potevamo fare da mezzanotte fino alle 7 del mattino. Paolo mi accompagnò la prima sera e di fatto mi lasciò là per un mese.

Appena sono arrivata, mi ricordo che mi hanno buttata sul palco, abbiamo improvvisato e io ho detto la frase:

“Quindi arrivò la fanciulla con il fidanzato e tutto il suo seguito”. Quella fu la prima frase inventata e pronunciata da me in uno spettacolo. Una frase che è rimasta ne Le affinità elettive di Goethe (che poi sarebbe diventato lo spettacolo Elementi di struttura del sentimento e in una seconda versione è tornato ad essere Affinità). È lo spettacolo che ha fatto sì che il Teatro Settimo diventasse la compagnia più famosa in Italia.

Ma quell'anno hai ricevuto anche un'altra proposta.

Sì, io dovevo tornare a scuola, ma quelli del Teatro Settimo mi chiedevano di continuare lo spettacolo.

Allo stesso tempo Alvaro Piccardi, che insegnava a Firenze, mi presentò una terza opzione: mi voleva come protagonista femminile di uno spettacolo con Paola Borboni, che all'epoca aveva 90 anni ed era un mito.

Chiesi consiglio a Vittorio Gassman e lui mi disse: “La scuola deve introdurre al lavoro, se il lavoro c'è già, fai il lavoro, è quella la vera scuola”. E quindi feci quell'esperienza devastante, in cui mi sono ammalata, sono diventata anoressica, e ho avuto un crollo traumatico. Io che avevo assaggiato il teatro vivo, e cosa vuol dire creare, fare qualcosa che serve, che piace agli altri, a 19 anni, per sei mesi, mi sono ritrovata in una tomba.

Corpo e anima (foto Migliavacca)

Lucilla Giagnoni

No, la poesia è la sintesi massima. Ci vorrebbero migliaia di tomi di teologia per dire quella cosa. La poesia è attuale, rapida, ficcante, non definitoria, non chiude mai, non imprigiona, libera, è liberante.

(foto Marco Minniti)

Magnificat (foto Bianca Pizzimenti)

C'erano attori rovinati da una vita di lavoro, che facevano scherzi da nonnismo sul palcoscenico, in teatri orrendi, e guai se ti permettevi di inventare qualcosa e di fare più di quello che imponeva il tuo ruolo. Era l'opposto della sacralità del teatro come la si vive a Settimo, dove ti occupi di tutto, dal caricare il furgone a promuovere lo spettacolo, oltre a creare la tua parte in scena.

Ma quell'esperienza mi è servita, perché ogni volta che siamo entrati in crisi col Teatro Settimo, resistevo perché dall'altra parte non c'era nient'altro che mi attirasse. La mia lunga militanza nel Teatro Settimo è stata determinata da quel periodo che mi ha forgiato. Non volevo mai più tornare a lavorare per quel teatro morto.

Parlando di vocazione, a volte non è necessario sapere cosa devi fare, la cosa più importante in una certa fase della vita è sapere cosa non vuoi fare. Non bisogna perdere tempo, con la scusa che si impara comunque sempre qualcosa. Il mio consiglio è seguire l'istinto e fare ciò per cui senti di nutrire se non una passione, almeno un'attrazione.

Quando hai cominciato a fare teatro da sola, avevi le idee chiare su che cosa volevi dare al pubblico?

Un certo tipo di teatro, un messaggio, uno spirito che volevi comunicare?

Col Teatro Settimo è stata una scuola pazzesca in cui ho imparato a fare il teatro, dico fare concretamente: testa e soprattutto mani, cioè corpo. A partire dalla scrittura.

Allora si chiamava scrittura scenica, cioè una scrittura fatta col proprio corpo d’attrice in scena. E in più si scri-

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veva con la scenografia, con le immagini, con la musica.

Lo spettacolo si costruiva così: tutti insieme. E in questo modo si realizzavano soluzioni imprevedibili. Sorprendevano noi, figuriamoci il pubblico. Un teatro fatto con cose semplici, stracci, bicchieri, luci, piante, grazie anche alla genialità della regia e di uno scenografo come Lucio Diana.

Tra le tante cose che ho imparato c'è questa: come si passa dalla creazione di uno spettacolo a un altro? Che idee ha seminato l’ultimo spettacolo? Questa esperienza è diventata metodo quando sono diventata autrice dei miei lavori: ad ogni mio nuovo spettacolo sono sempre partita dalle domande lasciate aperte dallo spettacolo precedente. Queste aperture, feritoie, sono delle ferite, ognuna un vulnus. E se io nasco come interprete, attrice, l'esigenza di scrivere è nata nel momento in cui ho scoperto che potevo farlo... Il bisogno di scrivere i miei spettacoli da sola è nato dal desiderio di affrontare le mie ferite.

Una ferita importante è stata il trasferimento da Firenze a Novara.

Avevo 25 anni. In quella terra avevo le radici, la lingua, i parenti. Firenze è una città bastarda che però ti entra nelle ossa. E sono finita qui a Novara, nel 1978, anni in cui era una città anche più grigia di adesso. Fu un trauma. Un cambio radicale, antropologico. Ancora oggi sento di non appartenere a questo genius loci, a questo paesaggio, per questo mi sono ricavata una piccola oasi verde in giardino. Vado anche a correre in campagna e questo mi piace.

A un certo punto sono rimasta incinta di Bianca. Avevo trent'anni e ho capito che quella non era più una terra di passaggio, perché ci stavo seminando una figlia. Nel frattempo mia madre si era molto ammalata. È rimasta completamente paralizzata nel giro di una notte.

Lucidissima di testa, ma con un corpo morto. Un attacco di sclerosi multipla inspiegabile. Da lì la mia vita si è trasformata. L'abbiamo dovuta accudire per trent'anni, fino a che non è mancata. Anche per questo la medicina e la cura sono entrate nella mia vita. Tutti i giorni c'era un'emergenza. Io mi chiedo ancora come abbiamo fatto a vivere così, ma l'abbiamo fatto. Mia mamma che si ammala, poi mia figlia che nasce, mi hanno radicata nell'esperienza del corpo eroico, l'eroe che semina il suo sangue nella terra.

Ed è lì che sono nati i “Paesaggi”.

Dove hai preso il coraggio per affrontarla?

Ho cominciato a guardare questo paesaggio con gli occhi di chi doveva viverci e comprenderlo. E si è rivelato un paesaggio incredibile, con una storia potente, anche di donne, le mondine. Ho scritto cinque spettacoli intorno al paesaggio. L'ultimo era Chimera, un adattamento, nato dall'incontro con Vassalli.

Dopo di che ho avuto il coraggio di affrontare un grande classico che sentivo mio: la Divina Commedia. Dante lo studiavo segretamente, con pudore, perché allora era appannaggio dei grandi, di Gassman, di Carmelo Bene, di Sermonti (Benigni non era ancora della partita). Chi ero io? Tiezzi ne fece un adattamento secondo me non riuscito per il teatro. Kieslowski, che aveva fatto un capolavoro col Decalogo, quando affrontò la Divina Commedia ci morì, a soli 55 anni. La Commedia non può diventare immagine, deve rimanere solo parole, nello spazio della mente.

Paolo, mio marito, è stato determinante: fu lui a confermarmi che dovevo affrontare la Divina Commedia.

E aveva ragione. Anche se Vergine Madre, all'inizio, è stato un po' contrastato. Al debutto ricordo una recensione di Renato Palazzi, che scrisse: chi è questa signora Giagnoni che vuole insegnarci la Divina Commedia? Io pensai che avevo sbagliato tutto, perché non volevo proprio insegnare niente a nessuno.

Vergine Madre poi è diventato un classico contemporaneo, messo in scena ovunque.

Questo per dire ai ragazzi: non fermatevi al primo giudizio. Vergine Madre ha poi ricevuto premi importantissimi ed è cominciato per me il periodo della grande fertilità poetica. Non mi sono più fermata. È nata una nuova Lucilla, tanto che Paolo quasi non mi riconosceva più.

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Lucilla Giagnoni

(foto Massimo Pinca)

Le tue letture dantesche durante il lockdown curavano, letteralmente, davano un senso di apertura in quella chiusura, indicavano “l'aperto” che abbiamo dentro e f uori.

Ma sai perché ho avuto la forza? Perché ho potuto fare quella cosa? Perché nel 2001 avevo già fatto Vergine Madre, che era nato dalla visione delle Torri Gemelle abbattute, quando l'inferno sembrava abbattersi su di noi e bisognava reagire, uscire, volare al di sopra dell'inferno con parole di bellezza. Chi ci aveva dato quelle parole? Dante. Io lo leggevo di notte, lo studiavo a memoria, quello era il momento per portarlo fuori. Ed è venuto fuori! Vergine Madre in fondo racconta una storia semplicissima: una donna che sta chiusa in un giardino, come quello di casa mia, con delle mura invece delle siepi (siepe che poi tornerà in Anima Mundi con Leopardi), e si isola in questo suo hortus conclusus, perché vuole tagliare fuori il mondo. Ma alla fine toglie una pietra e apre il muro che le impediva di vedere il mare e il cielo.

Il plot è banalissimo, persino patetico se vogliamo.

Il sacro l'ho trovato nel corpo di mia madre malata. È quel corpo che non può fare nulla senza di te. Ma è anche qualcosa di spirituale, che a me ha parlato attraverso la poesia. Come dice la Bibbia: una voce di silenzio sottile Non è banale, è archetipico. Gli archetipi hanno quella semplicità essenziale.

In effetti la potenza di quello spettacolo è che gioca sugli archetipi: la donna e l'uomo, il padre traditore, lo sguardo salvifico della bambina, il compimento nella figura finale della madre... La condizione di isolamento in cui si ritira quella donna, da me immaginata e scritta nel 2001, è stata una profezia che si è avverata. Io, più fortunata di altri, mi sono trovata chiusa nel giardino di casa mia, a camminare e a correre. Ma avevo l'esperienza di Vergine Madre, portato dappertutto, dalle Alpi a Oslo, all'università di Glasgow, dagli ospizi ai riforma-

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tori. E così, mentre tutti leggevano Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Camus, tutte le pesti possibili di questo mondo, mi sono detta: no, abbiamo bisogno di Dante! La sua poesia, il suo viaggio che libera. E poi da tanti anni vedevo l'immagine di quella donna chiusa nel giardino che sapeva cosa si può fare: rompere il muro. Questo per me è ascoltare l'anima del mondo. Le immagini ci sono già tutte, si tratta di saperle vedere. Ma quando vivi e ci sei dentro, non è facile vedere. Devi avere una prospettiva da fuori. Una prospettiva narrativa.

Di fronte ai fatti tragici di questo mondo, che sembra andare all'indietro, chi crede nella parola viene visto come una persona un po' naïf. Come si risponde a chi, davanti alla violenza della realtà, dice che la parola e il teatro non servono?

Posso rispondere cercando le differenze fra due parole importanti: combattimento e guerra. Sembrano la stessa cosa ma non lo sono. Combattere è la condizione dell'essere vivente e di tutto ciò che è vivo. La guerra invece è la parola oscena. Un po' come incesto. Lo diceva padre Zanotelli: se siamo riusciti a superare antropologicamente l'incesto, nel corso dei millenni, si può superare anche la guerra, che non è nata con l'uomo. Combattere non è fare la guerra, è un'altra cosa. Anche il pacifista è un combattente. Il pacifista agisce ma non con le armi.

Combattere non è uccidere né ledere la dignità dell'avversario. Va ricordato infatti che l'avversario non è il nemico. Il nemico lo generiamo noi, non esiste a priori, è una proiezione della nostra mente, quando siamo mossi dalla paura e quindi dobbiamo esorcizzare i mostri che abbiamo dentro. Così creiamo il nemico. Non più un essere umano, ma una cosa, e come cosa la possiamo, ferire, torturare, uccidere, anzi, la dobbiamo distruggere. L'avversario invece non è un’invenzione della nostra mente, è altro da noi, ma con cui ci dobbiamo inevitabilmente confrontare, è per noi l'ostacolatore e, per quanto sia difficile amarlo, talvolta è necessario per farci fare il salto evolutivo, è il satan, colui che continuamente ci sfida.

In Israele e Palestina ora sembrano esserci solo nemici.

Se mi chiedi un'opinione, posso solo dire che chi agisce come Hamas è un terrorista, cosa vuoi chiedergli?

Hamas è fuori da ogni logica. Bisogna non cadere nella sua trappola. Ma il problema è che l'azione politica di Netanyahu, che si presenta come democratica, è stata una reazione altrettanto devastante.

"Combattere" è finché non ledi la dignità dell'altro essere umano. Questo assalto al popolo palestinese non ha senso, provocherà danni terribili nel tempo anche al popolo israeliano. La soluzione a questo punto non ce l'ho, se non rimboccarsi le maniche e continuare il nostro lavoro paziente, resistente, di tessitori, di artisti, di poeti, con parole e azioni ostinate di pace.

Qualche anno fa ho scritto una meditazione sulla Pacem in Terris di Giovanni XXIII, una lezione straordinaria la sua: venne mandato in luoghi difficilissimi come nunzio apostolico, in Ungheria, in Turchia, dove essere cattolici voleva dire essere una minoranza. E così aveva imparato la difficile arte della diplomazia, della pacificazione. Diventato Papa fu determinante nella mediazione della crisi della Baia dei porci, tra Russia e Stati Uniti, la prima minaccia atomica mondiale. Il problema oggi è che non lasciamo più spazio per le parole, per il dialogo, per le intermediazioni. Si sono estremizzati tutti i poli, in un'ottusità pericolosa. Non ci ascoltiamo. Ma le parole ci sarebbero. Lavorano dentro di noi. E così siamo in moltissimi a volere che si fermi questo orrore. Sì, le parole ci sarebbero...

Anche se non ci fossero, dovremmo comunque sforzarci di trovarle.

Spesso abbiamo delle intuizioni. Lo sentiamo nel cuore, ma c'è bisogno di fare incontri in cui queste parole vengano rafforzate, perché le parole poi determinano le azioni. E se Cristo comunque è stato ammazzato, l'azione finale è proprio quella di Gandhi e di Cristo. Finché il mio agire non lede la dignità dell'avversario combatto, oltre ho sempre un'ultima scelta, che certo è radicale: mi sacrifico io, pur di non uccidere te. Questo è Cristianesimo, questo è Buddhismo, questa è spiritualità. Il martirio. È una facoltà di scelta che ogni essere umano ha e che può spezzare la catena della vendetta e della violenza. È il gesto del teatro greco: Edipo decide di lasciare lo spazio pubblico, se ne va e diventa mendicante, ultimo fra gli ultimi. Se ho un “assaggio" di questa esperienza è perché ho interpretato Edipo. Ma chi sono io per dirlo? Facile a dirsi meno facile a farsi: sono in pochissimi ad arrivare a tanto e infatti li chiamiamo santi. Ma, anche se non si arriva alla santità, c'è bisogno di educare ed educarsi alla parola, alle idee, al sentimento. Il lavoro del teatro è diffondere, portare in giro queste parole. Non è un lavoro inutile. Spesso le persone sono in una condizione di dubbio. Chi viene a vedere Pacem in Terris è già sensibile al tema, però serve ridirselo, anche tra simili, ridarsi la forza, la convinzione. Non c'è solo la parola che evangelizza, che trasforma, ma c'è anche quella che dà sostegno, che cura.

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Lucilla Giagnoni

Vergine Madre (foto Migliavacca)

Dai tuoi spettacoli emerge una particolare attenzione per il sacro, lo spirituale, la ricerca di senso.

In un'epoca in cui tanti sembrano cercare, senza sapere bene cosa e come. Tu hai raccontato di essere nata agnostica. Ma in Vergine Madre dicevi anche che da bambina sognavi di essere santa.

Io vengo da una cultura cattolica, sono stata praticante, ma c'è stata l'adolescenza, la militanza di sinistra, la distanza. Poi per me si è aperta una strada, la poesia mi ha portato allo studio dei grandi testi sacri.

Diciamo che c'è stata una doppia via. Il sacro io l'ho trovato nel corpo di mia madre. Non c'era più limite, dovevo toccare con mano cose non monde, che ora non mi pare il caso di raccontare. Dovevo avere cura di lei come fosse una bambina, anche se era un'adulta consapevole. Lì ho perso ogni tipo di paura. A volte mi sono rimproverata di non essere in prima linea, “sul fronte”, ma mi dicevo: quanta gente deve occuparsi di queste cose, in famiglia, in una prima linea diversa. Adesso che da due anni non c'è più mia mamma, non so come potessi fare quelle cose, ma le ho fatte per 30 anni. Mi manca lei, la sua forza, e quei gesti che mi legavano a lei. Il sacro è lì, in quel corpo che non può fare nulla senza di te. La stessa cosa capita quando tiri su un bambino.

Ma nello stesso tempo c'è un altro sacro, sottile, spirituale, che ti parla attraverso le voci del mondo, e che a me ha parlato attraverso la poesia. Dopo la Divina Commedia ho sentito il richiamo di una voce, che non era fatta di parole. Come dice la Bibbia: una voce di silenzio sottile.

Dio non è dentro la tempesta, ma nella voce di silenzio. Io l'esperienza di quella voce ora la chiamo "respiro dell'anima del mondo". Non riesco a dire Dio, è troppo maschile, e comunque non voglio costruirmi un dio a mia immagine, ce ne sono già abbastanza. Sento solo che c'è qualcosa di infinitamente più grande di me, che mi trascende, ma che è anche dentro di me.

Per questo ho cominciato lo studio dei testi sacri in lingua originale. Ho studiato l'ebraico, e quindi la Bibbia nelle sue parole originarie, ora studio l'arabo... Si è aperto un universo di ricerca per cui non basterà una vita.

Ci sono testi di meditazioni ebraiche che sono di una tale bellezza! Ti si apre lo sguardo. Si apre il senso. Non è che diventi più intelligente. E non sei nemmeno immune dalla depressione. Però la vita acquista più senso, il senso c'è, eccome se c'è.

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(foto Migliavacca)

Dicci qualcosa anche sul nuovo spettacolo, Casta Diva. È nato su committenza. A volte mi propongono percorsi che non avevo in mente e mi dico: ma no. E poi invece scopro che sono suggerimenti bellissimi. Questo lavoro è una committenza del Comune di Sirmione. Mi hanno chiesto un mio pensiero su Maria Callas, che a Sirmione aveva una casa, in cui è andata tutte le estati tra il '52 e il '58. In passato ho messo in scena uno spettacolo su Marilyn Monroe, che adoro, che sento vicinissima, perché la capisco. La Callas invece la sento come qualcosa di alieno rispetto a me, è tutto un altro mondo. Però c'è un punto di contatto fra me e lei, Medea. Un personaggio teatrale che lei ha interpretato al cinema per Pasolini (che in quel film non le fece cantare neanche una nota).

Dicevamo prima: come salvarsi? Forse ci sono strade che ancora non stiamo esplorando. Per esempio c'è un mondo magico femminile, ci sono maghe tremende come Medea, che conoscono, e affrontano senza paura, il passaggio di soglia tra la vita e la morte. Non pensano che tutto stia di qua, nel giorno, ma vivono anche nella notte. Tra questi due mondi per loro non c'è discontinuità. Noi, che viviamo nella continua smania di controllo, non sappiamo più affrontare la morte, siamo creature così spaventate.

La esorcizziamo, vediamo migliaia di morti ammazzati in televisione, ma moriamo lontani dai nostri cari: Hillman, allievo di Jung, dice che abbiamo ammazzato la morte. Pensiamo che l'essere sia tutto e solo alla luce del sole e, anche se talvolta viviamo di notte, non conosciamo che cosa voglia dire abitare la notte.

Medea è l'archetipo della maga che conosce le erbe, che può dare la vita e può dare la morte. Euripide la disegna come un personaggio limite, quello della matricida.

Cosa c'entra Medea con Maria Callas?

C'entra perché anche lei in qualche modo è stata una Voci nel buio maga. Per prima cosa ha agito su se stessa: si è trasformata da "barbara" a divina. Davvero, la sua trasformazione fu sconvolgente. Maria Callas costruisce un personaggio di un fascino incredibile solo con la forza di volontà, la disciplina, l'arte e il suo talento. Ma la divina, senza la sua arte, ritirata dalle scene, si è fatta poi travolgere dalla passione, da una forza barbara, l’amore con il greco Onassis, e tutto questo forse l'ha uccisa. In questo spettacolo emerge la parte lunare, Casta Diva, che ci è maestra anche lei. Faccio emergere il suo lato d'ombra, con la Casta Diva sempre presente. La Luna che ci è maestra nella notte. E poi c'è Norma, che canta Casta Diva, la cui storia è la stessa di Medea.

Lo spettacolo ha già debuttato, però non sono ancora soddisfatta del finale. Ci sto lavorando. Mi trovi in un momento in cui sto meditando sulla figura della “maestra”. L'intuizione è che Medea, Callas, Norma e la

(foto Marianna Cappelli)

Luna sono maestre. La natura è maestra, non matrigna. La maestra al femminile è una forza cosmica.

Oltre agli spettacoli, tu fai la direttrice artistica, insegni, porti avanti vari progetti... Non ti limiti a fare l'attrice, sei maestra e agitatrice culturale.

Questo mi piace. È vero. C'è un momento della vita in cui devi anche assumerti la responsabilità di diventare a tua volta maestra. L'età di Saturno. I capelli si fanno bianchi, irradiano argento, e irradiare ha a che fare con l'essere maestra. Cos'ha il maestro/a nella sua radice?

Magis. Coso sono i maghi? I maestri, i Re Magi, sono coloro che magnificano, che rendono grandi. Maestro o maestra è colui o colei che ti fa irradiare, che tira fuori il meglio di te, il magnifico che c'è in te.

