Press Settembre 23

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Dove si parla di Cinema Minimo e di grandi autori da festival, di artisti nomadi, esiliati, solitari, di letteratura e tarocchi, del silenzio (interiore) e l'arte di stare con "ciò che è", del perché l'ecologia non basta, ci vuole "ecosofia"

Alberto Barbera

Rodolfo Bisatti

Santi Borgni

Giorgio Foresto

Gaia Giovagnoli

Jean-Yves Leloup

Venezia 80

N 13 | SETTEMBRE 2023

REDness

è passione, arte, impresa, comunicazione.  È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.

Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare.

La redness

è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina.

È l'entusiasmo, la motivazione, il senso,  il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.  REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità...

Va bene tutto, purché sia fatto con redness.

In copertina: Sara Porcella in "Afar Together" di Rodolfo Bisatti

(servizio a pag. 6)

Direttore: Fabrizio Tassi

Progetto grafico: Marta Carraro

Redazione: MondoRed

Redness è un mensile edito da MondoRed, Corso Buenos Aires 20, Milano

Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore

2 MESE 2022

4

EDITORIALE

4 Il Mondo della Luna

6

INCONTRI

6 Rodolfo Bisatti: guardare e raccontare la "realtà minima"

24 Gaia Giovagnoli: parole e tarocchi, dolore e magia del mondo

38 Santi Borgni: alla scoperta del silenzio, per stare con "ciò che è"

50

MEDITAZIONI

50 Jean-Yves Leloup: amare la natura con "ecosofia"

56 EVENTI

56 Venezia 80: autori in Mostra con suspense

60 Alberto Barbera: una nuova rivoluzione in arrivo

68 I film più attesi: Ferrari, Priscilla e il conte Pinochet

74

STORIE D’IMPRESA

74 Z&B Impianti: ville e hotel, energia (pulita) e tecnologia, "chiavi in mano"

78 COMMIATO

78 Giovanni Scarpa: “Giorgio Foresto. Avventure a colori di un pittore fuggiasco”

3 SETTEMBRE 2023
S OMMARIO

Il Mondo della Luna

Noi amiamo il grande cinema che osa. Per questo, sul numero di agosto, abbiamo dedicato una lunga riflessione a Oppenheimer di Christopher Nolan (lo spettacolo al servizio dell'idea e della visione). E per lo stesso motivo, a settembre, vi regaliamo un servizio di presentazione di Venezia 80, festival in cui vedremo i nuovi film di Michael Mann, Pablo Larraìn, David Fincher, Matteo Garrone, Roman Polanski (e poi Wiseman, Massi, Bonello, Hamaguchi, Harmony Korine...). Ma noi amiamo anche e soprattutto il "cinema minimo", quello clandestino, eccentrico, povero, libero, che racconta la realtà così com'è o come vorremmo che fosse, guardandola dal basso. Cinema che non bada alle mode o agli algoritmi, che non ha bisogno di filiere industriali e apparati mastodontici, che vaga per il mondo e si mette in ascolto, umilmente ma con uno spirito creativo sovversivo, che ha un rispetto sacro per le cose e le persone che racconta. La scelta di aprire questo numero con Rodolfo Bisatti fa capire da che parte stiamo. La sua storia è emblematica: la vocazione

giovanile, poetica e militante, gli anni di apprendistato con Ermanno Olmi, i lavori per la Rai, e poi la scelta dell'indipendenza totale, le sperimentazioni tecniche e i temi sociali, la logorante ricerca di finanziamenti, le produzioni trasformate in esperienze collettive. Bisatti ha realizzato film davvero belli, ma ha anche seminato idee, proposte, metodi di lavoro, modi alternativi di "fare cinema", alla portata di tutti, grazie alle nuove tecnologie. Il suo testo-manifesto sul Cinema Minimo - oltre ad essere una lettura godibilissima, per le intuizioni e per gli aneddoti personali - è l'indicazione di una possibilità, che percorre da sempre questa potente forma di espressione e ci ricorda quanto sia importante il modo in cui guardiamo la realtà (con quali ambizioni, valori, passioni, tensioni ideali, perché non abbiamo solo un cervello, ma anche un cuore, un corpo e un'anima).

Redness di settembre è percorsa da questa tensione fra modi diversi di concepire la vita e il mondo (e il cinema, la letteratura, l'ecologia...).

4 SETTEMBRE 2023
E DITORIALE

Noi, ad esempio, siamo fermamente convinti di quanto sia importante coltivare una ricerca interiore e una disciplina spirituale. Tante volte abbiamo parlato di meditazione. Ma bisogna stare attenti agli equivoci, ai tranelli, agli errori di valutazione che rischiano di portarci fuori strada.

L'incontro con Santi Borgni è di quelli che ci riportano all'essenziale. Il fondatore della Casa della Pace racconta la sua vita avventurosa (dal punto di vista interiore, oltre che esteriore) e ci ricorda l'importanza del silenzio, che ci aiuta a stare con "ciò che è". Certe tecniche meditative, oggi così di moda, rischiano di essere un ulteriore strumento di rafforzamento dell'ego, l'ennesimo frutto della volontà individuale e dell'appropriazione. Krishnamurti lo spiegava benissimo. Lui lo vive da sempre e lo scrive anche, in un libro rivelatore.

Noi amiamo la scienza, soprattutto se fatta e raccontata da scienziati liberi e visionari (ne abbiamo ospitati già alcuni, in passato). Ma abbiamo anche un debole per la "magia", per il "piano simbolico" della realtà, per la capacità di vedere la trama sottile, misteriosa, che percorre e attraversa il reale. Quindi non possiamo che seguire con simpatia e curiosità una scrittrice che si dichiara cartomante. Gaia Giovagnoli ha appena pubblicato il suo nuovo romanzo, duro, doloroso, in cui però le carte dei tarocchi indicano una direzione possibile, un senso, forse anche un'ipotesi di verità.

Noi amiamo l'ecologia, siamo sensibili ai problemi dell'ambiente, come dimostrano i tanti articoli scritti sul tema, ma amiamo anche di più "l'ecosofia". Come dice Jean-Yves Leloup, è fondamentale avere una comprensione razionale del perché bisogna porre fino allo sfruttamento della natura, dei rischi che corre la nostra specie, della necessità di cambiare l'economia e il nostro stile di vita. Ma non bastano i dati, i numeri, le statistiche sui fenomeni atmosferici estremi. Serve anche un cambiamento della coscienza e della consapevolezza. Finché le persone rimarranno convinte di essere delle monadi isolate, confinate nei pochi metri quadri della propria vita (casa, lavoro, vacanze), "l'amore per la natura" sarà sempre e solo una questione di sensibilità individuale, un po' astratta. Non bastano la ragione e il sentimento, serve anche l'intuizione di quell'unità più grande di cui tutti facciamo parte, della connessione profonda tra persone, animali, forme della natura, che è esteriore (scientificamente dimostrabile) ma anche interiore (spirituale).

Noi amiamo gli artisti, di ogni tipo. Ma abbiamo un debole per quelli nomadi e un po' matti, per gli originali e gli stravaganti, che invece di accontentarsi di raccogliere il frutto del proprio lavoro, se ne vanno a esplorare il mondo e a creare in libertà. Per questo dedichiamo le ultime due pagine a Giorgio Foresto, uno che sembrava uscito dal paese delle meraviglie di Alice, con il suo studio-palafitta che chiamava Mondo della Luna.

5 SETTEMBRE 2023

Rodolfo Bisatti

Guardare e raccontare la "realtà minima", quella che di solito non vediamo. Un cinema diverso: libero, povero, ecologico

I NCONTRI

Bisogna fare film per far

Sul set di Voci nel buio
«Basta mettersi in una posizione di ascolto e le cose arrivano.
vedere, non per farsi vedere»

Cosa ce ne facciamo di un “cinema francescano”, direte voi? Il cinema è sogno, lacrime e risate, è invenzione di mondi, è l’iperbole degli inseguimenti infiniti, dei supereroi che superano ogni limite, delle epopee epiche e le epitomi eroiche in 35 mm. Il cinema è poesia, invenzione, visione. Tutto assolutamente vero. Lo sa molto bene anche Rodolfo Bisatti, che per vent’anni ha lavorato con un maestro come Ermanno Olmi, uno che ha fatto la storia del cinema.

Attraversavo tutta la città di Padova a piedi, per andare a trovare la mia morosa.

Avevo 17 anni. Mi sono reso conto che quando prendevo la macchina da presa in mano, la realtà assumeva un'altra connotazione. Accadevano delle cose. Miracolosamente

Ma forse bisognerebbe intendersi sul significato di visione. Su cosa vogliamo vedere e soprattutto come. Perché il “come” e il “cosa” fanno la differenza tra un cinema (e un’esistenza) che ci lascia istupiditi, come sonnambuli che attraversano il mondo a occhi semichiusi, vivendo come capita, ingurgitando ciò che passa il convento globale, oppure un cinema che gli occhi li vuole aprire, e che nel film non vede solo un prodotto da vendere ma un’esperienza da condividere.

Rodolfo Bisatti è uno di quegli artisti che vengono definiti “outsider”. Nomadi e anarchici, solitari che amano il lavoro collettivo, testoni idealisti e anticonformisti, a volte anche un po’ pessimisti (non viviamo certo nel migliore dei mondi possibili) ma allegramente creativi, lavoratori indefessi che però amano l’indipendenza e la libertà. Gente che conosce il cinema come pochi altri, anche dal punto di vista tecnico, ma rifugge i riflettori (e viceversa) a cui preferisce l’ombra della “realtà minima”, quella che non sappiamo più guardare. Non per niente Bisatti ha scritto un manifesto d’intenti sul Cinema Minimo (che riassumiamo in un articolo ad hoc).

Ci ha messo anni a liberarsi dalla definizione di “allievo di Olmi”, e forse non ci è ancora riuscito. Capita a chi ha attraversato una realtà come Ipotesi Cinema, frequentando la casa del maestro, in cui da ragazzo gli capitava di incontrare Grotowski o Rigoni Stern senza sapere chi fossero. Eppure lui quel modo di intendere il cinema lo aveva già praticato da ragazzo, d’istinto, quotidianamente, sperimentalmente.

Poi, nel corso degli anni, ha fatto la sua strada: ha realizzato documentari per la Rai e per La7, ha portato alla Mostra di Venezia il suo esordio ufficiale e tardivo nel lungometraggio, Il giorno del falco (era il 2004), ha realizzato opere applaudite per il coraggio con cui affrontavano questioni esistenziali e sociali importanti, ma soprattutto per lo soluzioni stilistiche, con la complicità della compagna produttrice-attrice Laura Pellicciari: La donna e il drago (la questione delle donne in carcere con figli piccoli), La crudeltà del mare (il racconto di una separazione senza drammi, vista con gli occhi della figlia), Al dio ignoto (sul fine vita, girato in un hospice). Per non parlare di quei lavori che quasi nessuno ha visto, come Màuse, girato con una webcam quando ancora non si usavano, uno dei lavori più folli, liberi e potenti del cinema italiano recente (e che, volendo, potete trovare nei meandri della rete).

8 SETTEMBRE 2023

Ma, come capita spesso agli outsider, Bisatti ha dovuto per lo più vagare in cerca di finanziamenti, inventandosi un modo di produrre film che è già di per sé un‘esperienza (di incontro e confronto, di creatività collettiva). E intanto si è impegnato in corsi e laboratori, ha lavorato spesso con quelli che chiamiamo gli “ultimi” (emarginati, internati, borderline), si è inventato il collettivo Terzocinema e la sperimentazione del VAM, laboratorio per la “videoalfabetizzazione multisensoriale”, basato «su attività performative che vedono nella diversità, nella disabilità, una risorsa creativa. Poggia sul principio che la deprivazione sensoriale di un organo è portatrice di ricchezza all’interno dell’officina, del gruppo». Il “digiuno percettivo” come strumento per allenare l’empatia e l’intuizione.

Insomma, Rodolfo Bisatti è uno di quei personaggi che Redness ama in modo particolare, per la passione ostinata, l’onestà (verità), l’originalità del suo lavoro. Tanto che speriamo di vedere presto il suo nuovo pro-

getto trasformato in film: si chiama On Life, l’università dei bambini, guarda al nostro presente-futuro digitale e mette in scena una scuola utopica in cui i giovani insegnano agli adulti.

Quanto al Cinema Minimo, lui non l’ha certo inventato, ma è da sempre in mezzo a noi: basta saperlo riconoscere. Tutti lo possono praticare, grazie agli strumenti messi a disposizione dal progresso tecnologico, fuori dal circuito normale della produzione e distribuzione. Per questo il “sistema” lo snobba e un po’ lo teme. Diventasse un esercizio collettivo, un contagio culturale diffuso - invece di essere una "metafisica" e una prassi che si incarna misteriosamente, nella storia del cinema, dove e quando decide lo spirito (che appunto “soffia dove vuole”) - metterebbe a rischio certi meccanismi automatici che danno visibilità solo a una piccola fetta di film riccamente prodotti in una piccola porzione di mondo. È il pubblico che sceglie, certo, ma il pubblico è a sua volta un prodotto del mercato.

Rodolfo Bisatti

9 SETTEMBRE 2023

La storia di Rodolfo Bisatti comincia da una vocazione stroncata sul nascere. Da un antagonismo biologico. «Mio padre era un professore di storia dell'arte - racconta - ma era anche un pittore. Quindi io ho fatto un istituto d'arte e poi mi sono messo a dipingere. Un giorno mio padre si è avvicinato e mi ha preso la mano per correggermi. Lì ho capito improvvisamente che dovevo trovare un'altra soluzione». Suona romantico, a modo suo. La nuova soluzione? Cinema peripatetico. «Chiesi al preside dell'Istituto d'arte di comprarmi un paio di bobine super8. Avevo 17 anni, ma a quei tempi, negli anni Settanta, con le cattive si otteneva tutto. Con queste bobine e una cinepresa super8 (814 Canon), recuperata chiedendo una serie di prestiti a catena - restituivo i soldi a uno e me li facevo dare da un altro - ho capito subito quello che volevo fare. Ma ciò che mi interessava non era tanto il cinematografo di invenzione. Vivevo a Padova ed ero un grande camminatore. Avevo la morosa che abitava nel nord della città e io, che ero di Padova Sud, attraversavo sistematicamente tutta la città a piedi e vedevo delle cose. Allora mi sono detto: queste cose che vedo porrebbero essere registrate in qualche modo, fissate?». Nasce da lì il suo primo lavoro: Lasciateci giocare in pace. «Una raccolta di immagini trovate casualmente in giro per la città, nel mio quotidiano peregrinare. Mi ero reso conto che nel momento in cui prendevo la macchina in mano, la realtà assumeva un'altra connotazione. Accadevano delle cose. Miracolosamente. Ricordo ad esempio una danza rom,

in un campo nomadi improvvisato, due ragazze che ballavano, una cosa spettacolare. E tutta la vita quasi sotterranea, minuta, nascosta, in ombra, che riuscivo a catturare attraverso quella bacchetta magica»

Una bacchetta magica, ecco cos’è la macchina da presa, in tutte le sue forme, video, mini o maxi. Ecco l’attitudine che dovrebbe avere chi decide di fare cinema, al di là delle dimensioni e delle ambizioni commerciali. Una questione interiore, ma anche politica e sociale. «Sentivo il bisogno di guardare una realtà che ritenevo trascuratissima dai media. Nessuno voleva parlare delle cose minime. Ho realizzato una postazione di osservazione itinerante. Poi ho montato tutto con una moviolina Prestinox, con le bobine e il nastro adesivo, e ho mostrato queste cose al mio professore di tecnologia, che era un architetto. Alla fine delle proiezione l'ho visto in lacrime: “Questo è il cinema del futuro”, mi disse. Presentai quel lavoro, un anno dopo, a un festival di Mirano, località della Riviera del Brenta, e ci furono un sacco di problemi. Un critico mi accusò di plagio nei confronti della realtà: “Tu non se l'autore, hai rubato queste immagini, è la realtà che si racconta da sola!”. Gli risposti che era proprio ciò che volevo fare».

La svolta decisiva, in tutti i sensi, fu l’approdo a Ipotesi Cinema. «Prima mi sono iscritto al Dams di Bologna, ad arte, non a drammaturgia e cinema, perché volevo capire a fondo l'immagine, la figurazione, la semiologia. E poco dopo mi sono imbattuto in questo gruppo che aveva sede a Bassano del Grappa.

10 SETTEMBRE 2023
Sul set di Al dio ignoto (foto Yuki Bagnardi)

A dir la verità non ero molto a mio agio, in mezzo a questi giovani autori che parlavano di cinema in modo molto forbito ed elegante. Ma ho presentato un mio progetto, un lavoro sulla ricostruzione di un paese terremotato nel '77, la Rai lo ha finanziato, a Olmi è piaciuto e sono entrato nelle grazie del capo. Di lì a poco ho ricevuto subito un incarico importante: fare la co-regia de La terra, un film sull'agricoltura in 35 mm. E lì ho lavorato tantissimo. Ho avuto la fortuna di vedere

Olmi montare»

Olmi era un vero maestro, uno capace di montare una sequenza stupefacente con i tuoi “scarti di lavorazione”. Lo racconta Rodolfo nel manifesto del Cinema

Minimo, che in realtà è un saggio-diario pieno di aneddoti memorabili. Dove si ricorda anche che in quel film si confrontavano tre zolle di terra, biologica (legata alla tradizione agricola dei nonni), industriale e biodinamica. Ma eravamo all’inizio degli anni Ottanta, la società italiana non era pronta a cose del genere. «Abbiamo girato il film in due-tre anni, ci abbiamo messo un'eternità perché dovevamo riprendere il ciclo delle stagioni, abbiamo fatto un sacco di sopralluoghi e di foto. Questo è il primo film sull'agricoltura biologica in Italia. Il problema è che la Regione Veneto, che aveva finanziato il film, lo ritirò subito, perché creava dei dissidi tra gli agricoltori che utilizzavano i pesticidi».

L’idea, anche in quegli anni, era quella di «cercare qualcosa di cui nessuno parlava. Ho progettato vari lavori per la Rai. Ho realizzato La valle e Case, sempre all'interno di questo laboratorio protetto».

Certo che quello era un ambiente incredibile. «Noi giovani non ci rendevamo nemmeno conto di dove eravamo. Io andavo a casa di Olmi, dove trovato un tizio che mi dicevano fosse uno scrittore, Mario Rigoni Stern, che aveva delle api nel giardino, un vecchio brontolone. C’era anche un certo signore che si chiamava Tullio Kezich. Ma anche un barbone, mezzo ubriaco, seduto nel salotto di Olmi: poi ho scoperto che era Grotowski... Andavamo ai festival, a Locarno, come se niente fosse, portavamo i nostri lavori. Eravamo protetti. Chiamarla scuola è riduttivo, perché lavoravamo, era davvero un laboratorio e prendevamo anche dei soldi. La Rai lo aveva finanziato come un avamposto di ricerca»

Cose incredibili, se pensiamo a come è ridotta oggi la Rai. Anche Gianni Amelio ha ricordato spesso i tempi in cui sulla tv di stato si faceva ricerca e sperimentazio-

ne. «I nostri lavori andavano in onda in seconda serata su Rai1. Oggi è cambiato il mondo, si è rotto qualcosa. Anzi, si è rotto da quando, alla fine degli anni Ottanta, è nato quel cinema italiano intimista e lezioso che io detesto. Un cinema che mi ha sempre annoiato».

Aproposito di Olmi, di sperimentazione e di cinema che ci piace. «Ad un certo punto è successa una cosa molto interessante. Dopo La leggenda del santo bevitore, Olmi ci radunò e ci disse: ragazzi qua c'è qualcosa che scricchiola. Io ho vinto il festival di Venezia ma non sono contento. Dobbiamo aprire un laboratorio per riformare completamente il linguaggio audiovisivo. E lì nacque la Postazione per la Memoria. Una ventina di individui, giovani, tra cui c'ero anch'io, si prendevano carico di questa metodologia, che era esattamente ciò che io avevo fatto all'inizio. Si trattava di non usare più una macchina da presa, ma una videocamera, e quindi avere a disposizione più tempo e più spazio, entrando all'interno della vita»

11 SETTEMBRE 2023
Rodolfo Bisatti
(foto Yuki Bagnardi)

Olmi era davvero un maestro. Ci lasciava fare, senza darci indicazioni di tipo tecnico. Ci faceva ragionare. Mi ha sempre ascoltato e capito. Colpa mia se non ha girato La donna...

Lì Bisatti ebbe l’impressione di avere a che fare con “un grande mistero”: «Ciò che io avevo sperimentato quando ero poco più che adolescente, si ripresentava in modo ancora più forte. Forse esiste un linguaggio della realtà che prescinde da tutto e da tutti. Esistono flussi linguistici, racconti che si intrecciano. Basta mettersi in una posizione di ascolto, non avere l'angoscia del risultato, non avere aspettative, e le cose arrivano. Si chiamava Postazione per la Memoria ma l’idea era quella di registrare oggi quello che vorremmo ricordare domani». Tutto era nato anche grazie alle nuove tecnologie: «Uscirono queste telecamere, con cui andavamo a fare i sopralluoghi per i film in pellicola. Ma i sopralluoghi erano molto più belli dei film: li giravamo senza patemi d'animo, per registrare delle cose, prendere degli appunti, e questi appunti erano magici, c'era una freschezza, un'ingenuità. Poi quando dovevi metterli in bella tutto si irrigidiva in una sorta di regime del linguaggio precostituito, che era molto letterario. Mentre in quella forma originaria noi scrivevamo direttamente con la telecamera». Questo hanno fatto e continuano a fare i registi outsider come Bisatti: scrivono con la telecamera. «Ci abbiamo lavorato una vita su questa roba. Tanti di noi scrivevano sceneggiature che

poi non utilizzavano, perché nel momento in cui ti poni di fronte a un soggetto, questo soggetto se stimolato ti può restituire delle cose immensamente più interessanti, originali, inedite, rispetto a quelle che avevi pensato soltanto con il lobo frontale».

Facciamo a Rodolfo una domanda difficile: gli chiediamo di riassumerci ciò che gli ha dato Olmi in vent’anni di collaborazione. «La cosa che mi colpiva di lui era il carisma. E il fatto che una persona “arrivata” avesse ancora voglia di ascoltare gli altri, soprattutto noi che eravamo giovani. Non ci dava nessuna indicazione di tipo tecnico, ma neanche di tipo drammaturgico. Ci faceva fare una serie di ragionamenti molto più ampi, attorno al senso profondo di ciò che volevamo raccontare. “Perché vuoi occuparti di questa cosa?”. Ho trovato in Olmi un interlocutore che capiva ciò che gli dicevo. Generalmente il maestro spiega e tu ascolti. Invece con lui era il contrario. Lui ascoltava, capiva, poi prendeva anche posizioni molto forti. Ricordo che in Case volevo fare una panoramica che durava 3 minuti. Olmi me la lasciò fare. Dopo di che veniva sistematicamente in moviola ed eventualmente ci dava dei suggerimenti, correggeva delle cose. Mi ha insegnato il mestiere. Non tanto una serie di condizionamenti, come capita in una scuola di cinema, ma piccoli aggiustamenti di un prodotto che veniva creato da me. Aggiustamenti che rivelavano una grande sapienza nel connettere le inquadrature tra di loro. Quindi sì, era davvero un maestro. Ci aiutava in modo maieutico».

Difetti? Ci sono anche quelli, ovviamente. E qui scatta l’aneddoto inedito, su un film non realizzato “per colpa” di Bisatti. «Un aspetto negativo di Olmi era una certa psicorigidità sui problemi della sessualità. Coltivava un'immagine un po' edulcorata della figura femminile. Purtroppo è colpa mia, veramente colpa mia, se non ha fatto un film intitolato La donna, che voleva girare dopo La terra. Lui mi aveva in qualche modo incentivato a occuparmene e io invece ho smontato l’idea. Gli ho letto un brano della Bibbia in cui c’è scritto: “Lo fece maschio e femmina”. Gli dissi: “Lo fece! Questa roba della donna è una tua invenzione che non esiste più”. Io non so se ho fatto bene o male, sta di fatto che lui mi ha guardato con dolore e poi non ha girato il film. A quei tempi scrivevo sempre dei saggi che gli facevo leggere, lui ci teneva molto. Ero considerato l'anarchico intellettuale del gruppo. Quell’immagine angelicata femminile era solo nella sua testa».