Agitatrice culturale mi sta bene, perché sto tirando su un sacco di ragazzi, li sto formando perché a loro volta diventino formatori di teatro. Sto lavorando perché il teatro sia un luogo di scambio tra la cittadinanza e i professionisti del teatro. Ci deve essere una osmosi, il palcoscenico deve essere il luogo di tutti. Ecco il perché del mio prossimo lavoro corale: Coro-grafia, lo spettacolo che in questi giorni (era metà ottobre, ndr) sto preparando con i miei ragazzi e cittadini di tutte le età, di diversissime estrazioni, che inaugura la stagione del nostro Teatro Faraggiana, un teatro aperto da pochi anni da un movimento di cittadini che l’hanno salvato dalla distruzione. Anche lì sono stata agitatrice. Agitatrice, ma anche zappatrice. Che forse è la cosa in cui mi riconosco di più. Lavoro ancora con la vanga, me la porto dietro da Vergine Madre. È un lavoro faticoso, prima la vanga, poi la semina, e sì, ho fiducia nei frutti!

Lucilla Giagnoni

Ma aver ucciso i figli per Medea non è aver dato loro la morte, è averli portati con sé nella parte notturna. La nostra civiltà occidentale vede solo bianco o nero. La cultura patriarcale non può comprendere una figura come Medea (ora “patriarcale” si può dire, perché l'ha detto anche il film Barbie...). Ma la dimensione che abita Medea, le nostre nonne, maghe di erbe e di saperi passati di donna in donna, la conoscevano. La potenza dell'ombra, il lato in cui la luce c'è ma riflessa (la luna) o si manifesta in forma di punti luminosi (le stelle). L'ombra è una dimensione potente, Jung dice che va integrata.

(foto: Erma Pictures)

INCONTRI

Giorgio Diritti "Lubo" racconta i figli sottratti ai nomadi nella civile Svizzera Cinema necessario, al servizio della realtà, la diversità violata

(Foto sul set di Francesca Scorzoni)

«M

i viene in mente una frase che diceva Olmi a suo tempo: voi dovete sentire un'urgenza in ciò che fate! Ecco, io cerco di fare del cinema necessario».

“Necessario” è l'aggettivo a cui capita di pensare più spesso, guardando i film di Giorgio Diritti. È così fin dal suo esordio che lasciò tutti a bocca aperta, Il vento fa il suo giro, un “piccolo film” che si rivelò davvero grande, e ci fece capire quanto fosse importante per lui (e per noi) il tema del confronto e dell'incontro tra diversi, la convivenza fondata sulle cose che contano, il diritto alla felicità, la dignità, possibilmente anche l'amore, radicato nella terra, l'aria, la libertà nella natura.

Lo abbiamo capito ancora meglio quando ci ha fatto vedere (una rivelazione) la strage di Marzabotto attraverso gli occhi di Martina, una bambina, in L'uomo che verrà. Per poi accompagnarci in Brasile, tra gli indios e nelle favelas, insieme a una donna tormentata, che alla fine sprofonda nel silenzio (Un giorno devi andare).

Volevo nascondermi, arrivato dopo sette anni dall'ultimo film, ci ha fatto conoscere, ancora una volta, “un altro mondo”, quello di Ligabue, il dolore, il tormento, ma anche la grandezza di un artista, dentro una realtà che non poteva capirlo. Un'opera che, grazie anche a Elio Germano, ha conquistato un Orso d'argento a Berlino e sette David di Donatello, tra cui miglior film e miglior regia.

Ora, con Lubo, Giorgio Diritti ha fatto finalmente il suo ingresso nel concorso di Venezia, la giusta vetrina per questo film bello e necessario, in cui convivono la sensibilità per il reale (la consuetudine con gli elementi della natura e le cose della vita), il senso del cinema (il cinema è arte e spettacolo, ha un linguaggio che bisogna saper usare), il bisogno di raccontare storie e vicende esemplari, capaci anche di educare al rispetto dell'uomo (ogni uomo, donna, bambino) e alla consapevolezza della storia.

Si evoca una vicenda poco conosciuta, il dramma degli Jenisch, una minoranza nomade - si dice che sia la terza più numerosa, dopo Rom e Sinti - perseguitata nella democratica e modernissima Svizzera: centinaia di minorenni portati via alle loro famiglie nell'ambito di un programma di “rieducazione” per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Piccoli rinchiusi in istituti, dati in adozione a povere famiglie svizzere, a volte segregati in prigioni e ospedali psichiatrici.

Una persecuzione di Stato cominciata nel 1926 e andata avanti fino al 1973, che abbiamo conosciuto meglio grazie al romanzo Il Seminatore di Mario Cavatore (edito da Einaudi), a cui Diritti si è ispirato, per poi andare oltre, raccontando la storia di Lubo, artista di strada che si ritrova soldato, a difendere i confini svizzeri in epoca nazista, e a cui uccidono la moglie e sottraggono i figli.

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La sua rabbia e il suo dolore si trasformano in una ricerca disperata, nei panni di un ricco mercante ebreo, a cui ruba l'identità, con i modi di un raffinato Don Giovanni, che inganna e conquista eleganti donne della borghesia svizzera (alla faccia di chi vuole l'estinzione degli Jenisch), salvo poi riscoprire l'amore. C'è il dramma insieme all'affresco storico, ma anche il “film d'azione” (interiore) che vira quasi al poliziesco, e il cinema dei sentimenti, c'è la rude poesia del paesaggio che Diritti maneggia come pochi, insieme alla storia di un uomo che si fa simbolo, metafora, denuncia, interpretato da un Franz Rogowski particolarmente intenso. Grande cinema che, pur senza indulgere nel melò (o forse proprio per quello), riesce ad essere straziante.

Un co-produzione italo-svizzera, che vede insieme Indiana Production, Aranciafilm con Rai Cinema, Hugofilm Features e Proxima Milano, oltre alla RSI Radiotelevisione Svizzera. Distribuito nelle sale da 01 Distribution a partire dal 9 novembre.

Q

ual è la genesi del film? Perché hai deciso di raccontare questa storia?

Ormai molto tempo fa un'amica mi ha parlato del romanzo di Mario Cavatore, un libro particolare, molto forte. Mi ha colpito scoprire che anche la Svizzera, nell'immaginario comune esempio di democrazia e qualità della vita, avesse i suoi scheletri nell'armadio. Il Seminatore mi ha appassionato per i suoi elementi di grande forza narrativa e cinematografica. È stato l’ispirazione fondamentale e ha mosso l’urgenza di farne un film, che successivamente ho scelto di sviluppare con percorsi narrativi differenti.

Dopo la lettura ho incontrato anche Mario, che avevo in precedenza conosciuto solo superficialmente, sul set di un documentario a Cuneo. Siamo diventati amici, ci siamo I nomadi, i migranti, le persone in cammino, frequentati più volte, abbiamo avuto negli destabilizzano e inquietano la nostra società, anni un dialogo di idee e sensazioni su varie cose. La storia degli Jenisch, la politica, diventata stanziale da tempo. Ma se l'umanità non la vita, il cinema. Purtroppo, mentre reasi è estinta, qualche migliaio di anni fa, è grazie alle lizzavo Volevo nascondermi, la malattia di cui era affetto l’ha portato via. È stato persone che camminavano, attraversando i continenti un dolore, ma anche una motivazione in più per portare il progetto a compimento dopo anni di tentativi. Una bella avventura in tutti i sensi, complicata, delicata, intensa, condivisa con passione da tutti i coproduttori e da chi ci ha lavorato. Un percorso nel tempo e nei luoghi attraverso i sentimenti. Un film di cui sono molto contento.

Per quanto un Paese sia moderno, evoluto, civile, evidentemente non basta mai.

Se poi c'è un tema che anche i più aperti e progressisti fanno fatica ad af frontare obiettivamente, è quello dei nomadi, i più diversi tra i diversi.

Sì, i nomadi, i migranti, le persone in cammino, come ricorda anche l’incipit del libro di Cavatore, sono sempre stati un problema. Evidentemente destabilizzano e inquietano la nostra società che è diventata stanziale da tempo. Ma mi piace ricordare che qualche migliaio di anni fa l'umanità non si è estinta grazie alle persone che camminavano per centinaia di chilometri, attraversando i continenti. Si spostavano per cacciare, per raccogliere frutti. È una memoria “genetica” che nell’evoluzione della specie si è un po’ persa.

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Giorgio Diritti

Franz Rogowski è Lubo

La stanzialità ha acquisito un significato sempre più importante e ha favorito la paura del forestiero. La presenza vicino a casa di persone che hanno come unico "spazio” il camminare, la strada, il carro, la roulotte, ha creato e crea ancora disagio, paura. Vedere qualcuno senza “una terra”, una casa stabile, ha fatto sorgere anche la domanda: “ma questi come campano?” Da lì le leggende, e in alcuni casi la verità, sugli “zingari” che rubano.

In ef fetti nomade, per il senso comune, è sinonimo di ladro, o comunque di persona che si arrangia.

Tanti anni fa andai in un campo nomadi vicino a Bologna e mi ricordo una discussione avuta con uno di loro su questo argomento. Fece una battuta: “Dicono che noi non lavoriamo, ma io vedo in giro, in centro a Bologna, tanta gente che cammina. Stanno lavorando?

Anche noi andiamo in giro e stiamo lavorando”. Poi mi disse: “Non è vero che tutti rubano. E comunque da altre parti non rubano, forse? Solo che sono più furbi, lo fanno con la cravatta. C’è il buono e il cattivo sia qui che lì”.

Esiste anche la parte più virtuosa nel mondo nomade. Ne fanno parte gli Jenisch svizzeri.

Venditori di ceste, scope, tegami, musicisti e artisti di strada. Alcune ricerche sulla musica del centro Europa portano a dire che i famosi valzer della musica da ballo austriaca derivano dalle sonorità Jenisch, dalla loro musica popolare.

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Alessandro Zappella e Valentina Bellè

Il nomade non si lascia integrare, è questo che disturba, non lo possiamo conformare alla nostra idea di civiltà. Sf ugge.

Il nomade vive dentro un evidente senso di libertà. Cosa che noi, nella nostra società evoluta, abbiamo ridotto più o meno consapevolmente. Siamo convinti di essere liberi, ma siamo prigionieri di orari, schemi, formule, abitudini. Condizionati in quel meccanismo complesso dell’evoluzione che regala grandi facilitazioni ed opportunità, ma che allo Sono troppi i minori che subiscono violenza, stesso tempo complica la nostra vita e riduce la libertà.

che muoiono per colpa di adulti incapaci di costruire la pace. Difficile pensare che quel seme di male che nasce dalla guerra non generi poi altro male

Uno degli aspetti più af fascinanti del film sta proprio nella necessità di identificarsi con un artista nomade, che viene trasformato in un uomo violento dalla violenza del mondo. È un antieroe dalla moralità discutibile, che però ha una sua verità, che ci provoca, e ci apre gli occhi sulla dif ferenza che c'è tra la legge, la regola, e la giustizia.

Come si vede all'inizio, Lubo è un uomo che vive la sua vita con gioia, fa i suoi spettacoli di strada, ha la sua famiglia. È in una condizione di vita “tranquilla”, che tutti noi desideriamo avere, a prescindere da ciò che facciamo. Il fatto che subisca una grande ingiustizia ci fa stare dalla sua parte. Nasce un’empatia perché anche noi ci sentiamo traditi e derubati del senso della vita, insieme a lui, schiacciati da qualcosa che è più grande della nostra immaginazione. Credo che da lì ci si appassioni alla sua storia.

Inoltre c’è un richiamo forte anche alle vicende dei nostri giorni. La condizione di quei nomadi, dei loro bambini rapiti, è purtroppo attuale per i bambini dell’Ucraina, rapiti e portati in Russia, e per quanto è successo e sta succedendo in Israele e a Gaza.

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Sono troppi i minori che subiscono violenza, che muoiono per colpa di enti, stati, leggi… adulti incapaci di costruire la pace. Per ogni vita rubata, segnata, non ci può essere giustificazione possibile. Difficile pensare che quel seme di male che nasce dalla guerra non generi poi altro male.

La Svizzera, se non altro, anche se dopo molti anni e molte insistenze, ha riconosciuto il sopruso e ha risarcito buona parte delle famiglie che avevano subito quelle violenze. Un segnale positivo. Nel sito della Pro Juventute si parla di questi fatti come di una grande discriminazione e violenza, un grave errore. Ma dobbiamo lottare per non dover arrivare alla necessità di risarcire.

Sapevamo della situazione critica in Palestina da tantissimi anni, ma è una pentola a pressione che abbiamo lasciato sul fuoco, facendo finta di niente per troppo tempo. La comunità internazionale sovente è incapace di prevenire, e gli interessi economici alimentano le conflittualità etniche e religiose. Serve un'educazione al rispetto della diversità, per costruire e difendere la pace e la vita delle giovani generazioni.

Giorgio Diritti

Dopo i bambini dell'Ucraina, abbiamo visto i bambini uccisi da Hamas e rapiti dalle loro case in Israele. Ora vediamo i bambini sotto le bombe a Gaza. Nel film, ad un certo punto, si dice: : “Un uomo che sbaglia lo si mette in galera. Ma se c'è uno Stato che fa una legge idiota, chi mettete in galera?”. Quando è uno Stato a sbagliare come si rimedia?

In ogni tuo film si entra in mondi alieni, si guardano le cose da un altro punto di vista. Anche qui nella prima inquadratura c'è un ragazzino che si af faccia su una piazza dove si esibiscono gli artisti di strada, e da quel momento siamo nel loro mondo. Che tu racconti con uno sguardo aperto, non giudicante, empatico ma anche distaccato. Non c'è nessuna concessione alle emozioni facili, al melodramma. Quando Lubo viene a sapere della tragedia che ha colpito la sua famiglia, c'è un stacco sul piano medio, un pudore che rende il dolore ancora più straziante. E questo succede anche in altri casi, come a voler sollecitare lo spettatore alla coscienza, la consapevolezza, senza farsi travolgere dalle emozioni.

Cerco di evitare la dimensione melodrammatica, gli eccessi, preferisco costruire un senso di realismo. È necessario anche un rispetto nei confronti delle persone che realmente hanno vissuto vicende come queste. Da un punto di vista più cinematografico, credo che per certe situazioni sia più efficace uno sguardo distante, perché in quella “misura di distanza” entra lo spazio del nostro sentimento. Certe esperienze forti, più grandi di noi, hanno bisogno di essere viste nella semplicità del male, nello smarrimento, nella solitudine.

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Alena Ettea

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Nella prima parte del film ci sono il bosco, la neve, la notte, il rapporto con gli elementi, la vita del soldato e quella del f uggiasco. È un mondo che ci hai già raccontato, con grande ef ficacia. Dall'altra ci sono ambienti quasi viscontiani, eleganti e tetri, dentro inquadrature fisse, con scene d'amore che sono quasi scene di morte. Dove Lubo mette in atto la sua vendetta.

Era fondamentale esprimere la trasformazione di Lubo, anche con scelte precise di ambienti e inquadrature. Il suo è un percorso complesso, un sovrapporsi di varie sensazioni, la solitudine, il desiderio di dare un senso alla vita, la necessità di ritrovare i suoi figli.

C'è anche un senso di vendetta, quando seduce quelle signore altolocate e borghesi, che non sanno di avere a che fare con uno zingaro. Gli hanno portato via i figli, ha perso tutto...

C’è un travaglio, una complessità, che si modifica nel tempo, giorno per giorno, evento dopo evento.

Una complessità in cui trova spazio anche l'amore, e momenti di gioia.

A un certo punto, nell'evoluzione del personaggio, la dimensione del dolore e della rabbia è superata in un incontro che rende possibile ricostruire la normalità. Poi il destino lo porta su altre strade. Ma era importante raccontare questa complessità, questa sua confusione. Quando si subisce qualcosa di così forte e drammatico, è importante anche il ritrovarsi.

Parlando in generale del tuo cinema. Qual è l'idea, l'intenzione, che sta alla base del tuo lavoro? Se ce n'è una in particolare.

Mi piace raccontare l'umanità nella sua bellezza e nelle sue contraddizioni, negli orrori, e in particolare la marginalità, la diversità, il senso di comunità.

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(foto Sham Hinchey)

Giorgio Diritti

Martin Vienna e Gemma Sacco

Cerco di fare film che abbiano una grande forza spettacolare e narrativa, offrendo degli spunti di riflessione. La scommessa è quella di credere nella diversità come arricchimento.

Non è certo facile. Purtroppo, ahimè, la cronaca ci racconta che anche i figli dello stesso sangue, i figli di Abramo, sono lì che si sbranano.

Per me è importante l'attenzione al mondo dell'infanzia perché sarà la società del futuro.

Che siano i bimbi Jenisch o Martina dell'Uomo che verrà, richiamano la nostra dimensione d'infanzia, quando il mondo ci sembra una cosa bella da vivere e scoprire. Oggi questo senso di felicità viene schiacciato spesso dall'affettività fittizia, il consumismo, l'attaccamento agli oggetti. Mi preoccupa anche la delega di molti genitori al telefono come strumento di intrattenimento dei figli. Vedo bambini sul passeggino in pizzeria con un cellulare in mano. Non dobbiamo dimenticare quanto sia importante l'affettività, il rapporto fisico, la positività, cose che vanno seminate negli anni della crescita, per poi riverberarsi nella vita, per se stessi e per gli altri.

Tu non sei certo uno di quei registi che fanno film in serie, tanto per farli. Passano almeno 3-4 anni da una tua produzione all'altra. Ma sei anche il regista di Il vento fa il suo giro, auto-prodotto, che in un certo senso ha fatto scuola. E oggi arrivi a questa produzione importante, che ha anche un respiro internazionale. In un momento in cui si discute sui tagli al finanziamento del cinema italiano. Cosa consiglieresti al giovane che oggi vuole entrare in questo mondo, che ha delle cose da dire, quindi ha una necessità espressiva, più che la volontà di entrare nell'industria del cinema?

La prima cosa da fare è sentire il desiderio e la voglia di “raccontarsi”, con un proprio sguardo sul mondo. Avere un'identità. Nasce da qui il punto di vista originale. Oggi la tecnologia permette di fare un film veramente con poco e quindi se c'è qualcosa di importante da raccontare viene fuori.

Giorgio Diritti prepara una scena insieme a Rogowski

(foto Giorgia Zamboni)

Poi, se vogliamo che il cinema non sia solo intrattenimento, ma abbia anche uno spessore culturale, e sia in grado di smuovere un pensiero creativo, sociale, affettivo, è importante che lo Stato faccia la sua parte. I tagli non sono mai una buona regola. Gli autori italiani vanno aiutati a realizzare cose che abbiano un respiro internazionale, per favorire i meccanismi di diffusione all'estero. Se il cinema vuole sopravvivere oggi deve avere un alto livello qualitativo.

Tu hai spesso sottolineato anche l'importanza della formazione scolastica.

Sarebbe importantissimo riuscire a far sì che in Italia il cinema diventasse materia reale di insegnamento a livello scolastico. Il calo di pubblico in Francia non c'è perché il cinema in Francia viene insegnato. I film sono importanti per capire la storia contemporanea e passata, hanno un impatto sulla coscienza e la sensibilità dell'uomo, penso che sarebbe prezioso portarli alle giovani generazioni, dentro il loro percorso didattico.

Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?

No, non sono certo uno velocissimo. Ma ho già due o tre idee. Vediamo quale vince.

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(foto Andrea Ciccalè)

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Giorgio Diritti

(foto Thomas Darlis)

INCONTRI

Marta Del Grandi Una voce magica, che ti porta via. Una Selva piena di suoni eccentrici e belle canzoni. La natura e l'arte dell'altrove

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i sono voci che sembrano esistere a prescindere da un corpo, una storia, un genere musicale, un'intenzione artistica. Con una qualità aerea, misteriosa, che le rende uniche, ma anche una duttilità che si presta a qualsiasi trasformazione. Voci temprate da una disciplina severa, che poi si liberano con una naturalezza che le fa sembrare nate qui e ora, come un soffio di brezza improvviso, o emerse dal fondo di un lago calmo, cristallino.

La voce di Marta Del Grandi è jazz, ma può diventare anche rock e (art)pop, si presta benissimo alla ballata folk, si adagia sui suoni lunghi, evocativi, della musica ambient, si inerpica sulle pareti scoscese di scale impossibili, avanguardiste, si sdoppia e si fa coro surreale.

Selva è il titolo del suo nuovo disco e anche una sua descrizione plausibile, un paesaggio di suoni, canzoni, invenzioni cresciute spontaneamente come alberi e arbusti di un bosco-giardino segreto, in cui la voce di Marta si aggira come fosse l'anima di quel mondo (multipla, metamorfica), il genius loci di un luogo che non c'è. Anche se, in questo caso – rispetto al precedente Until We Fossilize (bellissimo anche quello) – la forma canzone sembra punteggiare il discorso, stabilire delle coordinate, che portano verso una comunicazione più intima, personale.

La copertina dice già tutto. Il volto di Marta è sfocato, è solo colore, sfumature di luce (rosa), una forma che si intravvede dentro una nebbia che potrebbe essere un suono o uno stato dell'anima, qualcosa di estatico

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(Foto di Cecilia Fornari)

più che estetico, sfuggente, ma proprio per questo evidente, più reale di tutte le cose nitide e illusorie di cui amiamo circondarci. Uno spirito dell'aria. Ecco qual è il carattere, l'identità profonda di questa artista e della sua musica, la magia della sua voce, che si incarna malvolentieri in una forma troppo definita, che vorrebbe esistere come suono inafferrabile, per poi dare vita a canzoni che incantano.

E allora nasce la curiosità. Il desiderio di conoscere lo strumento che genera questo suono. Chi è Marta Del Grandi? Abbiamo provato a capirlo, in un'intervista a tappe, cominciata in estate e terminata in autunno (il mese di ottobre, prima delle solite nebbie, ci ha regalato una specie di agosto tardivo, anche in Pianura Padana).

In cui è emersa la sua autenticità e la sua personalità lunare, poco incline a parlare di sé (pudore, più che timidezza), senza alcuna propensione per il marketing (quell'auto-promozione che sembra la maggiore qualità di tanti giovani artisti di successo nel panorama odierno), ma un amore sincero per la musica, la ricerca, la bellezza in ogni sua forma. “Arte per l'arte”. Sembra quasi un'espressione offensiva, oggi, in tempi in cui la comunicazione è tutto, e ciò che conta è il tema, insieme all'immagine di chi lo propone. Marta preferisce stare “fuori fuoco”, inafferrabile, impalpabile, concentrata sulla qualità emotiva della sua musica, la sua forza gentile. Che è quella della natura, così presente nei suoi pezzi, vista nei suoi aspetti meno eclatanti e spettacolari. Con una finestra aperta sull'oltre, un'altra dimensione possibile.

Marta fa le cose seriamente, ma senza prendersi troppo sul serio. È più anarchica che programmatrice, come si conviene agli elementi della natura. Professa modestia, giustamente, non essendo una popstar, anche se poi ascoltando Mata Hari si ha l'impressione di trovarsi di fronte a una hit (raffinata), dentro un video minimal che è una meraviglia, un teatro d'ombre – l'incontro con Cecilia Valagussa continua a portare frutti, in forma di Fossick Project (cercatelo online) – in cui Marta Del Grandi dimostra anche una forte presenza scenica, un fascino quasi esotico, che ammalia.

Ma forse la sua dimensione più vera è quella del campo lungo, acqua, monti e cielo – e Marta col suo cane lontano, in controluce - in cui si dipana la dolcezza malinconica di Marble Season. D'altra parte in questo nuovo disco trovi sia il minimalismo cantabile di Eye of the Day, sia un pezzo folle come Polar Bear Village, che parte come un carillon della Penguin Café Orchestra e prosegue come i Genesis prima maniera. Ci sono le percussioni ipnotiche e la voce straniante di Snapdragon, ma anche la canzone quasi folk (Two Walves), la ballata che potresti ascoltare in uno sperduto locale di una provincia americana (Stay), la rarefazione di Good Story, un tuffo nell'aperto, l'esplorazione del limite della deliziosa End of the World. Poi c'è

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Selva, un momento quasi metafisico, un piccolo nirvana, in cui l'apparizione improvvisa dell'italiano suona come l'apertura di uno scrigno segreto: «Sentieri tortuosi, si intrecciano stretti, in forme mai viste, il cuore si perde».

Uno può sentirci ciò che vuole in questo disco, da Suzanne Vega a Meredith Monk, da Kate Bush a Norma Winston, perché tanto alla fine ciò che rimane è Marta Del Grandi. Una cittadina del mondo sui generis, con il cuore in una provincia che è mezza città ma è quasi campagna (ad Abbiategrasso, dove abita, e dove ci incontriamo per l'intervista), e tutto il resto a girare il mondo, dal Belgio al Nepal, passando per la Cina, da Londra a New York.

Ancora una volta, e non potrebbe essere altrimenti, si tratta di un disco targato Fire Records, etichetta indipendente britannica, con sede a Londra (ma distaccamenti che vanno da New York a Bologna), diventata celebre negli anni '80 per aver lanciato band come i Pulp, i Blue Aeroplanes o The Committee, che negli anni '90 ha alimentato l'underground newyorchese e che nei 2000 ha portato in dote al panorama musicale la sua prolifica curiosità (dal desert rock dei Giant Sand agli ultimi album dei mitici Pere Ubu, dalla cantautrice inglese Jane Weaver ai Lemonheads e i Guided By Voices).

Il posto giusto è quello che ti aiuta a creare il “vuoto”.

Esatto. Ma anche la residenza artistica può essere una bella dimensione, soprattutto se fatta con altri. Fossi da sola probabilmente butterei via il tempo, come lo butto a casa o da qualsiasi altra parte. Il mio è un auto-sabotaggio totale.

Until We Fossilize aveva creato un'aspettativa. Pesava anche quella?

Sicuramente aveva creato qualcosa. Ma non so se era un'aspettativa. Ormai escono così tanti dischi belli, interessanti, di artisti nuovi. In questa epoca c'è talmente tanta roba che è anche giusto non sentirsi tanto importanti. Forse aveva creato qualcosa di non scontato, per cui in Italia non esiste uno spazio discografico. Anche se poi non è che l'estero sia la mecca della musica. Sì ci sono Parigi e Berlino, dove c'è più musica live, ci sono Londra e New York, ma se sei un'artista del sud dell'Europa nel mondo anglosassone sei completamente invisibile. Poi le cose magari succedono in certi territori più ricettivi, in Francia o in Germania. Fossilize aveva creato un'aspettativa che forse era solo mia, ma non volevo aspettare troppo per far scendere l'energia creativa.

Quindi non sei l'artista metodica che sfida il foglio bianco, sei più intuitiva, anarchica.

Non sono per niente metodica. Per me è una questione di ispirazione e di necessità. Una grande luce nel buio.

Ma siamo comunque degli animali con uno spirito di sopravvivenza che ti porta a fare quello che devi fare.

Nel mio caso, ad esempio, mi ha portato a prenotare una settimana in uno studio di registrazione, tanti mesi prima, l'estate scorsa. L'ho prenotato in Belgio, a Gent, dove ho studiato tanti anni, con un ingegnere del suono che mi piace molto. Mi sono presa un impegno con lui, in modo da avere un dovere nei suoi confronti. Poi, come sempre, ho procrastinato fino all'ultimissimo.

Io per natura faccio di tutto per sabotarmi, poi però c'è un'architettura delle cose, faccio comunque dei passi avanti, anche se non sembra, e arrivo dove devo arrivare.

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C

ome è nato questo disco? È nato dalla necessità di non essere sopraffatta da ciò che il disco precedente aveva creato.

Ho trascorso un paio d'anni stando molto in tour e poco a casa, quindi poco concentrata, poco presente in uno spazio creativo. È nato nei “momenti”, i buchi, i ritagli di tempo.

Scrivi dove capita?

Scrivo in tanti modi diversi. Sia perché decido “oggi scrivo un pezzo”, cosa rarissima. Sia scrivendo a pezzi.

Non lo avrei mai detto, ma mi sono messa a scrivere anche sul telefono, per non perdere cose preziose, note scritte a cui ritorno ogni tanto, melodie che mi vengono in mente e che magari sviluppo cinque mesi dopo.

Fosse per la tua natura, non lo faresti neppure un disco.

No. Preferiresti vivere in tour?

In realtà la creazione è molto più importante del tour, dove l'energia va all'80% alla logistica, e quello che resta va nel live e nell'interazione umana. Il live mi piace perché questo è un momento della mia vita in cui lo posso fare e lo voglio fare. Ma mi manca lo spazio per stare tranquilla. Il discorso di prendere la mia carriera sul serio è nato in pandemia, quando ho avuto tanto tempo libero ed ero obbligata a stare ferma. Quella è una situazione in cui si è liberi di lasciare finalmente fluire le cose. Il nuovo disco è nato con pezzi molto diversi, alcuni anche molto vecchi, come Marble Season.

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Bellissimo pezzo.

Anche a me piace molto. Adesso, per fortuna, il disco mi piace. Quando l'avevo finito mi sembrava orrendo. Mi dicevo: ma che cos'è? Nessuno lo ascolterà! Adesso sono in una fase in cui tutti cominciano a dirmi cose che io non avevo capito del disco.

Until We Fossilize era un contenitore di tante cose diverse, unite da un suono e un'atmosfera, il colore della tua musica. Anche questo è molto eclettico, ma sembra più un “progetto”, forse perché usi molto di più la forma canzone.

Pensa che per me invece è il contrario. Quello era un disco pandemico, registrato tutto da remoto, mixato in America, lavorato su skype, però aveva un colore forte e una narrazione coerente. Questo l'ho chiamato Selva perché sembrano tutte piante un po' strane che ho messo insieme in un boschetto. Ho messo il cactus accanto all'acero rosso.

Si va in tanti posti diversi, ma c'è la tua voce che tiene insieme tutto. Ed è un disco molto più intimo e quindi anche più comunicativo.

Più umano, forse. Questo è un disco sicuramente più caldo. Non so se avessi una visione di insieme mentre lo stavo facendo. Ho lavorato con Bert Vliegen, coproduttore. Abbiamo fatto una settimana di pre-produzione in un piccolo chalet, molto frugale, che abbiamo affittato in Belgio in cui abbiamo lavorato molto sui pezzi.

Marble Saeason ad esempio era un pezzo non finito, non c'era il bridge, non sapevo come chiuderlo. E lui ad un certo punto mi fa: “Smettila di procrastinare, adesso devi scriverlo! Ti prego, prenditi un'oretta!”. Quando abbiamo finito di registrare il disco, in Selva non c'era ancora quella frase-haiku in italiano. Poi lui mi ha detto: “Se senti che ci deve essere, prima di iniziare a mixarlo, registrala da casa tua”. Per me è difficile pensare in termini di “suono”. Il lavoro di un produttore forse è quello.

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Le belle cose, a volte, nascono così. Tante piccole casualità, che a poco a poco fanno apparire il disegno, anche se magari all'inizio era difficile distinguerlo. Un po' me lo vedo questo bosco-giardino in cui ci sono piante che in teoria non dovrebbero stare vicine, ma finiscono per dialogare tra loro.

C'è l'elettronica e l'acustica, rumori concreti, fiati, suoni eterei che ti portano via, melodie e distorsioni al contrabbasso...

Per Fossilize avevi lavorato con il mitico Shahzad Ismaily.

Anche se in realtà il disco l'ho prodotto io perché non potevo permettermi di lavorare con uno come lui. Però lui mi ha molto aiutata. Abbiamo lavorato a distanza.

Lui ha mixato e ha registrato le batterie, che è una cosa che non ha prezzo, sono stava veramente fortunata. Ho avuto questa opportunità solo perché in quel momento era a casa, poi, finita la pandemia, ciao, chi lo vede è fortunato. Lui crede moltissimo nella tua musica e nelle tue idee. Non è un musicista di formazione, ma ora qualsiasi cosa tocca si trasforma in un capolavoro. Ai musicisti con cui lavora cerca di trasmettere la fiducia in se stessi, nella propria energia. Il mio nuovo disco forse non è così iconico a livello di suoni e timbri, è più eclettico, eterogeneo.

La voce non è solo una cosa estetica che comunica. È qualcosa che ti consente di entrare in un'altra dimensione.

Ecco perché si fa musica. Per quei rarissimi momenti in cui ti sembra di accedere a una dimensione diversa,

Perché il Belgio?

Per l'Erasmus. Ed è stata una fortuna. Al Conservatorio di Milano, quando lo frequentavo io, c'era solo un'aula a disposizione. Non c'era posto per studiare, per sedersi, non c'erano i maestri. In Belgio ho pagato metà di quello che pagavo in Italia per fare il biennio, c'erano perfino due studi di registrazione all'interno della scuola, oltre all'aula per studiare tutti i giorni, maestri tutte le settimane, il pass per entrare a tutti i concerti a 5 euro per un anno.

Lì hai scoperto che la voce è uno strumento.

Esatto. Ho scoperto la tecnica vocale estesa. Meredith Monk, Theo Bleckmann, Blixa Bargeld... Quando ho ascoltato Blixa per la prima volta a Milano sono rimasta sconvolta, non lo dimenticherò mai. Mi sono detta: la voce è molto più di ciò che pensavo che fosse, non è solo una cosa estetica che comunica. È qualcosa che ti connette con un'altra dimensione. Ecco perché si fa musica. Per quei rarissimi momenti in cui ti sembra di accedere a una dimensione diversa, altra.

Però c'è la tua voce, intorno a cui puoi costruire ciò che vuoi. È limpida, cristallina, ma anche profonda, sembra capace di qualsiasi cosa. Ci hai lavorato tantissimo.

Sì, tanto, in modo compulsivo, quasi ossessivo, durante gli anni di scuola. Facevo scale tre ore al giorno, i pattern di Charlie Parker fino alla morte, perché volevo fare la cantante jazz. Poi ho capito due cose. Uno: che quel lavoro non esiste. Due: che ti limita molto a livello identitario, sei una ragazza italiana che ha deciso di cantare musica americana.

Un al di là spirituale, un altrove, un diverso stato di coscienza? Come lo vogliamo chiamare?

Non lo so. Ma mi ricordo di aver letto una cosa detta da Michael Brecker, sassofonista jazz: quando ha veramente capito come suonare i modi della minore melodica, cioè come uscire dall'armonia che tutti sentiamo ed entrare in quell'altra, “la terra ha tremato”. Ci sono pochissimi momenti nella vita di un musicista in cui accade.

Nel periodo in cui avevo scoperto la tecnica vocale estesa, avevo un'insegnante nel conservatorio a Gent, Chrystel Wautier, che aveva un approccio basato molto sulla visualizzazione, l'immaginazione, rispetto allo strumento vocale. Un approccio che con me ha funzionato. Non è la solita cosa tecnica, “mettiti così, apri di là, spingi”, che già avevo fatto, tanto che avevo una tecnica rilassata, che non mi costringeva. Il suo insegnamento mi ha dato una dimensione diversa, figurativa, basata sulla proiezione e l'emissione.

Non ti bastava neanche dal punto di vista espressivo.

Sicuramente no. Alla fine ho studiato in Belgio dove c'è molta più libertà all'interno della scuola e dove c'è anche una tradizione di improvvisazione free jazz.

Fossilize costringeva noi ascoltatori a venire verso di te. In Selva invece sei tu che vieni verso di noi e ci racconti qualcosa che ascoltiamo volentieri. Ci sono anche temi importanti?

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Mata Hari suona molto bene, “f unziona”.

Non è diventata una hit, però è un pezzo abbastanza commerciale. Diciamo art-pop. Anche Stay.

Tu non mi sembri il tipo d'artista che sta troppo a pensare per chi sta scrivendo la sua musica.

No. Infatti.

Come definisci il tuo genere?

Non è facile rispondere. Oggi purtroppo sottostiamo a logiche dettate da Spotify. In Italia, ad esempio, non c'è una categoria a cui posso appartenere. Ma Snapdragon è finito in una playlist “experimental” internazionale, piccola e molto seguita, che mi sta definendo in un certo modo e mi porta ascoltatori nuovi anche negli Stati Uniti.

“Sperimentale” non suona male.

Io mi sento una sperimentatrice. Ma mi piace anche la forma canzone, mi piace il pop. Non so se continuerò a scrivere sempre in inglese. Me lo sto chiedendo. Negli ultimi due anni ho lavorato molto con i Casino Royal, ho scritto un paio di pezzi in italiano e Alioscia mi ha spronata a farlo di più. Anche i discografici me lo chiedono: “un album in italiano non lo vuoi fare?”. Il segreto credo sia scrivere di più.

In te convivono due aspetti, legati anche alla tua biografia. Uno radicato nel territorio in cui sei nata, una certa idea di comunità, intimità, protezione (forse anche claustrofobia), un certo rapporto con la natura e le persone, e poi la scoperta del mondo, l'avventura, gli orizzonti esotici. C'è il folk, ma anche “il cosmo”.

Io la sento questa dicotomia. È presente anche a livello di necessità. Ma dipende dai momenti. Questo ad esempio è un periodo in cui non ho voglia di viaggiare. C'è un tempo per tutto.

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Diciamo che è un disco molto personale, che parla anche tanto di me, di cose che ho vissuto. Era una cosa che volevo fare, finalmente. Poi ci sono canzoni come Mata Hari e Eye of the Day che sono nate dentro il Fossick Project.

Good Story e The End of the World, invece, le ho scritte per lo spettacolo Gilgamesh. Io scrivo molto con Cecilia, facciamo residenze, ci chiudiamo dentro e creiamo.

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Musicalmente hai preso qualcosa da quella terra?

Credo di no. Nei primi quattro mesi a Kathmandu ho suonato molto da sola, sulla mia chitarra, ma non ho scritto pezzi influenzati da quella cultura.

Poi sei tornata di nuovo in Estremo Oriente.

Mi sono trasferita di nuovo in Nepal, un anno e mezzo dopo. Non volevo più vivere in Europa, avevo deciso di rimanere in Asia. Poi ho capito che in Nepal era impossibile trovare un vero lavoro con cui mantenermi e ho accettato un'offerta di lavoro in Cina. Ma è stata una bruttissima esperienza, da cui sono tornata anche fisicamente deperita. In Cina la qualità dell'aria, dell'acqua, del cibo è nettamente inferiore alla nostra, non c'è mai il sole, vivi in una nebbia perenne, non puoi camminare per strada perché non si usa... Davvero estremo.

Tornata in Europa non sapevo bene cosa fare della mia vita. Per amore ho deciso di trasferirmi di nuovo in Nepal. Non avevo più voglia di vivere in Belgio. A Kathmandu ho cominciato a fare la curatrice, organizzavo concerti in spazi informali, poi abbiamo iniziato a ideare altre iniziative insieme a varie organizzazioni, siamo arrivati anche a fare un piccolo festival nel 2019. Era un lavoro dietro la quinte.

Ogni tanto scrivevo delle canzoni, ma non è che suonassi più di tanto. Ho ricominciato davvero solo quando sono

tornata dal Nepal. I Marta Rosa (con cui ha inciso Invertebrates nel 2016, ndr) stanno a cavallo tra il rientro dalla Cina e la ripartenza in Nepal. Non ero ancora pronta per quella scelta, probabilmente. Per farlo devi essere disposta a sopportare anche la frustrazione, il senso di inadeguatezza, l'incertezza economica. Altrimenti è meglio lasciare stare, perché non ce la fai. Ai tempi non avevo ancora deciso di fare questo lavoro.

Ma quando hai deciso davvero? Quando hai capito che dovevi fare la musicista?

Se mi chiedevi alle elementari cosa volevo fare da grande ti dicevo la cantante. L'ho sempre saputo. Ma io vengo da una famiglia mezza intellettuale, in cui tutto sono laureati, ho studiato al liceo classico, mi sono iscritta all'università, e non avevo quell'imprinting per cui nella vita è anche possibile fare l'artista. Ci sono anche quelli geniali già a 18 anni, che scrivono pezzoni incredibili e cominciano quasi per caso. Altrimenti, per decidere di fare questo lavoro, deve esserci qualcuno in famiglia che già lo fa o è vicino all'ambiente, e quindi sa che questo può essere un lavoro. Anche il genitore che ti capisce e ti sostiene è difficile che ti dica: sì, puoi fare la musicista!

Al massimo ti consigliano di fare l'università, per poi studiare musica nel tempo che rimane.

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In Nepal hai trascorso quasi tre anni. Perché quella scelta?

Ci sono andata perché ho fatto uno stage. Mentre vivevo in Belgio e facevo il master, il biennio specialistico di canto jazz in Conservatorio, a un certo punto mi ero stancata e ho cercato nuove opportunità. C'era la possibilità di fare uno stage in un paese in via di sviluppo.

Io e una mia compagna abbiamo trovato una scuola di musica a Kathmandu e siamo andate lì. C'ero già stata con i miei genitori, dieci anni prima, ero molto piccola ma mi era piaciuta molto. Venendo dal nord dell'India, che ci aveva lasciato frastornati, in Nepal avevamo trovato davvero il paese del Buddha, tranquillo, pieno di persone gentili e felice. Ci sono tornata volentieri ed è stata un'esperienza molto bella. Mi piaceva insegnare. È un'avventura che mi ha segnato, perché avevo 26 anni, era la prima esperienza lavorativa full-time. Fu una specie di secondo Erasmus, vivevo con i colleghi e la sera andavamo a suonare nei localini.

Ma tu ad un certo punto hai scelto la musica e basta.

Tutto è partito dalla Scuola Civica di Milano a 2122 anni. Poi, quando ho finito l'università, invece di fare la specialistica ho scelto il Conservatorio. Ma ci sono tanti modi per fare i musicisti. Se sei un musicista jazz, non hai fatto la scelta di diventare il tuo progetto, quindi puoi essere e fare tante cose. Io ora continuo a fare tante cose, le varie collaborazioni, i progetti teatrali, ma all'80% faccio Marta Del Grandi. Per questo ci è voluto del tempo. È da pochi anni che sono pronta a prendere tutto ciò che arriva.

Le tue qualità sono indiscutibili, questo lo dicono in tanti, lo sai anche tu.

Sono contenta se qualcuno lo dice. Ho ascoltato un podcast in cui Vasco Brondi, che è un amico, un musicista completamente diverso da me, raccontava il periodo in cui faceva fatica anche a trovare gente che suonasse con lui. Aiutava nel bar di suo fratello, ma era un disastro anche a fare i cocktail. Poi ha incontrato Giorgio Canali, che ha creduto nei suoi pezzi e con “Le luci della centrale elettrica” è nato un progetto generazionale. Dice che la frase iconica “Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero”, che è diventata il simbolo di una generazione, in realtà era dentro una canzona scritta “per una tipa”... Oggi lui sembra molto consapevole di sé, ma ci si prende sul serio solo fino a un certo punto.

C'è un messaggio, un'idea di mondo e di realtà, nella tua musica? Di sicuro c'è una sensibilità ecologica, nata anche dal Fossick Project.

Tutti i riferimenti ambientali, ecologici, nascono come delle ispirazioni. Sono sempre stata ispirata dai fenomeni naturali, anche i più impercettibili, che hanno molti significati simbolici. Penso a Fossilize, ai fossili marini sulle montagne, ma anche a come si forma la madreperla nelle conchiglie, da cui è nato un lavoro concettuale. Chiaramente mi interessa la questione ambientale, ma difendo l'idea dell'arte per l'arte.

Natura o musica, l'importante è che sia bellezza.

Sì. Anche se capisco l'importanza nella nostra epoca del valore socio-culturale di ciò che si scrive. Penso ad esempio alla questione gender. C'è qualcosa anche nei

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miei pezzi, ma me ne accorgo dopo. Non sono abituata a decidere il tema prima di iniziare a scrivere. Però ci sono temi, argomenti che vivo o che mi frullano in testa e scaturiscono dalle canzoni. La terapia più profonda è creare un'opera d'arte. È una sorta di ipnosi. A volte ti escono delle cose e dici: oddio era questo!