12 SETTEMBRE 2023

In compenso «lui riusciva a infondere in tutti noi un sentimento della morale che andava molto al di là degli stilemi cattolici. Un sacro inteso in un senso ampio». Quanto al cinema, a volte «se ne usciva con cose fuori da ogni logica. Una volta mi ha raccontato di quando Pasolini era andato a casa sua a fargli leggere la sceneggiatura del Vangelo secondo Matteo. Olmi era molto amato da Pasolini (che ha fatto vedere ovunque Il posto). Mi disse che lui l’aveva trovata sublime. Poi mi fa: “Purtroppo il film non era all'altezza”». Roba da non credere. Ma a un grande regista e a un grande uomo come lui, si perdona questo e altro. «Il suo lato più debole era una certa gelosia nei confronti dei suoi allievi. E noi, come figli, non lo avevamo capito. Dopo aver realizzato Il giorno del falco, tra mille angosce e patimenti, ho deciso di mollare Ipotesi Cinema e tentare una strada personale, sapendo che uscire da quel contesto voleva dire farsi dei nemici. Rai Cinema non mi ha più dato una lira. Ho cominciato ad avere delle enormi difficoltà a realizzare i miei lavori. Ma ho aperto una società indipendente, la Kineofilm, e con gran fatica sono riuscito a fare ancora dei film». Quando incontri un grandissimo sulla tua strada, il rischio è di passare la vita nella sua ombra, a fargli da scudiero. Meglio tagliare il cordone ombelicale e andarsene per la propria strada.

Tu quali autori amavi?

«Quello che più mi ha toccato e intrigato, e che mi ha insegnato molto, è Andrej Tarkovskij. Poi ho sempre

trovato una grande forza, una vitalità dirompente e un linguaggio straordinario in Fassbinder».

Hai sempre avuto l'idea fissa di fare cinema per “cambiare il mondo”. Lo dicevi fin da ragazzo. «Esattamente. Oggi lo chiamo cinema generativo o speculativo. Il cinema è uno strumento straordinario per dire delle cose e suggerire dei cambiamenti. Altrimenti l’alternativa qual è? Utilizzarlo come una vetrina. Ma bisogna avere un ego smisurato per usare il cinema allo scopo di innalzare se stessi. Io non ce la faccio. Non è che non mi interessi avere una visibilità, ma non mi viene neanche in mente di partecipare ai Donatelli, bisogna avere un minimo di amor proprio. Altrimenti si usa il cinema per farsi vedere e non per far vedere. Io credo molto nel digitale come democratizzazione globale della cinematografia. So che questa cosa può irritare molti, ma sono convinto che la video-alfabetizzazione di base sia importante quanto imparare a leggere e a scrivere».

Conta anche il modo in cui arrivi a realizzare i film. Certi tuoi progetti hanno coinvolto tante persone e generato belle esperienze. Penso a Voci nel buio, alla collaborazione con le associazioni che operano nel Quadrilatero di Trieste, dove avete allestito anche uno spettacolo, in un’arena all’aperto, incontri, eventi pubblici, dove è nato anche un documentario.

13 SETTEMBRE 2023
(foto Marco Minniti) Rodolfo Bisatti
In alto, La crudeltà del mare. Nell'altra pagina, Voci nel buio

Oltre a un modo molto particolare di lavorare con il ragazzo protagonista non vedente (che usava una videocamera per raccontare la sua realtà). Oppure Al dio ignoto, che ha richiesto sette anni di lavoro, con grandi e gravi stress, ma anche incontri con realtà che si occupano di cure palliative, esperti, esseri umani formidabili. Non c’è solo il prodotto finale ma anche un percorso.

«Certo, è un percorso, un processo, ti inserisci in un contesto e praticamente fai un progetto di comunicazione, molto esteso, con vari partner. E questo ti consente anche di capire bene ciò che stai facendo. Il film è solo la punta di un iceberg. Non voglio utilizzare un termine orrendo come “pretesto”, ma è sicuramente il piccolo risultato di un grande processo. Ogni lavoro ti dà l'occasione di entrare là dove non potresti entrare, di conoscere persone che altrimenti non conosceresti, di incontrare associazioni, gruppi, comitati, collettivi, realtà extracinematografiche. Diventa un pezzo di vita. Pensa che sono stato invitato a convegni sulle cure palliative come “esperto”».

Lo sei diventato, dopo tutto quel lavoro. «Per il nuovo progetto On Life, sulla trasformazione digitale ed ecologica - vista in modo “scorretto”, attraverso una scuola in cui gli allievi insegnano agli adulti - mi sono trovato a parlarne alla Camera dei Deputati. Ho contattato un gruppo di persone che si occupano di trasformazione digitale, hanno letto il progetto, e l'ente nazionale mi ha invitato a parlarne a Roma. Ho dovuto comprare una cravatta per la prima volta nella mia

vita, altrimenti non mi facevano entrare. Una signora, in un negozio vicino alla Camera, mi ha gentilmente e completamente vestito, per la somma di 200 euro».

Tu sei sempre stato anche uno sperimentatore. Màuse è un film incredibile. Immagini “endoscopiche”, misteriosamente poetiche. Uso le tue parole: "Una sonda immersa nell’esistente, capace di infrattarsi nelle crepe della vita”.

«Con questa microtelecamera ho seguito Mario, un amico, un artista, nella sua vita quotidiana. Ma ho montato il materiale raccolto solo dopo tanti anni. È il lavoro a cui tengo di più in assoluto. La struttura fisica dell'immagine è inesistente, ma dal punto di vista del linguaggio lo trovo molto interessante. Lo aveva prodotto Fabio Olmi, che mi aveva dato il registratore e i radiomicrofoni e mi aveva seguito in questo percorso. Ho portato alle estreme conseguenze la Postazione per la Memoria, per dimostrare questa linea di racconti che si possono intercettare nella realtà e collegarli tra loro solo dandosi delle indicazioni di massima, tipo: seguire Mario nelle sue giornate. Olmi mi chiamò entusiasta: “Film meraviglioso, peccato per il finale”. C’era una donna nuda…»

Qualche riconoscimento lo hai avuto, film premiati ai festival, recensioni positive, ma comunque sei sempre stato un outsider. Questa cosa dell'andare avanti senza mai accettare compromessi, non ti pesa mai? Alla fine questa scelta l’hai pagata.

14 SETTEMBRE 2023
Sguardi. La donna e il drago e Afar Together

«L’ho pagata pesantemente. Io ci provo ma poi non ce la faccio. Per On Life mi sono messo di impegno a cercare almeno un attore che mi portasse punteggio al Ministero (per ottenere i finanziamenti statali destinati al cinema, ndr). Ho provato per mesi, ma non c'è stato niente da fare. Non ho trovato nessuno nello star system tradizionale italiano che “vibrasse” nel modo giusto. Cercavo una “contessa”, ma tutte le attrici italiane di una certa età che mi interessavano sono morte. L'ho trovata in una splendida persona, ex-modella di 80 anni, Benedetta Barzini, che ha lavorato con Warhol e con Dalì, ma non “fa punteggio”, non è un'attrice. Però è perfetta! E quando trovo la persona giusta, difficilmente cambio idea per aderire a un regolamento. Quindi anche nel mio prossimo progetto non ci sarà un attore che mi possa trainare verso RaiCinema e i 100 mila euro che mi servirebbero. Il fatto è che la realtà, l'autenticità, è immensamente più potente di qualsiasi artefatto».

Il grande Paolo Bonacelli, però, era perfetto in Al dio ignoto. In quel caso avevi trovato un attore conosciuto.

«Bonacelli l’ho sempre amato da quando l’ho visto in Salò di Pasolini. Lui ha subito aderito e siamo diventati amici. Ma è un outsider anche lui. Se pensi alla potenza di Bonacelli e a come invece è stato utilizzato al cinema… Lo ricordano per Johnny Stecchino. Ha

sempre fatto parti marginali, secondarie. Bonacelli è un personaggio fuori dagli schemi, che ho sempre amato».

Gli artisti outsider si incontrano lungo la via. «A me non dispiacerebbe ricevere dei riconoscimenti. Ma allo stesso tempo, nel momento in cui io esprimo questa cosa, sono leggermente insincero, perché in realtà entrare nel meccanismo di una gara sarebbe molto dura per me. Al massimo vorrei un riconoscimento postumo, che non mi crei stress psicologico. Oppure un riconoscimento delle mie idee e del mio modo di far cinema. Ma questo vorrebbe dire che sono riuscito a cambiare qualcosa».

Il tuo ultimo film, un po’ sperimentale anche questo, Afar Together-Convivenza remota (che tutti possono vedere su Chili), sembra il frutto del lockdown, oltre che di quella “pandemia del virtuale” che ormai ci è entrata nell’anima, oltre che nel corpo. Tu sei stato molto critico sulla gestione politica e sociale dell’emergenza sanitaria e questo non ti ha certo attirato nuove simpatie.

«È un film nato dall'incontro con i due ragazzi protagonisti, Sara Porcella e Leo Cattaneo. Abbiamo deciso di provare a raccontare una storia trovandoci un paio di giorni la settimana, ogni quindici giorni. La cosa è nata praticamente da sola.

Rodolfo Bisatti

Eravamo in una situazione quasi post-pandemica e quindi, in modo molto provocatorio, abbiamo deciso di raccontare questo amore remoto, per vedere cosa succedeva. La lettura del film in realtà è molto contraddittoria. Cosa volevamo dire? Che l'amore è più forte di una limitazione anche fisica? Che il rinchiudersi in casa è una patologia sempre più presente nella nostra realtà quotidiana? Non lo sappiamo. Abbiamo messo su un foglio queste frasi: lei non esce di casa ma non presenta evidentissimi segni di scompenso; lui la ama ma fa una vita parallela diversa dalla sua; che cosa può creare una frizione? Volevamo lanciare un segnale, riguardo una problematica non molto affrontata. Sembra tutto passato, ma in realtà non è passato nulla. La vita sembra tornata nella normalità, ma io adesso mi ritrovo a fare dei corsi, aggiornamenti per gli insegnanti, in remoto, cosa impensabile soltanto qualche anno fa. Con questa opera volevamo... rompere un po' i coglioni».

Quindi non c’è un messaggio preciso. «Il film è una reazione. C’è stata una forte componente di incoscienza nel realizzarlo, noi non sapevamo cosa sarebbe successo e come sarebbe finito il film. E la scelta di finirlo in quel modo secondo me è sintomatica: attenzione, perché probabilmente tutta questa “fagocitazione esperienziale”, vacanziera, è solo un'altra dimensione del lockdown. Forse un lockdown cerebrale. Secondo me è stata una ferita veramente profonda che bisognerebbe metabolizzare. Io non sono assolutamente contro le tecnologie, credo che siano tutti strumenti perfettamente gestibili, ma l'idea che il contatto sia assoggettato al contagio è una cosa che potrà portare a delle conseguenze devastanti, anche attraverso queste reazioni inconsulte di masse che si muovono per paura di rimanere poi rinchiuse. Panico organizzato».

Alla fine arriviamo al “manifesto”, che in realtà è molto più di questo. Non pensate al Dogma di Von Trier o alla Dichiarazione del Minnesota di Herzog. Anche se pure qui c’è una buona dose di provocazione. Non ci sono regole, appelli, chiamate alle armi, ma una riflessione molto complessa e profonda, radicata nell’esperienza di Rodolfo Bisatti e di altri autori più o meno celebri. «In effetti più che un manifesto è un riferimento. In realtà il Cinema Minimo c’è sempre stato. Ma prendere coscienza delle cose può essere molto utile in questo momento. Il Cinema Minimo è economico ed ecologico. Uno dei motivi per cui ho realizzato Afar Together è quello di sperimentare un sensore che mi ha consentito di girare il film senza l'utilizzo di luci, senza consumo energetico. Sembra una sciocchezza, ma dentro questa tecnologia c'è una sapienza che secondo me va indicata. Noi per riprendere la realtà così com’è abbiamo dovuto aspettare tutti questi anni. Per riprendere la notte, uno squallido appartamento di studenti d'inverno, ho dovuto aspettare che la Sony producesse questo sensore straordinario, economico, che mi ha consentito finalmente di registrare la realtà. Questo è il paradosso. La massima espressione tecnologica per riprendere la cosa più elementare, che è la vita, senza bisogno di dover illuminare, e quindi rovinare il setting, quell'appartementaccio che trasuda quelle ombre. È un segnale. Come dire: abbiamo a disposizione i mezzi, usiamoli, sfruttiamoli. Non abbiamo i soldi ma realizziamo lo stesso i nostri film». Con grande forza di volontà, ma anche consapevolezza. «Questo non vuol dire contrapporsi in modo puerile a un cinema finanziato. Vuol dire semplicemente dire ai potenti: ricordatevi che noi non ci fermiamo. Come i poeti sotto Stalin. Mandel’stam diceva: guardate che le mie labbra si muovono anche sottoterra. Ed è stato così. La moglie ha imparato a memoria le sue poesie, lui l'hanno messo in un lager, lo hanno ammazzato, ma lei le ha riscritte. Cinema Minimo è un segnale. Noi continueremo a cercare finanziamenti per i nostri film, ma se non ci finanziano i film li facciamo lo stesso. Ci organizzeremo in piccole troupe e gireremo dei film probabilmente più intriganti di quelli con grossi budget. Tra l’altro la famigerata Agenda 2030 parla in modo esplicito di un “cinema ecologico” che non viene mai praticato: mangia a casa tua, vai in una trattoria, non consumare tutta quella plastica, non bloccare il flusso della vita in una città, anche perché ciò che fai vedere poi sono immagini completamente distorte».

16 SETTEMBRE 2023
Quando poni lo sguardo su un volto, ti ritrovi faccia a faccia col sacro. Per questo è molto difficile creare l'artefatto. Io la spiritualità la sento potente nei "poveri cristi". Il mio Dio è senza tetto, senza denti e senza fissa dimora

Quindi non si tratta di firmare un manifesto, ma di riconoscersi in un’idea. «Queste idee sono in circolo già da tanto tempo. Non è il tentativo di creare un gruppo, ma di identificare in tante monadi disperse l'esistenza di un movimento in essere, che ha modalità diverse ma che si sta muovendo verso la liberazione del cinema dalla sua tragica condizione fallimentare». Il “minimo” riguarda la forma, i mezzi utilizzati, ma anche il contenuto. «L’idea è quella di occuparsi del presente. Le condizioni per farlo sono minime, con un’accessibilità diretta e immediata. Non c’è nessuna limitazione nel soggetto. Io personalmente penso che realizzare delle opere sulla condizione attuale sia vincente. Parliamo della vita più nascosta. Non sono interessanti i temi già trattati dalla cronaca (tutti parlano di immigrati), ma quelli che la cronaca non tratta perché non interessano. Quando parlo di “minimo”, parola provocatoria, dietro c'è un'altra parola che è “povero”. Il teatro povero di Grotowsky è un'azione che spoglia la scena di tutti gli orpelli non necessari e mette in scena l'uomo. Qual è la dimensione essenziale? È come si muovono la donna, l'uomo e il bambino in questa società, come stanno vivendo, come si relazionano. Vogliamo parlarne? Vogliamo guardare?

Vogliamo vedere che cos'è la scuola, ad esempio? Possiamo, vogliamo entrare in una scuola? Lo aveva fatto De Seta negli anni Settanta forse è il caso di ricominciare a farlo».

Quali sono gli strumenti per un’operazione del genere? «Di sicuro non sono le grandi produzioni. Semmai sono queste sonde che crei, volando basso, quasi rasoterra, entrando nelle questioni. E questo lo possiamo fare se lavoriamo quasi di nascosto. Il che non vuol dire negare l'importanza di avere dei finanziamenti per realizzare le proprie opere. Ma vuole essere un'ancora di salvezza che può diventare quasi più interessante e intrigante. Alla fine io posso affidare il mio film a una piattaforma, anche se è costato 5 centesimi». Ma non c’è una contraddizione nell’utilizzare uno strumento come le piattaforme, tipico del “turbo-capitalismo”? Anche perché poi il Cinema Minimo suggerisce di metterci la faccia e accompagnare i film nelle sale. «C’è una fortissima contraddizione! Come sul fatto di usare un sensore della Sony. Ma questo ti consente di resistere, persistere ed esistere a prescindere da tutto. Se io piazzo Convivenza remota su Chili, ho fatto in modo che sia fruibile. Dopo di che sta a me chiamare De Finis che fa l’IPER-Festival delle Periferie a Roma, proponendo il mio lavoro, che va bene nel suo contesto più che in un festival cinematografico, e infatti siamo andati a Roma a proiettare il film. Una cosa non esclude l'altra. Ma pensare soltanto alla distribuzione nelle sale sarebbe un suicidio programmato».

17 SETTEMBRE 2023
Rodolfo Bisatti
Sul set di Al dio ignoto (foto Yuki Bagnardi)

Ci sono anche delle forme di diffusione alternative. «Io do i miei lavori a iNDIEFLIX in America. Loro hanno tutte le biblioteche del Nord America connesse alla piattaforma: uno con la tessera ha accesso alla piattaforma gratis. Ci sono poi forme di fruizione ibrida che non sono più le sale convenzionali, ma le sale polivalenti, i circoli dell'Arci, i centri sociali, i luoghi di ritrovo. Il Cinema Minimo entra là dentro perché non ha il problema dello sbigliettamento. Il problema semmai è come far fruttare questa roba. Come campo?». Problema non indifferente. «Io nella mia esistenza alterno due situazioni: una in cui cerco dei soldi per fare film più strutturati e una in cui mi riservo una fetta di sperimentazione totale. L'idea non deve essere: evviva le sale chiudono, il cinema non c'è più. L'idea è sopravvivere dentro una condizione contemporanea in cui c'è una dismissione progressiva delle sale che chiudono come chiudono le librerie. Non è che dobbiamo dire: non leggiamo più libri perché chiudono le librerie; continuiamo a leggere i libri, ma magari c'è la caffetteria-libreria, ci sono altre possibilità».

Ultimo tema, fondamentale. Il sacro. Bisatti (“vecchio marxista”, come si autodefinisce volentieri) ripete spesso che va recuperata quella dimensione. Il suo Al dio ignoto è un esempio di cosa significa vedere e mostrare l’invisibile al cinema. Questo ritorno a una dimensione spirituale dell’esistenza, alla sua verità umana, ovviamente va ben oltre il cinema. D’altra parte se togliamo dal “manifesto” la parola cinema e inseriamo teatro, letteratura, arte, vita, funziona benissimo, il senso arriva forte e chiaro. Si parla di una rivoluzione, di un altro modo di stare al mondo. «Tasto tremendo, questo. Quando mi chiedo-

no se credo in Dio io rispondo sempre che non posso ancora permettermi il lusso di non credere. Facendo questo mestiere entro immediatamente in contatto con il sacro. Quando posi lo sguardo su un volto, ti ritrovi faccia a faccia col sacro. Per questo è molto difficile creare l'artefatto. Ogni volta che mi metto in moto, per realizzare un film, mi imbatto in qualche modo nel sentimento del sacro». Per usare le parole del manifesto: «La spiritualità è una cosa che non si misura con le pratiche religiose o ascetiche e sfugge anche alle analisi del sangue. L’errore più ricorrente è pensare che la spiritualità sia non percepibile ai sensi fisici, che sia intangibile e aderente ai santi e ai credenti. Non è affatto vero. La spiritualità è invece prossima al sacro che si manifesta innanzitutto attraverso una negazione, la negazione della volgarità (…) Io la spiritualità la sento potente nei “poveri cristi”, non certo nei potentati religiosi, almeno non con questa portata mistica. Il mio Dio è senza tetto, senza denti e senza fissa dimora, ed è lui che mi dà forza e ispirazione di stare al mondo». Si chiama Cinema Minimo, ma il suo orizzonte è grande, grandissimo, potenzialmente infinito.

18 SETTEMBRE 2023
A fianco, un'immagine tratta da La donna e il drago. Sotto, Afar Together e Al dio ignoto (foto Yuki Bagnardi)

CINEMA MINIMO

«Forse il talento non è il problema, perché il talento non esiste. È un’invenzione borghese utile a distinguere colui che è dotato di un patrimonio da chi invece non lo è, e il patrimonio in questione non è un patrimonio genetico, bensì un patrimonio economico. Chi non è benestante non può fare il cinema che è un’arte costosissima e inaccessibile ai più. Questa grande menzogna è stata annientata dalla tecnologia (…) Il mercato e le sue leggi liberticide ci hanno favorito in tutto e per tutto. Hanno creato al loro interno il virus in grado di minarne, potenzialmente, l’esistenza».

Un “manifesto” che comincia con questa parole, non può che essere una provocazione. Per un Cinema Minimo, recita il titolo. Partendo da quello che sembra un invito alla disobbedienza, una rivoluzione culturale che è anche politica, oltre che esistenziale. Se non fosse che il suo autore, Rodolfo Bisatti, è un artista, uno di quelli che sanno usare l’intelletto (il manifesto ha risvolti filosofici e sprazzi di poesia) ma anche il cuore, l’anima e le

viscere. Ciò che gli interessa davvero è il mondo e come conoscerlo. «La realtà non è solo la cosa, ma tutto ciò che circonda la cosa e tutto ciò che è nascosto dentro la cosa stessa; è la cosa vista, toccata, sognata, immaginata. La realtà non esiste in quanto tale ma solo quando viene esperita. Forse potremmo avvalerci di un sinonimo e chiamarla Esistenza. Il Cinema Minimo può incontrare la realtà in maniera diretta, con uno sforzo minimo, by-passando la simulazione artificiosa del cinematografo convenzionale, in cui tutto è falso (…) Un Cinema Minimo non significa un cinema misero, al contrario, è l’unico cinema possibile, il solo capace di penetrare nella realtà e di restituirne le luci e le ombre».

Bastano poche righe - per un testo che è praticamente un saggio, lungo 52 pagine fitte, dattiloscritte - per capire che non si tratta di una banale “chiamata alle armi”, di quelle che amano certi intellettuali impegnati professionisti della raccolta firme e delle petizioni di principio.

19 SETTEMBRE 2023
Un "manifesto" che è anche diario, riflessione intima e politica, prontuario tecnico. Idee provocatorie per una rivoluzione culturale
Voci nel buio

Quella indicata da Bisatti è una possibilità, anzi una verità, che attraversa la storia del cinema, da sempre, che si è incarnata in tanti cinema diversi (e tanti autori) e che negli ultimi anni ha ritrovato nuove ragioni di esistere e di affermarsi. «Il cinema dei potenti ha sempre avuto paura del buio. Le sue attrezzature pesano, sono carovane di fari, di attrezzi, di costumi, di attori, di tecnici. Ma che ce ne facciamo dei 409.600 Iso di alcune macchine di recente realizzazione quando la grande conquista è la luce naturale, la possibilità di entrare nella vita senza disturbare, in punta di piedi, alla ricerca di un dialogo naturale, catturando ciò che la notte ci insegna?». Videocamere, microcamere, cellulari, tutto va bene, purché lo strumento consenta di essere fisicamente e spiritualmente liberi, visto che «la scrittura avviene nell’atto stesso della realizzazione filmica. Il Cinema Minimo non mette in bella copia la bozza didascalica, non è la scimmia della prosa».

L’avversario numero uno è «la filiera tradizionale», «un circolo vizioso autoreferenziale che ha ormai perso ogni contatto con la realtà». La “liberazione” possibile si muove in due direzione diverse. Da una parte «le piattaforme presenti in tutto il mondo, reti di diffusione in abbonamento ad affitto o acquisto dell’opera. Le piattaforme sono la salvezza del Cinema Minimo» Dall’altra il circuito alternativo formato da sale indipendenti, circoli e altri luoghi attrezzati a proiezioni anche improvvisate: «Ciò che contraddistingue il Cinema Minimo non è soltanto la realizzazione delle opere ma la predicazione che precede e sussegue alle stesse. Altro termine scabroso che creerà sconcerto. Con predicazione intendo proprio l’ammaestramento morale. Credo che l’autore, dopo aver molto studiato, analizzato, frequentato il mondo e le questioni che circondano un argomento, dopo aver svolto indagini, ricerche, consultato persone, creato seminari, mosso mari e monti nell’atto della creazione poetica, abbia la necessità di accompagnare l’opera fornendola di una serie di istruzioni indispensabili nel momento in cui “si scende in platea”. La predicazione è parte integrante dell’Opera. La gente va rieducata alla visione della realtà, perché molte persone sono affette da atarassia sensoriale, non vedono e non sentono più nulla. Quindi l’autore del Cinema Minimo è un maestro di cerimonia, è uno stregone.