Tu hai girato il mondo, componi una musica cosmopolita, scrivi in inglese, ma poi hai deciso di tornare a vivere in provincia. Come mai?

Non è una cosa che ho deciso troppo, è successa, perché sono rimasta bloccata qui nel primo lockdown. Però ero pronta per tornare, ho una casa qui, Milano mi piace, mi piace vivere in questa zona d'Italia, che è anche strategica, dove posso lavorare con molte persone. Ma allo stesso tempo non voglio vivere in città. Amo stare qua. E poi c'è il mio cane. Un nepalese, Mowgli, un bel cane rosso.

Qual è la tua redness, la cosa che ti dà la forza di alzarti la mattina?

Mi dico: “ecco un altro giorno nella favolosa vita di Marta! Oggi cosa facciamo?” È un po' così. Non c'è mai un giorno uguale all'altro. Mi piacerebbe svegliarmi un po' più spesso nel mio letto, ma sono pronta a nuove avventure. E poi c'è il mio cane, un'altra buona ragione per alzarsi la mattina.

T

roverete Marta Del Grandi in tour per tutto il mese di novembre. A partire dal 4 a Gent (Café Bornhem) e il 5 a Parigi, dove si cimenterà in un concerto “solo” al Bar Italia Records, per poi approdare il 15 a Ljunljana (Kino Šiska).

In Italia a novembre la potrete ascoltare a Venezia (il 16, Argo16), Torino (il 18, Magazzini sul Po), Bologna (il 25, Linecheck), Roma (il 26, Monk) e Milano (il 30, Biko).

Marta, però, sta preparando anche un lavoro teatrale su Mata Hari, sta portando avanti il Fossick Project con Cecilia Valagussa, e sarà piena di cose da fare fino a giugno 2024, quando comincerà il tour estivo.

Quindi avrà un sacco di occasioni per “sabotarsi”. Ma ha promesso che ricomincerà presto a scrivere il prossimo album. Le staremo alle calcagna. Le sue e quelle del magnifico Mowgli. (f.t.)

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LUOGHI

Dalla parte dei poveri, sempre.

Fra Marcello al servizio dell'Opera «SE TOGLI ALL'UOMO L'IDENTITÀ CHE GLI DÀ DIO, L'UOMO DIVENTA UNA VARIABILE INSIGNIFICANTE, NELLE MANI DI CHI HA PIÙ POTERE»

«D

istogliere lo sguardo, girarsi con fastidio dall’altra parte, assumere un atteggiamento di indifferenza incattivita: è la tentazione che sta prendendo il sopravvento in tanti di noi di fronte a quel fiume di povertà, come lo chiama il Papa, che sta allagando le nostre città e rischia di straripare.

“Ma basta frate! Sono sporchi, chiedono soldi, fanno i loro bisogni dappertutto, lasciano bottiglie in giro, quando non sono anche ubriachi… Ma prendeteveli tutti nei vostri conventi, basta che non debba trovarmeli tra i piedi quando porto giù il cane o rientro alla sera e li vedo dormire per terra sotto casa mia… così spaventano anche i miei figli!”.

Con una sfacciataggine che fa quasi tenerezza il Papa risponde a queste lamentele con la proposta “oscena” di invitare a pranzo una persona povera incontrata per strada, la domenica della Giornata mondiale dei Poveri (che ricorrerà il 19 novembre), magari offrendo anche la possibilità di andare un attimo in bagno prima di sedersi a tavola.

Ma siamo matti? Ma perché mai dovrei lasciare sporcare il mio bagno da un poveraccio, magari anche immigrato?».

Le parole di fra Marcello Longhi risuonano forte, mentre ci facciamo strada tra le persone in fila alla mensa. Una fila ordinata, formata da uomini e donne, giovani e anziani di ogni provenienza. Alcuni camminano a testa bassa, con lo sguardo nel vuoto, persi nel loro mondo fatto di dolore, forse anche di vergogna. Altri hanno l'espressione fiera, orgogliosa, di chi sa il fatto suo, e intende prendersi ciò che gli spetta. Qualcuno saluta, sorridendo, quando passa fra Marcello, che sembra conoscerli tutti.

Siamo all'Opera San Francesco per i Poveri a Milano, all'ora di cena. Sono solo le 18.30, ma la grande sala è praticamente piena. Una persona si avvicina, mostrando al frate una bistecca, che secondo lui è troppo cotta. Un'altra ci regala un bel sorriso sdentato, sincero, mentre si appresta a scegliere cosa mangiare. L'offerta è varia e sembra appetitosa: non si tratta di offrire ciò che capita, gli avanzi, le briciole che cadono dalla nostra tavola, ma pasti veri, buoni, in modo che chi li riceve si senta rinfrancato, accolto, rispettato nella propria dignità.

Tornando alle parole che fra Marcello ha scritto nella sua lettera mensile, sul sito dell'Opera ( www.operasanfrancesco.it): «Ma chi è questo poveraccio, italiano o immigrato? Rivedo i volti delle persone che con umile dignità accettano con un sorriso grato il cambio dei vestiti offerto nel nostro servizio guardaroba, rivedo gli occhi gentili e quasi Queste persone chiedono solo aiuto, chiedono commossi di una mamma col suo bimbo che esce dalla mensa con la di essere guardate con un po' di simpatia, con un po' mano al cuore e ti dice “Grazie… di rispetto per quella identità di donne, uomini, thank you… shukran!”. Perché non posso invece credere che quel fiume bambini che troppe volte hanno visto calpestata di povertà sia composto di persone che chiedono solo aiuto, chiedono cioè di essere guardati con un po’ di simpatia, con un po’ di rispetto per quella identità di donne, uomini, bambini che troppe volte hanno visto calpestata… Chiedono solo un po’ di umanità, una possibilità di futuro, un po’ di amore! Per chi è credente, chiedono di essere accolti come figlie e figli dello stesso Padre! Hanno gli stessi lineamenti di Gesù Cristo e sapranno ringraziare un giorno».

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L'Opera San Francesco per i Poveri è stata fondata dai frati cappuccini nel 1959 e «si impegna ad assicurare assistenza gratuita e accoglienza. Soddisfa i bisogni primari, come quello di avere un pasto caldo, di potersi fare una doccia e indossare abiti puliti, ma garantisce anche il diritto alla salute con visite mediche e medicinali gratuiti. Senza distinzione di etnia, cultura, religione e lingua. Offre inoltre supporto a coloro che si trovano in difficoltà per la ricerca di una casa, di un’occupazione e per la gestione delle relazioni interpersonali». L'anno scorso, tanto per rendersi conto dell'enormità del lavoro, sono state accolte 22.599 persone, con 657.865 pasti erogati, 43.409 farmaci distribuiti, 27.855 visite mediche, 24,499 docce, 5965 cambi d'abito.

L'Opera San Francesco di Milano, fondata nel 1959 dai frati cappuccini, l'anno scorso ha accolto 22.599 persone, offrendo 657.865 pasti, ma anche docce, vestiti, visite mediche. Dal 2019 è guidata da fra Marcello Longhi Tutto funziona grazie alle donazioni, ai volontari e a un'organizzazione impeccabile, che da qualche anno è guidata da fra Marcello. È toccato a lui, nel 2019, raccogliere la pesantissima eredità lasciata da padre Maurizio Annoni, che l'aveva ricevuta a sua volta nel 2000. Perché questa è una missione che si trasmette da una generazione all'altra, nel nome di san Francesco e di un'idea di accoglienza che va alla radice dell'essere umano, oltre le apparenze e le circostanze che plasmano la vita di un uomo o di una donna. Una fratellanza che nasce da una comune “figliolanza”, perché è difficile vedere nell'altro un fratello o una sorella se dalla vita si espelle Dio (comunque lo si voglia intendere o chiamare), se Gesù Cristo diventa una semplice opzione sul mercato del consumismo ideale, o peggio, un'astrazione religiosa, una professione di fede slegata da una pratica e uno stile di vita, come se tutta questa storia, in cui siamo immersi, non fosse (ri)partita da un'incarnazione.

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Parliamo anche e soprattutto di questo con fra Marcello, nel suo ufficio, dove campeggia un enorme Crocifisso di San Damiano, quello che san Francesco stava pregando quando il Signore gli chiese di riparare la sua casa. Un “Christus triumphans”, ferito, ma forte e fiero, abbandonato alla volontà di Dio, ma con gli occhi aperti, glorificato. Francesco lo pregava così: «Dammi una fede retta, speranza certa, carità perfetta e umiltà profonda. Dammi, Signore, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà».

Il tema è questo. L'ideale che sta al centro dell'Opera. Non l'astrazione dei numeri – straordinari quelli accumulati da questa istituzione, terribili quelli sulla povertà crescente diffusi dalle istituzioni che se ne occupano – ma la concretezza della vita quotidiana, le persone con le loro storie. Anche la storia di un uomo come fra Marcello, che si è innamorato di Dio e di Francesco quando era un ragazzo, e che continua ad amarlo attraverso i poveri, gli emarginati, gli esclusi, gli immigrati, che incontra ogni giorno.

Fra Marcello (63 anni) comunica vigore ed energia, è schietto, diretto - in un certo senso è un “uomo di una volta”, politicamente scorretto - ma ogni suo gesto, ogni sua parola, anche la più ruvida, ha un'aura di luminosa dolcezza. Non ci ha messo molto a conquistare tutti quelli che frequentano l'Opera.

Fra Marcello è un uomo concreto, che sa quello che dice, ma anche un sognatore, che ama guardare le stelle («il mio telescopio è di sopra, un po' impolverato, prima o poi torno ad usarlo»). Facile immaginare che non sarà felice di leggere queste righe agiografiche, visto che pratica da sempre l'umiltà dei veri francescani. Ma è anche così che si fa “missione” e “comunicazione” (verrebbe da dire anche “evangelizzazione”): raccontando storie, persone, scelte di vita. Tipo quella di un ragazzo delle valli bergamasche che un giorno scopre di voler vivere coi frati, che sperimenta la vita di parrocchia, indirizza i giovani “chiamati da Dio”, accompagna i frati anziani nel loro ultimo tratto di vita sulla Terra (ha fatto anche questo, per alcuni anni) e che, alla fine, approda in quella città nella città che è l'Opera San Francesco.

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a quanti anni sei frate?

I voti temporanei li ho presi nell'80, ma conosco i frati dalla “prima cotta” del '77.

Ho lasciato casa a 16 anni. Era il periodo delle cotte. Poco tempo fa ho ritrovato il mio grande amore di quell'anno, Laura, che vive ancora al mio paesello. È stato un incontro simpatico. Lei venne in bicicletta aper convincermi di non andare coi frati, ma non voleva mollare il suo ragazzo per me, quindi io scelto “un'altra”.

Fu una vocazione folgorante o qualcosa che hai scoperto a poco a poco?

Avevo 15-16 anni, l'età dei sogni, i grandi fuochi, le grandi passioni. Ero attivo nell'oratorio del mio paese, amavo molto le esperienze di vita e lavoro insieme. Poi ho incontrato, più o meno casualmente, un frate minore che veniva a Oro al Serio da Assisi: fra Gualtiero. Una sera del mese di maggio mi sgamò mentre facevo il cretino in chiesa: cercavo una ragazzina, non la trovavo, e mi spostavo di qua e di là facendo casino; lui mi notò e all'uscita mi diede una cordata sul sedere.

Un male! Però siamo diventati amici. Mi ha regalato un libretto con gli scritti di Francesco, marroncino, le pagine in carta ocra, che avevo pasticciato. Quegli scritti hanno dato fuoco alle polveri.

Ho cominciato a scrivergli, lui mi rispondeva e il Signore ci ha sicuramente messo del suo. La cosa è cresciuta tanto che dopo un anno gli ho chiesto di poter andare a vivere con loro.

I tuoi genitori come la presero?

Ne parlarono tra loro, poi mio padre disse che Assisi era troppo lontana, che non avevano i soldi per venirmi a trovare, quindi dovevo cercare qualcosa di più vicino. Un confratello di Gualtiero mi suggerì di andare dai frati a Bergamo. Ma i frati a Bergamo sono i cappuccini, non i minori. Papà mi portò ad Albino, dove i cappuccini avevano una casa di accoglienza, e lì è partito tutto. Frequentavo il secondo anno di liceo classico. I frati cercarono di fermarmi, mi dicevano di finire il liceo, di andarli a trovare d'estate, una volta ogni tanto. Io dicevo: ma perché non posso venire adesso? Là c'era un piccolo seminario, con pochi ragazzi, una bella atmosfera. E sono partito. Ho finito la quinta ginnasio, e nel cambio tra ginnasio e liceo sono andato a Varese.

Quella è un'età in cui non fai troppe distinzioni tra cappuccini o minori.

No, sei in grado solo di capire che hai incontrato una forma di vita che ti è piaciuta, uno spirito, forse anche una favola vera. Un ambiente che risponde a ciò che sogni.

Al centro c'era Francesco.

E i frati. Ho dei ricordi belli, appassionati, di quegli anni, era tutto brillante. Mi bastava guardare le vetrate con le immagini di Francesco e diventava tutto luminoso. Ho trovato anche delle persone che mi hanno voluto bene.

Poi ho fatto tre anni di liceo, la maturità nella scuola parificata, il noviziato. Durante il noviziato la cosa si è approfondita, ci sono entrato molto di più, anche con la testa, e ho preso i voti temporanei, che si rinnovano per quattro anni, fino a quelli definitivi, che equivalgono al matrimonio. L'anno successivo ho finito gli studi di Teologia, per poter chiedere di essere ordinato sacerdote. Seguono dodici anni di parrocchia e dodici da “arruolatore” (nella Pastorale giovanile vocazionale), anni molto belli anche quelli.

Anche lì vedi sbocciare tanti amori.

Ci sono anche le litigate con le madri, i padri, qualche morosa.

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Ci hai mai pensato a cosa avresti fatto se non fossi diventato frate?

Mio papà faceva il tappezziere, sognava che io facessi l'architetto.

Ma non so.

La mia "prima cotta" per i frati risale a quando avevo 15 anni. Ho ricordi belli, appassionati, di quegli anni. Mi bastava guardare le vetrate con le immagini di Francesco e diventava tutto luminoso

Francesco è forse il santo più amato in assoluto, anche da chi non crede, o crede in altro, qualcosa vorrà pur dire. Però allo stesso tempo sembra che ognuno abbia il suo modo di vederlo, che lo limita in qualche modo. C'è chi vede il santo un po' hippy, che parla con gli animali, amante della natura. C'è chi vede solo la povertà esteriore e non quella interiore, che è molto più difficile (i “poveri nello spirito”). Quasi sempre si perde la sua profondità mistica. Ma non esiste Francesco senza l'amore per Dio, l'unione con il Cristo. Oggi c'è un bisogno diff uso di senso e spiritualità a cui non sappiamo più dare un nome.

A proposito del bisogno, già Agostino diceva: “Tu ci hai fatto per Te, il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”. Il bisogno è tanto vero quanto quello di fare la pipì, è naturale.

Il problema è che qualcuno vorrebbe spogliare Francesco del suo essere innamorato di Cristo, di Dio. Ma Francesco, spogliato di questo, si riduce a un fuori di testa, uno psicotico. Lo si può capire e incontrare solo lasciandolo essere quello che è davvero. Prima era un assatanato di armi, un guerrafondaio, girava armato, era convinto che solo la forza potesse cambiare il mondo; una forza buona, usata per scopi nobili, perché comunque il suo ideale era quello del cavaliere.

Però a un certo punto ha capito che non era quella la forza che poteva cambiare il mondo, ma un'altra, diversa, e ha scoperto Dio. Lo ha scoperto incontrando un lebbroso. Ha scoperto che un essere umano è più di ciò che si vede da fuori.

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Da qui comincia la crisi del modello militarista, fino alla visione di un palazzo pieno di armi e la domanda: “Ma tu chi vuoi servire, il padrone o il servo?”. Dentro lo scafandro puzzolente, inguardabile, del lebbroso, Francesco vide qualcosa che meritava di essere baciato. Poi c'è l'episodio del Crocefisso di San Damiano e l'identificazione di quel qualcosa, che è dentro la carne di ogni essere umano, ogni creatura, come il Dio di Gesù Cristo... Se tu spogli Francesco di tutto questo, il Cantico delle creature diventa sentimentalismo adolescenziale, ingenuo, fuori dalla realtà.

Qualcuno vorrebbe spogliare Francesco del suo essere innamorato di Cristo, di Dio. Ma, spogliato di questo, si riduce a un fuori di testa.

Francesco ha scoperto Dio incontrando un lebbroso.

Ha scoperto che un essere umano è più di ciò che si vede da fuori Oggi si parla molto di “connessione fra le cose”, armonia con la natura, l'idea dell'Uno e del Tutto che ci unisce. Ma poi ci si dimentica il povero, l'emarginato, quello che soffre e dà fastidio. Difficile accettarlo, se non vedi Dio in lui.

Difficilissimo. Io ho vissuto diverse fasi nella mia esistenza, anche negli studi teologici. Ho vissuto una fase furente iniziale in cui ero convintissimo che il Cristianesimo aggiungesse all'Umanesimo solo la punta. Pensavo che il Cristianesimo, tutto sommato, fosse solo un buon Umanesimo, il cui acme, il culmine, era Dio. Ero un po' pelagiano. Pensavo di cavarmela con le mie energie e le mie risorse intellettuali. Poi lungo la vita mi sono accorto che il corpo dell'Umanesimo europeo occidentale è saturo di Cristianesimo. Il Medioevo cristiano ha forgiato i contenuti del Rinascimento successivo. Per cui sostanzialmente è un portato cristiano il fatto che una persona non sia semplicemente un mucchio di muscoli che io posso sfregiare, squartare, ammazzare, visto che è figlio di Dio. Adesso che il Cristianesimo non è più, tra virgolette, il pensiero dominante, emergono diverse visioni dell'essere umano, per cui devo accettare che ci siano persone, nostri vicini di casa, secondo cui i poveri, quelli che frequentano l'Opera, siano come dei ratti, e come tali vadano trattati.

Magari sono anche cristiani.

Anche, forse. Diciamo che è tutta gente che non sta male, economicamente parlando.

In questo caso come ti comporti? Preghi per loro?

Non farmi troppo santo.

Non lo farò (anche se...). Chi si professa cristiano dovrebbe sapere che gli ultimi, gli emarginati, i disprezzati erano le persone che Gesù amava di più.

Per certe persone essere cristiani non vuol dire più niente. È come dire: tifavo il Milan vent'anni fa. Non incide, non ha una rilevanza intellettuale, men che meno morale. Per cui ti dicono: “a me questo dà fastidio deve sparire, portalo via, fai in modo che qui non ci venga”. La teoria per cui dovremmo riportarli a casa loro è quella dei “ratti che devono stare nelle loro tane”. Mi sono dovuto arrendere alla constatazione che quando la fede non è più accesa, gioiosa, convinta, praticata, voluta, si isterilisce e finisce per essere morta. A quel punto governano altri diritti, quello del più forte, quello di chi dice “non davanti a casa mia”, oppure “io voglio pensare a me e del resto del mondo non me ne frega nulla”. Questa cosa la tocco con mano. Non sono tanti, ma si fanno sentire.

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L'umanesimo, oggi, si è ridotto al diritto individuale al benessere. Una volta si ragionava anche secondo il “noi”. Ormai è rimasto quasi solo “l'io” che soddisfa i propri desideri.

Io che inizialmente ero convintissimo che l'uomo arrivasse al 98%, e che Dio ci mettesse il 2%, adesso mi accorgo che non aveva torto Benedetto XVI quando scriveva cose che facevano incavolare il mondo: se tu togli Dio dall'orizzonte intellettuale e morale, alla fine togli l'uomo, perché l'uomo diventa una variante fastidiosa di un sistema di profitto per pochi, a cui non deve avere la pretesa di partecipare, perché non ne ha il diritto. Se tu togli all'uomo l'identità che gli dà Dio, l'uomo viene ridotto a una variante insignificante, nelle mani di chi ha più potere. E chi ha il potere può anche decidere di cancellare tutti coloro che ritiene superflui. Il Papa parla di un sistema che produce “scarti umani”. Quando togli a una essere umano, anzi a qualsiasi creatura, lo status di espressione della bellezza di Dio, gli togli il diritto di esistere, perché Dio l'ha voluta. Quando a Dio togliamo la D, lasciando solo l'io, non c'è più un noi, una città, un quartiere, un Paese, una comunità, non c'è più spazio per dire “ci salviamo insieme” o “siamo tutti sulla stessa braca”, come si diceva durante il Covid.

C'è anche un'altra versione: “io non ho la forza per aiutare i poveri, per risolvere questo problema, dovrebbe pensarci lo Stato”. Spetta alle istituzioni redistribuire la ricchezza.

Questa è la posizione ingenua del sogno marxista comunista . Ho letto pochi mesi fa un libro di Brodskij sulle Isole Solovki. Ho fatto una fatica... L'illusione del comunismo che risolve tutti i problemi, lo Stato che deve renderci felici, è finito con i gulag, le persecuzioni, il Kgb. Ma quando il sogno comunista è crollato su se stesso, non è che le cose siano cambiate molto nel mondo capitalista. Certo, ci vorrebbero leggi più giuste. Ma allora dobbiamo ritrovare la passione per la politica, intesa come cura della casa comune. Dobbiamo tornare a partecipare, perché il cancro dell'astensionismo è terribile.

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L'Opera da una parte è il frutto di un ideale, l'insegnamento di Gesù, l'esempio di Francesco, ma dall'altra ha anche una f unzione sociale, un rapporto con le istituzioni, ha bisogno di finanziamenti.

Grazie a Dio l'Opera vive delle libere donazioni della gente. Che sono tante. E ci danno una grande responsabilità, che io mi sento addosso come un macigno. Un peso buono, ma comunque un peso. Noi non chiediamo nulla al Comune, non chiediamo niente a nessuno, possiamo rifiutare i corteggiamenti politici, perché la gente ci sostiene.

C'è un signore del sud che tutte le settimane ci manda 5 euro in una busta affrancata con un francobollo da 1 euro e 30. Gli ho suggerito di farci un versamento al mese, per risparmiare sui francobolli. Ma lui non ha voluto. Mi ha detto: “Potrei essere morto. Se sono vivo, lo faccio una volta la settimana, così sono sicuro che arrivi, se lo faccio una volta al mese potrei perdere qualche settimana”.

Arrivano tante piccole donazioni. Ma anche cifre davvero importanti. Da qui la scelta di elaborare una griglia di criteri etici per i nostri investimenti. All'inizio mi hanno dato del pazzo, ma io non voglio che neanche un euro dei nostri “faccia sangue”. Non ha senso tenerli sotto il materasso, ma non vogliamo fare soldi sul sangue.

Ti tocca fare anche il manager.

In realtà devo dire grazie a Maurizio, che ha scelto persone molto brave di cui mi fido.

A volte io non capisco. O meglio, capisco e mi affido. Io, che facevo l'arruolatore, mi sono ritrovato a servire una struttura con 68 dipendenti. Quindi vivo una condizione per cui mi fido degli altri, mi sento come “portato” dall'Opera, dalla dedizione onesta di tante persone. Ho dovuto anche fare la parte di chi ha mandato via qualcuno, mi è costata tanto, ma avevo capito che andava fatto. Certamente non sono diventato frate per fare il manager, ma lo faccio perché bisogna che qualcuno lo faccia, e mi faccio aiutare da alcuni buoni consiglieri.

Ci sono anche 1300 volontari attivi: una cosa straordinaria.

Ce ne sono altrettanti che aspettano. Un dolore bellissimo. Cosa gli diciamo a quelli che aspettano? Frate Agostino, parroco dei volontari, ha deciso di incontrare tutti quelli attivi, a gruppi, per verificare chi vuole continuare, e consentire un po' di ricambio. Poi capitano le emergenze, come questa estate, nell'inferno del caldo, e molte persone hanno risposto, venendo ad aiutarci in luglio e agosto.

Se ci sono tanti volontari, vuol dire che è bello offrire il proprio aiuto in una struttura del genere. Aiuti gli altri e stai meglio con te stesso.

Lo stile che Maurizio ha imposto all'Opera è molto professionale. Le cose si fanno bene. La formazione dei volontari si fa bene, si chiamano agenzie di formazione che costano ma fanno le cose come si deve. Così come si fanno bene le pulizie, perché l'ambiente deve essere profumato, bello, luminoso. Metà dei vestiti che ci donano li buttiamo, perché devono essere presentabili, bellini, non diamo delle cose lise, brutte. Una scelta anche di stile, di dignità e rispetto. Poveri sì, ma straccioni no.

Le cose sono cambiate molto dalla famosa “minestra di Cecilio” di un tempo.

C'è stata una specie di scala mobile della dignità. Un'evoluzione inevitabile, a partire dalla minestra di Cecilio, che era comunque buona, perché ci metteva i pezzi di carne.

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C'è un aneddoto molto bello nella sua biografia. Un giovanotto salta Siamo evoluti dai tempi della "minestra la fila, qualcuno gli fa un'osservadi Cecilio", sperando però di aver conservato zione e lui tira giù quattro bestemmioni. Cecilio, che era piccoletto, lo quello sguardo, franco, sincero, anche amorevole, nota, va da lui e gli pianta quattro uno sguardo di dignità ceffoni, cacciandolo in fondo alla fila. Lui rifa la fila e viene cacciato un'altra volta. L'ha servito per ultimo. Gli ha fatto un predicone della malora, ma poi gli ha dato il fondo della minestra, dove c'erano i pezzi di carne. Cecilio fece finta di non ricordare più quell'episodio, e il giovanotto diventò un buon avventore.

Siamo evoluti dalla minestra, sperando però di aver conservato quello sguardo, franco, sincero, anche amorevole, uno sguardo di dignità. Quell'uomo, pur bestemmiatore, meritava una minestra, un atto di umanità. Io mi intristisco con chi non riconosce più a una persona, pure ubriaca, arrogante, lo status di essere umano. Oggi quello che togliamo agli umani lo diamo ai cani.

Tema delicato, i cinofili si offendono di fronte a questo argomento.

Il cane in realtà è un santo. Gli animali sono tutti santi. Il problema sono gli umani che rinunciano a tessere rapporti d'amore tra umani.

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Servono persone o umanamente intelligenti o sinceramente credenti.

Quando gli umanamente intelligenti e i sinceramente credenti si mettono insieme, succedono meraviglie Quando l'altro non è più nulla per te, è senza cuore, senza volto, perde la sua dignità. Per non cedere alla tentazione di dire “quello è solo un ostacolo, non me ne frega niente, non merita pietà”, ci vorrebbe uno scatto di intelligenza oppure un sentire profondo che può venire solo dalla fede, che ti fa dire: “Dio è morto anche per lui, quindi io non posso e non voglio fare diversamente da ciò che ha fatto lui”. Basterebbe anche molto meno, in realtà. Negli spiriti eletti sopravvive l'istanza intellettuale: ci sono dei non credenti immensi, che sono dei santi, che riconoscono la dignità, il diritto, la natura dell'essere umano.

Tu i “poveri” li conosci per nome, conosci le loro storie. Così come i volontari. Credo sia questo a far la differenza. Non sono numeri, non sono un problema astratto.

Quando superi la paura di guardare negli occhi queste persone, il mondo cambia faccia. Non sono più ratti sporchi, sono esseri umani. Ma devi guardarli. Per questo l'esercizio più semplice è venire ogni tanto a mangiare in mensa qui da noi. Sedersi in mezzo alla gente, guardare, ascoltare i discorsi, cogliere gli sguardi.

A molti dà fastidio che tra i poveri ci siano tanti immigrati. Anzi forse il rifiuto deriva proprio dal fatto che sono stranieri.

Quando parlo con i ragazzi dico: se vivessi in un paese tipo il Niger, tu ci rimarresti? Con internet che ti fa vedere tutto, il modo in cui viviamo in Italia. Staresti lì tutte le sere a guardare i film o i programmi italiani, senza provare a venire da noi? Sognano una vita migliore. Poi deve essere terribile per loro arrivare in un posto in cui l'acqua c'è, il mangiare c'è, le case ci sono, ma tu sei fuori da tutto questo. Nel luogo da cui vengono certe cose non ci sono. Invece qui è tutto bello, vedi i negozi, vedi i ristoranti, e tu sei fuori. Per questo è importante che la nostra mensa sia bella, che il cibo sia buono.

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Anche per questo è importante continuare a donare.

Più ancora che donare, è importante aprire la testa e non lasciare che questo pensiero terribilmente corrotto dall'egoismo deturpi tutto. Chiedere alla gente di rimanere umana, di pensare umanamente. Ecco la cosa più urgente. Come dice Papa Francesco, bisogna avere il coraggio di provare a parlare a queste persone. Perché sanno parlare. Ciò che ci salva è sempre il sentirci, l'ascoltarci, il frequentarci, l'accarezzarci.

Senza contare che, come ha detto il Presidente della Repubblica, se noi li prendiamo a calci nei denti adesso, fra vent'anni poi cosa faranno quando governeranno? Si ricorderanno di noi. È stato molto brutale, ma ha ragione. Così come ha ragione, purtroppo, anche Elon Musk quando dice che “stiamo morendo”, che fra qualche decennio noi italiani non ci saremo più. E dove vuoi che vada un immigrato, se può scegliere? La speranza è che il contatto con la cultura europea umanizzi la visione di chi ha un pensiero troppo integralista e autoritario, che impari ad accettare la libertà religiosa, o il rispetto della donna.

Fondamentale in questo senso è la scuola, dove bambini diversi crescono insieme e formano le loro convinzioni.

Tra l'altro noi, in Italia, gli insegnanti li trattiamo malissimo. Sono loro che forgiano il futuro, ma non vengono stimati e pagati abbastanza. Io ho una venerazione per gli insegnanti.

Bisognerebbe insegnare anche che l'io non basta. Che se non c'è anche un noi, la vita diventa arida, logorante, una battaglia continua.

Ci vuole gente che ami la sua condizione di uomo e di donna, che include l'essere uomo e donna dell'altro. E gente consapevole che io e l'altro siamo entrambi figli di Dio. La mia paura è che la ragione spogliata dalla fede diventi ragion di Stato. Che tutto diventi un calcolo. Se la mia è una ragione di potere, tu sei un ostacolo e quindi io ti trituro se posso. Per cui il tema è: o umanamente intelligenti, e ci sono, o sinceramente credenti. Quando non si è né l'uno né l'altro, c'è il degrado, la difesa arrogante dei propri spazi e privilegi. Quando gli umanamente intelligenti e i sinceramente credenti si mettono insieme, succedono meraviglie. (f.t.)

LUOGHI

«Anche un piccolo aiuto è qualcosa per chi non ha nulla» I NUMERI STRAORDINARI DI UN'ISTITUZIONE DIVENTATA UN ESEMPIO DI "CARITÀ ORGANIZZATA", EFFICIENTE, CON L'AIUTO DI TANTI VOLONTARI

«A

Milano una porta aperta per i poveri». Il messaggio è questo. Ma è anche quest'altro: «Oltre la povertà. Un aiuto concreto per far rinascere la speranza». Ecco cos'è l'Opera San Francesco per i Poveri (OSF): da una parte c'è il luogo di accoglienza, il rifugio sicuro, una specie di oasi dentro una metropoli come Milano, che rischia di inghiottire e schiacciare i più deboli; dall'altra c'è l'opportunità di ripartire, per chi non vuole soccombere alle circostanze. Ma nessuno slogan potrà mai rendere la ricchezza umana che attraversa questa istituzione, nata nel 1959 grazie ai frati cappuccini, che offre ogni giorno oltre 2000 pasti (ma quest'anno siamo arrivati a 3000), 120 visite mediche, 95 docce, 26 cambi d'abito.

Il punto di riferimento è il Servizio di accoglienza, in via Kramer 1, che indirizza gli ospiti a seconda dei loro bisogni. Le mense sono due, una in corso Concordia 3 (che ha sessant'anni di vita) e l'altra in piazzale Velasquez (l'ingresso è in via Antonello da Messina 4). Sempre in via Kramer ci sono docce e guardaroba, mentre in via Vallazze 113 c'è il Centro raccolta, «per ritrovare dignità e rispetto di sé». Fondamentale anche il poliambulatorio, che garantisce il diritto alla salute delle persone più fragili, con distribuzione gratuita di farmaci, ma anche il servizio di psicologia e psichiatria. Poi c'è l'Area sociale, che accompagna «le persone o i nuclei famigliari in difficoltà in un percorso volto al raggiungimento dell'autonomia e del benessere».

Il Bilancio Sociale racconta storia, attività e risultati dell'Opera. L'anima di questa istituzione sta nelle persone che ci lavorano, negli ideali francescani, nello spirito con cui ci si mette al servizio del prossimo. Ma l'organizzazione è rigorosamente professionale, tanto che si parla di “carità organizzata”, per gli alti standard garantiti. Come scrive il prof. Marco Grumo, che insegna Economia alla Cattolica, il Bilancio dell'Opera costituisce da anni «una best practice per molte organizzazioni sia profit che non profit», un esempio da imitare. E ci ricorda che la città di Milano «non può essere solo la metropoli della finanza, dei grattacieli, della crescita esponenziale del valore di mercato degli immobili al metro quadro o dei capitali esteri, ma deve essere anche sempre più la metropoli del cuore, della solidarietà e dell’inclusione, le quali costituiscono da sempre sue importanti specificità».

La nazionalità delle persone aiutate? Ci sono tantissimi peruviani, 5728, provenienti quindi da un Paese che sta crescendo da un punto di vista economico ma ha uno dei tassi di diseguaglianza interna più alti del mondo. A seguire ci sono i marocchini (2865) e gli italiani (2593). Se osserviamo le regioni di provenienza, notiamo che la maggior parte degli utenti arrivano dal Sud America (6766) e dal Nord Africa (6125), persone in fuga dalla miseria, ma ci sono anche 3170 europei (oltre gli italiani) e 1090 asiatici.

Non c'è solo la battaglia contro la fame e la povertà, gli sforzi per garantire l'igiene e la salute.

Ci sono anche gli investimenti sociali: «Chi chiede aiuto a questo servizio si impegna a dare una svolta alla propria vita solitamente in ambito lavorativo, abitativo o relazionale». Ecco allora il Progetto Casa, 26 alloggi in housing sociale, e il Progetto Lavoro, che aiuta i richiedenti a orientarsi, a scrivere un curriculum o una lettera di presentazione, e che l'anno scorso ha portato anche all'avviamento di 21 contratti.

I numeri più belli? I 102.895 donatori in un anno (il 2022) e le 42.328 persone che hanno deciso di dare il 5x1000 all'Opera. Per quanto riguarda le donazioni, si parla di una cifra totale pari a 8.401.336 euro, di cui 7.846.531 euro vengono spesi per i servizi offerti. Numeri importanti. Ma attenzione al concetto di “valore restituito”: si tratta di un ritorno in termini di «valore sociale», ma anche di «valorizzazione economica dei servizi», visto che «ogni euro ricevuto in donazione, OSF riesce a farlo fruttare come se valesse molto di più grazie a un’efficace ed efficiente gestione unita alla capacità di organizzare al meglio le risorse interne ed esterne e alla gratuità delle prestazioni professionali (volontari) e delle donazioni (denaro e merci)».

Altra voce impressionante, quella relativa ai volontari – che affiancano il lavoro dei dipendenti (i quali, come dice il presidente fra Marcello Longhi, offrono «non solo il loro lavoro, ma anche il loro “genio inventivo”»). L'anno scorso hanno toccato quota 1251. Persone che ricevono una formazione specifica e che mettono a disposizione il loro tempo ed entusiasmo, costituendo una risorsa indispensabile. Così come quella offerta dal “volontariato aziendale”, cioè da tutte quelle realtà milanesi che propongono ai propri dipendenti questo progetto di “responsabilità sociale”.

Importanti anche le donazioni di generi alimentari, da parte di aziende del settore, così come quella di farmaci e di capi d'abbigliamento (fatte anche da numerosi cittadini).

Per esistere in un mondo complesso come il nostro, poi, serve anche una comunicazione adeguata, una presenza sui social e online, campagne pubblicitarie (il messaggio del 2022 era: “L'altro volto della povertà si chiama solitudine”), oltre ad amici, simpatizzanti, protagonisti del mondo culturale italiano, disponibili a farsi carico del messaggio dell'Opera. Ecco allora gli eventi, i concerti, le conferenze. Persone speciali come la cantante israeliana Noa, che l'anno scorso si è esibita al Conservatorio Verdi, o Roberto Vecchioni, a cui è stato affidato l'appuntamento con la raccolta fondi di Natale. Sul sito internet www.operasanfrancesco.it trovate tutte le informazioni per fare una donazione: «Anche un piccolo aiuto è qualcosa di grande per chi non ha nulla». La missione di fra Cecilio, fondatore dell'Opera, continua a portare i suoi frutti.

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M E D I TA Z I O N I

Esicasmo, la via cristiana alla meditazione e all'Unione DANIELE CAPUANO CI PORTA ALLA SCOPERTA DI UNA TRADIZIONE LEGATA ALLA FILOSOFIA GRECA, CHE RICORDA IL VEDANTA INDIANO E IL BUDDHISMO di Alba Daya

C'

è voluto il successo straordinario delle tecniche di meditazione orientale, perché in Occidente si tornasse a parlare di “meditazione cristiana”. Decenni di zen, yoga, vipassana buddhista, approdati negli ultimi anni all'americanizzazione della

mindfulness. Oggi più o meno tutti sanno cos'è la meditazione, intesa all'orientale. La tecnica (le tecniche) e il relativo stato di coscienza. La ricerca della quiete interiore, la consapevolezza, l'orizzonte dell'unione col Divino, comunque lo si voglia intendere o chiamare.

Daniele Capuano

Monte Athos

Per molti occidentali, di formazione cristiana, l'Oriente era un'alternativa possibile, un altro modo di intendere la ricerca spirituale e il sacro, la possibilità di un'esperienza interiore che andasse oltre riti, precetti, moralismi. Salvo poi riscoprire che anche il Cristianesimo ha percorso quella via, soprattutto nei suoi primissimi secoli.

In tanti hanno sentito parlare della “preghiera del cuore”, grazie soprattutto alla diffusione dei Racconti di un pellegrino russo. Qualcuno magari si è imbattuto anche nei libri che Jean-Yves Leloup ha dedicato all'esicasmo, scoprendo quella realtà formidabile che è il Monte Athos, o risalendo ai testi dei padri del mondo cristiano greco-bizantino, alla “filocalia”.

Ma potremmo citare anche John Main, monaco benedettino che ha riscoperto Giovanni Cassiano, e quindi la tradizione contemplativa cristiana, dopo aver sperimentato la meditazione orientale, dando vita alla World Community for Chistian Meditation, molto diffusa anche in Italia (fondata sulla ripetizione del mantra Marànathà, parola aramaica, preghiera

Il primo passo? La vigilanza, contro la dispersione, «un'attenzione aperta, che riconduce la nostra consapevolezza alla sua dimensione innata, quella di apertura ricettiva e luminosità trasparente» semplice e antica, che significa Vieni, Signore Gesù).

In ogni caso è sempre all'Oriente, al Cristianesimo ortodosso, che dobbiamo la conservazione di quel patrimonio immenso che conosciamo come esicasmo. Un patrimonio poco conosciuto anche da chi è impegnato in una ricerca spirituale e che in questa tradizione potrebbe ricavare suggerimenti preziosi, indicazioni per la pratica, anche con tecniche specifiche di meditazione e contemplazione.

I testi di approfondimento, soprattutto accademici, non mancano di certo. Mancano forse libri più divulgativi, che non si fermino alla teoria, al “fatto culturale”, capaci di presentare l'esicasmo come via pratica, concreta, per il cercatore di oggi. O meglio, mancavano.

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Cristo Pantocratore, rappresentazione di Gesù in gloria tipica dell'arte bizantina.

Qui in un'opera del 1350 in steatite (Met Museum OA)

Un ottimo compromesso tra le necessità della divulgazione e la profondità degli argomenti, è rappresentato dall'Introduzione all'esicasmo scritta da Daniele Capuano per le Edizioni Tlon. Che parte da due concetti fondamentali. Da una parte la ricerca della massima semplicità come «ciò che ci avvicina a Dio», secondo l'etimologia stessa della parola hesychìa che rimanda a «una percezione di quiete interiore, di facilità», ma che forse è la cosa più difficile da ottenere. Dall'altra il filo (storico, ma soprattutto interiore, spirituale) che lega i filosofi greci antichi con la spiritualità cristiana bizantina, come sanno i lettori di Pierre Hadot o di padre Lanfranco Rossi. Anche se, per capire questi legami, bisognerebbe tornare a una concezione della filosofia ormai dimenticata – oggi per noi è solo

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teoria, esercizio razionale, astratto – come «stile di vita praticato insieme al maestro e alla comunità dei condiscepoli» (funzionava così, da Pitagora in giù).

Philokalìa è il nome della raccolta di testi del cristianesimo orientale (IV-XIV secolo) che alla fine del Settecento favorì la diffusione di queste discipline.

Una parola che significa “amore per la bellezza”, che non è esattamente ciò che intendiamo oggi (anche qui, in modo un po' astratto, puramente estetico) ma corrisponde a ciò che è buono, il vivere bene.

Il bello di questo libro è che, mentre impari qualcosa sull'esicasmo, ricavi anche indicazioni pratiche sulla “via”, per quei lettori che conoscono la differenza tra sapere (avere nozioni su una cosa) e conoscere davvero (praticare, diventare quella cosa).

Si parte dall'idea che l'origine di tutti i mali sia la distrazione, la dispersione, cioè il male per eccellenza dei nostri tempi, quello di cui tutti soffriamo. L'antidoto si chiama nêpdis, che significa sobrietà, ma anche vigilanza, «un’attenzione aperta, che riconduce la nostra consapevolezza alla sua dimensione innata (o “naturale”), quella di apertura ricettiva e luminosità trasparente». Non sfuggirà ai più attenti quanto sia decisivo questo appello alla “presenza a sé”, che ci arriva anche come messaggio fondamentale del buddhismo e sta al centro di tante discipline d'Oriente e Occidente.

Sobrietà, semplicità, padronanza di sé.

Per raccontarci l'antropologia dei Padri esicasti, Capuano ci riporta innanzitutto a Platone, all'anima tripartita, ribadendo anche la distinzione tra corpo, anima e spirito che il nostro tempo sembra aver dimenticato (come ha scritto spesso Marco Vannini).

Si parla di una via spirituale triplice – come tre sono le opere alchemiche - che parte dalla purificazione, il cui «modello è la Croce di Gesù» e il cui scopo è liberarci dalle identificazioni e dai condizionamenti, cioè tutto quelle cose che ci separano da Dio, ovvero «dalla nostra origine e natura, dall’essere del nostro essere, dalla Realtà, ciò che è più intimo a noi di noi

stessi. Dio è il nome religioso di ciò che, semplicemente, è la (nostra) realtà» (Capuano in questo libro ci offre gli strumenti per conoscere l'esicasmo, ma a volte, con poche semplici parole, rivela un sapere profondo, mai imposto al lettore, spesso solo alluso per chi “ha orecchie per intendere”).