20 SETTEMBRE 2023
Gli autori del Cinema Minimo sono poeti in esilio, come fossero migranti interni, espulsi da un sistema che non ama i loro servigi

Un intellettuale poeta che accetta l’incontro/scontro con il pubblico, fisicamente, mettendoci il corpo».

Il Cinema Minimo è nomade. Bisogna «partire da sé stessi ma gettandosi, aprendosi al mondo. I film si incontrano in cammino, non meditando da fermi (…) Dante ha scritto la Divina Commedia vagabondando lungo i crinali dell’Appennino, da un luogo all’altro del suo esilio, osservando, studiando, riflettendo, elaborando, in itinere. Vi è un saggio di Osip Emil'evic Mandel’stam che parla proprio di questo. Si intitola "Conversazione su Dante". Gli autori che si identificano con il Cinema Minimo sono poeti in esilio, un esilio spesso interiore, volontario, come fossero migranti interni, ma pur sempre esiliati, espulsi da un sistema che non ama i loro servigi»

Non si parla di intellettuali cerebrali, ma di gente che ci mette l’anima e il corpo. «Per l’artista, a dialogare con la tecnologia non è il cervello ma il cuore, l’energia pulsante, viscerale. Per l’autore del Cinema Minimo, che vive di simboli e di sensori low light, il cuore è ancora sinonimo di spiritualità, di sessualità, la sua forma stilizzata è un petalo, una vulva, un sedere. Perché se un tempo il cuore fu sede della mente umana, quel tempo per l’artista non è mai terminato. Non c’è paragone tra

il rosso del cuore e il grigiore del cervello». E sia chiaro che non si parla di un cinema esteticamente trascurato.

«Il Cinema Minimo non è un cinema approssimativo, rabberciato; si dimostra invece molto più rigoroso, sia da un punto di vista formale che contenutistico, rispetto al cinema industriale. Il rigore sta nella cura della cornice: l’inquadratura».

Quello che Bisatti presenta come un manifesto, in realtà è anche un raccolta di esperienze e aneddoti notevoli, legati alla sua storia di regista. Poi, ci sono i riferimenti alti: «Il Cinema Minimo può nascere ovunque, sulla scia di Sembène in Africa, di Glauber Rocha in Brasile, di Fassbinder in Germania, di Rossellini in Italia, di Vigo in Francia, di Tarkovskij in Russia, di Ozu in Giappone, di Dreyer in Danimarca, ispirandosi a coloro che hanno rappresentato una chiave di volta, o meglio, una chiave di svolta (…) Il Cinema Minimo rompe e scavalca ogni indugio, si riconnette a tradizioni visionarie, sperimenta, agisce, non teme autori come Glauber Rocha o Pedro Costa o il grande documentarista Patricio Guzman o Joris Ivens (…) Il Cinema Minimo ha per suo statuto intrinseco il non allineamento con il potere. Un esempio su tutti è un film antesignano del Cinema Minimo: “L’albero degli zoccoli”.

In basso e nella pagina a fronte, La crudeltà del mare

21 SETTEMBRE 2023

Un film girato in piena contestazione operaia, che parla di un mondo trascurato, quello contadino, porgendo con forza la presenza di quel mondo all’onore delle cronache. Questo è un esempio chiaro di come il Cinema Minimo possa operare». Ma attenzione a non equivocare le invettive contro il “sistema” e il “potere”. Non è una questione meramente politica. Il potere è anche quello economico e ideologico, è un certo modo di pensare e vivere la realtà, è la volgarità e l’immoralità diffusa, per certi versi alimentata dalle istituzioni. E la risposta è anche interiore. «Il Sacro è il nucleo del Cinema Minimo. Questo non significa che il Cinema Minimo debba esprimersi necessariamente in forme religiose. Il sacro riguarda la presa in carico delle esistenze rappresentate con un’attenzione, una cura e una precisione poetiche, direi addirittura metriche. La sacralità sta “nel far bene le cose”. Ho visto meccanici esprimersi in modo sacro nel fare il loro mestiere, medici, insegnanti, commessi al supermercato, veterinari, così come ho avuto modo di saggiare la cialtronaggine e l’approssimazione di altri. Il sacro sta nella cura del fare, nell’acquisizione di competenze funzionali alla riuscita dell’Opera, nella capacità di aprire un dialogo virtuoso con il Mondo»

sostanzialmente sugli esclusi, sui non calcolati, sugli invisibili». Per il resto, si tratta di «rilanciare una cultura alternativa al mainstream, compreso quello autoriale di regime (…). La domanda topica è: vuoi essere uno spirito libero o un menestrello del Re? Lo chiedo perché le due cose non sono compatibili. Bisogna fare una scelta di campo. Quando io ero nel sistema non avevo problemi a raggiungere qualsiasi cosa, finanziamenti, festival, ero sotto l’ala protettrice di un Maestro, ma non si può resistere lungamente sotto l’ombra della grande quercia. Vivere con il Maestro è stato davvero prezioso, ma poi ognuno deve gestire la propria libertà e andare dove più gli si confà». Numi tutelari? «Il pensiero visionario ed ermetico medioevale e rinascimentale, sino a giungere a Florensky, Guénon, Blavatsky, Jung, Fulcanelli, a tutti coloro che credono alla potenza creatrice del simbolo. Uno dei cardini culturali del Cinema Minimo è Giordano Bruno».

Altri principi che contraddistinguono il Cinema Minimo? La visionarietà («la realtà non è un dato fisico ma è un dato fisico immerso in un dato metafisico»), l’improvvisazione, «l’hic et nunc, l’enfasi sul momento presente», la possibilità di utilizzare «per la legge antinomica, anche macchine molto costose senza per questo snaturare le sue qualità francescane», il fatto che non abbia «prescrizioni, leggi o dogmi, né estetici né tematici, segue una regola monastica di base, altruistica, considerando le persone più fragili quelle più dotate di capacità comunicativa (…) il Cinema Minimo si basa

Non fatevi l’idea sbagliata che si tratti di un cinema serioso e predicatorio. «Io questo mestiere lo faccio per cambiare il mondo, per dare il mio contributo alla trasformazione, alla transizione ecologica della comunicazione. Ma credo che Keaton e Stanlio e Ollio abbiano cambiato il mondo in meglio. L’irrisione nei confronti del Potere e delle classi agiate era nel loro DNA, per non parlare di Chaplin». C’è poi la “Soggettiva Libera Indiretta” che arriva Da Pasolini, e la portata liberatoria del “cinema poetico”. Ma se volete, potete chiamarlo anche “cinema proletario”, o addirittura «Cinema Coatto, cioè confinato o anormale». Di sicuro qui si pratica l’alchimia: «I processi alchemici, spesso taciuti, non appartengono solo al mondo degli alambicchi e delle formule chimiche, ma si estendono anche ad altre discipline. Il VAM, per esempio, è un laboratorio alchemico. Noi vogliamo trasformare la scuola, che è di piombo, in oro. Questo è il processo alchemico al quale aspiriamo». Quindi, no, il cinema non è una «cosa da ricchi. No, non è così, fare cinema è alla portata di tutti. C’è una piccola élite che ama esibirsi alle feste di gala e che ha come riferimento culturale l’Oscar, massima espressione della decadenza della comunicazione occidentale con tutti i suoi derivati locali, ma questa platea è come il ricevimento di gala in Shining, sono fantasmi. Uno dei vantaggi delle tecnologie è proprio quello di aver prodotto strumentazioni di alto livello a portata del consumatore sia hardware che software (…)

22 SETTEMBRE 2023
I giovani oggi comunicano più facilmente con i veterani che con le generazioni di mezzo. È l'elemento spirituale che li lega, il credere che il mondo sia ancora passibile di profondi cambiamenti

Ciò che manca non è il talento ma la formazione, la cultura necessaria per concepire opere d’ingegno di valore poetico e sociale, linguistico e artistico». Non per niente, si parla tanto nel manifesto dell’importanza della scuola. E si guarda con grande curiosità e ottimismo alle nuove generazioni. «Per fortuna le nuove generazioni mirano altrove rispetto all’America, hanno uno sguardo più aperto, volto verso il Giappone, l’Oriente, si immer-

gono in una cultura più complessa, raffinata, profondamente poetica e poietica, che crea qualcosa che prima non c’era. Le Generazioni Z e Alpha sono collocate sull’altra faccia della Luna e, paradossalmente, comunicano più facilmente con i veterani piuttosto che con le generazioni di mezzo. È l’elemento spirituale che lega queste generazioni, il credere che il mondo sia ancora passibile di profondi cambiamenti».

23 SETTEMBRE 2023

Gaia Giovagnoli

Le parole e i tarocchi. Il dolore e la magia del mondo

Una scrittrice (e cartomante) che conosce il potere dei simboli

«Ero mostro fragile / mi chiamavano bambina / mi vestivano da brava / nel mondo andavo così / da aggettivo e nome corto». L'abbiamo incontrata in questi versi, qualche anno fa (era il 2018), in un libro di poesie dal titolo strano, Teratophobia (Round Midnight): «È la paura dei mostri, paura di darli alla luce». L'abbiamo immaginata in forma di giovane strega, che cucina parole e incantesimi: «Vipera bianca / statua di squame / fu trovarmi scalzata di pelle: / senza muta da serpe / ero donna scoperta».

L'abbiamo ritrovata nell'inquietante borgo di Coragrotta, al centro di un romanzo magico e perturbante, Cos'hai nel sangue (Nottetempo), "favola nera", immersione nei misteri del folklore popolare e della maternità (e dell'essere figlie). Il libro che l'ha rivelata al grande pubblico, oltre che agli addetti ai lavori, meravigliati dalla sua padronanza del mezzo, lei che era una romanziera esordiente. Là dentro c'era il suo mondo interiore, visionario (ma espresso in modo asciutto, crudo), e quella passione per l'altro, il diverso, per costumi e credenze, che l'aveva portata a laurearsi in Antropologia culturale e Lettere Moderne a Bologna.

Oggi ritroviamo Gaia Giovagnoli (31 anni) immersa in una storia d'amore e dolore, di violenza e relazioni sbagliate, avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori l'anima ferita di India, la protagonista, e un mondo popolato di esseri che vivono nell'ombra di un qualche segreto, una vergogna, un tradimento, una paura irredimibile. Una trama ingarbugliata, avvolta intorno a un filo luminoso (nella sua numinosa oscurità), le carte dei tarocchi, che indicano e rivelano.

C'è della magia anche in Chiedimi se vive o muore, il secondo romanzo pubblicato da Nottetempo, con un'altra copertina bellissima, dedicata alla carta della Forza. «Grazie ai miei tarocchi, tutti, a ogni figura di ogni mazzo, e a qualsiasi cosa succeda quando li ho tra le mani» scrive Gaia, nei ringraziamenti finali. Lei che pratica quest'arte divinatoria fin da giovanissima e sa che «le carte rivelano cosa succederà, ma solo se non cambiamo nulla di quello che stiamo già facendo; se procediamo inconsapevoli e passivi. Nella vita è come se si fosse sempre immersi in un’acqua densa e si venisse trascinati dalla corrente; si può cercare un appiglio, una deviazione; ci si può alzare in piedi, se si tocca, e camminare a riva». Bisogna avere il coraggio di fare le domande giuste. «“Chiedi alle carte solo cosa vuoi sapere,” dico sempre ai clienti. “Non dare loro possibilità di manovra o ti diranno pure quello che non vuoi”». Il romanzo comincia da qui e si inoltra in un'oscurità fatta di vittime e carnefici, di sesso esplicito e sentimenti opachi, dentro il dialogo immaginario con un uomo volato da una finestra. Ma, per chi è in grado di decifrarli, il mondo è costellato di segni, che lasciano una scia luminosa.

25 SETTEMBRE 2023
I NCONTRI

Come è nato il tuo nuovo romanzo? Nella pagina dei ringraziamenti accenni a una donna che ti ha raccontato la sua storia di dolore e solitudine, ma citi anche le persone che hanno attraversato la tua vita, “nel bene e nel male”, e che forse troviamo in queste pagine, ovviamente romanzate e deformate.

Chiedi se vive o se muore nasce da un puzzle di storie: ho attinto a quelle delle persone a cui ho fatto i tarocchi negli anni, soprattutto. India, infatti, la protagonista, è ispirata a una cliente anonima (spesso faccio letture a distanza, a persone che non vedo e non conoscerò mai). Quella donna mi parlò di un uomo che l’aveva maltrattata fisicamente e psicologicamente, e mi parlò del fatto che non riuscisse a immaginare una vita senza di lui. Lo chiamò l’amore della sua vita.

Ma questo libro non parla solo di lei. Ogni libro credo nasca da questo sguardo strabico: si pesca a destra e a sinistra, si cercano verità, si prova a dirle. Verità su di sé e su altri. La verità di questo libro è guardare negli occhi quegli “amori” che ci distruggono. Provare a capire perché sembrino parte di un destino che non si poteva evitare. Se non sia possibile invece sfuggirvi, una volta per tutte.

I tarocchi facevano parte del progetto fin dall'inizio?

Nel sesso si porta avanti un discorso. Mette in scena quello che desideriamo e che temiamo: di essere maltrattati, non amati. Ci può aiutare a fronteggiare questi mostri, e a dominarli

Tutto è nato da una suggestione di Alessandro Gazoia, direttore editoriale ed editor di Nottetempo. Ragionavamo sul mio secondo libro, e lui suggerì di pensare a qualcosa che avesse a che fare con i tarocchi. Era una bella idea. Pensai subito di inserire in un testo tutte le mie osservazioni non solo da cartomante, ma da appassionata di antropologia, provando a restituire al lettore la complessità di quello che succede quando si fa divinazione. I tarocchi sono uno strumento potente. Si ragionava di fare un saggio.

Poi, però, India ha preso il sopravvento. La sua storia, quella di Leo. Ha proprio aperto un vaso di Pandora e si è imposta, creando la trama. Mi sono sorpresa a raccontare quindi sia del funzionamento dei tarocchi, sia di questa donna così brava a leggere il futuro ad altri, ma così disperata quando cerca di dare un senso alla propria vita. Così cieca sul proprio destino. Forse volevo dire proprio questo, alla fine: della lotta alla ricerca di un significato, quando pare che non ce ne siano.

Al centro, ancora una volta, c'è il corpo, i suoi tormenti, i suoi piaceri. In particolare, qui, c'è un corpo che ama farsi umiliare, consapevolmente, che soffre questa sua realtà, ma allo stesso tempo ne fa uno strumento di potere. È tutto molto esplicito, duro, diretto, ma c'è anche qualcosa che assomiglia alla tenerezza, a una possibile delicata felicità, che scorre tra le righe, nei flussi di coscienza, o sembra nascondersi all'ombra delle esperienze più estreme. Ci sono rapporti disfunzionali, dentro una società che sembra fondata sulla menzogna, ma anche una nostalgia di qualcosa che forse non è perso per sempre.

26 SETTEMBRE 2023

La sessualità è un modo potente di scontrarsi con i propri drammi personali e con una serie di imposizioni sociali che ci precedono ma che (consapevolmente o no) incarniamo. Nel sesso possiamo essere schiavi, o padroni. Possiamo essere dolcissimi o crudeli. Cambiare faccia nel giro di un secondo. Si può desiderare l’amore e il suo contrario, perché nello spazio separato dal quotidiano che è il sesso, le pulsioni scorrono senza filtri. Nel sesso si porta avanti un discorso. Mette in scena quello che desideriamo e che temiamo: di essere maltrattati, non amati. Ci può aiutare a fronteggiare questi mostri, e a dominarli. Ha un che di spaventoso, a pensarci, perché soprattutto nel sesso violento, se fatto con persone e condizioni sbagliate, può esserci un pericolo. Si possono però creare degli spazi di liberazione. Il corpo ha del potenziale creativo, trasformativo. Legare una paura profonda a un piacere può essere un modo magico di esorcizzarla.

Rosa la mistica, l'uomo-cane, il professore porco, il ragazzo che ascolta, vampirizza e poi umilia la sua preda... Si direbbe un “mondo sotterraneo” che però vive in superficie, qualcosa che c'è e non vogliamo vedere, anche se forse guardandolo potremmo capire meglio chi siamo.

Facendo le carte si entra in contatto con un sacco di umanità. C’è un po’ di noi stessi anche nelle storie più sporche, nelle persone più cattive.

Ci sono i tarocchi, lo sciamanesimo, la seduta spiritica. Ma ci sono in due forme diverse. Da una parte l'equivoco, la banalizzazione, la richiesta ingenua di risposte facili. Dall'altra la dimensione invisibile della realtà, un ordine segreto oltre il caos, qualcosa a cui si attinge solo se si riesce a fare la domanda “giusta”, a porsi in una certa dimensione del sentire.

27 SETTEMBRE 2023
Gaia Giovagnoli

La realtà è qualcosa di molto complesso. È sia la superficie che l’eco che ci sta sotto. Per me, almeno, è così. È il fatto e il simbolo. Le domande che si pongono alle carte sono anche un modo per capirla, la realtà. E non sono mai del tutto ingenue. Se una persona mi chiede se il suo amante lascerà la moglie, vuole anche sapere se sarà mai amata in un modo diverso, più assoluto. Lo chiede per sé, certo, pensando alla sua situazione, ma sotto sotto cela un dubbio di tutti: è possibile amare qualcuno, farlo davvero, al di là dell’egoismo? Chi chiede della superficie, può farlo perché sente la tensione sotto la superficie. Chiedere dunque dell’amante è anche chiedere cosa sia l’amore come concetto assoluto, ma non essere in grado magari di metterlo in parole.

I telefonini, le chat, il sexting, nel tuo libro non sono corpi estranei, come accade spesso nel romanzo contemporaneo, non sono nemici subdoli e alienanti, che rubano l'anima. Anzi a volte aiutano a rivelarla in qualche modo, nel senso che sono semplici strumenti, cose tra le cose. C'è l'antico e c'è il moderno, ma soprattutto ci siamo noi, che cerchiamo la nostra liberazione in un modo o nell'altro.

28 SETTEMBRE 2023

Nella mia ottica, ogni forma di contatto è una buona cosa. Non mi sognerei mai di demonizzare un cellulare, per dire, o una chat. Le inserisco in un libro perché sono la realtà di ogni giorno, nulla di strano. E al di là della praticità, scriversi e chiamarsi è un modo come un altro per allungare la mano e provare a creare un legame, e tutto quello che ci fa sentire meno soli ha un che di miracoloso. Credo che le forme di comunicazione siano tante e non si escludano quasi mai a vicenda. Si ampliano i modi di raccontarci. Si allarga il modo di stringersi a qualcuno.

“Chiedi alle carte cosa vuoi sapere”, la regola è questa, per non rischiare che le carte ti dicano ciò che non vuoi sapere. Il problema forse è proprio quello. Preferiamo non sapere. Oppure ci illudiamo di sapere abbastanza.

Io credo che sotto sotto siamo sempre consapevoli di non sapere davvero nulla. Ed è vero anche per i più sfrontati, per chi sembra abbia tutte le risposte. Forse per loro è un discorso che vale anche di più.

Qual è la “tua” carta dei tarocchi?

La mia carta di nascita* è il Sole. Nella parte alta della carta è rappresentato l’astro, gigantesco, e, nei tarocchi marsigliesi, in primo piano ci sono due gemelli a braccetto (in altre versioni si vede raffigurato un solo bambino, a volte cavalca, e in altre ci sono invece due amanti). È simpatica come cosa, visto che io ho una gemella e sono del segno dei gemelli.

Gaia Giovagnoli

È la carta della luce, ovviamente. Della chiarezza. Svela quello che era in ombra, che non si vedeva bene.

Ogni anno della vita però può avere una carta diversa. Ogni giorno, in realtà, può cambiare. C’è chi come rito quotidiano pesca dal mazzo un tarocco e si lascia guidare dal suo messaggio, ed è una bellissima abitudine. In questo periodo mi identifico molto con la Torre. Può significare, come tutte le carte, una miriade di cose. Per me adesso è un po’ il corrispettivo di provare a lasciare andare tutto quanto in caduta libera e osservare cosa rimane in piedi una volta terminato il salto nel vuoto. Ripartire da là. Rifare meglio. La mia carta preferita però in generale è la Forza, che è anche rappresentata splendidamente da Daniele Castellano sulla copertina del libro. C’è una donna che combatte con una fiera. Non ho ancora ben capito se la doma o la coccola, se le toglie qualcosa dalla bocca, gliela chiude o gliela apre. Chi sia la donna e perché lo fa; chi la belva. Spesso il vestito lungo della figura femminile copre parte del corpo dell’animale. È difficile quindi dire pure se siano due entità divise, o se siano invece parte di uno stesso corpo. Una chimera. *Nota per chi volesse trovare il proprio arcano di nascita: basta sommare le cifre della propria data di nascita, a due a due. Es. 21 maggio 1992: 21 + 05+ 19 + 92. Il risultato è 137. Dividiamo ancora le prime due cifre e sommiamo all’ultima. 13 + 7. Risultato: il Sole. Se viene un numero di sole due cifre ma superiore a 22, si procede sommandole (es. 57; scomponiamo in 5+7, e il risultato è la carta numero 12).

Ti ricordi la prima volta in cui ti sei imbattuta in un mazzo di tarocchi? È stato amore a prima vista? Una cosa magica?

Ho sentito parlare di tarocchi sin da piccola. Le donne di famiglia spesso andavano d’estate a casa di una medium, che utilizzava anche i tarocchi per aiutarsi a veicolare i messaggi. I racconti di cosa avesse loro rivelato venivano fatti sottovoce, perché noi bambine non potevamo davvero sapere.

30 SETTEMBRE 2023
Alena Ettea
In questo periodo mi identifico molto con la Torre. Il corrispettivo di provare a lasciare andare tutto in caduta libera e osservare cosa rimane in piedi una volta terminato il salto nel vuoto

Le visioni dovevano restare nascoste. Era una cosa che non si poteva fare del tutto, sbirciare nel futuro. Non è stato un vero incontro, dunque, ma una sorta di fantasticheria: mi immaginavo la casa di questa vecchia signora immersa in una luce opaca; immaginavo vedesse fantasmi e lampi di cosa sarebbe successo a chi le sedeva davanti. Le carte non le avevo ancora mai viste di persona, ma già mi incutevano una sorta di inquietudine.

Mia sorella maggiore mi ha rivelato qualche tempo fa che quella stessa medium, guardando una mia foto, disse che il mio destino sarebbe stato pieno di tristezza. La sensibilità mi avrebbe pesato sul cuore. Non male come prima lettura della mia vita!

Le prime vere carte che maneggiai, le ho comprate a sedici anni perché mi piacevano le illustrazioni: erano piene di animali dalle tinte pastello, e c’erano boschi e piante. Ho studiato su quel mazzo e da lì ho iniziato a impratichirmi con le letture.

Il mio mazzo da adulta, invece, mi chiamò. Sembra una cavolata, ma lo giuro, fu un’esperienza molto particolare. Lo vidi per caso esposto in vetrina, in un negozietto dell’usato a Bologna (si trattava di magnifici tarocchi storici, di Besançon). Lo notai quasi di sfuggita, non entrai, non chiesi il prezzo, nulla. Continuai con la mia giornata e me ne dimenticai. La notte stessa però sognai di avere una gran fretta, proprio un’urgenza, di doverlo recuperare. Sognai di correre e di mettere il mazzo in tasca. La foga si placava. E così è successo.

Poi immagino sia emersa la parte razionale, e quella sociale, visto che i tarocchi rientrano comunemente nella categoria delle superstizioni per “creduloni” e “ignoranti”. Vivi ancora (se l'hai mai vissuta) la difficoltà di raccontare la tua passione ad amici e conoscenti scettici? Oppure la vedono solo come un hobby eccentrico, una cosa intellettuale?