La seconda via è quella della theorìa, la contemplazione, «in cui il noûs, il nostro spirito, la nostra coscienza, inizia a illuminarsi dopo che l’anima è stata lentamente purificata» e in cui cominciamo a «vedere le cose non come una molteplicità di enti separati, ma come manifestazioni spirituali». La terza è la théosis, la divinizzazione: «Dio si è fatto uomo affinché l'uomo si faccia Dio». Si parla qui della “via unitiva”, così spesso in odore di eresia, che passa attraverso l'amore.

Pochi dubbi sul fatto che il primo passo sia la libertà dal “mi piace/non mi piace”, che oggi suona così familiare, e che potete chiamare apátheia. Ma anche sulla necessità di coltivare l'agápe, l'amore spirituale, perché Dio è amore.

Se vi turba il linguaggio della tradizione cristiana, fondato su angeli e demoni, potete riportarlo alla realtà quotidiana, fatta di pensieri (“esche dell'invisibile”) che ci possono portare in una direzione o nell'altra, e che noi siamo liberi di accettare o rifiutare, utilizzando lo strumento del discernimento.

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Icona dedicata a sant'Antonio e san Paolo.

In alto, Gregorio Palamas (Pushkin Museum), monaco del Monte Athos e teologo esicasta

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Da una parte c'è la voce dell'ego illusorio, che ci tiene legati alla terra, dall'altra quello del Sé divino. Spesso nella tradizione cristiana orientale si parla di una vera e propria “guerra interiore”.

Bello e giusto l'accostamento tra la Filocalia e l'indagine interiore propria all'Advaita Vedānta indiano.

Con delle differenze formali, più che sostanziali.

Nell'Advaita c'è l'idea di un universo illusorio, dietro cui si cela la non-dualità, l'Uno. Dal punto di vista cristiano, invece, si sottolinea l'idea del mondo come

La Vergine e il Bambino: l'iconografia dell'Odighitria è fondamentale per l'esicasmo.

Nell'altra pagina, Catabasi agli inferi di Cristo (Met Museum OA)

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teofania, manifestazione di Dio: «È come se il Divino si guardasse in uno specchio: attraverso le nostre menti egli vede se stesso come universo, come tutto».

Giusto e bello l'accostamento con il buddhismo (samatha e vipassanā), partendo da Evagrio Pontico e Massimo il Confessore, per raccontare il complesso lavoro interiore che va fatto riguardo i nostri pensieri, tra assorbimento in sé (cercando la “nuda presenza silenziosa”) e la memoria Dei, che aiuta a stare radicati nel presente.

La seconda parte del libro è dedicata alla pratica e alla “preghiera di Gesù”. Che diventa comprensibile solo se ci riappropriamo del potere del Nome, luogo della manifestazione di un'energia divina. Una potenza.

Una presenza. Occasione di incontro tra finito e infinito. Come lo è l'icona, l'immagine. «Per il cristiano bizantino, e per l’orientale in genere, nome e immagine sono la presenza del nominato e dell’immaginato».

Ecco perché nominare Gesù o Dio, con consapevolezza, devozione, energia, diventa così importante.

La preghiera di Gesù nasce da quella evangelica del pubblicano: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Una preghiera semplice, da ripetere e interiorizzare, coordinandola con il respiro (il che fa giustamente pensare a certe pratiche yoga, ma anche islamiche). Rimandiamo al libro per la sua versione originale, in greco, con relativa pronuncia.

Non c'è alcun dubbio su ciò che bisogna fare. Lo diceva Paolo ai fedeli di Tessalonica: «Pregare incessantemente». Sarà il maestro (indispensabile) a fornirci i dettagli sulla tecnica e la postura, che a differenza di ciò che accade nella meditazione estremo-orientale (nella quale la schiena deve rimanere eretta) è una sorta di prostrazione da seduti, un ripiegamento su se stessi. «All’inizio è (o sembra) una pratica faticosa e dolorosa (pónos): poi la meditazione-orazione si rivela il nostro stesso essere, la nostra stessa natura. Non è qualcosa che facciamo, ma ciò che siamo». L'indicazione fondamentale è quella di «far discendere la mente (noûs) nel cuore (kardía)», e non ha nulla di sentimentale, perché il cuore è «in realtà il centro del nostro essere, la fonte della nostra consapevolezza», al di là della mente raziocinante e discorsiva.

Capuano, giustamente, lascia la parola ad alcuni Padri esicasti, citando lunghi brani e invitandoci implicitamente ad andare alla fonte. Ci sono autentiche perle, ricche di immagini folgoranti e suggerimenti pratici.

L'attesa accompagna la trasformazione, la cottura nel fuoco alchemico, l'agricoltura celeste. «Alla fine (fine come culmine, non come esaurimento) della storia d’amore fra il praticante e la sua preghiera, si raggiunge appunto il fine dell’asceta, la théosis: corpo e mente si divinizzano, diventano trasparenti alla Luce divina, belli». Ci sono anche pagine dedicate al metodo raccontato da Leloup in un suo celebre libro, con i vari gradi di penetrazione della verità: medita come una

«All'inizio è una pratica faticosa: poi la meditazione-orazione si rivela il nostro stesso essere, la nostra stessa natura» montagna, un fiore, il mare, come una colomba, come Abramo, medita come Gesù. Poi si propone un'escursione dotta sulla “fisiologia del cuore tra medicina e ascesi”. Si medita sull'immagine sacra dell'Odighitria, Maria madre di Dio, “colei che indica la Via”. Si cita quel capolavoro della mistica che è La nube della non conoscenza e una fondamentale Lettera di direzione spirituale: «L’Anonimo mi suggerisce di offrire il mio nudo essere all’essere di Dio: senza qualificazioni, senza identificazioni – non “io sono questo, io sono quello”, ma (solo) “io sono”. Il mio nudo “io sono” si riassorbe nell’Io Sono che è il Nome di Dio». Quanto è decisivo quell'io sono, l'esperienza dell'essere più radicale, pura consapevolezza, «un’ignoranza al di sopra di ogni (foto Brady Knoll) conoscenza»!

Un piccolo libro davvero prezioso.

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ltre la Cortina di ferro e il Muro di Berlino, che separavano due mondi frontalmente contrapposti, due modi di pensare il presente e immaginare il futuro. Oltre il Mediterraneo, dentro l'universo arabo e la cultura mediorientale. Oltre le categorie, i generi, le classificazioni di consumo, con quella parolina magica, “punk”, che autorizzava ogni eccesso e garantiva un'aura ribelle al loro eclettismo (perché, ricordiamolo, erano musicalmente liberi, eccentrici, geniali).

I CCCP erano oltre. Lo sapevano i (pochi) intellettuali che li notarono da subito, quarant'anni fa, e non si fecero impressionare dal fatto che questo fenomeno musicale non fosse nato a Londra, New York o Berlino (neanche a Mosca, se per quello), ma a Reggio Emilia, Modena, Carpi. Lo sentivano i giovani che si affollavano ai loro concerti, destinati a diventare performance teatrali concettuali, happening esistenziali, scatenamenti tribali, grazie anche all'apporto di Danilo Fatur, “artista del popolo”, e ad Annarella Giudici, “benemerita soubrette”.

Lo sappiamo ormai tutti con certezza, oggi, da tanto tempo ormai,

dopo le reincarnazioni nei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) e i PGR (Per Grazia Ricevuta), dopo gli omaggi, le cover e le rievocazioni a migliaia, dopo che abbiamo capito che straordinario musicista era/è Massimo Zamboni - e autore, e romanziere, e intellettuale

nomade - e quanto fosse mitica e mistica la voce di Giovanni Lindo Ferretti - poeta profeta a prescindere, nei panni del comunista punk e in quelli del fervente cattolico, come cantante, performer, catalizzatore liturgico, o come allevatore di cavalli in semi-eremitaggio.

CCCP: punk, mistici, filosovietici 40 anni dopo, sempre avanti UNA CELEBRAZIONE CON POCA NOSTALGIA E TANTA CONSAPEVOLEZZA IN PIÙ. MEMORIA VIVA, URTICANTE MESE 2022

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ieccoli tutti insieme, per un attimo, che è lungo come un doppio evento-concerto indimenticabile (Gran Gala Punkettone di parole e immagini), un film documentario (Kissing Gorbaciov), una mostra, un catalogo che è una meraviglia (edizioni Interno4), un box deluxe della Universal (cd e doppio lp, libretto, spillette, foto-ritratti...) e la riedizione rivisitata di tutti i dischi.

Felicitazioni! come urlavano ai tempi di Spara Jurij, l'anno di Fedeli alla linea (anche quando non c'è).

Dal 1984 al 2024 sono passati quarant'anni che sembrano almeno il doppio o il triplo, per tutto ciò che è successo, e anche per ciò che non è successo. «All'erta sto / cellula dormiente risvegliata al presente», scrivono i furono CCCP. «Erano gli anni 80 in tutto il loro splendore / fuoriusciti da televisori grossolani / incastonati in mobili polifunzionali, / appena prima dei mercati globa-

li». Cosa si racconta, qui, in questa mostra-reunion? «Ciò che fu, ciò che è stato / che è, ciò che è scampato. / In fedeltà la linea c’è. / All’erta sto. Contemplo / la posizione le dimensioni gli spazi / i vuoti la luce ombre silenzio».

Linguaggio ferrettiano in spirito zamboniano. Lo stesso che ha prodotto tanti anti-slogan diventati

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universali. Il loro «produci, consuma, crepa» è la sintesi perfetta di ciò a cui vorrebbe ridurci il mercato globale, più efficace di qualsiasi esegesi politica o sociologica: ci è riuscito così bene da generare anche un consumismo delle idee, oltre che delle merci, l'usa e getta dello spirito e del tempo libero.

OFFICAECTO ET OCCUM RE VELECESSUNT IS MAGNIM SOLORRUM VERI ACEATE NON

I CCCP ritratti da Luigi Ghirri, nel 1990, a Villa Pirondini

Chi non ha urlato, almeno una volta, l'anarcoide «non studio non lavoro non guardo la tv non vado al cinema non faccio sport»? Per non parlare di Curami, col suo martellamento ipnotico, o la poesia di Annarella, tanto per citare due pezzi, tra i tanti, in cui i CCCP mostravano di essere molto più di un gruppo “punk filo-sovietico” - i sovietici li avrebbero mandati in un gulag, sottoponendoli a una rieducazione forzata, per guarirli dalle loro malinconie, i vagheggiamenti bucolici, i vaneggiamenti psico-ribelli, i misticismi.

C'è un'intera generazione che, con loro, aspettava «un'emozione sempre più indefinibile», mentre l'ortodossia dei primi tempi già si decantava in “musica da ballo”, misurando le Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi. «Tifiamo rivolta», si urlava allora, ma era già «una questione di qualità», non di ideologia.

DUE CONCERTI, UN DOC, UNA MOSTRA A REGGIO EMILIA, UN CATALOGO DA COLLEZIONE, UN BOX DELUXE E TANTE COSE DA DIRE «Io sto bene, io sto male, io non so come stare»: chi lo sapeva davvero, negli anni Ottanta? Da una parte c'erano quelli che affogavano nel riflusso e si abbandonavano alla “vita da bere”. Dall'altra i soldatini dell'ideologia e dell'impegno. I CCCP erano lontanissimi da entrambe le categoria. Tu menti era dedicata al ribellismo fatuo, ai tempi di Socialismo e barbarie. E allora «dammi una mano a incendiare il piano padano». Ma bisognava saper intonare anche Madre, una preghiera solenne – sconcertante, per molti – un inno dedicato alla Madonna, che campeggiava sulla copertina di

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Canzoni preghiere danze del II millennio, una scultura realizzata dal padre marmista di Zamboni.

Per arrivare poi al gran finale del 1990: per chi ama la (buona) musica, quell'anno verrà ricordato per Epica Etica Etnica Pathos, autentico capolavoro, una delle opere più strabilianti della musica italiana (e non solo) del secolo scorso, pieno di tante cose diverse, per certi versi perfino contrapposte, che stavano dentro i CCCP. Perché loro erano quelli dell'Emilia paranoica, della militanza “anti-occidentale” (intesa come categoria dello spirito, oltre che come società politica), di A ia ljublju SSSR e «i Soviet più l'elettricità non fanno il comunismo», dei Compagni, cittadini, fratelli, partigiani, ma anche quelli di Amandoti, dei languori post-sentimentali, dei deliri surreali, delle contemplazioni campestri, con un'inclinazione al sacro (inteso nel modo più largo possibile).

I

l catalogo della mostra è bellissimo, attraversato dalle parole di ieri e di oggi dei CCCP, che ripercorrono la propria storia. Una cosa che sembrava impensabile, fino a qualche anno fa. Soprattutto pareva impossibile l'incontro tra Lindo Ferretti e Zamboni, impegnati in percorsi di vita per certi versi opposti (anche se, umanamente parlando, continuano ad essere molto simili, nella loro selvatica indipendenza e nel rifiuto della società contemporanea mercatista ed edonista). «Sorpresa: la Storia non è finita, il mondo lo stesso coacervo di tensioni, nuovi protagonisti per messinscene obsolete. Rimodellato l’Impero del male, risvegliate entità primitive sotto un cielo punteggiato di visori/ sensori a circoscrivere zone d’influenza, d’interesse, d’intervento.

In basso migrazioni, dislocazioni, catastrofi, guerre in diretta sul telefonino. Il porno ultima frontiera dell’emancipazione. Oltre il rumore dell’intrattenimento un silenzio assordante, barlumi di infinito».

Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur raccontano di un anno di lavoro e di vita dedicato quasi integralmente «a una messa in mostra di dieci anni tumultuosi», che ha trovato nei Chiostri di San Pietro una cornice ideale: «Quale altro luogo potrebbe somigliare più profondamente a ciò che è CCCP? Un complesso architettonico che assomma la raffinatezza di una grandiosità sacrale all’incompiuto, allo sfacimento, all’urto: le medesime armi di cui abbiamo goduto noi».

Bella l'idea di ripercorrere gli spazi e le sale come fossero una “scaletta di canzoni”. Che parte da «una passeggiata di guardie del popolo», incrocia ventiquattro bandiere di stati socialisti estinti («una cognizione di mondo imbarazzante») e mette a confronto due foto dei CCCP ieri e oggi: «Ciò che viene testimoniato è l’allungarsi di una cellula vivente in una cellula dormiente chiamata al risveglio». Una cellula creativa, nemica dell'ideologia «dello sviluppo illimitato».

Il catalogo non è solo un album di ricordi – foto celebri e foto inedite – ma anche l'occasione per

ricordarsi che CCCP non è una cosa passata, collocata in un tempo mitico irripetibile, ma un modo di essere e di resistere. «Se vi sentite baciati sulla fronte da qualche dio, se vi siete accorti che esiste una condizione umana ed una possibilità di realismo inquieto nel viverla, se sapete leggere quello che i giornali non scrivono, se non vi intendete come noi di musica ma non per questo ascoltate i critici, ma anche se non avete mai pensato niente di tutto ciò perché la vostra intelligenza non arriva a 70, fatevi coraggio il mondo è vostro la situazione è eccellente CCCP è con voi».

In mostra anche un monumento che omaggia i musicisti in stile Urss

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Affascinanti i bozzetti, che sono una specie di autoritratto, un modo per raccontarsi dentro uno spazio, plasticamente, poi incarnato nella mostra. Ma anche i messaggi di allora, quando Ortodossia si presentava al pubblico (punk filosovietico + musica melodica emiliana) e l'Attack Punk Records cercava di ingraziarsi «giornalisti, disc jockeys, redattori radiofonici, operatori culturali (!?!)», presentando i CCCP come un'ultima diga contro «coca cola, rovina totale, break dance, esterofilia, decomposizione delle coscienze, fast food»: «ciò che serve è sensibilizzare le coscienze, diffondere il pensiero libertario e farlo anche attraverso la musica». Libertario!

Altro che “socialismo di Stato”.

Anche se poi si inneggia (ironicamente, ma non troppo) alla Pravda: «In principio era il Verbo poi venne la Pravda – parola verità. Il Verbo era Dio e la Pravda la Sua dimostrazione». L'antiamericanesimo militante allora era un must: «When

America indicates the moon, the idiots look at America». Da qui la scelta dell'Est «non solo per ragioni politiche, ma anche etiche ed estetiche». Ci sono foto, ritagli, manifesti, appunti, cartoline, testi di canzoni, fotomontaggi creativi, immagini iconiche, bizzarrie dimenticate.

SCRIVEVA CARDINI: «SONO DEI PUNK FILOPRUSSIANI CHE ALL'EFFIMERO PREFERISCONO IL DURATURO» Queste pagine sono anche l'occasione per rileggersi testi dimenticati, che inquadrano il fenomeno com'era, tutto ciò che è invecchiato male, ma anche le ragioni ideali che alimentano la sua longevità e modernità, se non proprio la sua attualità. Si può leggere ad esempio una riflessione di allora firmata Franco Cardini, evidentemente

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affascinato dal Punk Islam: «E la linea di questi punks filoprussiani, che all'effimero preferiscono il duraturo, alle discoteche i mausolei e il cambio della guardia, alla plastica l'acciaio, si comincia a profilare chiara. Niente ideologia, per carità: etica ed estetica, però sì. Una Weltanschauung che va contro i consumi, eppure usa la musica punk: un punk rivoluzionario contro la rivoluzione. Se la tirannide idiota occupa Praga, Budapest, Cracovia, noi europei dovremmo rinunziare a dirle e sentirle nostre? E se la libertà si coniuga con il consumismo, è proprio detto che noi si debba accettare o tutto o nulla, senza saper scegliere?».

Socialismo e barbarie, dicevano allora i CCCP, sottolineando che «ognuno ha l'immaginario che si merita»: «le barbarie non sono i “buchi neri” dei civilizzati, bensì i “valori umani primogeniti” da non scambiarsi con il piatto di lenticchie del “moderno a tutti i costi”».

Erano così liberi da potersi permettere di firmare un contratto con la Virgin, incassando le reprimende dei duri e puri. D'altra parte parliamo di gente che nel 1987, raccontando il proprio modo di essere, citava Salviano di Marsiglia, 450 d.C. (per la precisione il De Gubernatione Dei): «È meglio vivere liberi sotto un'apparenza di schiavitù, che essere schiavi sotto un'apparenza di libertà». Dicevano anche che «labile è il confine tra il punk e la pazzia», come potevano constatare gli spettatori dei loro folli concerti, che si godevano la loro mistica dell'acciaio: «Voglio odorare il sapore celeste del ferro / Voglio vedere il profumo sanguigno del fuoco / Esiste, lo so!».

Una surreale meraviglia, quelle due pagine di Famiglia Cristiana sotto il titolo: «CCCP, fedeli a Maria». A quel punto, nel 1989, non ci capiva più niente nessuno.

E loro scrivevano parole importanti anche sul “problema droga”, dedicando un pensiero commovente a Mauro Rostagno, che si apriva al canto: «Al di qua e al di là (della droga, ndr) poche cose, a volte unite a volte no: l'amore verso gli uomini, l'amore verso Dio, l'amore, non c'è altro. Questo mondo moderno è una truffa per i poveri e una beffa per i sapienti. Splende di tecniche, standard di vita, libertà del singolo, libertà del denaro, ma brucia di tutt'altro, brucia di schiavitù nella droga, brucia di schiavitù nuove scientifiche... Occorre ridare dignità vera, privata e pubblica, al bisogno di divino che percuote l'uomo, bisogna aiutare e favorire ciò che tende all'alto, non costringere a scendere sempre più in basso».

«IL MONDO MODERNO È UNA TRUFFA PER I POVERI E UNA BEFFA PER I SAPIENTI» Commovente, a modo suo, la lettera postuma a Enrico Berlinguer.

Notevoli le pagine dedicate all'incontro con Amanda Lear. Spassosa l'apologia di Fatur, «la cui miglior scultura è se stesso, essendo la propria carne il materiale privilegiato su cui sperimentare». C'è anche un suo testo datato 1986, in cui spiegava che «col paganesimo si arriva alla primaria purezza della chiesa cattolica. Per Paganesimo s’intende l’assemblaggio di genti che adorano le cipolle, la Cocacola, la Golf ultimo modello, la Disco, la pelliccia modello Tina Turner, il maiale, l’afta epizootica, Rambo, Simon il Bono ecc. Una primaria purezza che sa d’aglio, di stalla, di legno, d’incenso, di ferro battuto, d’apostolato itinerante, di pellegrini a piedi nudi, di Compostela, di Cluny, d’eremitaggio, di pascolo ovino montano. Questa purezza è stata deturpata dalla Televisione e dall’Americanismo».

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Alla fine c'è anche lo spazio per «una ricca collezione di insulti e perplessità, dai volantini neri degli skinhead agli anatemi clericali alle indecisioni comuniste al conformismo degli alternativi allo scoppio dei coatti». Qui compaiono anche le parole di un comunicato del Leoncavallo datato 1985, ai tempi di un discusso concerto dei CCCP che forse oggi valgono come ideale epitaffio: «Non intendiamo abituarci alla “volontà di purezza” che anima di questi tempi i superstiti di non si sa più quale movimento. Di volontà di purezza razziale si sono riempiti e poi svuotati i campi di concentramento nazisti e sono stracolme le bidonvillas sudafricane. Di volontà di purezza religiosa si sono accesi i roghi degli eretici e hanno bruciato per secoli.

Di volontà di purezza ideologica sono piene le fosse dei regimi di tutto il mondo. Di volontà di purezza pura è stata straziata l'intera Cambogia. I più puri degli anni '70 sono i più pentiti degli anni '80.

Di volontà di purezza è marcio il mondo. Noi non siamo puri. Non vogliamo esserlo».

EVENTI

«Si parlava di fine della storia.

Ma la storia si è vendicata» I CCCP RACCONTANO IL LORO INCONTRO 30 ANNI DOPO, TRA AFFETTI MAI DIMENTICATI E RIFLESSIONI SUL PRESENTE. «L'ULTIMO SPETTACOLO»

«I

o sono spudoratamente anticomunista, come sono stato spudoratamente leninista in un'altra età della vita, ma ho fatto la pace con me stesso, e anche con il comunismo.

C'è voluto un Papa per dire che il comunismo è stato un male necessario. Aveva ragione. Provo un grande affetto per questa storia. Quando cresci, anche le cose che giudichi negative fanno parte di te. Dovrebbero farlo anche le istituzioni, minime, medie e massime.

Bisogna pacificarsi. Alla fine di una guerra deve esserci una pace vera. Dovrebbe farlo ognuno di noi, perché è la vita l'autentica meraviglia, non le singole cose della vita. Nutro un affetto grandissimo per la storia di Reggio Emilia, la nostra storia. Il fatto che questa fosse la provincia più filosovietica dell'impero americano, è una cosa che mi incanta».

Difficile che uno come Giovanni Lindo Ferretti dica cosa ovvie o banali. Lo ha confermato il giorno della presentazione alla stampa di Felicitazioni!, la mostra dedicata ai CCCP. Lui che, per molti, è l'emblema di quella storia finita, con la sua trasformazione da militante filo-sovietico a devoto difensore della tradizione cattolica. Ma che ha giustamente preferito andare oltre la banale contraddizione (che tale peraltro non è) di cui tutti gli chiedono da anni.

Un altro che dice sempre cose intelligenti è Massimo Zamboni. Che il tema lo ha svolto così, a modo suo: «Quando è arrivato il pezzo del Muro di Berlino, con due camion, perché è un manufatto pesantissimo, qua davanti c'era una folla. Ho visto delle persone piangere e ho pensato: stanno piangendo per il Muro di Berlino, che nel mondo occidentale è il simbolo dell'infamia massima! Erano commossi perché il Muro in realtà porta dentro di sé una quantità di significati che si sommano e si confondono a tutto il resto, soprattutto in un luogo come Reggio Emilia: è vita, è cuore, è passione. Il responsabile tecnico della mostra, persona meravigliosa, mi ha raccontato che da bambino piangeva quando sentivo l'inno della DDR. Non perché la DDR fosse il paradiso, ma perché questo era il comunismo emiliano, che per noi è stato liberazione, riscatto, è stato uscire dalla servitù della gleba, è stato dare voce agli operai. Ecco cosa significa la lacrima davanti al Muro di Berlino. Non vuol dire "erigiamo muri", o "spariamo a chi vuole scappare dall'altra parte", vuol dire esattamente il contrario».

Il messaggio è chiaro: non si può scappare dalla storia, bisogna affrontarla, nella sua complessità. Anche perché, come ha detto Giovanni Lindo Ferretti, «ci raccontavano che caduto il Muro, la Cortina di ferro, caduto “l'impero del male”, il futuro sarebbe stato un radioso progresso nella democrazia. La fine della storia.

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La globalizzazione, poi, doveva essere la Il Muro di Berlino, simbolo dell'infamia fine della geografia. E invece in trent'anni c'è stata una vendetta della geografia e del- massima, per molti significava liberazione la storia che fa accapponare la pelle». e riscatto. Non voleva dire "erigiamo muri", Era la risposta a chi chiedeva ai CCCP se per caso “si stava meglio prima”. «A vol- ma esattamente il contrario te viene da pensarlo – ha detto Massimo Zamboni – ma non credo sia così. Però trent'anni sono un tempo lungo, che ti consente lo sguardo della storia, non solo quello della cronaca. Abbiamo visto accadere tante cose. Abbiamo visto cadere lo stato sociale. Abbiamo visto impoverirsi una quantità impressionante di persone. Abbiamo visto ricchezze accumulate in maniera vertiginosa nelle tasche di poche persone. Abbiamo visto un neo-feudalesimo, interi paesi comprati da multinazionali, con espropri di terra spaventosi. Ma questo è l'unico mondo che abbiamo e non si può viverlo nella paura. Noi possiamo permetterci ancora di non farlo. Approfittiamo di questa possibilità preziosissima».

Il messaggio, se ce n'è uno, è questo. E va molto oltre la celebrazione o la nostalgia. Anche se, inevitabilmente, si è parlato soprattutto della ritrovata armonia dei quattro artisti-musicisti, a quarant'anni dalla nascita. Ha spiegato Ferretti: «I CCCP hanno messo in scena il loro ultimo spettacolo, stabile e immobile. Ma ci voleva una città come questa alle spalle e un reciproco riconoscimento. I CCCP potevano nascere solo a Reggio Emilia e finiscono a Reggio Emilia». Zamboni ha raccontato l'incredibile lavoro che ha portato alla mostra: «Abbiamo visto crescere questa idea per tredici mesi. È stato un lavoro quotidiano, incessante, per certi versi implacabile. Una passione. Siamo rimasti commossi, tante volte, quando arrivava un pezzo, dai cavalli di frisia al monumento smodato dedicato ai CCCP. Ci sono cose molto forti anche per noi: quando entro in certe sale mi devo trattenere, siamo adulti che piangono volentieri».

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A noi ci legava una dimensione dell'anima e una disciplina della carne. Per risentire la carne, dovevamo stare di nuovo vicini «Il più riottoso sono stato io», ha confessato Giovanni Lindo Ferretti, e non c'erano dubbi in proposito. Ma il racconto è pieno di pathos e sentimento, è quasi un film. «Io e Annarella abbiamo continuano a vederci. Siamo tutti e due montanari. Mi raccontava di Massimo e di Fatur, e di quei giovani registi che stavano cercando di costruire un film sui CCCP. Io dicevo: non ha senso, il mondo va da un'altra parte! Però alla fine abbiamo fatto questa intervista, tutti insieme, a casa mia a Cerreto, dove avevamo cominciato, e abbiamo rifatto la stessa fotografia di allora, quarant'anni dopo. A volte ci sono degli incroci fra il cielo e la terra che non puoi prevedere. Quel giorno i CCCP sono arrivati, si sono accomodati nella mia stalla, che sembrava un set cinematografico, hanno montato uno schermo e io per la prima volta ho rivisto un pezzo di un concerto. Sono rimasto frantumato. Io non avevo più ascoltato un disco dei CCCP da quando erano finiti, trent'anni fa. Seduto insieme a Massimo, Annarella e Fatur, a vedere i CCCP che facevano Emilia Paranoica, sono stato travolto dalla bellezza e dall'energia di quelle immagini».

Sembra uno di quei racconti fatti da vecchi innamorati che si ritrovano all'improvviso tanti anni dopo. «Siamo andati al passo del Cerreto a mangiare, e a metà pranzo ho detto: cazzo, sembra che ci siamo lasciati ieri sera alla fine di un concerto! Non sembravano passati trent'anni. È stato evidente ai miei occhi che c'erano una complicità e un affetto indefinibili. Io razionalmente ho sempre pensato che tutta la mia vita è debitrice ai CCCP, sono sempre vissuti dentro di me, però lontani, finiti. Alla fine di quel pranzo invece ho detto: sembriamo una cellula risvegliata».

Che cosa fare, allora? La risposta ce l'avevano Annarella a Zamboni «che ritenevano che fosse il caso di festeggiare i 40 anni dei CCCP. Annarella ha conservato tutta la memoria del gruppo, lei che era la benemerita soubrette è diventata amministratore delegato ed esecutore testamentario dei CCCP. A quel punto è scattata una malìa. Dal 29 di settembre dell'anno scorso, giorno di san Michele, ho vissuto le stesse emozioni di Fellegara quarant'anni prima.

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A noi ci legava una dimensione dell'anima e una disciplina della carne. Non ho mai avuto dubbi sull'anima. Per risentire la carne, dovevamo stare di nuovo vicini».

Il lavoro “disperatissimo” sulla mostra – promossa e organizzata dalla Fondazione Palazzo Magnani e dal Comune di Reggio Emilia - l'hanno fatto soprattutto Massimo e Annarella, con il contributo di «tre installazioni clamorose» (parola di Zamboni) realizzate da Roberto Pugliese, Arthur Duff e Stefano Roveda, con il contributo artistico di Luca Prandini, le luci di Pasquale Mari e Gianni Bertoli, gli allestimenti di Stefania Vasques, «ormai nostra anima gemella».

C'è chi da trent'anni coltiva il dubbio che si siano sciolti troppo presto. «Non credo – ha detto Zamboni - anzi era proprio il momento giusto: ci siamo sciolti quando il mondo che noi abbiamo musicato, pensato, raccontato, stava crollando. Dopo un paio di concerti a Leningrado e Mosca. Per un gruppo che si chiamava CCCP Fedeli alla linea quella era la frontiera da raggiungere, ed è stata raggiunta». Poi, certo, ci sono tante cose rimaste nei cassetti, una gran quantità di testi inediti, perfino canzoni dimenticare, come Onde.

Chissà che in futuro quelle cose possano diventare di dominio pubblico.

Ancora Lindo: «Non trovo nessuna differenza tra quarant'anni fa e oggi, tranne quello che si vede: siamo invecchiati. Ma ognuno di noi ha fatto un percorso che comunque era nei CCCP, traeva origine da lì. Quando sono vicino a loro, il gruppo sovrasta l'individualità di gran lunga. Bello avere un limite e riconoscerlo. Se sono con loro, io sono parte dei CCCP, e mi censuro con piacere. L'incontro di queste quattro persone è stato fatale.

Per me è uno stupore continuare a incontrare gente di tutte le età che mi dice quanto siano stati importanti per loro i CCCP». Anche da questa constatazione si può ricavare una lezione, come ha spiegato Zamboni: «Oggi mi sembra evidente che questa voglia di diminuirsi personalmente fa sì che cresca un'idea collettiva fortissima, molto più grande della somma dei quattro. Questo credo valga in tutti i campi della vita».

Ma cosa hanno fatto i quattro, separatamente, in questi trent'anni? Ognuno ha raccontato un pezzo di sé. A partire da Annarella, che a Reggio Emilia gestisce un'erboristeria: «Io non ho mai smesso di toccare il materiale dei CCCP, da sempre ho spostato, aperto, messo via.

La sala dedicata alla "vertigine della nomenclatura", con le foto dei dirigenti legati al mondo sovietico.

Nell'altra pagina, un tavolo nato in epoca fascita, che poi ospitò tante riunioni del Pci

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Nel 1990, insieme a un'amica astrofisica che lavorava per il CNR, abbiamo cominciato a scansionare il materiale. Ho comunque conservato tutto in un armadio. E ora quell'armadio lo abbiamo aperto. A me piace esprimermi artisticamente, ma non è importante che questa cosa sia pubblica. Lo è già stata tanto con i CCCP e qualsiasi altra cosa sarebbe stata inferiore».

Fatur non si è smentito nel suo essere un eterno eccentrico: «Ho dormito per un anno dopo lo scioglimento dei CCCP perché ero distrutto. Poi mi sono reso conto che i CCCP non c'erano più e ho cominciato a fare dei discacci un po' punk: Fatur & Fax, Faturismo, Cesso 2012, Strafatur... Ho ripensato alla mia giovinezza punkettona, la droga, l'alcol, le macchine, la vita che si faceva negli anni Settanta. Ora sono in un gruppo che si chiama Zona utopica garantita. Sono rimasto sempre nell'underground più underground, a differenza di Giovanni e Massimo che hanno fatto un percorso molto rilevante: i CSI sono stati il gruppo più importante degli anni '90, poi hanno prodotto i Marlene, gli Ustmamò, poi hanno realizzato cose da soli... Noi eravamo una cosa grossa. Non dico Andy Warhol e i Velvet Underground, però siamo lì. C'era la musica, la moda, l'arte, la performance, c'era di tutto e di più». Ce lo vediamo Fatur, raccontato da Annarella, che a un concerto di Zamboni non resiste e salta sul palco. Da quel momento ha continuato a collaborare con lui. Lindo suggerisce di leggere anche il libro Io Fatur, che «vale molto più di quello che pesa». Massimo consiglia però di «non lasciarlo in giro per casa...».

Zamboni di libri ne ha scritti diversi, anche molto belli. «Difficile raccontare i ventitré anni nati dalle macerie dei Csi. Fu una rottura molto drammatica per tutti noi. Quando ricominci dalle macerie, succede di essere presi dalla febbre del fare, che per me era terapeutica. Dischi, spettacoli, libri... Sto cominciando solo ora a razionalizzare questa febbre. Ci sono così tanti libri da scrivere (ne ho cinque o sei pronti), così tante canzoni da comporre!

Abbiamo solo un periodo di vita al mondo e bisogna spendersi, bisogna spremersi».

Infine, ecco la sintesi autobiografica di Giovanni Lindo Ferretti, con tanto di informazioni esistenzial-finanziarie inedite: «Quando i CCCP si cono sciolti, io e Fatur abbiamo sperperato l'eredità, mentre Annarella l'ha fatta fruttare e Massimo l'ha conservata.

Sembra una parabola.... La massima aspirazione dei CCCP era quella di avere il salario del metalmeccanico. Non ci siamo mai arrivati. Alla fine ci sono rimasti un milione e mezzo di lire a testa. Io – che più che vecchio sono antico, che mi sento contemporaneo dei codici medievali - sono tornato molto indietro: con quei soldi ho messo in atto il sogno della mia vita da bimbo, ho speso 1 milione 800 mila lire per comprarmi una cavallina e il

A fianco, il corridoio della mostra in cui vengono proiettati i titoli dei giornali dedicati ai CCCP. Nell'altra pagina, la sala dedicata ad "Amandoti" e alle sue tante cover.

resto l'ho usato per mantenerla. Attorno a lei ho costruito un percorso a ritroso nella storia, fino ad arrivare a mettere insieme ventidue cavalli e un'idea di teatro barbarico. Per quattro anni sono stato nei Chiostri di Reggio con questi cavalli che non servivano più a nessuno, inutili, come inutile mi sento io. E poi ho continuato a fare non il cantante ma il cantore. Per campare mi torna semplice guadagnare i soldi da vivere facendo dei concerti.

Ma non facendo il verso ai CCCP».

Tutta questa storia, ma anche la Storia in generale, per lui sono «un meraviglioso mandala, un soffio di vento lo butterà via». Basti pensare a cosa è successo in questi anni a quel mondo arabo che i CCCP tanto amavano. «Quando i CCCP si innamorarono dell'altro più vicino a noi, l'Islam, in Libia e in Turchia non ci si poteva vestire in modo tradizionale. L'Islam era uno sguardo esotico. Annarella prese lezioni di danza del ventre, si fece realizzare degli abiti da ricamatrici egiziane. Io andavo nel deserto del Sahara e ho pensato per un attimo che sarei diventato musulmano, perché è così evidente che Dio è grande ed è irraggiungibile. Era un altro secolo, un altro millennio, da allora sono successe cose inimmaginabili. Sono spariti in un mare di sangue l'Afghanistan e l'Iraq. Anche la Siria, che ai tempi era un paese benestante del mondo arabo, con una società viva, vivace.

Il Libano era ancora la Svizzera del Medio Oriente. L'Egitto e la Tunisia oggi sono messi male. Tutto ciò che doveva portare la democrazia, il nuovo, con la caduta dell'Impero del Male, è un enorme mare di sangue. Però noi siamo vivi».

Vivi e pieni di energia. Alla faccia della storia finita e ricominciata, che rischia di triturare tutti. «In fondo alla sala dedicata alla vertigine della nomenclatura, ci sono due quadri di Nilde Iotti. Nilde Iotti adulta, madre della Patria, e Nilde Iotti bambina, con lo sguardo limpido e la mano appoggiata sulla Costituzione. La vertigine della nomenclatura finisce con Nilde Iotti bambina che aveva già scritto negli occhi il mondo che voleva, il mondo che sognava per sé e per gli altri. Non voglio trasformare il Pci in un santino, ma noi potevamo nascere solo qua. Potevamo fare questo ultimo spettacolo immobile solo a Reggio Emilia, ai Chiostri di San Pietro: per contemplarci come siamo davvero ci voleva anche una cupola, ci voleva anche il rinascimento, ci voleva anche l'illuminismo, perché noi siamo tante cose». Altro che memorabilia. Come dicono loro: è memoria urticante, viva.

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EVENTI

L'ideologia c'entrava poco Era "una questione di qualità" VI RACCONTIAMO LA MOSTRA OSPITATA NEI CHIOSTRI DI SAN PIETRO UN VIAGGIO OLTRE LA CORTINA DI FERRO, TRA LE TANTE ANIME DEI CCCP

U

n check point. Una soglia. Con una vecchia Trabant, targata DDR, dentro un reticolo di cavalli di Frisia, davanti a una lastra originale del Muro di Berlino. Un frammento di spazio-tempo sovietico dentro un cortile rinascimentale, nella magnifica cornice del grande chiostro di San Pietro. Sembra un'apparizione. Quasi un gioco di prestigio, uno scherzo spregiudicato, che il nobile cortile monumentale osserva sornione, con le sue colonne ioniche, le finestre timpanate, le statue dei santi benedettini. Ci sono anche dei

vecchi altoparlanti, e la voce di Giovanni Lindo Ferretti che rimbomba ovunque, cantando Radio Kabul.

A pensarci bene, niente è più CCCP di questo intreccio fra sacro e profano, la disciplina della bellezza e l'anarchia dello sberleffo, la liturgia severa della militanza e la sua romantica baldanza musicale e sentimentale.

Perché, ce lo spiega Massimo Zamboni, il vergognoso Muro, simbolo dell'oppressione, per molti era un sogno di liberazione. L'equivoco esiziale, in realtà, ha generato idee, lotte, comunità, creatività.

La mostra Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea (1984-2024) comincia già all'ingresso dei Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia, con una passeggiata di guardie del popolo, trasformate in logo. E ha la sua anticamera nel chiostro piccolo, in un giro di bandiere di stati socialisti estinti. Ma è qui, nel chiostro grande, che bisogna fare “il salto”. Non è un tuffo nel passato, la nostalgia è solo un affetto collaterale, non c'è nulla da rimpiangere. Il salto va fatto dentro il mondo, l'anima dei CCCP, che racchiudeva tante cose diverse, alla rinfusa, che rispecchiava desideri e ribellioni, sogni e nevrosi, voglia di cambiare il mondo e di goderselo fino in fondo.

Si lascia “Berlino ovest”, come recita il cartello, Achtung!, si abbandona per un attimo quel modo di essere e pensare che diamo per scontato, quello che in teoria avrebbe dovuto creare pace e benessere per tutti, e si entra in “un'altra cosa”, tutta un'altra musica. Quindi no, non è una mostra che mummifica i CCCP o, peggio, li im-

prigiona in una mitologia lugubre e stantia. Anche se il rischio c'era e un po' lo si tocca con mano, passando davanti alle bacheche in cui vediamo racchiusi sottovetro “reperti d'epoca”, vestiti, gadget, appunti scritti a mano, copertine di dischi.

In realtà la mostra è uno “spettacolo immobile” (come dicono loro, “l'ultimo spettacolo”), una riflessione creativa e vivente, una celebrazione irriverente e devota. No, non è l'Ovest che si appropria di quell'Est, come ci si poteva sospettare. Il mercato globale, col suo individualismo edonista, che storicizza il “nemico” e mette in scena un anticonformismo d'antan, nel cloroformio museale. Semmai è la dimostrazione di qualcosa che abbiamo sempre saputo: che quella cosa “antica” (gli anni '80 oggi sembrano lontanissimi) era modernissima, che i CCCP erano molto più del "punk filosovietico" (e anche della “musica da ballo emiliana”), che quel modo di creare, performare, urlare cose scomode (anche ai cugini e fratellastri di sinistra, mica solo agli altri) aveva una sua verità perenne.

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Al piano terra dei Chiostri si attraversano le sale più preziose, quelle affrescate, che sono il luogo dell'opera, il cimelio, il disco, il manufatto venerato. Sette stanze per sette dischi. Spiccano alcuni oggetti vecchi e nuovi.

Il grande tavolo ottagonale, nato fascista, diventato comunista, che accolse riunioni leggendarie del Pci, con proiezione delle parole di Oh! Battagliero. La statua, in stile sovietico, che celebra ironicamente ma non troppo i quattro musicisti “eroi del socialismo”. Ma soprattutto le magnifiche foto inedite di Luigi Ghirri, che danno un'aura ancora più magica e definitiva alla realizzazione di quell'opera straordinaria che fu Epica Etica Etnica Pathos.

Poi si comincia a salire, in quella sessione dei Chiostri che, per dirla coi CCCP, ricorda certi edifici di Berlino.

Un labirinto di scale vetuste, muri sgretolati, finestre non finite, corridoi enormi e vuoti, magnifici, inquietanti, stanze trasformate in labirinti.

C'è una sala a mo' di cappella, dove i più mistici possono sedersi in solitudine e contemplare il video di Madre.

La stanza Allerghia, un teatrino scalcagnato avanguardista, per riguardarsi quel folle «atto unico di confusio-

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ne umana» (chi lo conosce?). C'è perfino Felligara, la leggendaria, la casa dei primi CCCP, con i suoi divani, la sala prove dietro il filo spinato, l'abitazione vista dai campi in proiezione continua. Per terra, un po' più in là, si incrociano degli schermi, a ricordarci le (folli, assurde, forse inutili) apparizioni televisive del gruppo.

Si fa spettacolo, anche, con la memoria e le sue distorsioni. Ci sono le gigantografie appese della dirigenza comunista, in uno spazio dedicato al “socialismo irreale” che approda all'omaggio a Nilde Iotti. Ma anche l'installazione – vuoto, freddo, atmosfera carbonara, ribellismo post-industriale, memorie del sottosuolo – che evoca un centro occupato qualsiasi e manda in loop il tumulto in piena del pubblico a un concerto dei CCCP. E poi le sale a tema, concettuali. L'iconografia del gruppo, l'ossessione della psichiatria, un filmato dal manicomio di San Lazzaro, uno spazio rosso passione dentro cui scorrono le tante reinvenzioni di Amandoti («scappata di mano, così consapevole del proprio valore intrinseco da dover fuggire di casa per affermarlo, cercando la sua fortuna nel vasto mondo»), il Punk Islam tra Gheddafi e la danza del ventre.