Forse ho avuto molta fortuna, ma non mi è praticamente mai capitato di scontrarmi a muso duro con qualcuno. Ho molto rispetto della visione altrui e amo i dubbi. Credo che questo passi sempre. Io stessa non so bene cosa credere, in relazione alle carte. Vedo solo che succedono cose potenti, quando si fanno parlare.

Oggi fare le carte poi non è più un tabù, visto che si sta diffondendo molto come pratica. Questo aiuta a smussare il pregiudizio. Nel nostro immaginario culturale resistono però delle immagini negative dei tarocchi. Da un lato troviamo l’angoscia religiosa di star compiendo un peccato (si crede che i tarocchi siano uno strumento diabolico; chi li fa e se li fa fare può rischiare di essere posseduto o di chiamarsi addosso disastri indicibili).

31 SETTEMBRE 2023
Gaia Giovagnoli
(foto Sham Hinchey)

Dall’altro c’è il brutto discorso degli imbroglioni che si approfittano della gente (e succede ancora oggi, di continuo), lucrando sulle speranze e le ingenuità. È comprensibile essere scettici in generale, dati questi discorsi. È comprensibile avere domande sul funzionamento e sulla verità della divinazione. Me le faccio anche io, di continuo.

Nella nostra giusta, secolare, battaglia contro la superstizione, abbiamo finito per inaridirci in un razionalismo un po' sterile, dietro cui forse abbiamo smarrito cose fondamentali, derubricate a “mentalità magica”.

Cosa sono per te i tarocchi? Da decenni ormai, grazie anche alla mediazione della psicanalisi – soprattutto il citatissimo Jung, con la sua sincronicità, gli archetipi, l'inconscio collettivo - si è diffusa l'idea che i metodi di divinazione possano essere uno strumento per conoscersi meglio e indagare il subconscio, in una sorta di gioco psicoterapeutico. Condividi questo approccio?

Sì e no. Sì, perché è verissimo che i tarocchi sono un modo per agganciarsi a un flusso molto intimo. Le immagini sono delle scorciatoie di significato, e aiutano a parlare alla (e della) propria esperienza personale; delle luci e delle ombre. Che siano uno strumento di indagine di sé stessi è indubbio.

La cosa che non condivido del tutto riguarda però la cornice con cui si analizzano, la lente. Già il fatto di parlare di psicanalisi toglie ai tarocchi una piccola fetta di mistero. È come se, anche solo inquadrandoli in un’ottica scientifica (anche se aperta alle suggestioni), noi stessimo provando a razionalizzarli, a controllarli. Francesca Matteoni nel suo libro Dal Matto al Mondo (Effequ) dice che (cito a memoria, quindi sono di sicuro imprecisa) per lei le carte provengono dallo stesso flusso della scrittura poetica. Condividono lo stesso tipo di segreto. Il senso di enigma deve permanere perché le carte possano continuare a esercitare il loro compito. Io credo che dobbiamo continuare a chiederci, senza risposte soddisfacenti, chi ci parla attraverso le carte, cosa succede durante la lettura e come sia possibile che quella cosa che la cartomante non poteva proprio sapere è invece venuta fuori. Queste pratiche sono un modo di cercare significato quando il modello esplicativo della scienza – con il suo occhio chirurgico del causa-effetto – non esaurisce davvero il discorso sulla vita. Lascia scoperto il senso ultimo delle cose. Il “piano simbolico”.

Come stabilisci la “connessione” con le carte? Hai un tuo rito? Ti capita spesso di rimanere sorpresa dalle risposte che ti danno? E cosa ti dicono le persone che ti chiedono di leggerle?

32 SETTEMBRE 2023
(foto Giorgia Zamboni)
Queste pratiche sono un modo di cercare significato. Il modello esplicativo della scienza non esaurisce il discorso sulla vita. Lascia scoperto il senso ultimo delle cose. Il "piano simbolico"

Di solito per entrare in contatto con le carte parlo con loro: chiedo come stanno, mi scuso se non mi sono fatta viva, come farei con delle amiche. Accendo una candela, se ce l’ho a portata di mano. Indosso una collana che adoro, di fluorite (non sempre, però). Le mischio e busso tre volte sul loro dorso, per “svegliarle”. A volte metto della musica ambient. Ma non sempre.

Sono piccoli riti che mi aiutano a entrare nella giusta prospettiva mentale, così come faccio quando scrivo. Anche in quel caso devo avere accanto una candela accesa (obbligatorio) e una tazza di caffè d’orzo caldo (in una tazza specifica). La luce fioca, il sapore, la sensazione delle pietre sul collo, la musica, mi fanno capire che sto entrando in un particolare stato, diverso da quello quotidiano. Liminale. D’eccezione, anche se attorno non è cambiato nulla: sono sempre seduta alla mia scrivania.

A volte da questi stati è uscito qualcosa di sorprendente, sì. Sia durante le letture che nella scrittura automatica (non la pratico più, era qualcosa che facevo molto da adolescente). Con i tarocchi mi è capitato di prevedere delle morti – poche, per fortuna. Tre. Di persone ma non solo. Succede in quei casi in cui la lettura è come bloccata, assorbita dal tutto da un buco nero: ogni carta pare spinga verso un blackout. Non ci sono altri messaggi se non “le tue forze saranno focalizzate tutte qua; ci sarà questo perno, un prima e un dopo”. Devo dire che è stato strano, anche perché in due casi la stesa era focalizzata su tutt’altro (lavoro in un caso, amore nell’altro). In questi due frangenti, i defunti furono persone anziane e, per quanto importantissime per i clienti, la loro morte non fu così assurda. Aveva senso.

Una volta sola mi capitò una morte non prevista, e fu quella di un cagnolino. La lettura era volta a capire la sua salute, in generale. Io feci la stesa senza nessun contesto (sapevo solo che il cane era piuttosto giovane e che la cliente l’aveva adottato da poco), e mi venne fuori che avrebbe dovuto fare un’operazione e che non ce l’avrebbe fatta.

33 SETTEMBRE 2023
Gaia Giovagnoli (foto Thomas Darlis)
(foto Andrea Ciccalè)

Dopo aver inviato questo messaggio alla ragazza, lei mi diede più informazioni: il cane era in salute, doveva soltanto subire un piccolissimo intervento per una specie di cataratta. Una cosa di routine molto scema. La rassicurai dicendo che sicuramente avevo visto qualcosa che non era, e me ne dimenticai. Mi scrisse lei dopo qualche settimana, dicendo che erano tutti sconvolti, perché il cucciolo non ce l’aveva fatta. Spesso le persone tornano dopo un po' di tempo a dirmi che quello che abbiamo letto nelle carte si è realizzato. Questa forma di restituzione per me è molto importante. Leggere le carte ad altri appesantisce molto, perché le cose che emergono non sono tue, al cartomante dicono poco o niente. A volte emergono cose senza troppo senso. E io mi dimentico praticamente tutto, non conservo nulla delle stese, in me. Avere un riscontro serve a confermarmi che i tarocchi – nonostante me, la mia stanchezza, la mia paura di non aver capito bene cosa consegnare dei loro messaggi – hanno rifatto la loro magia.

Tu nutri un interesse in generale per la magia, le tradizioni popolari, il folklore.

Mi piace molto indagare la “magia” popolare italiana. Abbiamo un sacco di usanze regionali, e alcune resistono anche oggi. Ricordo che da piccola, per capire chi avrei sposato e poterlo vedere in sogno, mia mamma mi disse di recitare in una notte di luna nuova una sorta di filastrocca, dopo aver fatto dei nodi a un fazzoletto.

È diffusissimo nelle mie zone fare l’acqua di San Giovanni (tra il 23 e il 24 giugno), una tradizione che consiste nel mettere in una bacinella fiori ed erbe di campo e lasciarli fuori una notte intera, per lavarsi poi la mattina successiva il viso e il corpo e garantire prosperità e fortuna.

Per San Pietro e Paolo (tra il 28 e 29 giugno) esiste anche la barca, che è una forma di divinazione: si mette dell’albume d’uovo in un bicchiere d’acqua, si lascia fuori la notte e, in base alle “vele” create nel bicchiere la mattina successiva, si può capire se la propria sorte sarà positiva (se sono vele spiegate) o negativa (se sono chiuse). Si usava per capire come sarebbe andata l’annata agraria.

Ma ci sono anche cure e malie. È molto bello leggere testi di antropologia o raccolte folkloristiche di vario tipo per dare uno sguardo a cose che ci sembrano lontanissime, ma che sono ancora piene di fascino.

34 SETTEMBRE 2023
I riti sono una possibilità di intervento su quello che accade fuori, nel mondo. Non mi pare un caso che la magia stia rinascendo nelle nuovissime generazioni (silenziate, escluse dall'economia e dalla rappresentanza politica)

C'è poi la questione sociale, e se vogliamo anche politica, legata al mondo della magia. Il fatto che certe pratiche e atteggiamenti fossero anche un modo per liberarsi dalle costrizioni del tempo, gli obblighi e i pregiudizi. Penso alle “streghe” o alle tarantolate di cui scriveva De Martino.

I vari riti di magia popolare, comprese le pratiche di divinazione come i tarocchi, sono mezzi che le persone hanno sempre adoperato per maneggiare la vita. Se si guarda il quadro sociale, a esserne maggiori clienti e depositarie sono le figure più marginali. Anche oggi è così. I riti sono una possibilità di intervento su quello che accade fuori, nel mondo. Una delle poche opportunità di azione su quel fuori. In certi casi l’unica. Le persone si riappropriano della possibilità di agire (“agency”) – manipolando erbe, candele e oggetti, vedendo nelle immagini delle carte sé stessi, possono sentire di avere una voce in capitolo. Che si può fare qualcosa, anche quando da fare non c’è rimasto granché. Non pare un caso, tenendo presente questa chiave di lettura, che la magia stia rinascendo oggi nelle nuovissime generazioni (silenziate, private di parabole, escluse dall’economia e dalla rappresentanza politica).

Si possono trovare delle spiegazioni generali, al perché della propria vita. C’è il capitalismo, il razzismo, la violenza strutturale. Ma tutta questa teoresi è di difficile accesso. Non solo: chi è solo, o malato, o povero o perso nel gorgo, non può trovare davvero pace in tutte queste parole che parlano di lui, ma che lo escludono dal disegno. Lo riguardano, può ascoltarle, ma non le può davvero gestire. Non ne è il fautore. Non le distingue con chiarezza all’interno della propria storia. E allora ecco i ceri. Ecco le carte e una o più persone che, dentro una serie di figure, guardano alla disperazione e alla solitudine e vedono te; e parlano proprio a te.

Finché ci sono gli esclusi dalla società, e persone senza potere o mezzi, finché ci saranno disparità e disperazione, finché la vita continuerà a non avere risposte soddisfacenti, sulla morte e tanto altro, queste ritualità rimarranno. Non solo: rinasceranno.

L'incontro con la scrittura quando è avvenuto? Ricordi la prima cosa che hai scritto? E quella che hai letto?

Non ho una gran memoria. Ricordo solo che alle elementari avevo un quadernetto con delle pagine azzurre, e che ci scrivevo dentro delle poesie; una aveva a che fare con un cavallo a dondolo. Partecipai pure a un concorso indetto dalla scuola, pensato per bambini affiancati dai genitori, scrivendo qualcosa su un principe che custodiva un diamante rosso. Diedero premi quasi a tutti, ma a me proprio no (non avevo chiesto ai miei di aiutarmi, e la poesia doveva essere davvero orrenda).

35 SETTEMBRE 2023
Gaia Giovagnoli

Non ricordo il primo libro che lessi. Ma da buona romagnola ricordo che quando, sempre alle elementari, leggemmo Pascoli, le rondinelle che pigolano sempre più piano della poesia “X Agosto” mi fecero commuovere.

Quali libri sono stati fondamentali nella tua crescita? Sia come scrittrice, che come donna, come essere umano.

È una domanda molto difficile, e che si presta molto a imprecisioni e manipolazioni. Non vorrei rispondere. Chissà quante cose sono state fondamentali, e che per questo motivo sono ormai del tutto invisibili in me. Sono diventate un pilastro. Chissà quante di queste colonne non sono libri.

Vorrei dire però che per questo libro sono riconoscente a molte scritture, come quelle di Lidia Yuknavitch, Lisa Taddeo, Han Kang, Clarice Lispector e Fleur Jaeggy. Anche qua, di sicuro dimentico qualcuno. E non saprei dire in che misura e cosa ho preso da questi nomi, ma sono stati importanti.

Ti ricordi il momento in cui hai capito che volevi fare la scrittrice? Oppure non lo hai mai deciso veramente? È semplicemente una cosa che fai perché ne senti il bisogno?

Non credo sia qualcosa che si decide. Ognuno sviluppa degli immaginari, attraverso libri, film, videogiochi. E ognuno sviluppa un proprio modo per contribuirvi, per vivificarli di giorno in giorno. Io mi sono trovata bene con le parole.

Fare la scrittrice? Non credo sia qualcosa che si decide. Ognuno sviluppa degli immaginari e un proprio modo per vivificarli di giorno in giorno.

Io mi sono trovata bene con le parole

Tu scrivi poesie e scrivi romanzi. Ma nella tua prosa non ci sono “poetismi”, e viceversa. Sembrano due linguaggi diversi che pratichi, forse due modi di guardare le cose.

Uno, quello poetico, che assume anche i tratti di un incantesimo, il suono, il potere della parola. L'altro, invece, che si mette al servizio di una storia, e che accompagna i suoi personaggi dentro (e fuori) di sé.

In entrambi i casi, però, ti piace scavare, non hai paura di usare un linguaggio crudo, di aprire le ferite e guardarci dentro.

Prosa e poesia sono strumenti diversi e rispondono a regole proprie, nonostante possano toccarsi, contaminarsi. Cerco di ricordarmelo sempre. Non perché sia contraria alla commistione, ma perché per me è importante che a concetti diversi (a storie diverse) si diano veicoli diversi. Indovinare il mezzo giusto permette di farli arrivare meglio a chi legge. È un aspetto importantissimo, prioritario.

Certo, resta coerente l’immaginario sia in prosa che in poesia (almeno in me), perché entrambe le cose vengono scritte dalla stessa persona – e a me piacciono i misteri, il perturbante, il grottesco, l’ambiguità del reale, e questo si ritrova in ogni cosa che scrivo.

36 SETTEMBRE 2023

Ad esempio sta uscendo il mio ultimo poemetto, Babajaga, per Industria&Letteratura, che parla di una strega che è anche una donna preda del dolore di un lutto. Ci sono alberi e magie; ci sono abissi di incomprensione e amarezze: tutti elementi che si trovano in vario modo in Cos’hai nel sangue e in Chiedi se vive o se muore.

Il progetto di vita qual è? Scrivere, scrivere, scrivere? O hai altre idee nel cassetto?

Vorrei poter dire che si campa di sola scrittura, e in quel caso sarei felicissima di vivere facendo libri e basta. Davvero mi piacerebbe molto. Ci fossero dunque dei mecenati in ascolto (in lettura?) dico che mi accontenterei di quello che basta per sopravvivere e che fossi in loro ci farei un pensierino. Ma ahimè, la realtà è che quelli che vivono di sola cultura sono pochi.

Il mio progetto di vita attuale è dunque molto banale: cercare di fare un lavoro che non mi alieni troppo e sì, continuare a scrivere libri.

Qual è la tua “redness”, ciò che ti dà la forza di alzarti dal letto la mattina?

La vita è piena di bellezza, anche quando sembra più complicata e difficile. Anche in mezzo alle macerie, mi pare sempre bella. Mi alzo quindi per assistere allo spettacolo. Per questo, e per il mio tè alla vaniglia.

37 SETTEMBRE 2023
Gaia Giovagnoli

Santi Borgni

Alla scoperta del silenzio, per imparare a stare con "ciò che è"

Dall'India alla Casa della Pace, nel nome di Krishnamurti

Avventure e riflessioni di una vita dedicata alla ricerca spirituale

«La sera era lì: improvvisamente era lì, riempiendo la stanza, un enorme senso di bellezza, di potere e di gentilezza». Lo facciamo dire a Krishnamurti, senza bisogno di dare un nome a quella presenza, quella pienezza, che a volte arriva, senza alcun preavviso, a illuminare il nostro stare al mondo. Un'esperienza. L'esperienza. Il contatto imprevisto e imprevedibile con qualcosa che Santi Borgni chiama “intelligenza della totalità”.

Lui l'ha incontrata tanti anni fa, alle quattro in punto del mattino, in una notte in cui si svegliò con il forte desiderio di alzarsi a meditare. Lo racconta così, nel suo libro Il pensiero e il silenzio (Ubaldini Editore): «Poco dopo, seduto da solo in silenzio, un immenso potere pervase la stanza, un'espressione vibrante di assoluto amore e verità che non lasciava spazio a nulla di personale. Quel potere era interiore eppure non aveva nulla di “me”... L'incontro con quell'intelligenza assoluta è l'incontro con un potere assoluto, con l'eterno che è l'infinito presente, con ciò che non può essere in alcun modo contenuto e descritto nelle categorie del pensiero. Non è una sensazione di pace o libertà, è libertà assoluta». Sembra una cosa mistica. Anzi lo è, senza ombra di dubbio. Ma Santi Borgni ne scrive e ne parla con grande semplicità, senza darsi arie da santo o illuminato. Al contrario, pratica il dubbio, l'esitazione, l'ascolto. Santi sorride e si racconta con un tono gentile, dicendo cose che risuonano di una saggezza antica. Tutto in lui parla, sottovoce, di umiltà. Anche il piatto di miglio e lenticchie che mi prepara nella sua casa di Rotzo,

sull'Altopiano di Asiago. C'è anche un buon contorno di peperoni tagliati fini e cavolo cappuccio. Santi, per anni, si è occupato di agricoltura biologica ed è diventato anche un esperto di cucina vegetariana e vegana (ha pubblicato un libro sul tema, con trecento ricette). Ma ascoltando il racconto della sua vita, sembra successo tutto “per caso”, anche l'invenzione e la costruzione – con le sua mani, letteralmente - di quella Casa della Pace che è diventata un punto di riferimento, in terra umbra, per chiunque sia impegnato in una ricerca spirituale, per chi pratica yoga o meditazione, per chi sia alla ricerca di uno stile di vita in armonia con gli altri e con la natura.

L'atteggiamento che sta alla base della vita di Santi, e di cui parleremo a lungo, lo “stare con ciò che è”, sembra permeare ogni suo gesto e ogni circostanza affrontata, piccola o grande che sia. Può essere la necessità di accogliere un giornalista curioso, rispondendo alle sue domande (e facendone altrettante), gestire un ritiro in silenzio in mezzo alla natura, o fare i conti con quell'esperienza luminosa, quel dono di cui ti chiedi il perché, cosa significa, cosa devi farne (scrive nel libro: «Evito la parola “Dio”, che vorrei poter usare e unirmi con quella parola ai tanti che l'hanno adoperata indagando la vita con così profonda esigenza interiore e ricchezza di espressione. Ma a causa dell'inesauribile elaborazione teologica che ha prodotto definizioni e divisioni, la parola “Dio” è così carica di significati e implicazioni che ha finito per essere fonte di idee e credenze contraddittorie tra loro»).

38 SETTEMBRE 2023
I NCONTRI

Parliamo anche di questo, a pranzo, mentre condividiamo idee ed esperienze - per certi versi simili. Trent'anni alla Casa della Pace hanno insegnato a Santi che cosa significa incontrare davvero una persona, al di là delle solite formalità e delle sterili aspettative (se ti fai una certa idea dell'altro, non lo incontri mai davvero). Santi, nonostante il lungo cammino percorso, continua a presentarsi come un uomo che ha poco da insegnare e molto da imparare, e che se proprio deve appellarsi a un'autorità intellettuale e spirituale al massimo cita Krishnamurti, ovvero il più anti-autoritario dei maestri («Pensa al paradosso – mi dice – non voleva essere il Maestro del Mondo preannunciato dalla Società Teosofica, che ha abbandonato, ma poi in un certo senso lo è diventato davvero»).

Parliamo di silenzio e di “grazia”, di tecniche di meditazione (e dei loro pericoli, un punto fondamentale del

nostro dialogo), di quell'esperienza che non sai come chiamare – estasi? illuminazione? - e che devi stare attento a non trasformare in un idolo, un'altra cosa di cui appropriarsi, nutrimento per l'ego. Non è “l'esperienza” che bisogna cercare, non lo stato di pace, gioia, beatitudine che produce, ma il silenzio e il distacco che la rendono possibile.

Il pensiero e il silenzio, libro pubblicato da Ubaldini (che non finiremo mai di ringraziare per il suo catalogo pieno di testi preziosi), è il risultato di una vita intera di esperienze e riflessioni, fatte da una persona che da trent'anni offre ritiri basati sul silenzio, sull'ascolto e sul dialogo, in «una casa isolata tra le montagne del nord dell'Umbria, un ambiente fatto di boschi, di stagioni e giorni che variano, che sono sempre nuovi nella semplicità essenziale della natura». Il silenzio di cui si parla è soprattutto quello interiore, libero dal rumore rappresentato dai pensieri, e dal conflitto perenne che questi portano nella vita. Anche se poi la trasformazione profonda evocata dal libro in realtà non dipende dal controllo del pensiero (equivoco pernicioso) «ma da una comprensione radicale di sé: si tratta di conoscere se stessi e non di controllare se stessi... Il silenzio è la fine dell'io, cioè del “voler essere” che si oppone a “essere”». Quindi la fine dei condizionamenti, dei pregiudizi, del pensare di essere o volere questo o quello. Terminato il pranzo, raggiungiamo a piedi un antico lavatoio. Il rumore dell'acqua che scorre ci accompagna lungo tutta la nostra chiacchierata, a quasi mille metri di altezza, in una bella giornata di sole. L'intenzione è quella di raccontare almeno una parte della vita avventurosa di Santi, e la sua scoperta del silenzio. Che passa anche attraverso il dolore, un lutto che impone cambiamenti radicali, una fine che diventa un inizio. Anche una famiglia segnata dalla guerra. «Mio padre aveva 20 anni nel '41, quando è stato mandato insieme a tanti altri ragazzi a “conquistare” la Grecia. Questa era l'idea di Mussolini. Invece, insieme ad altri 12 mila giovani, è tornato con le mani e i piedi congelati. Ha fatto due anni di ospedale, ha subito delle mutilazioni: aveva solo le prime falangi delle dita, in entrambe le mani, e gli era stato amputata metà gamba. Questa cosa ha segnato la mia famiglia. Lui già era una persona molto timida, dopo la guerra si è chiuso ulteriormente. Siamo andati avanti con la pensione di guerra.

40 SETTEMBRE 2023
(foto di Luca
A Rishikesh ho incontrato un sadhu, non so come, e sono andato a vivere con lui tra le montagne. Ricordo un giorno, in particolare, in cui "è finito il tempo"

Lui era un operaio con un modesto stipendio, la pensione ha dato un benessere economico alla mia famiglia. Anche la Casa della Pace esiste grazie a questo evento, il che suscita tante riflessioni...

Mia madre arrivava da una famiglia veneta caduta in disgrazia: a 12 anni era stata mandata in un convitto di suore in cui filava la seta, in cambio di vitto e alloggio, e lei era felice, perché almeno così aveva un letto e un comodino tutto suo, e poteva mangiare. Ha pensato anche di farsi suora, visto che loro mangiavano abbondantemente. Poi è arrivata la guerra ed è cambiato tutto». Santi se ne andò di casa subito dopo la Maturità. Possiamo solo immaginare cosa passasse per la testa di quel ragazzo che si sentiva sempre fuori posto e non riusciva a capire come facessero le persone a chiudersi in un ufficio dalla mattina alla sera. Non era snobismo, era proprio una cosa sostanziale, esistenziale. «C'è sempre stato come un tema di fondo nella mia vita, che si è manifestato nel dire di no a un sacco di cose. Sentivo che ciò che non è vero, buono o completamente sano, non

lo volevo. Ad esempio, andare a lavorare in una banca, come invece avrei potuto fare, era impensabile. Anzi mi sembrava impossibile che qualcuno accettasse di chiudersi in una banca in cambio di uno stipendio». Da lì a diventare un po' hippy, vivendo di artigianato, sperimentando anche qualche droga, il passo è breve («facevo gioielli e li vendevo ai mercatini, mi piaceva molto e mi dava tutta l'indipendenza di cui avevo bisogno»). Anche perché si presentavano le prime esperienze interiori, i primi incontri fortuiti con persone impegnate in una loro ricerca spirituale.