C'è, infine, anche un luogo sacro (un altro, l'ennesimo), in cui un brano inedito ritrovato, Onde, viene diffuso a getto continuo, e il nastro viene conservato in una teca. Gran bel pezzo, peraltro. Che fa pensare a tutto ciò che potrebbe ancora celarsi negli armadi, i quaderni di appunti, gli anfratti più nascosti della memoria. Lo sanno anche loro che questa storia è finita, sì, ma in un certo senso non è ancora mai cominciata.

Nel frattempo subiamo volentieri i Danni collaterali, come hanno deciso di chiamare gli incontri che verranno ospitati ai Chiostri per tre mesi. Si partirà l'8 novembre con Quattro chiacchiere che è meglio fare qui che la bar dello sport (Franco Cardini in dialogo con Massimo Zamboni!) e si andrà avanti fino al 25 gennaio, con un Corso popolare di chitarra grattuggiata. Si parlerà anche del "corpo sul palco" dei CCCP (il 9 novembre), del rapporto con Luigi Ghirri (12 dicembre), della Preghiera dove meno te l'aspetti (14 dicembre, ovviamente con Giovanni Lindo Ferretti, insieme ad Annarella) e Uno sguardo da molto lontano (18 gennaio). Uno sguardo così lunare e fuori moda, da apparire oggi straordinariamente attuale. (f.t.)

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SEN: UN'AZIENDA CHE FA FUNZIONARE LE AZIENDE NEL NOME DEL "GREEN" Partita da zero, nel 2016, è cresciuta grazie all'incontro con Enegreen e al 110% (che serve!)

«D

obbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo». Si cita Gandhi, sul sito di Enegreen, società che si occupa di “efficientamento energetico”. Tanto per far capire quanto sia alta la posta in palio. «Guidiamo la transizione verso sistemi energetici più sostenibili, affidabili e convenienti.

L'aumento degli eventi meteorologici estremi e l'innalzamento del

livello del mare sono segni inequivocabili del cambiamento climatico.

Come possiamo soddisfare la crescente domanda di elettricità proteggendo il nostro clima e rendendo il pianeta un posto migliore?».

La risposta passa attraverso la tecnologia e l'innovazione, oltre alla consapevolezza di noi consumatori e alla collaborazione delle istituzioni (benemeriti incentivi).

Ma nulla di tutto ciò sarebbe possi-

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bile se dietro le buone intenzioni, i materiali e dispositivi all'avanguardia, i costi convenienti, non ci fosse chi è in grado di trasformare i progetti in realtà.

Ecco cosa fa una “società di servizi”. Mette a disposizione la sua forza commerciale, garantisce nuovi clienti, si occupa degli aspetti amministrativi, operativi e logistici. È il modo più semplice – se è un'azienda che lavora bene – per trasformare in realtà le proprie idee, con più efficacia ed efficienza, oltre che un risparmio in termini di tempo e denaro.

Come si riconosce una “società di servizi” che lavora bene? Dalla sua crescita, ad esempio. Perché un'azienda del genere cresce, insieme al fatturato, se i suoi servizi funzionano. La SEN, che ha sede ad Aprilia e opera prevalentemente nel territorio laziale, è partita letteralmente da zero. Anzi da uno: Davide Giresi. Oggi, dopo sette anni di attività, ha nove dipendenti, ma anche collaboratori commerciali sparsi in varie regioni: Abruzzo, Umbria, Molise, Marche, Toscana, Emilia Romagna, oltre naturalmente al Lazio.

Tanto che nel 2021 ha dovuto crescere anche dal punto di vista gestionale, con l'ingresso di Sara Mammucari, che oggi amministra la società insieme a Davide. La crescita vertiginosa di Enegreen in Italia (250 milioni di fatturato nel 2021, con più di mille abitazioni efficientate nel giro di un anno, e una previsione di 709 milioni nel 2024) è dovuta anche alla collaborazione con SEN, che da tre anni si occupa della direzione commerciale della società nel centro Italia.

«Ho sempre lavorato nel settore commerciale – racconta Giresi, che ha soli 40 anni. - Ho iniziato come procacciatore d'affari, anche con la vendita diretta, il classico porta a porta. Poi, nel 2016, io che abitavo a Torino, sono venuto a seguire la divisione commerciale del litorale laziale per l'azienda in cui lavoravo. Nel 2016 ho aperto SEN, che per quattro anni ha continuato a lavorare per realtà che operavano nel campo dei servizi: energia elettrica, gas metano, telefonia».

Che si trattasse di un'avventura in cui credeva molto, legata alla sua storia personale, lo si capisce dal nome dell'azienda, visto che le lettere usate sono le iniziali dei nomi dei figli: Samuele, Emily e Nathan.

La svolta risale al 2019, quando la collaborazione con Enegreen l'ha portato a specializzarsi nel mondo dell'efficienza energetica, quindi impianti fotovoltaici, caldaie, condizionatori con pompe calore, cappotti termici.

Il balzo decisivo è arrivato grazie al 110%. «Siamo partiti nel gennaio

Una "società di servizi" fondata da Davide Giresi (40 anni) forte della sua esperienza commerciale. Nel 2021 è arrivata anche Sara Mammucari (32 anni). Giovani e con le idee chiare 2020 e a febbraio eravamo fermi, per colpa del lockdown, ma nel maggio 2020 è uscito il superbonus e ci siamo lanciati in questo mondo, rendendo Enegreen unico nostro cliente. Abbiamo creato la rete commerciale, le varie collaborazioni con le ditte for-

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nitrici. Nel 2021 mi è stato affidato l'incarico di direttore commerciale Italia di Enegreen. A quel punto è stata indispensabile l'introduzione di Sara a livello societario. Ora la SEN è la direzione commerciale del centro Italia di Enegreen».

Sara, che è ancora più giovane, 32 anni, ha scoperto le sue capacità manageriali proprio grazie a questa esperienza.

«Facevo la segretaria. Ma prima ho provato tanti lavori, ho fatto davvero di tutto. Poi nel 2017 ho cominciato a collaborare con Davide e mi sono innamorata di questo mondo». A volte hai un talento che non conosci e ci vuole qualcuno che ti aiuti a scoprirlo.

Il fatto che siano entrambi giovani, favorisce l'entusiasmo e garantisce tanta energia. «Ieri sera siamo tornati alle 21 da Civitavecchia. Non

ci sono orari. Bisogna avere voglia di fare sacrifici».

Ma come funziona il lavoro di una società di servizi? «È un'azienda che aiuta le altre aziende a sviluppare la commercializzazione di un prodotto. Cerchiamo clienti per loro.

Ma ci occupiamo anche dell'aspetto amministrativo, logistico e operativo.

Concretamente tutto parte dall'azione commerciale, quando andiamo a spiegare come funziona il servizio, ad esempio il 110%. Il nuovo cliente viene quindi contrattualizzato, seguito da due ragazze che si occupano della parte amministrativa, che vuol dire inserire tutta la modulistica all'interno di un portale collegato all'Agenzia delle Entrate. Poi sviluppiamo la parte operativa, i contatti con le aziende esecutrici, l'organizzazione del materiale che arriva al cantiere. Quando parte il cantiere, effettuiamo il crono-programma dello stato dei lavori e seguiamo l'avanzamento, attraverso un rendiconto costante, anche fotografico».

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A testimoniare il successo di SEN, c'è l'apertura recente di un capannone di 800 metri quadri con annessi uffici, dove lavorano i nove dipendenti.

Si parla di 600 cantieri realizzati nel Lazio sotto la loro guida.

Ora però è in atto un ripensamento delle istituzioni sul 110%. «Tutto in Italia viene gestito sempre dopo.

Prima fanno le cose e poi cercano di gestirle, quando magari è già tardi.

In questo momento c'è un governo che non è favorevole al 110%. Ma abolirlo sarebbe una sciocchezza, perché ha aperto le porte a svariate aziende che hanno ricominciato a lavorare o sono nate proprio per questo. Aziende, tra l'altro, obbligate a lavorare alla luce del sole, che devono pagare le tasse e avere dipendenti in regola, che devono dimostrare l'acquisto dei materiali utilizzati. In realtà è una cosa che ha portato un beneficio sia ai cittadini che l'hanno utilizzata, sia alle aziende. Bastava gestirla meglio per evitare gli abusi, fin dall'inizio».

Esistono comunque incentivi di ogni tipo. «Questo è diventato il mercato degli incentivi: 50%, 65%, 70%, 90%, sono tutti tipi di mercato sui quali andiamo a lavorare».

Al di là della questione economica, la necessità di aiutare le aziende e di far crescere il Pil, c'è poi la questione ambientale. Inutile continuare a parlare di riscaldamento globale o emergenza ecologica, se poi non facciamo tutto il possibile per diminuire il consumo energetico, con caldaie tecnologicamente avanzate, infissi adeguati, abitazioni costruite o ristrutturate secondo determinati criteri. Tutte cose che portano anche a un risparmio per l'utente. Non bisogna sempre ragionare sul breve periodo, ma fare i conti sui 10, 20, 50 anni. «Cosa che purtroppo l'italiano medio non fa.

Di solito tiriamo a campare». Però si può sempre imparare.

Le qualità principali di SEN? «Es-

sere partiti da zero ci ha permesso di imparare a organizzare il lavoro nel miglior modo possibile. In un mondo come questo è fondamentale avere un progetto, degli obiettivi chiari e degli step, per la buona riuscita dell'intervento. E poi c'è la nostra capacità di adattarci alle

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circostanze. Da tre anni ci siamo adattati a un certo mercato per necessità. Sappiamo seguire il flusso».

E il flusso in futuro li porterà ad ampliare il parco clienti. «L'obiettivo è che tra 50 anni si parli ancora di SEN». Non è difficile immaginare che ci riusciranno.

S TO R I E D I V I TA E D ’ I M P R E S A

L'ARTE DEL RELAX INSEGNATA DA CHI HA 70 ANNI DI STORIA Cereda Group, una passione di famiglia: mobilieri, contro la logica dell'usa e getta

C'

è chi lavora guardando solo ai numeri, come se fosse unicamente una questione di soldi. E chi ha una storia e una passione, quasi una missione da portare avanti,

ereditata da nonni e genitori.

Tipo vendere mobili di qualità, da più di settant'anni, con tanto di falegnameria al servizio di ogni esigenza, contro la logica dell'usa e getta, ostinatamente legati a

uno stile di vendita al servizio del cliente (e non del vendere a tutti i costi, come si usa oggi).

Cereda Group lavora così. E già il nome dell'azienda sintetizza lo spirito dell'impresa, che unisce tradizione e innovazione.

Da una parte c'è il cognome di famiglia e l'eredità di un'avventura cominciata nel lontano 1951.

Dall'altra gli “ambienti in evoluzione”, come recita lo slogan aziendale, e il negozio che si fa in tre, spazi diversi dedicati a prodotti specifici: uno, più piccolo, per bagni e accessori; uno, molto grande, per salotti, camere e cucine; fino ad arrivare ai 1200 metri quadri completamente dedicati al relax (divani e materassi).

Certo, si lavora per guadagnare, si investe per crescere e ottenere il giusto compenso per i propri sforzi. Ma superati i settant'anni di vita aziendale, si diventa custodi di una storia che suscita orgoglio e anche emozione: «Io sono nato letteralmente qui, nel negozio – ricorda Pierluigi Cereda. - I miei genitori a quel tempo lo gestivano da soli e quindi io stavo con loro, giravo tra i mobili. Mentre lavoravano, capitava che i clienti in attesa mi facessero giocare».

Tutto parte dalla nonna, nell'Italia della ricostruzione, in un comune bergamasco che si chiama Zanica.

«Gestiva un piccolo negozietto di mobili». È andata avanti così fino agli anni Settanta, quando il padre di Pierluigi ha dato una svolta all'azienda. «Lui è subentrato già quando aveva 18-19 anni. Aveva deciso di continuare questa piccolissima attività di famiglia con l'ambizione di farla crescere.

Dal '72 si è messo in moto, e quel negozietto, pian piano, si è sviluppato, diventando più consistente come offerta di prodotti e organizzazione. Poi, con l'aiuto di mia mamma, ha aperto un altro negozio, di dimensioni nettamente più grandi. Lo spazio originale rimase come piccolo negozio dedicato all'arredo bagno e alla biancheria per la casa. Nel secondo inserì cucine, camere da letto, zona giorno, camerette».

Nacque anche l'idea di costruire una falegnameria. «All'inizio era solo un angolo sotto il negozio, in cui c'erano due macchine per fare qualche lavoro su misura. Nel corso degli anni 90, però, grazie al duro lavoro, è riuscito a realizzare una

Tre negozi a Zanica (BG), di cui uno di 1200 mq dedicato completamente a divani e materassi, con falegnameria falegnameria vera e proprio, un capannone con tutti i macchinari per poter fare assistenze e lavori su misura un po' più importanti».

Ecco una cosa che fa la differenza tra il rivenditore seriale di mobili

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e il mobiliere, che può anche personalizzare il prodotto e rendere il servizio più efficiente. «La falegnameria serve come supporto ai negozi, all'assistenza clienti».

Lo step successivo è stato l'ingresso in azienda dei figli, mentre l'offerta cresceva. Perché è importante che il cliente possa avere a disposizione anche un servizio di progettazione, con esperti di design che oggi sono in grado di offrire render fotorealistici, per capire meglio come un certo arredamento potrebbe adattarsi alla casa.

Nel 2003 è nato il terzo punto vendita Cereda, uno spazio molto grande, 1200 metri quadri, esclusivamente legati al relax: 800 metri per i divani, con i vari complementi (dai tavolini ai tappeti), e 300 metri per materassi, reti, letti imbottiti. «Il negozio è sempre a Zanica, in via Don Milani. Lo gestisce mia moglie personalmente. È lei l'esperta di relax».

Tutto è partito dalla sfida lanciata dai centri vendita specializzati, i marchi che tutti conosciamo, visto ciò che investono in comunicazione.

«Noi mobilieri vent'anni fa abbiamo cominciato a perdere vendite di divani. Nel nostro negozio generalista, il secondo nato, che oggi è quello principale, 1600 metri quadri, ci sono tutti i tipi di arredo, e quindi di divani potevamo mostrarne tre o quattro. Ma la gente preferisce andare dove ce ne sono venti. Quindi abbiamo creato questo negozio, dove si possono vedere una quarantina di composizioni divani, con una scelta molto ampia, anche in termini di prezzo, e con la possibilità di farsi consigliare da una persona che si è specializzata in questo settore.

Da noi si può trovare il divanetto da 1200 euro, da mettere nella cucinetta o nella tavernetta, e quello più importante. Il nostro cliente è di fascia medio-alta, ma abbiamo una forbice di prodotti molto ampia, capace di accontentare anche chi cerca qualcosa di più economico per la seconda casa».

Stesso discorso per quanto riguarda i materassi. «Grazie al cielo la gente ha cominciato ad essere un po' più attenta alla qualità del sonno. Una volta i clienti venivano, compravano la camera matrimoniale e chiedevano un materasso qualunque. Da anni è cambiata la mentalità, si è capito che dormire bene fa bene,

ora la gente vuole toccare con mano.

Quindi abbiamo creato questo negozio dove abbiamo una ventina di materassi da provare, tutti diversi tra loro. Uno si sdraia e decide con calma, facendo un acquisto consapevole, anche in base al comfort richiesto, alla conformazione fisica, ai problemi di salute».

La sbornia del mobile in serie, super-economico, è stata superata? «Sono fasi altalenanti. C'è stato un periodo in cui si è tornati allo “spendo poco e poi ci penso”, dove i mobilieri come noi soffrono inevitabilmente. Ma non si può pensare solo al risparmio, soprattutto sui mobili che usiamo di più, tipo quelli della cucina, o sul materasso.

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Quando ero piccolo, i clienti chiedevano mobili che durassero nel tempo.

Poi è arrivata la nostra generazione, la mentalità dell'usa e getta: compro un divano economico adesso e magari fra due anni lo cambio, quando non mi piacerà più. Oggi dipende. Per alcune categorie di mobilio si è tornati al passato. Se io compro un materasso, so che per 5-10 anni voglio dormire bene, quindi cerco di investire, il che non vuol dire spendere tanto, ma investire tempo da dedicare alla scelta».

Inutile dire che una realtà del genere si fonda sul passaparola, a differenza di chi vive esclusivamente sulla pubblicità, coinvolgendo nomi famosi e sponsorizzando sconti plateali. «Noi abbiamo una storia di settant'anni alle spalle, abbiamo un nome da difendere, nel nostro piccolo, non possiamo permetterci di fregare un cliente.

Vendiamo il 95% col passaparola.

Se le offro un buon prodotto, e mia moglie la aiuta a scegliere bene i materiali e i tessuti, consigliandole la soluzione più appropriata alle sue esigenze, lei si troverà bene e lo dirà all'amico e al famigliare».

Oggi c'è una nicchia importante di mercato per chi lavora sulla qualità. Come ci sono i consumatori che vanno nelle aziende agricole a cercare i prodotti genuini da portare a tavola, così c'è chi per comprare un mobile preferisce l'azienda che ha una storia e un'esperienza, garanzia di serietà. «Quando qualcuno entra da noi, capiamo subito se è il “nostro” cliente, perché chiede l'aiuto della venditrice professionale, che consiglia la tipologia di divano in base a mille cose, se ha il cane, i nipotini, se ha allergie, se ha un tipo di casa o un'altra...

Al prezzo si arriva alla fine, e non è il fattore determinante, perché si trova sempre un equilibrio.

Quando entra qualcuno che chiede solo “quanto cosa questo, quanto costa quello”, sappiamo che non è il nostro cliente: noi cerchiamo di non perdere mai nessuno, ma non è quella la persona che si affeziona e che poi ci consiglia ad altri».

Un'azienda di famiglia fa la differenza. È anche una questione di cuore. «La nostra forza è soprattutto questa. Se guardassimo solo al vantaggio economico e al benessere, sarebbe meglio cambiare lavoro. Noi lo facciamo per passione. Questo ci consente di non guardare le ore e gli stipendi che facciamo, o i weekend che non facciamo. Finché riusciremo a trasmettere questa passione ai clienti, probabilmente il passaparola continuerà a funzionare. Dobbiamo essere sicuri che il cliente sia soddisfatto. Dedichiamo anima e corpo a questo mestiere perché chi compra da noi sia davvero contento del suo acquisto».

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Q

uando l'aria è irrespirabile, serve l'ossigeno della poesia. La poesia della realtà, quella minima, che sfugge allo sguardo dei “grandi”. A chi può mai interessare la vita poco avventurosa di un piccolo rimorchiatore, con le sue giornate sempre uguali? Vaglielo a spiegare ai “grandi” (nel senso dell'età, della vanità, della prosopopea ideale ed esistenziale) che è un «mestiere / bello da morire. / Sotto di me ho il mare / in alto il cielo».

Siamo a San Pietroburgo, dove scorre la Nevà. Le navi non potrebbero approdare al porto senza di lui, e nemmeno partire.

Niente mete esotiche, «meravigliosi mari», oceani senza fine, terre percorse dal «chiacchierio di mille pappagalli».

Dal catalogo Adelphi, ad altezza bambino (serie “i cavoli a merenda”), esce un piccolo gioiello, che ha una luccicanza gentile: La ballata del piccolo rimorchiatore. Una ballata fiabesca e operaia sulla dignità di chi fa un umile lavoro - anche se ha un nome importante come Anteo. Con una malinconia che la percorre dalla prima all'ultima riga.

C'è il piacere del libro in sé, che non smetteresti mai di sfogliare (come accade spesso con l'editoria per ragazzi di qualità), grazie ai disegni di Igor' Olejnikov, il suo realismo sempre un po' magico, il gusto pittorico e retrò, delicato ma espressivo.

E c'è la sorpresa dell'autore, Iosif Brodskij, ovvero uno dei poeti più grandi del Novecento, che con questi versi debuttò su un periodico per l'infanzia. Ecco allora che la bellezza di questa storia semplice

acquista un significato ulteriore. Parliamo di un poeta destinato a vivere da esiliato (lo avrebbero espulso dieci anni dopo, nel 1972), perseguitato dal regime sovietico, condannato ai lavori forzati. E così, ciò che potrebbe sembrare un'ode al lavoro e al senso del dovere in salsa socialista, assume tutt'altro spessore, evoca il destino dei poeti russi, ancorati a una terra da cui non possono fuggire, che non possono tradire in alcun modo. Lui che da quella terra dovrà andarsene, perché tradita e

umiliata dai suoi nuovi padroni.

Qualche parola però la merita anche Igor Oleynikov, il cui disegno, tutto tecnica e poesia, è emerso alla distanza, dopo una laurea in ingegneria (ambientale). La sua carriera doveva essere tutt'altra, ma alla fine, fortunatamente, hanno prevalso le ragioni dell'arte. Oleynikov ha prima trovato casa in uno studio di animazione moscovita leggendario, Sojuzmultfilm, poi ha cominciato a illustrare storie e libri a decine.

Nel 2018 ha ricevuto il Premio Andersen come miglior illustratore (all'età di 65 anni).

La traduzione di Serena Vitale fa risuonare questi versi dolceamari, giocati sull'accostamento di opposti (la patria e le terre lontane, la realtà e il sogno, la solitudine e la collettività), sul lessico navale (il padre di Brodskij era ufficiale della Marina), sul vagheggiamento di un “paese d'oro” «da dove ancora / nessun rimorchiatore / è mai tornato».

«Salpate, nella bianca luce del mattino, e portate al vostro oceano natio i miei saluti.

Non è la prima volta che dico «addio».

Qualcuno deve pur restare accanto a questa terra.

Sono io, miei cari, sì, sempre lo stesso. (...)

E se pure mi addolora non fare il marinaio, e vorrei tanto vedere meravigliosi mari, ed è triste salutare le navi ormai amiche, DEVO RESTARE LÌ DOVE DI ME HANNO BISOGNO (Iosif Brodskij)

MESE 2023

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