41 SETTEMBRE 2023
Santi Borgni
Il luogo scelto per la nostra chiacchierata, un vecchio lavatoio di Rotzo, immerso nel verde dell'Altopiano di Asiago

La prima tappa decisiva risale al 1984, quando a 28 anni decise di partire per l'India. «Prima sono andato in un ashram, a studiare yoga, a Rishikesh. Poi, non so come, ho incontrato un sadhu, Ram Tilak Das Ji, e sono andato a vivere con lui, in mezzo alle montagne. Mi alzavo alle 5, facevo la mia meditazione, e per il resto della giornata non facevamo niente. Il tempo passava così, senza che ce ne accorgessimo». Ma attenzione al senso di quel “niente”, alle possibilità comprese in quel “vuoto”. «Nell'ashram c'era questa cosa chiamata meditazione, che io non avevo mai vissuto prima. Una scoperta molto forte, straordinaria. Però avevo anche un impulso a rivedere, per conto mio, tutto ciò che mi veniva detto. Mi sembrava troppo facile seguire le indicazioni, che fossero visualizzare una luce o una figura, e allora ho cominciato a seguire un mio percorso. C'era il Gange, che scorreva non lontano da lì, e ascoltavo il suono delle acque, ascoltavo me stesso, e c'era uno spazio grande che si apriva in me. Mi ricordo un giorno in particolare in cui “è finito il tempo”: ero steso su un tetto, la mattina, e ho visto il sole passare come fosse un aeroplano, veloce, e a un certo punto è arrivata la luna, dentro un'assenza di tempo totale, che era anche uno stato di assenza di sé. Non era un “voglio essere senza sé”, accadeva, semplicemente, dentro l'osservare».

Prima di partire però aveva conosciuto una ragazza,

«la donna destinata a diventare la madre dei miei figli». Quell'incontro diventò parte della domanda di quegli anni: come si vive dopo una scoperta del genere? Il dubbio se sia possibile «percorrere un cammino spirituale avendo moglie e figli» compare anche all'interno del libro. Come rispondere alla “chiamata interiore”, senza per questo rinunciare a ciò che ti chiede l'esistenza? Il sadhu Ram Tilak, a cui era stato posto l'interrogativo, lui che aveva lasciato la famiglia per seguire quella vita, come vuole la tradizione indiana, «mi guardò contrariato e, credo, con disappunto. Non rispose nulla, ma il suo sguardo fu eloquente».

La domanda delle domande è: «Che cosa devo fare? Come porto con me questa cosa così grande? In un certo senso è la cosa più preziosa che puoi trovare, un bene che non ha il suo rovescio, che non produce nessun consumo, che non ha un degrado. Non produce identificazione. È un bene che è un nulla, non è qualcosa che produci e di cui puoi dire: è mio. Accade». Questa fu la sua scoperta, in India. Quella che portò con sé in Italia, dopo sei mesi trascorsi laggiù.

Nel libro si trovano tracce di una risposta possibile sulla scelta tra isolamento e vita in famiglia. «Il cuore e la logica mi dicevano, e mi dicono, che la vita religiosa e la vita familiare e lavorativa devono poter camminare insieme.

42 SETTEMBRE 2023

Si può sostenere, a ragione, che la vita spirituale sia essenzialmente nel servizio, nell'accettare senza amarezza gli eventi e in un cuore gentile; e che questo sia possibile in ogni circostanza».

Quel seme generato in India aveva bisogno di «prendere una forma, toccare terra». E la prima terra toccata fu quella di Vens in Val d'Aosta, a 1700 metri di altezza, dove la sua Françoise aveva affittato una casa. «Abbiamo sistemato una stalla bellissima, con una volta a crociera, e abbiamo passato lì quasi tre anni. È nato anche il nostro primo figlio». È nato anche lo studio appassionato dell'opera di Krishanmurti. «Era una lettura tremendamente intensa. Leggevo una frase e rimaneva con me tutto il giorno, mi lavorava dentro. Finalmente avevo trovato le parole per dire ciò che sentivo». Dieci anni di studio e meditazione appassionata della sua opera, imparata praticamente a memoria, prima di cominciare a frequentare persone che organizzavano incontri dedicati ai suoi insegnamenti.

Nel frattempo è maturata un'altra svolta. «Era l'88, vivevamo in questo villaggio in cui erano rimaste diciassette persone, tutti anziani, e nostro figlio passava le giornate andando a bussare a porte dietro cui non c'era nessuno. Lì abbiamo capito che forse dovevamo spostarci. Anche perché vivevamo in una piccola stanza. Era bellissima, fuori dalla finestra c'era il Gran Paradiso, ma ormai non bastava più». Sorride Santi, mentre lo ricorda, perché c'è anche il lato buffo della vita. Tipo andare in Umbria in cerca di una casa

pronta, magari in un paese in cui puoi fare la spesa uscendo a piedi, per finire invece in una casa enorme, un rudere, isolatissimo, dotato anche di una chiesetta con il tetto sfondato, e quindici centimetri di letame di pecora sui pavimenti. «Françoise entrò e disse qualcosa come: “Bellissimo!”. Lì siamo rimasti “fregati”».

Lì in realtà è cominciata una storia incredibile. «Abbiamo deciso di comprare questo posto anche se era fuori da ogni logica. Per tutta una serie di vicissitudini, ci sono voluti quasi due anni per acquistarlo dalla Curia vescovile di Città di Castello. Era un rudere da ricostruire completamente. Senza luce, senza acqua, senza telefono. Ma era bellissimo. Avevamo un furgone, ci siamo accampati fuori, la sera accendevamo il fuoco, c'era un cielo stellato straordinario. Era febbraio». Lui non era certo un muratore, ma fu costretto a imparare in fretta. Fecero arrivare l'acqua da una sorgente vicina e decisero di creare un'azienda agricola. «Sono arrivati una mucca e un vitello. Ho imparato a mungere. Poi abbiamo comprato due trattori... Erano gli anni in cui il movimento del biologico stava per sfociare nel regolamento CEE del 1991. Io sono entrato in una nascente organizzazione di agricoltori biologici, tutti un po' come me, improvvisati, con queste aziende sperse per la montagne. Abbiamo creato BioUmbria, l'Associazione per l'agricoltura biologica dell'Umbria, che si è associata all'Aia ed è diventata una cosa seria. Quando è morto il primo presidente, sono stato eletto al suo posto. Io non volevo, dicevo: “Sono l'ultimo arrivato”. Mi risposero: “Ma tu SEI biologico!”».

43 SETTEMBRE 2023
Santi Borgni
Un'immagine del viaggio a Rishikesh, nel 1984. Nell'altra pagina, Santi col primo figlio a Vens, in Val d'Aosta

Le cose a volte accadono così, imprevedibilmente, provvidenzialmente. Come accade di incontrare i seguaci di un maestro indiano, in Romagna, che aveva dato ai suoi discepoli la pratica di non mangiare. Strane cose che capitano nel mondo della spiritualità e dell'ascesi. Eppure uno di loro, diventato un amico, gli disse la cosa giusta, quando Santi gli parlò della sua difficoltà a trovare il tempo per meditare, con tutto il lavoro che doveva fare: “La tua meditazione è sui campi”, gli suggerì lui.

Ancora più importante l'incontro con Benedetto Simonelli, «che era stato un attore molto promettente, era amico di Bertolucci, e aveva fatto una scelta di povertà totale, con la sua famiglia di cinque figli. Viveva in un alloggio che gli aveva dato un prete a Tivoli, due camerette, una mini cucina in cui lo scarico non funzionava e un minibagno. Eppure quando entravo in quella casa avevo la sensazione che ci fosse un grande spazio, era un luogo confortevole, mi sentivo a mio agio, a differenza di ciò che capita spesso in certe case borghesi. Lui aveva abbandonato tutto per la sua ricerca spirituale, passava il suo tempo sui monti sopra Tivoli, in una capanna: una pratica di immersione nella natura. È venuto anche alla Casa della Pace, abbiamo fatto degli incontri insieme».

C'era anche lui, in quella fatidica notte, l'incontro con la “cosa senza nome”. «In quel momento pensavo proprio a Benedetto, a ciò che ci univa, la volontà assoluta di trascendere se stessi, anche se in modo diverso. Quella ricerca radicale». In quel periodo Santi aveva subito un piccolo intervento chirurgico, che gli aveva imposto due mesi di convalescenza. Lui, per un mese, ogni mattina si svegliò alle quattro in punto (una "sveglia interiore"), immergendosi per un'ora in quella Presenza, quel profondo silenzio.

Chi ha avuto esperienze del genere, che mettono in contatto con l'Assoluto, sa anche quanto pesi poi il ritorno alla “normalità”. «È stato dilaniante, perché si rimane con la sensazione di avere perso la cosa più preziosa. Il giorno in cui sono tornato sul trattore, dopo due mesi di convalescenza, è stata la fine di quell'epoca così straordinaria. Mi chiedevo: perché è venuta, che cosa devo farne, che cosa mi sta chiedendo?». Era rimasta solo una specie di indicazione, un compito: «Le parole erano state: voi qui siete una pausa, nel senso in cui schiacciando il pulsante “pausa” di un registratore si ottiene il silenzio». Durante quell'esperienza era successo qualcosa di straordinario anche a Françoise: «Lei, che non aveva mai meditato in vita sua, sognò di levitare, in meditazione, su una spiaggia, con un senso di estasi molto forte. Sognò anche Krishnamurti, di cui lei non si è mai interessata, che le diceva: “Questa è la meditazione”... Che cosa ci fai con una cosa del genere? Non è più un crederci o non crederci, la devi prendere così com'è. È evidente che mi ha dato i compiti da fare. Il compito della mia vita: creare uno spazio dove il silenzio esiste e può essere condiviso». Da lì è cominciato il desiderio di strutturare la ricerca, «anche se io sono sempre un po' lento a capire le cose, ci ho messo degli anni». Ma quell'epoca, in cui aveva ormai tre figli, fu anche estremamente dolorosa. Françoise scoprì di avere un tumore all'utero. «Un percorso di malattia durato due anni, in cui io ho smesso completamente di lavorare. Un percorso anche umano, di relazione, di scoperta interiore. La malattia ti mette davanti a qualcosa che riguarda la vita nella sua dimensione più essenziale. Davanti alla malattia metti da parte il lavoro, i soldi non contano più, i progetti per il futuro li dimentichi, le relazioni sociali cambiano totalmente. Resta solo lo stare insieme, ascoltarsi, guardarsi intorno, passare molto tempo ad aspettare, senza scadenze, senza sapere cosa sta succedendo e dove stai andando.

44 SETTEMBRE 2023
Il pensiero vorrebbe controllare tutto.
Ma nel momento in cui si deposita naturalmente, quando non c'è più una volontà di controllo, lì c'è un momento di fine dell'io possibile, un incontro con la vita, la bellezza, l'essere insieme, non divisi

A un certo punto, dentro quella dimensione, ti rendi conto che per qualche motivo c'è uno spazio più grande di quello che c'è quando la vita scorre con tutti i suoi progetti. Uno spazio di “non fare”, che diventa uno spazio di comunicazione. Tanto che lei una volta mi disse: “Dovevamo passare attraverso tutto questo per trovare questa cosa, questo ascolto reciproco?"»

A proposito di sacro. Qui si tocca il senso della vita e della morte. E la generosità, la sincerità con cui Santi condivide questi suoi personalissimi ricordi, è commovente. Fa parte del suo modo di essere, la trasparenza limpida con cui cerca di vivere le cose e di rapportarsi con gli altri, con un “distacco” (da sé, dall'ego e la sua storia) che non significa indifferenza, ma l'esatto contrario, un contatto più vero e profondo con “ciò che è”. «Il giorno della sua morte, nel giugno del '96, è stato un altro giorno vissuto in una dimensione senza tempo. Da una parte è stato un dramma, soprattutto per i miei figli. Ma anche un momento di libertà enorme, innanzitutto per Françoise, che ha seguito il suo percorso come sentiva di volerlo fare (ostinatamente decisa a rifiutare cure tradizionali), e poi per tutti noi, un momento di libertà in sé: non c'era più un volere, c'era solo l'esserci. Toccare quella dimensione della

vita che è la morte come un momento in cui si alza il velo del mistero. Un po' come quando nasce un figlio. Tutti quei momenti di passaggio in cui, se hai una certa sensibilità, senti che si sta aprendo una dimensione diversa». Casa della Pace comincia lì. «Di fare l'agricoltore non se ne parlava più, con tre bambini piccoli. Produrre cibo bio, promuovere l'agricoltura biologica, diventavano una cosa secondaria. La cosa che era diventata veramente centrale, era la vita stessa. Le domande sul mistero dell'esistere. Casa della Pace è nata come esperimento di condivisione di queste domande, come percorso di esplorazione». Il bello è che ha funzionato, anche qui fuori da ogni logica, visto che Santi non aveva nessuna esperienza di ospitalità e organizzazione di ritiri. «C'erano due settori di lavoro: offrire la casa a insegnanti di yoga o meditazione, che portavano i loro gruppi, e i miei ritiri legati a Krishnamurti, che hanno avuto momenti di grande partecipazione e momenti di minimi storici» Belli i ricordi di quegli anni tumultuosi, i primi incontri pieni di pianti, le degenerazioni istruttive, ai limiti della rissa (la frase tipica, incredibile, di certe discussioni: «Non lo dico io, lo dice Krishanmurti!»), ma anche i tanti incontri pieni di ascolto, silenzio, verità.

La semina, insieme a Gigi. Nell'altra pagina, la Casa della Pace, su cui è stato realizzato anche un documentario visibile su Google Play, Prime video e Apple tv

45 SETTEMBRE 2023
Santi Borgni

Santi era ed è il “facilitatore”. Unica definizione che forse accetta volentieri, oltre a quella di “fondatore di Casa della Pace”. «Sono sempre stato incapace di definirmi. Ho una responsabilità speciale perché ho creato questi ritiri, ma poi siamo tutti responsabili. Questo di solito è il mio incipit. Con gli anni ho trovato la formula attuale, che unisce al silenzio alcuni momenti di scambio, di confronto, mantenendo una struttura minima, che io chiamo “struttura debole”. Dalle 7 alle 8 del mattino ci si siede in silenzio, ma non ti dico cosa devi fare in quel silenzio, ti invito solo a non fare niente. Ti chiedo di provare a sospendere le tue pratiche e guardare cosa succede. La sensazione di “perdere tempo” secondo me è una delle più interessanti: cosa significa? Perché se sei seduto davanti a te stesso “perdi tempo”, mentre non lo perdi se sei seduto davanti alla televisione?».

Il segreto sta proprio nell'evitare di darsi dei compiti precisi. «La mia scoperta è stata questa: quando hai diversi giorni di ritiro in cui non ti vengono dati degli input – fai questo, fai quello, raggiungi questo, sperimenta quell'altro – e quindi “stai perdendo tempo”, succede qualcosa. Il primo giorno il cervello continua con il ritmo che ha appena lasciato, ma senza avere più stimoli, quindi quello che fa è ripetere le frasi, i pensieri, le occupazioni di prima. Il secondo giorno si crea un ritmo diverso nel pensiero, ma non è una cosa indotta dalla volontà, è un calo di quella

funzione cerebrale che ti induce a pensare, e in questo calo c'è l'apertura di un'attenzione spontanea. Poi nel terzo giorno si possono cominciare ad aprire degli spazi dove il pensiero finisce, perché è naturale che finisca, e allora sorge naturalmente l'attenzione. In quell'attenzione naturale ti può cadere l'occhio sulla farfalla che vola, o su un pezzo di prato, e vederne i dettagli, il movimento, come la luce tocca la superficie, e in modo assolutamente naturale ne cogli la bellezza. Ciò che vedi sempre, un pezzettino di prato, che di solito è scontato, banale, all'improvviso diventa qualcosa di tremendamente interessante, ricco di significato, di bellezza, di vita. E in questo trovo che ci sia una scoperta fondante di una comprensione nuova. Se c'è una trasformazione possibile deve passare attraverso questo: attraverso il fatto che a un certo punto scopri la bellezza e l'attenzione, che sono espressione in qualche modo del silenzio, sono il fondamento stesso dell'essere umano. È questo che dà senso e significato al vivere, non devi cercarlo in idee straordinarie o in avventure mirabolanti. Lo puoi trovare in un pezzettino di prato, come lo puoi trovare in tuo figlio, un amico, la tua compagna, un incontro casuale»

Eccoci al dunque. A qualcosa che assomiglia al segreto di una vita autentica, davvero libera, piena di bellezza, di verità. Il silenzio, l'attenzione naturale, la rinuncia all'appropriazione e all'identificazione, a ciò che pensiamo di essere o che riteniamo sia giusto pensare. Tutte cose che ci imprigionano in una realtà fasulla, che chiamiamo “io”. «A quel punto l'io non c'è, semplicemente, è rimasto coi pensieri. Perché è il pensiero che costruisce l'io, identificandosi, ricordando il passato, aderendo a un'opinione, opponendosi all'altro, svolgendo il suo lavoro, che è quello di controllare il flusso della vita in modo di dirigerlo in un modo conveniente. Una costruzione psicologica. Il pensiero vorrebbe controllare tutto. Ma nel momento in cui si deposita naturalmente, quando non c'è più una volontà che cerca di attuare un controllo, succede qualcosa. Bisogna anche stare attenti alla volontà che cerca di controllare il controllore e gli dice “tu stai buono”. Quando il controllore arriva ad esaurirsi, ad un pacificarsi naturale, lì c'è davvero un momento di fine dell'io possibile e un incontro con la natura stessa della vita, la bellezza, l'essere insieme, non divisi, l'essere con l'erba, con il volo della farfalla, con il suono dell'acqua, come in questo momento, mentre parliamo».

46 SETTEMBRE 2023
Santi in cucina alla Casa della Pace, che vediamo anche nella pagina successiva: il lato sud, l'antica chiesa ristrutturata, i boschi intorno

Bisogna stare attenti anche ai tranelli nascosti nelle “tecniche di meditazione”. Altro discorso fondamentale, per lo più sconosciuto a chi intraprende un cammino di ricerca spirituale o a chi magari decide di cimentarsi nella mindfulness, oggi tanto di moda. «C'è chi scopre che stando attento al respiro, sta meglio. Non solo sta meglio, ma è anche più efficiente, più comunicativo. Il fatto paradossale è che quanto più una tecnica funziona, tanto peggio è. Perché la tecnica ti fa dire: “Io sono riuscito a produrre il silenzio, sono riuscito a generare uno stato di pace e di estasi”. Quindi l'io non solo è proprietario del conto in banca, e ha successo in azienda, ma quell'io, quella volontà, quel controllore, è anche capace di produrre il silenzio, ha acquisito una tecnica molto sofisticata per farlo. Questa diventa una cosa davvero diabolica. La tecnica si sostituisce a qualcosa che è sacro, che accade per grazia non per volontà. La ricerca del divino, se vogliamo chiamarla così, è la ricerca di ciò che “non è l'io”, ovvero la parte più intima di me, che non è il controllore, non è la superficialità del pensiero, il prodotto di una volontà. Se il mio scopo è stare bene, rilassarmi, senza troppe pretese, se voglio migliorare le mie prestazioni aziendali, la tecnica va benissimo. Il problema c'è se io penso che questa sia un'esperienza spirituale. Non lo è! Il fatto che ci sia questa sovrapposizione nei termini e nelle sensazioni, a me sembra che la renda pericolosa»

Altra domanda capitale. Cos'è “ciò che è”? Sembra facile a dirsi, ma non lo è affatto. E soprattutto, cosa fare se “ciò che è” mi sembra orribile, se sono stressato e infelice, se il mondo mi appare tutto sbagliato, assurdo, invivibile? Santi sorride, riflette a lungo, chiude anche gli occhi mentre cerca le parole. Lascio il suo lungo discorso così come l'ho ascoltato e registrato, un flusso,

una forza gentile, per rendere l'idea. «“Ciò che è” è la percezione che abbiamo delle cose intorno a noi? Questo in realtà è solo uno dei tanti aspetti possibili. Noi possiamo percepire solo una parte, non la totalità. Incontro te, ma non posso pretendere di conoscerti, di sapere chi sei, quali sono le tue emozioni. Una parte di “ciò che è” riguarda questo tentativo di conoscere, definire, che è funzionale all'esistere. Ma l'uomo attraverso il conoscere genera un controllo sulle cose. La conoscenza ha portato l'uomo come specie a un successo straordinario, ma questa conoscenza è limitata, non è “ciò che è”. La conoscenza, ad esempio, non può descrivere l'incontro tra due esseri umani. Non posso rinchiuderti dentro ciò che penso di sapere di te, questa sarebbe la negazione della relazione, della tua libertà di essere ciò che sei. Il nostro cervello assegna alla conoscenza uno spazio che non è commisurato alla realtà, che non è fatto solo di definizioni e di controllo. Il nostro conoscere il più delle volte è un riconoscere, implica una limitazione arbitraria della realtà. Se ho la convinzione che le persone di colore siano “sporche”, farò fatica a relazionarmi a loro come mi relaziono agli europei, perché questa idea si sovrappone alla relazione.

47 SETTEMBRE 2023
Santi Borgni

Incontrare “ciò che è” richiede di sospendere la conoscenza in un modo intelligente ma nello stesso tempo radicale. Intelligente perché non vuol dire buttare via tutto ciò che sappiamo, ma uscire dall'opinione identificativa. L'opinione e il giudizio non devono sovrapporsi all'incontro con l'altro, altrimenti diventa solo la proiezione di me stesso.

Incontrare “ciò che è” implica la consapevolezza di non sapere. Non è un'ignoranza che può essere riempita da un successivo sapere, ma è qualcosa di implicito nel vivere. Il non sapere inteso come non riconoscere, non controllare, non cercare di inserire qualcosa in un sistema. Quel non sapere permette di vedere in “ciò che è” quello che chiamiamo la meraviglia, la bellezza. Una bellezza che non è quella canonica, estetica, ma che scaturisce dalle cose, che nasce inaspettata, come relazione. Sono convinto che i bambini fino a un certo punto vivano immersi in questo stato di bellezza, che è stupore legato a un non sapere.

Quindi cosa diciamo al nostro amico stressato? «Di stare anche con lo stress. Puoi vivere completamente quello stress, invece di resistergli, provando a capire cosa ti sta raccontando. Forse lo stress ti sta dicendo che dovresti cambiare lavoro...»

Sia chiaro che lo stare con “ciò che è” non ha nulla a che vedere con la passività o l'accettazione supina di ciò che accade. «Anzi, è l'esatto contrario. Se vedi una persona che cade per strada, e sei con “ciò che è”, il tuo primo impulso, l'impulso naturale, è quello di andarla ad aiutare. Non pensi che “cadere è il suo karma”, questa è follia, è una delle possibili deformazioni “spirituali”. Stare con “ciò che è” significa essere pienamente attivi, presenti, è un agire che non è mediato dall'opinione: sei in contatto con la cosa, stai vivendo davvero ciò che succede, quindi agisci in accordo con ciò che è.

L'incontro con “ciò che è” a quel punto non è più un luogo in cui le cose accadono secondo una causa e un effetto. È uno spazio senza tempo, dove lo stupore è il non causato. È il presente inteso come eterno presente, quello di cui Krishnamurti dice: “Il presente contiene tutto il passato e tutto il futuro”. Il pensiero che resiste a “ciò che è” dice (e sto citando ancora Krishnamurti): quello che è, per qualche motivo non va bene, quindi voglio che sia in modo diverso; oggi sono così, domani sarò meglio, tu sei così ma io riuscirò a cambiarti; e avanti di questo passo, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, trascorriamo tutta la vita in un resistere a “ciò che è”. In questo resistere, viene nutrita e amplificata la volontà, che non esiste mai nel presente, è sempre riferita a un futuro (deve succedere che...) oppure a un passato (avrei voluto che...). Eliminata quella volontà, sei dentro un presente che è l'eternità, perché contiene tutto il tempo e lo trascende».

L'idea di ciò che dovrebbe essere forse mi promette dei grandi guadagni, mi promette il piacere, mi promette soddisfazioni future. E quindi per arrivare là, mi stresso e posso arrivare a negare me stesso, ma questo stress magari mi sta dicendo: lascia perdere, non è per te, non è la tua strada. Vivere “ciò che è” può essere davvero pericoloso rispetto agli obiettivi che ci siamo posti (nel senso che li mette in discussione), anzi deve essere pericoloso, visto che gli obiettivi che si è posto l'essere umano nella storia sono un disastro: l'obiettivo di occupare un altro paese, l'obiettivo di sottomettere la mia compagna, l'obiettivo di dirigere i miei figli verso le mie idee, l'obiettivo di deforestare l'Amazzonia... Se sono in contatto con quella foresta, non vado là in modo superficiale ad abbatterla con le ruspe. Se sono con “ciò che è” non cerco di sfruttare i miei dipendenti o sottomettere mia moglie, perché se sono con “ciò che è” sono insieme a mia moglie, sono insieme alla foresta, sono insieme ai miei dipendenti. Non siamo separati, siamo una totalità. Nasce veramente un mondo nuovo. È il contrario della passività. È l'unica possibilità di attività vera. Quell'altra non è attività, ma reattività. Paradossalmente diventiamo degli sfruttatori di noi stessi. Perché in vista di un obiettivo, che per qualsiasi motivo noi abbiamo accettato come buono e desiderabile, siamo disposti a sacrificare i nostri sentimenti, le nostre sensazioni, quello che emerge dal profondo, e che sta cercando di dirci qualcosa, ma lo mettiamo da parte. Mettiamo da parte l'onestà, e qualsiasi altra cosa, in vista di un obiettivo che riteniamo superiore. La storia umana è piena di queste cose».

48 SETTEMBRE 2023
La volontà è sempre riferita a un passato o a un futuro. Quando incontri "ciò che è" sei dentro un presente che è l'eternità, perché contiene tutto il tempo e lo trascende

Erieccoci al punto di partenza. Perché la ricerca dell'essenziale e del silenzio, di una verità senza infingimenti, che non possiedo (altrimenti sarebbe un'altra costruzione dell'io) ma mi attraversa e mi riempie, dopo essermi svuotato di tutto, a volte porta all'esperienza di ciò che puoi chiamare solo Assoluto.

«È la stessa qualità di amore, gioia, libertà, infinito che appare alla mente che abbia superato le definizioni e le opposizioni dell'identificazione trovando la vastità del silenzio, sebbene l'amore e il potere di quell'intelligenza siano di una portata incommensurabilmente superiore».

Di fronte a un'esperienza del genere, non resta altro da fare che provare a testimoniarla. Come fa nel suo libro: «Quando accade è evidente che quell'intelligenza suprema e infinita è ciò che esiste di più intimo e di più vero in me; è quel “fondo dell'anima” a cui Eckhart si riferisce». Per dirlo con le parole di Krishnamurti, che ci ha accompagnato in questo percorso-incontro: «Quando c'è silenzio, c'è uno spazio immenso, senza tempo; solo allora c'è la possibilità di arrivare a ciò che è eterno, sacro». Alla fine il nostro compito, se ce n'è uno, probabilmente è questo (e qui usiamo le parole di Santi): «Conoscere se stessi, svuotare la mente da ogni idea, negare tutto il falso, vivere nella libertà e nella pienezza. Insomma, il compito di una vita intera, un compito mai finito»

Continuiamo a parlarne, mentre torniamo verso casa, parlando anche di figli, impegni, lavoro, anche di scelte

tremendamente importanti – siamo sempre a un bivio, in ogni istante della vita – perché quel compito non è riservato a chi si chiude in un ashram o in un convento, a chi abbandona il mondo “per cercare Dio” (il rischio è che diventi una fuga, egoismo spirituale). La “chiamata” esige una risposta anche dentro le fatiche e le complicazioni della vita moderna. Ciò che conta, come sempre, è come fai le cose, è come stai con “ciò che è”, cercando di uscire dalla logica del “me” e del “mio”: «Dove c'è un “mio” punto di vista che guarda il mondo, allora si tratta di uno sguardo che si separa dal tutto, che nasce dalle opinioni, dai ricordi, dall'appartenere a questo o a quello. Solo lo sguardo consapevole di non essere diviso da ciò che è può incontrare davvero ciò che è... Una responsabilità del tutto nuova viene in essere: non più la responsabilità data dal ruolo, ma la responsabilità di essere intimamente parte del tutto... Se termina la spinta a identificarsi in questo o in quello, la percezione soggettiva è aperta all'infinito, è aperta a molteplici punti di vista, è aperta all'altro. Nel silenzio di questo sguardo, ciò che è viene compreso come la cosa più sacra, espressione finita dell'infinito, aspetto temporale dell'eterno».

È un aspetto temporale dell'eterno anche il saluto semplice che ci scambiamo, promettendoci di risentirci presto. Con la sensazione di aver toccato qualcosa di sacro, come può essere ogni relazione, quando è vissuta nella consapevolezza, la semplicità, l'amore.

49 SETTEMBRE 2023
Santi Borgni
A Varanasi, con la compagna Daniela e con Seeta, allieva di una scuola indiana con cui Santi collabora da anni

Non basta "amare la natura" Ci vuole ecosofia: «Il Reale è Uno»

LE RIFLESSIONI DI LELOUP, CHE INVITA A UNIRE SCIENZA, ETICA E RELIGIONE, SENSIBILITÀ ECOLOGICA E SENTIMENTO DEL SACRO, RAGIONE E INTUIZIONE

Tutti “amiamo la natura”. In modo istintivo, sentimentale, forse anche ingenuo, oppure in modo intellettuale, a volte un po' astratto. Perché nella natura stiamo bene, perché è più bello e sano vivere nel verde, perché l'ambiente va preservato, con le sue risorse

fondamentali. Tutti (o quasi) ormai siamo d'accordo sulla necessità di “vivere in armonia” con la natura, dopo secoli in cui ci siamo impegnati a depredarla: l'attivista e l'intellettuale, lo scienziato e l'industriale che si è votato al “green”, l'esteta che ama contemplare il panorama e lo sportivo in cerca di benessere.

Ma forse è arrivato il momento di fare un salto di qualità. Un salto di coscienza. Di consapevolezza. Anche perché a forza di dire “ecologia” - e “sostenibilità” ed “emergenza climatica” e “difesa dell'ambiente” - rischiamo di perdere di vista il succo della questione, di farne un problema puramente ideale, o peggio ideologico, di trasformarlo in contesa politica, in dialettica filosofica, in argomento da salotto televisivo.

Ed ecco l'ecosofia, fondata sulla « profonda intuizione che il Reale è Uno, che nulla è realmente separato», che non è più tempo di «separare le visioni filosofiche, le visioni immaginali e religiose, non separare l’economia dalla politica, la politica dall’etica, l’etica dalla spiritualità». Va bene usare l'intelligenza, la conoscenza, la scienza, anzi è indispensabile. Va bene usare il cuore, le emozioni, sottolineare il legame sentimentale con la natura. Ma serve anche qualcosa in più, l'intuizione di una connessione profonda, il superamento del dualismo uomo-natura, la convinzione di vivere tutti (e tutte le cose) nello stesso “spazio-tempio” (attenzione alla “i” che fa la differenza). «Per chi ama la natura, l’ecologia non è una necessità o un dovere, ma un piacere, una felicità; amare il prossimo, la terra, l’animale, l’albero, la pietra, come sé stessi non è un comandamento che esige, ma un’ispirazione che ci eleva e ci fa fiorire».

M EDITAZIONI (foto Kelsey Erin)
di Alba Daya

Ce lo dice Jean-Yves Leloup, in un libretto denso e indispensabile, uscito in Francia nel 2020 e pubblicato ora in Italia da Lindau: Per un'ecologia integrale (Ecologia ed ecosofia). Leloup, per chi non lo sapesse, è un ricercatore dello spirito di enorme intelligenza e sensibilità. È grazie a lui se oggi conosciamo un po' meglio segreti e virtù dell'esicasmo e della filocalia, che ha studiato e praticato alla fonte, al Monte Athos. Monaco domenicano e poi prete ortodosso, dottore in psicologia e filosofia, scrittore e conferenziere, ci ha fatto conoscere le origini del cristianesimo - da leggere i suoi libri sui vangeli apocrifi di Maria, Filippo e Tommaso, - è un sostenitore dell'ecumenismo e del dialogo inter-religioso e ci ha regalato un'autobiografia che è uno dei testi spirituali più affascinanti dell'era contemporanea (L'absurde et la Grace).

La sua visione sulla questione ecologica parte da una constatazione ovvia, ma spesso dimenticata: la realtà che vediamo dipende dalla qualità del nostro sguardo. «Sotto lo sguardo del sapiente, dell’industriale,

del prete o dell’amante la natura non è la stessa natura; oggetto di consumo o oggetto di devozione, la "natura della natura" dipende dall’intento e dalla visione di coloro che la sfruttano, prendendosene cura o sacralizzandola». Vogliamo cambiare il mondo? Allora dobbiamo cambiare il nostro modo di guardare la realtà. Se la natura è un magazzino di cose da prendere per le nostre necessità, più o meno buone e importanti, nell'illusione che le risorse siano infinite, troveremo sempre nuove scuse per continuare a sfruttarla, magari negando l'emergenza ambientale oppure sperando messianicamente nella tecnica per salvarci dall'apocalisse finale. Stesso discorso, all'opposto, vale per chi riduce la natura a un idolo, un'entità astratta, da preservare e salvaguardare come fosse un museo vivente, per il nostro personale diletto.

51 SETTEMBRE 2023
«Amare il prossimo, la terra, l'animale, l'albero, la pietra, come sé stessi non è un comandamento che esige, ma un'ispirazione che ci eleva e ci fa fiorire»

A

Ecco allora gli sguardi diversi, che generano vari modi di intendere l'ecologia. Più uno, la sintesi, che Leloup chiama ecosofia, che per lui è « l’occhio del Reale, perché è il Reale che conosce sé stesso, attraverso queste diverse modalità di percezione, riflessione, empatia e intuizione».

C'è lo sguardo della ragione, quello che oggi gode di maggior consenso, considerato da molti l'unico davvero reale, «il mondo percepito, analizzato, razionalizzato e oggettivato». C'è quello affettivo, «una presenza viva con la quale possiamo stabilire un rapporto fraterno». Ma c'è anche «l'occhio dell'intuizione», quello contemplativo, che percepisce «l’unità di una Coscienza che si manifesta nella diversità dei mondi percepiti, analizzati, oggettivati, celebrati».

52 SETTEMBRE 2023
Two Men Contemplating the Moon di Caspar David Friedrich (Met Museum OA). fianco, Nan va Halva (Pane e dolci) di Muhammad Baha' al-Din al-'Amili (Met Museum OA)

Leloup non giudica e non condanna, non stabilisce una gerarchia, non lancia anatemi. Il suo approccio, come sempre, è amorevole, comprensivo, votato all'interiorità, ma anche al senso dell'universale, l'unione tra diversi. Ogni forma di ecologia ha una sua utilità, che però va messa in rapporto con le altre, perché non diventino dei dogmi, degli assoluti, verità parziali al servizio di finalità particolari, che rischiano di generare solo divisioni.

È certamente molto utile “l'ecologia sensibile”, quella dei bambini, istintivamente legati alla natura, o degli sciamani, che dialogano con gli elementi e gli "spiriti" che vivono in essi. Chi non conosce le parole «del Grande Capo indiano Seattle al Grande Capo di Washington», ricordate da Leloup? «L’aria è preziosa per l’uomo rosso, perché sa che tutte le cose condividono lo stesso alito di vento. La bestia, l’albero, l’uomo condividono tutti lo stesso alito. L’uomo bianco sembra non accorgersi dell’aria che respira. Come un uomo agonizzante da lunghi giorni, il suo olfatto sembra offuscato dal suo stesso fetore. Ma se ti vendiamo la nostra terra, devi sapere che per noi l’aria è preziosa, e condivide la sua anima con tutte le vite che porta. Se ti vendiamo la nostra terra, dovrai averne cura, considerarla sacra, come un luogo dove anche l’uomo bianco possa assaporare il vento addolcito dai fiori dei prati».

È molto utile "l'ecologia scientifica", che mette le risorse della conoscenza tecnica al servizio della lotta all'inquinamento. Lo è anche "l'ecologia della presenza”, che ci mette i sensi e il cuore, che fa appello all'energia del reale, e parla del pianeta Terra come Gaia. Appartiene alla stessa categoria la visione di anime grandi come san Francesco o Rumi. «La vocazione dell’essere umano è di unire la sua lode a quella di tutto il creato.

Il mondo non è da sfruttare, ma da contemplare e celebrare». Come scriveva Al Halladj: «Tutti gli atomi di questo mondo, li penseresti ubriachi di vino, cantano continuamente questo canto di lode». Ed ecco che l'ecologia diventa “sacra”: ferire la natura significa ferire noi stessi, la nostra essenza, così come la sostanza comune di cui siamo fatti.

L'ultimo passaggio è quello più impegnativo e decisivo, quello davvero rivoluzionario. Quello in cui si incontrano il discorso scientifico e religioso («Non c’è nulla al di fuori del Tao», «Tutto è Brahman»), la ragione e il cuore, ma anche l'anima e lo spirito, nel nome dell'Unica Realtà. «“Non si può sollevare un filo d’erba senza disturbare una stella”. Non è poesia, non è misticismo, è fisica». La rivoluzione è sia interiore che esteriore. «È in questa coscienza che Yeshua ha voluto condurci quando sulle rive del lago ha detto ai suoi discepoli: metanoiete, che, invece che con “convertitevi”, deve essere tradotto più letteralmente con “passate oltre (meta) il mentale e vedete”».

(foto Angelo Duranti)

Spinoza parlava di “Deus sive natura” (Dio, ossia la natura). Ma non era un panteista, non pensava che la natura è Dio. Dio semmai è ciò che rende possibile la natura, manifestazione di Dio: «Tutto esiste attraverso questa Coscienza creatrice. Tutto sussiste in essa e con essa» (quindi Spinoza è panenteista). Pensare la natura come “cosa” che si è fatta da sé, «svuotata del dinamismo (energia) che la abita», significa ridurla a oggetto, un idolo che esiste solo nella mente dell'uomo. Per vederla e comprenderla serve una “conoscenza del terzo tipo”, intuitiva, che Spinoza «chiama amor intellectualis, che dovrebbe essere tradotto come “amore intelligente”». La Sapienza salomonica. La conoscenza che si fa stupore e meraviglia.

Questo significa che per coltivare l'ecosofia dobbiamo diventare credenti? No, se lo si intende come credo specifico, dogmatico, settario, in questo o quel nome di Dio, colpevole nella storia di aver coltivato lo sguardo che trasforma la natura in cosa da usare a nostro piaci-

mento. Non bisogna alimentare i due vicoli ciechi della nostra era, l'idolatria e il disprezzo della natura.

Scrive Leloup: «Esercita la tua ragione, ma non fermarti in tutto ciò che puoi soppesare, misurare, spiegare, “pensa più lontano, più alto, va fino alla meraviglia”.

Esercita la tua fede, ma non fermarti in un’immagine, una rappresentazione, un’idea, un idolo di Dio, va fino all’invisibile, all’innominabile, all’irrappresentabile, all’inafferrabile; va alla meraviglia e fa di questa meraviglia la tua dimora, nella luce vedi La Luce». Leloup dedica pagine molto belle a Francesco e al suo rapporto con il creato. Ricordandoci il cammino che abbiamo fatto per arrivare fino a qui. «Se si crede all’odissea della Coscienza, c’è voluto un tempo così lungo perché quello che chiamiamo il nostro sistema solare emergesse da questa grande nuvola di galassie che sono gli universi e c’è voluto ancora molto tempo perché da questo universo emergesse la vita, il mondo vegetale, il mondo animale, più recentemente l’essere umano, che lentamente si erge, si mette in posizione eretta e diventa capace di guardare il mondo come un altro, faccia a faccia».

Alla faccia del post-umanismo, della vita ridotta a sopravvivenza, alimentata dalla chimica e dalla tecnica, dell'uomo trasformato in macchina “irresponsabile”.

La predica agli uccelli, quindicesima scena del ciclo di affreschi che Giotto dedicò alle Storie di san Francesco, nella Basilica superiore di Assisi

54 SETTEMBRE 2023
«È attraverso la gioia e la grazia che fiorisce la nostra umanità "aumentata", non con il dominio, l'appropriazione, lo sfruttamento della terra e dei suoi abitanti»

«È attraverso la gioia e la grazia che fiorisce la nostra umanità "aumentata", non con il dominio, l’appropriazione, lo sfruttamento della terra e dei suoi abitanti»

E qui il discorso di Leloup si fa quasi mistico, parlando dello «spazio tempio, lo spazio del nostro stesso cuore, cuore coscienza, cuore di luce e di pace, particella di infinito, e se le nostre onde si sono opposte ad altre onde, ora è il momento di riconoscere che sono tutte acqua e appartengono a uno stesso oceano».

Se ogni esistenza manifesta l'Esistenza, l'ecologia non è più solo una scelta intellettuale, una decisione politica, o una sensibilità personale. Si tratta di capire e di sentire che siamo tutti legati, e che questa interdipendenza deve generare «un rapporto affettivo con tutte le esistenze manifestate, testimonianze vive e visibili del Reale invisibile».

Se trascuriamo un altro essere, di qualsiasi tipo, stiamo trascurando il nostro stesso corpo. Ci vuole affetto, amore, condivisione. «L’ecosofia è un’arte di vivere e di abitare sulla terra, sotto il cielo e nell’aria». Una specie di conversione.

55 SETTEMBRE 2023
(foto Quang Nguyen Vinh) (foto Brady Knoll)

Non fai in tempo a dire che il cinema è morto (per l'ennesima volta) ed ecco il fenomeno Barbie+Oppenheimer che sconvolge tutte le previsioni, portando milioni di persone nelle sale, scatenando fenomeni di costume, ricordandoci che il grande schermo è ancora capace di influenzare l'immaginario collettivo. In questa speciale congiunzione astrale, dopo un Festival di Cannes sfavillante, si preannuncia una Mostra di Venezia davvero notevole (cinematograficamente parlando; per il “tappeto rosso” tutto dipende dallo sciopero d'oltreoceano). Con Michael Mann, Fincher, Larraìn, Sofia Coppola e Linklater, con Woody Allen, Lanthimos e Polanski, Bonello, Brizé e Harmony Korine, con sei italiani in concorso (!?) e una pattuglia di sconosciuti che promette qualche rivelazione importante. Senza star, si diceva fino a qualche settimana fa, quindi un festival senza “festa”. Forse addirittura una rassegna senza film americani. E invece alla fine sono arrivati praticamente tutti, a parte Challengers

di Luca Guadagnino, che avrebbe dovuto aprire la Mostra. Quanto ai divi e alle dive, ci sarà suspense fino agli ultimissimi giorni.

Sì, c'è un'altra rivoluzione appena cominciata – quella dell'intelligenza artificiale – che forse farà impallidire quella dello streaming, delle piattaforme e della moltiplicazione degli strumenti di riproduzione. Non per niente il direttore Alberto Barbera – che in 25 anni ne ha viste di tutti i colori – ha scelto come

esergo della sua introduzione ai film una citazione da Bertolucci, Prima della rivoluzione: «Andavamo a letto la sera sapendo che ci saremmo svegliati nel futuro». Ma il Lido (così come la Croisette) è una specie di divinità sorniona, che osserva ogni cosa dall'alto, annunci, polemiche, sconvolgimenti, dibattiti culturali, cambiamenti epocali, aspettando ogni anno che il mondo del cinema (e non solo quello) torni ai suoi piedi.

Autori in Mostra, con suspense Venezia più forte dello sciopero

LA RASSEGNA DEL LIDO COMPIE 80 ANNI E PROPONE UN RICCO

MENU CHE PROMETTE SAPORI FORTI. MENO STAR, PIÙ CINEMA

56 MESE 2022
E VENTI

Sarà un mondo a parte, un po' snob, anche poco ospitale (i costi sono proibitivi per chi vuole soggiornare da queste parti), ma è pur sempre il luogo in cui per dieci giorni si vive il sogno del cinema, nella sua forma più ambiziosa, dall'arte pura all'intrattenimento kolossale, con una particolare predilezione per gli autori che amano osare ma sanno anche parlare al pubblico. E rispetto a Cannes, che da sempre è un festival blindato, qui esiste ancora la possibilità di incrociare i protagonisti in giro per il Lido, all'Excelsior, sulla spiaggia, a volte perfino a passeggio o in un bar, oltre che in una delle tante feste in cui si celebrano i film presentati. In questo servizio troverete un elenco dei film più attesi da Redness, oltre all'intervista ad Alberto Barbera, direttore del festival, che già nel '99 (fino al 2002) diede una sterzata notevole a una rassegna intestardita in scelte di tendenza un po' capziose, e che poi è tornato in sella nel 2011, indovinando una serie di selezioni, soprattutto americane, che hanno riportato

la Mostra internazionale dell'arte cinematografica nell'olimpo degli

eventi imprescindibili (anche per chi vuole lanciare un film oltreoceano) insieme al Festival di Cannes. Quest'anno in particolare Barbera, che di solito non è mai del tutto contento della proposta finale –ogni selezione richiede sacrifici dolorosi, ma anche inclusioni “obbligate”, per il peso degli autori o dei produttori, con qualche inevitabile abbaglio – questa volta ha parlato esplicitamente della «bontà del raccolto». Lo facciamo dire a lui: «Autori affermati che si esprimono al meglio delle loro straordinarie possibilità creative. Solidi registi che confermano il loro talento e la capacità di interpretare il presente e le sue inquietudini.

57 SETTEMBRE 2023
Il manifesto della Mostra firmato Lorenzo Mattotti (foto ASAC). In basso, Damien Chazelle, presidente della Giuria. A fianco Caterina Murino, madrina del festival (foto Sylvia Galmont)

Esordienti che incalzano le generazioni che li hanno preceduti tracciando nuovi percorsi per il futuro che ci attende. E un numero crescente di donne registe che ci incoraggiano a sperare in una prossima e auspicata parità di genere». Un ottimo auspicio per un'annata speciale, visto che si parla dell'80ª edizione. Con citazione di Jean Epstein datata 1921, quando la storia del cinema era ancora (quasi) tutta da fare: «Il film come la letteratura contemporanea accelera metamorfismi instabili. L’estetica muta dall’autunno alla primavera. Si parla di canoni eterni della bellezza quando due cataloghi successivi del Bon Marché rendono inutili questi vaneggiamenti».

Roberto Cicutto, presidente della Biennale in scadenza (a Barbera, in teoria, mancherebbe solo un altro anno) ha rimarcato invece il radicamento del festival nella realtà contemporanea, fuori da qualsiasi tentazione elitaria, di “universo a parte”. «La Mostra del Cinema,

che attira su di sé l’attenzione mondiale dei media e dell’industria audiovisiva, non è mai stata solo una passerella di talenti e film, ma anche uno specchio delle criticità politiche, sociali, ambientali, e ha sempre risposto con tempestività attraverso l’ impegno diretto e talvolta spontaneo di chi vi partecipa. Se facciamo l’elenco di cosa è successo nel mondo solo nell’ultimo quadriennio, non c’è evento di rilevanza internazionale a cui la Mostra non abbia saputo dedicare attenzione e cercare risposte: a partire dalla pandemia di Covid, alla crisi afghana con il ritorno dei talebani al potere, alla repressione in Iran di donne, cittadini e artisti impegnati in una battaglia per la libertà soprattutto delle donne e per i diritti umani e civili, dall’invasione russa dell’Ucraina al drammatico flusso migratorio nelle acque del Mediterraneo. Il cinema, che ha gli stessi anni della Biennale d’Arte (1895), con i suoi spettatori, pur in continua trasformazione tecnologica e linguistica, non ha mai

smesso il proprio ruolo di testimone del passato e del presente, di visionario precursore del futuro, di narratore della forza interiore di donne e uomini che sanno opporsi a ingiustizia e sopraffazione».

SONO 4061 LE OPERE ARRIVATE QUEST'ANNO. TRA I CLASSICI RESTAURATI CI SONO TARKOVSKIJ, VISCONTI, OZU E UN OMAGGIO A GINA LOLLOBRIGIDA

Facciamo un po' di numeri. Quest'anno le opere arrivate alla Mostra hanno raggiunto la folle cifra di 4061, tra cui 2100 lungometraggi. Da questo esercito di aspiranti alla selezione, ne sono stati scelti 82. Di cui 23 in Concorso, 19 Fuori Concorso, 18 in Orizzonti, la sezione in teoria più interessante per chi cerca nomi nuovi. Da notare che sono arrivati ben 226 film italiani.

58 SETTEMBRE 2023
Alcuni dei film più attesi quest'anno: in alto The Killer di David Fincher (foto Netflix). Nella pagina a fianco: Poor Thing di Lanthimos (foto Atsushi Nishijima), Priscilla di Sofia Coppola (foto Philippe Le Sourd), The Palace di Polanski (foto M. Abramowska)

Poi ci sono i cortometraggi e le 41 opere scelte per Venice Immersive, che comprende tutti i “media immersivi”, l'espressione cinematografica in XR, i video a 360°, le opere interattive.

Fuori dalla selezione ufficiale, ma dentro il programma del festival, ci sono anche i film della Settimana

della Critica, tutte opere prime, e la rassegna parallela Giornate degli Autori, che riserva sempre qualche bella sorpresa e che, tra gli altri, ospiterà Céline Sciamma.

Visto che il Lido è il tempio degli amanti del cinema, non va poi dimenticato Venezia Classici. Perché non capita tutti i giorni di vedere sul grande schermo, in versione restaurata, Bellissima di Luchino Visconti, I giorni del cielo di Terrence Malick, L'esorcista di William Friedkin (scomparso da poco), Per il re e per la patria di Joseph Losey.

A proposito di capolavori restituiti alla loro versione originale, l'evento imperdibile del festival – più di qualsiasi anteprima mondiale – è l'Andrej Rublëv di Tarkovskij, cioè uno dei film più belli di tutti i tempi, presentato nella ricostruzione della versione integrale, pre-censura, mai vista prima.

Altro film ricostruito, con una parte delle sequenze tagliate dalla censura dell'epoca, è C'era un padre di Yasujiro Ozu. E poi l'omaggio a Gina Lollobrigida – anche con un Portrait of Gina di Orson Welles visto da pochissimi – quello a Ruggero Deodato (scomparso alla fine dell'anno scorso) con l'estremo Ultimo mondo cannibale, il director's cut di Un sogno lungo un giorno di Francis Ford Coppola. Il cinema, quello vero.

Barbera: «Rivoluzione in arrivo Ma la gente ha voglia di cinema»

INTERVISTA AL DIRETTORE DELLA MOSTRA: LA FUNZIONE DEL FESTIVAL, I FILM SCELTI, L'INTELLIGENZA ARTIFICIALE COME «UNO TSUNAMI»

L'ultima volta ci siamo sentiti un anno fa, ma sembra passato un secolo, per tutte le cose accadute nel frattempo. L'anno scorso ragionavamo su come affrontare la sfida dello streaming, ed eccoci oggi a parlare della prima crisi delle piattaforme e delle sale riempite da Barbie e Oppenheimer.

Dobbiamo abituarci. Viviamo in un'epoca in cui ogni giorno c'è una novità che sembra contraddire tutto ciò che avevamo pensato e immaginato fino al giorno prima. Assistiamo ad aggiustamenti comprensibili all'interno di un sistema, un mercato, che è ben lontano dall'aver trovato un assetto stabile, dopo la rivoluzione che c'è stata, prima, durante e dopo il Covid. Questo non mi sorprende più di tanto. Quella che rischia invece di essere una rivoluzione ben più radicale, rispetto a quella del passaggio dall'analogico al digitale del secolo scorso, è l'intelligenza artificiale, su cui non si è ancora riflettuto abbastanza, perché in realtà nessuno ci capisce niente. Anche per la velocità con cui si sta realizzando questa cosa.

Che impatto potrebbe avere l'intelligenza artificiale sul cinema?

Si parla della possibilità di utilizzare l'IA fin da subito, con un'efficacia impensabile, in tutte le fasi di concepimento e realizzazione dei prodotti audiovisivi. Una cosa a cui non siamo preparati. Mi ricordo che durante la prima direzione della Mostra del Cinema nel '99, proprio il primo giorno, venne organizzata una tavola rotonda sul digitale: molti addetti ai lavori reagirono con un po' di sufficienza, nella convinzione che sostanzialmente non sarebbe cambiato niente. In realtà, come sappiamo, è cambiato tutto. Certo, c'è voluto del tempo, quindici anni, per il passaggio completo, però è chiaro che oggi il cinema si fa in maniera completamente diversa da come lo si faceva nel '99. Ecco, la differenza è che per l'intelligenza artificiale non c'è bisogno di aspettare quindici anni: c'è già, è già lì a disposizione, non servono aggiustamenti o potenziamenti delle sue possibilità. Quindi l'impatto che avrà sulla creazione e produzione cinematografica sarà gigantesco. Lo sciopero americano ha al centro anche la richiesta di regolamentare l'utilizzo dell'IA. Si rischia davvero di trasformare completamente il modo di scrivere un film, di girarlo, di utilizzare gli attori, di creare gli effetti speciali, con una velocità a cui non siamo abituati. Rischiamo di essere travolti da uno tsunami di proporzioni gigantesche.

60 SETTEMBRE 2023
E VENTI

Nessuno di noi ha gli strumenti per prepararsi in qualche modo, in questo momento. Non ha senso essere pro o contro l'intelligenza artificiale. Sono quelle cose che accadono e di cui bisogna prendere atto. Bisogna capire solo come fare a recepirla e regolamentarla. Sono convinto che se l'anno prossimo saremo ancora qui, a parlare insieme, mi farai la stessa domanda, visti i cambiamenti in arrivo.

Quindi comprendi le ragioni dello sciopero, anche se hanno messo in difficoltà il tuo lavoro e il settore in generale?

Lo sciopero ha delle ragioni comprensibilissime. Ma avrà enormi conseguenze dal punto di vista delle ricadute economiche e un impatto sui costi dell'audiovisivo ancora difficile da calcolare. Lo sciopero degli sceneggiatori va avanti da tre mesi e sono ancora ben lontani da iniziare una trattativa. Quello degli attori non sappiamo quanto durerà. Sappiamo però che lo sciopero precedente degli sceneggiatori aveva provocato una perdita di 2 miliardi di dollari nella contea di Los Angeles, quella dell'audiovisivo, più la perdita di 371 mila posti di lavoro. Pensa quale può essere la ricaduta negativa di uno sciopero che coinvolge due delle categorie principali, attori e sceneggiatori, che può durare mesi. Un altro piccolo tsunami. Significa che le uscite dei film verranno rimandate, col rischio di disaffezionare quel pubblico che avevamo riconquistato dopo la pandemia. Significa che le piattaforme rimarranno senza contenuti, perché tutte le serie sono bloccate.

61 SETTEMBRE 2023
Si parla della possibilità di utilizzare l'IA, fin da subito, con un'efficacia impensabile, in tutte le fasi di concepimento e realizzazione dei prodotti audiovisivi. Una cosa a cui non siamo preparati
Alberto Barbera (foto ASAC)

Rischia di essere un boomerang pazzesco. I grandi attori possono anche rimanere senza lavorare per sei mesi o un anno, ma tutti gli altri, gli attori di secondo e terzo piano, le comparse, le maestranze? In tanti saranno costretti a cambiare lavoro, ad andarsene da Los Angeles, dove non c'è nient'altro.

Quindi si spera nel buon senso di tutti.

Anche perché nessuno sa qual è il punto di caduta.

Tornando alle piattaforme e allo streaming. L'anno scorso mi dicevi che c'era troppa frenesia ed estremismo nei giudizi, soprattutto tra chi celebrava il funerale del grande schermo. Avevi detto che il sistema avrebbe trovato un nuovo equilibrio. In effetti ci sono film che stanno facendo incassi inaspettati. Dici che siamo sulla buona strada?

Quando ci sono film attrattivi per il grande pubblico, il pubblico va al cinema. Quest'anno sono usciti due film che, nello stupore generale, hanno battuto tutti i record di incassi. Hanno riportato il pubblico in sala in un periodo particolare come l'estate, che, se si esclude l'America, è sempre il più difficile. Il pubblico ci sta dicendo che se il mercato viene alimentato da film che mantengono viva la voglia di andare al cinema, la gente va nelle sale. Non è che se ne sta a casa, con la sua piattaforma, e aspetta sei mesi, quando Barbie avrà terminato il suo percorso al cinema.

62 SETTEMBRE 2023
C'è già un aumento dei biglietti venduti. La gente non si fa spaventare dalla possibilità di non trovare gli attori sul tappeto rosso.
Alberto Barbera con Bill Kramer sul Red Carpet, nel giorno della Cerimonia di apertura dello scorso anno (foto ASAC, Giorgio Zucchiatti)

Questa è la dimostrazione che eravamo lontani da quella realtà catastrofica di cui si parlava un anno, un anno e mezzo fa. Il problema è alimentare il mercato con buoni titoli.

Ci sono stati giorni in cui si prospettava una Mostra del Cinema in tono minore, solo europea. E invece, a parte il film di Guadagnino, gli americani ci sono tutti e il programma sembra molto ricco.

È chiaro che alcuni attori non verranno. Non ci saranno i protagonisti dei film prodotti dalle piattaforme, quindi The Killer, Maestro e quello di Wes Anderson. Ed è un peccato, perché erano cast molto belli (Michael Fassbender, Tilda Swinton, Ralph Fiennes, Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley, Carey Mulligan... ndr). Non verrà Emma Stone, protagonista del film di Lanthimos. Tutti gli altri in teoria potrebbero venire, visto che si tratta di produzioni indipendenti. Credo che tutti avranno la deroga dell'associazione di riferimento. Ora la palla passa agli attori, che devono decidere cosa fare. C'è chi non vuole fare un torto ai colleghi, assumendo posizioni in contrasto con gli scioperanti. Altri invece vogliono comunque sostenere il film. Immagino che una parte degli attori ci sarà e una parte no. Lo scopriremo nei prossimi giorni (l'intervista risale a metà agosto, ndr)

A chi ama il cinema e a noi critici di sicuro non dispiace un “festival degli autori”, ma il pubblico inevitabilmente reclama anche gli attori, la possibilità di vedere da vicino le star, così come tv e giornali.

Però abbiamo messo in vendita i biglietti qualche giorno fa e abbiamo già superato i numeri degli anni scorsi. Quindi la gente non si è fatta spaventare dalla possibilità di non trovare gli attori sul tappeto rosso. Vengono perché sono attirati dai film. L'incremento del numero di biglietti venduti è significativo.

Piefrancesco Favino è il protagonista di Comandante, film di Edoardo De Angelis scelto come apertura della Mostra del cinema 2023

63 SETTEMBRE 2023

Presentando i film del festival, hai usato spesso l'aggettivo “sorprendente”.

Io sono molto autocritico. C'è sempre un momento in cui arrivo alla vigilia della conferenza stampa, mi riguardo la lista e dico: “non sono soddisfatto”, “non è ciò che speravo”, “nella selezione manca qualcosa”, “la qualità media non è così elevata”. Poi spesso per fortuna vengo smentito. Quest'anno è successa una cosa che non accade mai: sono decisamente più soddisfatto del solito. Ci sono molti più film riusciti rispetto alla media abituale. Sappiamo che la selezione non è mai fatta di soli capolavori: i capolavori sono rari, altrimenti non sarebbero tali. Ma quest'anno abbiamo visto tanti buoni film, e anche tanti film che non ti aspetti, autentiche sorprese. Cosa estremamente positiva non tanto per la Mostra quanto per il cinema in generale. Se ci sono bei film, la curiosità di vederli è in grado di alimentare quel desiderio di cinema che tiene in vita il rapporto del pubblico con questa forma di espressione straordinaria. Quindi è meglio per tutti.

Vuoi farci qualche nome, opere che ci lasceranno a bocca aperta? Sia tra i big che tra le possibili rivelazioni?

Penso ad esempio al film di Wes Anderson. Quello di Cannes per me era deludente, ripetitivo, meccanico. Questo invece è un capolavoro incredibile, 38 minuti con una storia stupenda e una capacità di raccontarla in modo magico e sorprendente, come gli è riuscito nei suoi capolavori. Oppure penso al film di Lanthimos: quando lo abbiamo guardato siamo saltati sulla sedia. È una cosa pazzesca a livello di creatività e invenzione, per non parlare della storia in sé. È una delle cose più belle, più riuscite ed entusiasmanti di Lanthimos, anche più accessibili, senza intellettualismi. Questo discorso potrei fartelo per un sacco si film, sia nel Concorso principale che in Orizzonti, dove una buona metà delle opere selezionate potrebbero stare nella sezione principale, in un'annata più avara di buoni film. Faccio un altro esempio. Ricorderò sempre nel 2000, il giorno prima della conferenza stampa: avevo ancora uno slot libero e non sapevo cosa inserire in Concorso. Roberto Turigliatto mi disse: è arrivato questo, prova a dargli un'occhiata. Era L'isola di Kim Ki-Duk, film straordinario da cui è partita la storia di questo incredibile regista. Quest'anno abbiamo visto di tutto prima del 12 luglio. Era rimasto solo un film, di cui nessuno sapeva niente, un'opera prima arrivata all'ultimo momento dall'India, Stolen di Karan Tejpal: un'opera prima che ha un controllo della messinscena, una maestria, una forza espressiva impressionante; un film che inizia con il rapimento di un neonato e che poi si trasforma in un film di inseguimento, violenza, con una tensione da thriller incredibile. Geniale.

Si è molto parlato della quantità di film italiani selezionati. L'anno scorso avevi suggerito ai produttori di badare alla qualità oltre che alla quantità. Caso vuole che quest'anno ci siano sei italiani in concorso. È un tentativo, legittimo, di promuovere il nostro cinema, o davvero siamo di fronte a qualcosa di nuovo?

La qualità non c'è dappertutto, ovviamente. Abbiamo ricevuto più di duecento film italiani, quindi ti lascio immaginare. Però quest'anno c'erano anche tanti film belli. I sei in concorso, e quelli inseriti in Orizzonti, sono tutti film diversissimi tra loro, a cui per un motivo o per l’altro era difficile rinunciare.

64 SETTEMBRE 2023

Non ci siamo limitati a fare un semplice calcolo di convenienza, matematico. Sono consapevole che sei film italiani a Venezia si sono visti solo nell'82. Cannes però lo fa ogni anno e nessuno dice niente.

I film italiani? Intanto sono tutti il frutto di un grande sforzo produttivo. E poi osano, sono coraggiosi, fuori dalle solite convenzioni

Tutti i film selezionati sono indicativi di uno sforzo della produzione italiana, da due punti di vista diversi: il primo ha a che fare con la dimensione economica e produttiva, l'altro con l'importanza della storia e il linguaggio cinematografico. Intanto sono quasi tutti film costosissimi, molto al di là di ciò che accade tradizionalmente nel nostro cinema. 29 milioni di euro quello di Costanzo, 17 milioni Comandante, 8-9 milioni il film Garrone. Si vede uno sforzo produttivo del cinema italiano, una volontà di diventare competitivi sul mercato internazionale che prima non c'era. Un dato estremamente positivo e indicativo di una trasformazione in atto.

Poi, seconda cosa: sono film che osano. Osano raccontare qualcosa di diverso, inedito, evitando tutte le convenzioni a cui siamo abituati dal film d'autore autoreferenziale o dalla commedia di costume. Grazie a questa doppia esibizione di coraggio, mi sembra che si possa fare una considerazione estremamente positiva sul nostro cinema. Il discorso vale anche per Orizzonti. Ad esempio, un esordio come quello di Alain Parroni (Una sterminata domenica) non si è mai visto. L'ennesima storia di degrado sociale ambientato in una periferia, che si dimentica di tutti gli stereotipi di quel cinema, puntando su una dimensione visiva, ritmica e musicale impressionante.

65 SETTEMBRE 2023
The Wonderful Story of Henry Sugar (foto Netflix)

Può piacere o non piacere, ma la padronanza del mezzo e il coraggio sono incredibili. Potrei andare avanti, raccontandoti tutti i film...

Lasciamo qualche sorpresa al pubblico… A proposito di protagonisti del cinema contemporaneo che Venezia ha contribuito a lanciare nel mondo: Damien Chazelle sarà il presidente della Giuria. È vero che la rivelazione è stata Whiplash, passato al Sundance e alla Quinzaine, ma poi è La La Land che l'ha lanciato nell'empireo, aprendo Venezia e poi trionfando agli Oscar. Facciamo un gioco: quali sono le aperture di cui vai particolarmente fiero, nella tua storia di direttore di Venezia? Comincio io: ho ancora i brividi quando ripenso ad Eyes Wide Shut, esperienza quasi metafisica. Era la tua prima volta a Venezia.

Pensando a questi ultimi dodici anni, l'elenco è presto detto: Roma, che poi ha vinto l'Oscar come miglior film internazionale, Joker, altro premio Oscar come miglior film, The Shape of Water di Guillermo del Toro, La La Land lo hai già citato... Sono quei film che nessuno si aspetta. Inattesi per un verso o per l'altro. Mi spiego meglio: certo che tutti si aspettavano Joker a Venezia, ma nessuno si aspettava di vederlo in Concorso, uscendo per giunta vincitore, sia alla Mostra che agli Oscar.

Il fatto che siano film passati a Venezia, oltre ad essere gratificante per noi, è anche il segnale che la Mostra ha recuperato la dimensione che aveva nel dopoguerra, negli anni Cinquanta e Sessanta, la sua funzione di scoperta, di sorpresa, di valorizzazione del nuovo. Pensa ad esempio alla rivelazione di Rashomon nel '51, quando il cinema giapponese era completamente ignorato in Europa. Insomma non abbiamo scritto sulla sabbia.

Se parliamo di grandi festival, tu ormai sei un veterano: la tua prima esperienza risale a 25 anni fa. Come è cambiato in questi anni il tuo modo di intendere il festival e la sua funzione?

Da un certo punto di vista non è cambiato niente. Se vai a riprendere la Mostra negli anni '30, avevano già inventato tutto: c'era la competizione, c'erano le opere per i ragazzi, c'era anche un piccolo mercato dei film e della tecnologia cinematografica. Sono componenti che oggi trovi in ogni festival. Lo scopo era e rimane la promozione di bei film, da declinare in tanti modi diversi. Questo è il minimo comun denominatore che vale per tutti. Poi è chiaro che un sacco di cose sono cambiate, perché è cambiato il cinema, e quindi anche il criterio con cui fai una selezione. Una volta, alla fine del secolo scorso, eravamo ancora tutti legati alla “politica degli autori”, alla valorizzazione di quel tipo di cinema al di là di ogni altra considerazione. A Venezia negli anni 90 c'erano ormai solo gli autori; produttori e distributori non venivano più. Il declino della Mostra è cominciato quando si è trascurata una dimensione del cinema che è connaturata alla sua stessa storia.

66 SETTEMBRE 2023
Oggi non ha più senso dire che siamo "l'ultimo baluardo per la difesa del cinema d'autore contro l'industria". Il cinema è cambiato. Oggi si fanno tanti tipi di film quanti sono i pubblici diversi. Ci sono tante sfumature

Una delle cose che ci siamo detti chiaramente quando siamo tornati a Venezia nel 2012 è proprio questa. Il cinema d'autore ormai era diventato una componente dell'industria cinematografica. Oggi se vuoi fare un “film d’autore”, o trovi i soldi da amici, parenti e mecenati che te li regalano, oppure devi affidarti a una produzione, che però lavora con un obiettivo diverso dal tuo, guarda al pubblico, al mercato. Se questa ormai è solo una delle componenti dell'industria dell'audiovisivo, non possiamo continuare a dire che siamo “l'ultimo baluardo per la difesa del cinema d'autore contro l'industria del cinema", perché è una cosa ridicola, che non ha senso. Poi, certo, bisogna fare delle distinzioni tra il cinema che ha anche ambizioni artistiche e quello puramente commerciale, ma dentro un ventaglio molto ampio di possibilità, pieno di sfumature diverse. Si tratta di scegliere il meglio all'interno di una produzione che è sempre più varia. Non c'è un solo pubblico e nemmeno due, oggi si fanno tanti tipi di film quanti sono i pubblici diversi. Da questo punto di vista è cambiato tutto, sono cambiati i criteri di selezione, è cambiata la nostra attenzione rispetto a certi registi e certe produzioni. Nel '99 abbiamo ricevuto 900 film da selezionare ed eravamo sorpresi dalla grande massa di titoli. Quest'anno 900 film li avevamo visti tra novembre e marzo, e alla fine ne sono arrivati 4100. Anche questo ti dà un'indicazione di come sia cambiata la produzione, oltre al ruolo di un festival. (f.t.)

67 SETTEMBRE 2023
(foto ASAC)

Ferrari, Priscilla, il conte Pinochet Realtà trasfigurata in cinema

I PIÙ ATTESI DI QUESTA EDIZIONE: MANN E LARRAÌN, DAVID FINCHER E

Da settimane, anzi da mesi, inseguiamo sul web le foto di Adam Driver in giacca, trench o cappotto in gabardine, ma soprattutto con i grandi occhiali neri che portava Enzo Ferrari, versione imprenditore (lui che era stato meccanico, collaudatore e poi pilota professionista). Ferrari di Micheal Mann è forse il film più atteso del festival. Sicuramente è in cima alla nostra lista, visto che parliamo di uno dei registi più

grandi del panorama contemporaneo, uno di quelli che “pensano cinema”, che hanno uno stile visivo unico e un tocco speciale, elettrico e malinconico: rivedere per credere Heat (un caposaldo) e Insider, l'epico Alì e l'azione mozzafiato di Collateral, Nemico pubblico e Blackhat. È quasi inutile dire che da lui ci aspettiamo molto più di un biopic, come dimostra anche la scelta di concentrarsi su un momento oscuro della vita di Ferrari.

68 SETTEMBRE 2023
ANCHE
E VENTI
HAMAGUCHI, LANTHIMOS E KORINE. MA
GARRONE E MASSI
Ferrari (foto Eros Hoagland)

Siamo negli anni in cui si ritrovò processato per l'incidente mortale alla Mille Miglia del '57, in un periodo in cui aveva perso il figlio Dino, e la sua fama di donnaiolo era stata confermata dal riconoscimento di un altro figlio nato da una relazione extra-coniugale. Girato nel 2022 a Modena, il film promette grandi cose. Pochi dubbi anche su El Conde di Pablo Larraìn - un altro che non sbaglia un colpo: nella produzione del regista cileno ci sono solo film belli o bellissimi, a prescindere dal successo di pubblico, da Tony Manero a Post Mortem, dal mitico No al difficile Neruda, dagli americani Jackie e Spencer al travolgente e sperimentale

Ema. Basta guardare il trailer per farsi venire l'acquolina in bocca, con Pinochet che vola col suo mantello in versione Dracula, dentro una feroce satira in bianco e nero, una commedia horror prodotta da Netfilx.

Tra i film più stuzzicanti, c'è quello che Sofia Coppola ha voluto dedicare a Priscilla Presley, soprattutto dopo aver visto (l'ottimo) lavoro di Baz Luhrmann su Elvis. Il breve trailer, sfavillante e dal sapore retrò, fa ben sperare chi ama la regista di Lost in Translation, Il giardino delle vergini suicide e Marie Antoinette, nonostante certi scivoloni degli ultimi anni. Cambia il punto di vista rispetto al film di

Luhrmann, visto che per Priscilla la base di partenza è l'autobiografia Elvis and Me

Ci stimola assai l'accoppiata formata da David Fincher e Michael Fassbender, in un film esplicito e asciutto già nel titolo The Killer. L'assassino in questione è gelido e metodico, sull'orlo della follia. Se poi pensiamo che lo sceneggiatore è lo stesso di Seven (Kevin Walker), l'attesa è più che giustificabile. Fincher ne parla come il racconto brutale di una solitudine. Che dire poi del ritorno di Harmony Korine, regista ingestibile, imprevedibile, non catalogabile? Noi che abbiamo amato anche il vituperato Spring Breakers – oltre ai vari Gummo e Julien Donkey Boy – non possiamo che essere felici ogni volta che torna sul grande schermo, anche quando il progetto è totalmente misterioso. Si dice che Aggro Dr1ft sia stato girato (in buona parte? tutto?) con telecamere a infrarossi, che sia surreale e psichedelico (ma va?), che potrebbe anche essere scambiato per un'installazione video-artistica. Ottime premesse.

A noi piace molto anche Richard Linklater – come fanno a non piacervi Prima dell'alba e del tramonto, School of Rock, Fast Food Nation, Boyhood, Apollo 10 e mezzo?

69 SETTEMBRE 2023
El Conde (foto Netflix)

Con Hitman torna a casa sua, a Houston, per mettere in scena la storia di un agente sotto copertura, nei panni di un sicario, interpretato da Glen Powell. Altri registi da cui ci aspettiamo molto? Roman Polanski, che in The Palace ha imbastito una commedia noir ambientata in un hotel di lusso, dove un'orda di ricchi viziati aspetta l'arrivo del 2000. Luc Besson, che in Dogman si affida alla personalità di Caleb Landry Jones per mettere in scena un emarginato, vittima delle violenze del patrigno, che una volta diventato adulto decide di vendicarsi. Ma soprattutto Wes Anderson, anche se si tratta di un piccolo film di 40 minuti: si vocifera che con The Wonderful Story of Henry Sugar sia tornato ai livelli di film indimenticabili come I Tenenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Moonrise Kingdom. Nel cast ci sono Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley,  e si racconta un uomo intenzionato a influenzare il mondo con le sue arti magiche. Altre (quasi) certezze? In Concorso Hors-Saison di Stéphan Brizé, che negli ultimi anni ha realizzato solo film potenti e importanti (Una vita, In guerra, Un altro mondo) e Il male non esiste di Ryusuke Hamaguchi, regista dell'ottimo Drive My Car. Fuori Concorso il solito Frederick Wiseman. In Orizzonti il film d'animazione Invelle di Simone Massi, artista straordinario,

che finalmente è riuscito a completare il suo primo lungometraggio, dal quale ci aspettiamo tantissimo. Parliamo di un animatore marchigiano famoso in tutto il mondo per le sue opere d'arte realizzate disegnando e incidendo a mano un fotogramma dopo l'altro, fuori da ogni logica commerciale, in totale libertà, resistendo alle sirene di un mondo in cui fatica a riconoscersi.

In seconda fascia, tra gli “interessanti col dubbio”, ci mettiamo Yorgos Lanthimos, autore letteralmente adorato da buona parte degli addetti ai lavori e detestato dall'altra metà. Difficile rimanere indifferenti di fronte all'infinita presunzione dell'autore di The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro (tanto per citare due film che ci hanno fatto imbestialire), ma anche al talento indiscutibile di Dogtooth e Alps. Dopo La favorita, a sua prima escursione nel cinema per il “grande pubblico” (ma sempre rigorosamente d'autore), rieccolo a lavorare con Emma Stone (e Willem Dafoe, e Mark Ruffalo) in Povere creature!, che promette di essere una delle opere più visionarie, oniriche e disturbanti del festival. Il mito di Frankestein incontra l'espressionismo tedesco per mettere in scena la storia di Bella, resuscitata da uno scienziato e fuggita con un avvocato senza scrupoli.

70 SETTEMBRE 2023
Aku wa sonzai shinai - Evil Does Not Exist (foto Neopa, Fictive)

Ovviamente, visto anche il titolo, sarà tutto un pullulare di strane creature. Potrebbe essere il “film del festival”. A Star Is Born forse non era un'opera indimenticabile (nonostante le otto candidature agli Oscar e un'ottima Lady Gaga), ma Bradley Cooper in regia ha sorpreso tutti, anche buona parte della critica, che ora attende con curiosità il suo film dedicato a Leonard Bernstein, musicista geniale e artista a tutto tondo, direttore d'orchestra, pianista e compositore di opere immortali come West Side Story Maestro racconta la sua relazione (complessa) con la moglie Felicia Montealgre, interpretata da Carey Mulligan (Leonard ovviamente sarà interpretato da Bradley). Da brividi il parco-produttori, che unisce Spielberg, Scorsese e Todd Philips. Qualcosa vorrà pur dire.

Altro film da aspettare con curiosità, Origin di Ava DuVernay, sia per le qualità della regista (anche se sono passati più di dieci anni dai suoi film migliori, I Will Follow e Middle of Nowhere) sia per il libro da cui è tratto quest'ultimo lavoro, The Origins of Our Discontents di Isabel Wilkerson, implacabile denuncia del razzismo negli Usa.

Chissà poi cosa ne avrà fatto Quentin Dupieux del mito di Salvator Dalì. A proposito di “matti talentuosi”, Dupieux promette scintille, visto anche il soggetto. Il punto di vista è quello di un giornalista francese, che lo incontra in varie occasioni per girare un documentario su di lui. Il titolo è una specie di urlo rituale e beneaugurante: Daaaaali!

Altro regista capace di grandi cose è Bertrand Bonello. Molto affascinante la trama di La Bête, che si sposta lungo tre epoche diverse, il 1910, il 2014 e il 2044. In un futuro non troppo lontano le emozioni saranno dichiarate illegali e ci sarà chi, come Gabrielle, deciderà di farsi cambiare il dna, per rimuovere i ricordi dolorosi del suo passato. Fino a quando incontra un uomo, Louis, che gli farà cambiare idea. Protagonista è Léa Seydoux. Altro motivo per guardare il film con interesse.

Woody Allen, uno dei più grandi di sempre, meriterebbe di essere tra i registi più attesi del festival, se non fosse che i suoi ultimi film sono una stanca ripetizione del già visto e già sentito (lo scriviamo con affetto).

71 SETTEMBRE 2023
Maestro (foto Netflix)

Coup de chance, però, ci fa ben sperare, non fosse altro per l'assonanza che suscita con opere come Match Point (forse il suo ultimo film davvero straordinario) e il delizioso Midnight Paris (per la location e le atmosfere). A Parigi una coppia affiatata viene messa in crisi dalla comparsa di un ex compagno di scuola, che travolge Fanny. C'è chi parla di un film con uno stile sorprendente.

Si dice un gran bene di Hollywoodgate, girato dall'egiziano Ibrahin Nash'at, che ha seguito le gesta di un comandante talebano, nel momento in cui l'Occidente ha abbandonato l'Afghanistan al suo destino. Tra le rivelazioni possibili della Mostra, infine, si cita Il leopardo delle nevi di Pema Tseden.

El'Italia? Sei film in concorso sono tanti, tantissimi, ma a leggere i nomi degli autori, i titoli e le storie raccontate, c'è da essere ottimisti sul risultato finale. Certo è che fa sensazione trovare in apertura Edoardo De Angelis, dove avrebbe dovuto esserci Luca Guadagnino (il più internazionale dei registi italiani e uno degli sguardi più ispirati e originali). Al posto di Zendaya, a percorrere il tappeto rosso troveremo Pierfrancesco Favino, che è pur sempre uno degli attori italiani più amati. Si parla di una grande produzione e di un film coraggioso. Comandante racconta la vera storia di Salvatore Todaro, capitano di corvetta in epoca fascista, che decise di mettere a rischio la sua vita e il suo sommergibile per salvare la vita ai marinai di una nave nemica affondata.

«Nel quadro di un film d’epoca, risultato di un importante investimento produttivo del cinema italiano, l’opera di Edoardo De Angelis risuona di non ambigui echi contemporanei», ha detto Alberto Barbera, e quindi «risulta come un forte richiamo all’esigenza di anteporre i valori dell’etica e della solidarietà umana alla logica brutale dei protocolli militari».

72 SETTEMBRE 2023
La bête (foto Carole Bethuel) Invelle (di Simone Massi)

Ma non c'è dubbio su quale sia il film più atteso tra gli italiani: Io Capitano di Matteo Garrone.

Sia per il “peso specifico” del regista, che raramente delude (forse solo Pinocchio non è stato all'altezza delle aspettative), sia per l'importanza del tema e per l'esperienza cinematografica che propone, dal punto di vista visivo, emotivo, morale. Si parla di due giovani migranti, Seydou e Moussa, che partono da Dakar per raggiungere l'Europa. E lo si fa raccontando il loro sguardo, le loro emozioni, in cammino, nelle prigioni libiche, sballottati tra le onde.

La caratteristica principale della selezione italiana? La varietà. Se Saverio Costanzo propone una produzione internazionale intitolata Finalmente l'alba, storia di un'aspirante attrice nella “Hollywood sul Tevere” negli anni '50, Pietro Castellitto con Enea mette in scena l'amicizia, la ricerca di sé, la giovinezza, tra feste e droghe, malavita e malinconia.

Giorgio Diritti (Il vento fa il suo giro, L'uomo che verrà, Volevo nascondermi) racconta la storia di Lubo, artista nomade, chiamato nel '39 dalla Svizzera a difendere i confini nazionali, mentre cerca di salvare la vita dei suoi figli, strappati ai genitori perché figli di "zingari" (Diritti ne parla così: «Un film sul senso dell'educare, sull'amore, su leggi disumane e discriminatorie che ge-

nerano un male che si espande come una macchia d'olio nella vita di chi le subisce»). Infine Stefano Sollima mette insieme Piefrancesco Favino, Toni Servillo e Valerio Mastrandrea (tombola) in Adagio, un film d'azione alla sua maniera, in cui un ragazzo, ricattato da un gruppo di malviventi spietati, ricorre all'aiuto di due ex-criminali per uscirne vivo. Fuori concorso ci saranno tra gli altri anche Liliana Cavani con L'ordine del tempo e Luca Barbareschi con The Penitent. Poi in Orizzonti (in concorso e fuori), oltre al già citato Simone Massi, troveremo El Paraìso di Enrico Maria Artale, Alain Perroni con Una sterminata domenica, Micaela Ramazzotti all'esordio come regista con Felicità. Menzione particolare – in questi tempi strani in cui la guerra sembra diventata un'abitudine, una presenza normale - per la proiezione di Frente a Guernica, firmato Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (scomparsa nel 2018). Si tratta dell'ultima sceneggiatura scritta insieme, a partire da una commissione del Museo Reina Sofìa, ai tempi in cui (nel 2014) andarono a presentare il loro Pays barbare. Dopo una lunga immersione di Yervant nel suo vastissimo archivio, eccolo riemergere con un affresco storico e una denuncia della barbarie della guerra, ispirato al capolavoro di Picasso.

73 SETTEMBRE 2023
Io Capitano (foto Greta De Lazzaris)

VILLE, HOTEL E IMPIANTI, ENERGIA E TECNOLOGIA: TUTTO "CHIAVI IN MANO"

25 anni fa Juri Zani era un giovane elettricista

Oggi la sua Z&B Impianti Srl continua a crescere

Questa storia comincia da un ragazzo che decide di fare l’elettricista. Impara il mestiere, lavora molto e dopo sei anni ha già aperto la sua prima attività (era il 1998). Comincia a darsi da fare, lavorando anche per aziende importanti. Lavori sempre più impegnativi: grandi impianti, alberghi lussuosi, ville, opere pubbliche, tipo il Palazzo di Giustizia a Brescia o gli uffici della guardia di

finanza di Milano.

Sono passati 25 anni. E oggi la sua azienda è tra le più apprezzate nel settore, soprattutto per la capacità di offrire servizi “chiavi in mano”, per l’attenzione ai progressi tecnologici (ad esempio la domotica, praticata fin da subito), per la qualità dei professionisti messi a disposizione.

Juri Zani ha di che essere soddisfatto per ciò che è riuscito a costruire

negli anni. D’altra parte se l’è guadagnato: «Amo il mio lavoro, sono sempre operativo e pronto ad ogni richiesta», ci racconta. Il giovane Juri Zani oggi è dirigente di un'azienda, la Z&B Impianti Srl, che si occupa di impianti elettrici civili e industriali, di impianti fotovoltaici, di colonnine per la ricarica, di domotica e realizzazione di quadri elettrici (anche per conto terzi) e da qualche anno perfino di edilizia generale, ristrutturazioni e nuove costruzioni.

La Z&B Impianti Srl ha uno staff professionale formato da elettricisti, tecnici, operai edili, geometri, programmatori KNX e building automation, quadristi, anche molti artigiani esterni.

La struttura portante però rimane familiare, il che garantisce una maggiore efficienza, flessibilità e motivazione: si rema tutti insieme, sulla stessa barca e soprattutto nella stessa direzione per portarla sempre più lontano.

«Ho cominciato giovanissimo - ci dice Juri Zani - e non ho mai smesso di imparare». La decisione con cui risponde alle richieste, anche durante la nostra intervista, lascia intendere che qui non si perda tempo. Il lavoro viene suddiviso in base alle competenze, per guadagnare in velocità ed efficacia: «Mio fratello ad esempio segue la parte di programmazione KNX e domotica, antifurti, antincendio, controllo accessi, sistemi integrati».

74 SETTEMBRE 2023
S TORIE DI VITA E D’IMPRESA

Lavorano in azienda anche la moglie e i figli, «e non mi posso certo lamentare di loro». Ma la sua storia, in tempi come questi, sembra irripetibile. «Gli istituti scolastici del settore ci mandano i ragazzi per l'alternanza scuola-lavoro, per fare lo stage, ma purtroppo sono pochi quelli che veramente studiano elettrotecnica e si appassionano a questo tipo di lavoro. Forse a volte la scelta di intraprendere una scuola piuttosto che un’altra non viene dalla volontà personale ma dall’inseguire l’amico o l’amica».

Eppure di cose ce ne sarebbero da conoscere e sperimentare, in un campo in cui le innovazioni si susseguono anno dopo anno.

La domotica, ad esempio. «Non è un campo semplice. Nel mondo digitale escono sempre nuovi modelli con qualcosa in più e con parametri diversi di programmazione». Bisogna conoscere molto bene la materia.

«Io ho iniziato nel ’98, quindi da subito. Abbiamo realizzato impianti che sono in funzione ancora oggi dopo

25 anni. La domotica è utile e importante. Oggi con l’evoluzione della tecnologia ci sono anche apparecchiature che dialogano tramite wi-fi, sono sistemi che hanno le stesse funzioni (anche se non completamente) degli impianti domotici, ma con costi sicuramente più competitivi. Si parla di sistemi che facilitano la gestione della propria abitazione e che si gui-

dano totalmente tramite smartphone e/o tablet. Ovviamente siamo noi che diciamo al nostro impianto cosa deve fare».

Un settore su cui la Z&B sta investendo in modo particolare è quello dei pannelli fotovoltaici. «Abbiamo cominciato nel 2009 e non abbiamo mai smesso. Diciamo che il superbonus ha dato una bella svolta.

75 SETTEMBRE 2023
Tanti interventi in strutture di prestigio, lavori anche all'estero, domotica, impianti fotovoltaici e da qualche anno l'edilizia. Il segreto? Professionisti qualificati
Borgo Drugolo

Il problema di fondo è che tanti in questi anni si sono improvvisati nel settore. Tante aziende hanno fatto il boom negli anni intorno al 2010 e poi sono crollate. Noi progettiamo e installiamo impianti, ma, come tante altre aziende strutturate, abbiamo aumentato la clientela facendo sempre un passo alla volta».

A proposito di fotovoltaico: non è poco ciò che si risparmia in termini di energia, con grandi benefici sia per il cliente che per l’ambiente. «Ma in tanti continuano a non capirlo. Penso invece agli agricoltori piemontesi, che hanno creduto fin da subito alle rinnovabili. Nel 2009 abbiamo iniziato ad instal-

lare impianti fotovoltaici in quella regione e ormai sono sedici anni che lavoriamo nel territorio, solo col passaparola»

Sono tempi di grandi cambiamenti. «Siamo nel pieno della rivoluzione del risparmio energetico. A volte dobbiamo anche dire di no. Ma non mi dispiace l’idea di poter scegliere il cliente con cui lavorare. Abbiamo squadre dedicate solo ed esclusivamente al fotovoltaico». Si parla di impianti a terra o su tetto, ma anche su facciate e strutture particolari. Oltre a progetti e realizzazioni in ogni campo del settore.

Per il resto, la Z&B realizza impianti elettrici civili, per complessi residenziali ma anche per strutture ospedaliere, per il settore turistico alberghiero, per chiese e monumenti. Opera nel settore industriale, con impianti in M.T. e B.T., impianti bordo macchina (con manutenzione), modalità ATEX, building automation. Ma dal 2018 c’è anche una grande

novità: «Operiamo ufficialmente anche nel settore edile. All’interno dell’azienda ci sono geometri che costruiscono da generazioni. Costruiamo, vendiamo e ristrutturiamo unità immobiliari. Offriamo il pacchetto “chiavi in mano”. Abbiamo deciso di lavorare esclusivamente sulla qualità e non sulla quantità, il nostro core business è questo. La formula chiavi in mano piace molto al cliente, che così ha un unico referente: può creare la propria unità immobiliare come vuole, senza avere a che fare con dieci figure diverse, pensiamo noi a tutto». Ora la Z&B si è messa a comprare e vendere immobili. Proseguendo però nelle sue attività tradizionali, anche con interventi di grande prestigio. «Abbiamo realizzato parecchi lavori importanti, ad esempio il Klima Hotel di Milano, un appalto da quasi 2 milioni di euro 14 anni fa, i Grand Hotel Villa Fenaroli e Villa Feltrinelli, l’Hotel Galeazzi a Barbarano, il Gold Hotel a Calcinate, Borgo Drugolo...»

76 SETTEMBRE 2023

Tutti interventi arrivati grazie al passaparola o appalti vinti. «Per 6-7 anni abbiamo fatto Esselunga in tutto il nord Italia. Como, Varese, Agrate, in subappalto con imprese come STS. Facevamo antincendio, controllo accessi, antintrusione, impianti speciali e così via». A settembre realizzeranno un capannone a Parma, «una grossa azienda che produce macchine per il caffè» Ma ci sono anche i lavori all’estero. «Abbiamo lavorato in Costa d’Avorio e in Senegal, e quest’anno abbiamo preso una commessa negli Stati Uniti, un’azienda di Milano che costruisce macchine per la zincatura»

Durante l'emergenza sanitaria per il Covid hanno lavorato sui quadri elettrici in laboratorio: «Questo ci ha permesso di andare avanti al 70% anche in quel periodo. Lavoravamo per un’azienda che macina la frutta per fare succhi in Costa d'Avorio»

Tra gli ultimi interventi importanti, quello per i Giardini Conti

Thun a Puegnago del Garda: «Abbiamo realizzato impianti elettrici e speciali, dalla gestione camera agli impianti antincendio e TVCC, dall'antintrusione alla cabina di trasformazione, ecc. La struttura ora è aperta. Ci hanno scelto tra molte aziende soprattutto perché

siamo in grado di offrire soluzioni professionali e personalizzate per qualsiasi tipo di esigenza. È uno dei nostri punti di forza»

25 anni fa Juri Zani era un giovane apprendista elettricista. Ne ha fatta di strada. Così come ne ha fatta l’azienda e tutto lo staff insieme a lui.

77 SETTEMBRE 2023
Conti Thun Una villa costruita a Gardone

“Avventure a colori di un pittore fuggiasco” è già un gran bel titolo di per sé. Associato a un nome – un artista fuori dai canoni, un uomo stravagante, un mistero –che è anche una condizione esistenziale: Giorgio Foresto (nato De Gaspari, in provincia di Milano, nel 1927). Poi sfogli il libro e sei travolto dalle forme e dai colori, dentro opere che danno l'impressione di essere contenute a stento nei limiti del foglio o della tela, piene di cose, idee, volti, visioni. Non per niente si parte da una citazione da Lewis Carroll. Alice e il paese delle meraviglie ha accompagnato tutta la vita e l'opera di Giorgio Foresto (che l'ha anche tradotto), essendo «un testo che sposa con estrema docilità il suo più intimo pensiero: l’avventura infinita alla ricerca di un senso che, sorridendoci, svanisce». Le parole sono di Giovanni Scarpa, autore di questo libro, pubblicato da Edizioni NPE, che è un'autentica delizia, anche grazie al suo racconto ispirato. Giorgio De Gaspari, per chi non lo sapesse, tra gli anni Cinquanta e Sessanta era ritenuto un mago, un maestro dell'illustrazione, da La Domenica del Corriere ai lavori per il Reader's Digest o Epoca, dalle copertine per i libri Fabbri ai fumetti per Il Corriere dei Piccoli. Scarpa ricostruisce quell'epoca, in cui Brera sembrava Montmartre, e Giorgio viveva un'esistenza eccentrica, disordinata, dentro una casa milanese in cui capitava di incrociare anche una capra (portata pure negli uffici della Mondadori, dove non fece complimenti alla moquette). Gli aneddoti formidabili ne fanno un personaggio romanzesco. Un giorno del 1970, muore la moglie, lui sfida al Giamaica il mago del biliardo («Se stasera ti batto, non mi rivedrete più») e poi sparisce, diventando un senzatetto, un nomade, un “foresto”. Anche perché alla fine approda nel “piccolo mondo antico” della laguna veneta, a Pellestrina, dove nasce il suo incredibile atelier in mezzo all'acqua, che sembrava la casa di un rigattiere, ma anche il laboratorio di un alchimista. Giorgio continuerà a disegnare e dipingere. E vagherà da Singapore all'India, da Hong Kong alla Turchia e alla Nuova Zelanda, per poi tornare nel suo Mondo della Luna (si chiamava così lo studio-palafitta). Le sue opere sono stupefacenti, per la varietà di stili, soggetti, strumenti utilizzati, per la follia della sua Venezia gotica, per quei ritratti di lavoratori che sembrano arte sacra (c'è anche un volto di Cristo realizzato in sangue e birra su lino), per quell'alba mistica in cui i cirri diventano merletti. Un grande artista dimenticato. Scarpa onora il suo genio, le sue follie, la sua inimitabile puzza di salame ammuffito, alghe e solventi per la pittura. Morì nel 2012, a 85 anni. «Il suo spirito aleggia ancora, nell’aria, finalmente libero» (f.t.)

«Dentro, nella penombra dei soffitti bassi, si celano i mille tesori di Giorgio. Tesori per i suoi occhi naturalmente, i nostri vedrebbero soltanto un cavalluccio marino essiccato, un pezzo di relitto mangiucchiato dal salso che emana un fetore insopportabile, una cassetta del latte usata come sgabello, libri, libri, ancora libri, e poi assi, tavole di legno, reti da pesca, canne di bambù, colori, disegni ovunque, monnezza... Ci si passa a stento, spostandosi di traverso, si intravedono le pentole della cucina mentre uno strano senso di claustrofobia comincia ad invaderti. È solo la vista della piccola scala che porta ai piani superiori, col suo fascio di luce, a sorprenderti come in un’annunciazione rinascimentale. Il letto di Giorgio è una stuoia logora e improbabile posata a terra. Nella sua oculata e astrusa ingegneria era riuscito a creare un sostegno per poter dipingere da sdraiato. Sopra il letto gravita una sorta di vela portaoggetti: matite, pennelli, una piccola boa, libri, attrezzature da pesca, uno specchio, una bussola... Pare lo studio di un alchimista, la cella dell’abate Faria, la caverna delle meraviglie disegnata da un bambino piccino, la Wunderkammer di un principe folle. Ci si perdeva, letteralmente e metaforicamente. Lo sguardo vagava, attirato qua e là da strane forme: un passero impagliato a destra sopra una mensola, una zucca dipinta appesa al soffitto. Il terzo piano, da ultimo, è un piccolo atelier. Un piano luminoso e arieggiato. Dalle quattro finestrelle messe in fila verso la laguna ad ovest, si scorge tra i riflessi acquei il “Mondo della Luna”. Pochi sono stati in questa casa per raccontarla. Racconti sempre diversi, sempre nuovi e bizzarri fatti di strettoie e giravolte, inchini forzati e alte vedute. La tana del bianconiglio non doveva poi essere tanto diversa» (Giovanni Scarpa)

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