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La Mostra di Venezia fa 90

Il Lido è un luogo dell’immaginazione. Chi c’è stato lo sa. Sì, è anche un’isola, con le sue strade e le sue case. Ci si arriva da

Venezia in vaporetto (dalla stazione, 40 minuti) e ci si sposta tra lunghi viali alberati, vecchie ville signorili e alberghi lussuosi, o costeggiando spiagge diventate mitiche grazie al cinema e alla letteratura (all’immaginazione, appunto).

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Ma per noi che non ci viviamo è una sorta di miraggio che, per un paio di settimane l’anno - durante la Mostra internazionale dell’arte cinematografica - si può perfino toccare. Poi rimane come sospeso in un “pre” e un “post” pieno di flash, applausi, pezzi di film, fantasie colorate abitate da divi e autori, che galleggiano in questo non-luogo fuori dal tempo, respingente ma bellissimo. Se a Venezia, la sera, sotto la luna, “pare di passeggiare in acquaforte” (come scriveva Carlo

Dossi), al Lido si ha l’impressione di muoversi ai margini di un poster cinematografico. Ci perdonino i 20 mila abitanti,

(foto Angelo Turetta)

giustamente gelosi di questa striscia di terra lunga 12 chilometri, e in certi punti larga solo 200 metri, che in realtà è ricca di storia e di vita. Ma anche loro sanno che tutto, qui, gira intorno al festival, nato 90 anni fa, solo due anni dopo l’Oscar, che infatti è la manifestazione cinematografica più antica del mondo. La 79ª Mostra del cinema, in effetti, sarà un’edizione speciale per due motivi soprattutto: da una parte c’è l’anniversario, la celebrazione di una storia straordinaria, a partire da quel 1932 che onorò a Venezia gente come Lubitsch, Hawks e Frank Capra, René Clair e King Vidor, Walsh, Whale e Vittorio De Sica, Clark Gable e Greta Garbo, Boris Karloff e Joan Crawford; dall’altra, ci ritroviamo (quasi) fuori dall’emergenza Covid, dopo due anni estremamente difficili, con la produzione mondiale che è ripresa a pieno regime e vuole tornare a riempire le sale (non solo le piattaforme streaming, come è successo di recente).

La Mostra di Venezia fa 90 Ma il futuro non fa paura

DOPO DUE ANNI DI COVID, CON LE SALE CHE FATICANO, ARRIVA UN FESTIVAL PIENO DI NOMI, IDEE, STAR E FILMONI

Cominciamo dai numeri: a Venezia, quest’anno, sono arrivati 3659 titoli - di cui 1816 lungometraggi (208 italiani!) - ai quali vanno aggiunti i film visti dai selezionatori in giro per il mondo. Il direttore Alberto Barbera e i suoi collaboratori ne hanno selezionati 23 in Concorso, 19 Fuori Concorso e 27 nella sezioni Orizzonti (ed Extra), ai quali vanno aggiunti 16 cortometraggi. Poi ci sono Venice Immersive, il cinema VR (virtual reality), un paio di serie tv (di Lars von Trier e Nicolas Winding Refn!), 9 documentari sul cinema e, soprattutto, 19 film restaurati per Venezia Classici: che significa poter rivedere, sul grande schermo, nel loro splendore originario, opere di Ozu (Una gallina nel vento, 1948), Tourneur (Canyon Passage, 1946) e Imamura (Il profondo desiderio degli Dei, 1968), La voglia matta di Salce (del 1962) e Teorema di Pasolini (del 1968), un classico dell’horror degli anni Trenta, The Black Cat di Edgar Ulmer (da un celebre racconto di Edgar Allan Poe), e un classico moderno degli anni Ottanta, amato da tutti i cinefili, I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway.

IL LIDO? UN LUOGO DELL’IMMAGINAZIONE. DAL 1932 AL 2022 IL MEGLIO DEL CINEMA SI DÀ APPUNTAMENTO SULL’ISOLA

Non dimentichiamo, poi, i film della Settimana della Critica, una selezione a parte che pesca fra gli esordienti. Ma anche la rassegna parallela delle Giornate degli Autori, dove troveremo registi come Mark Cousins (Marcia su Roma) e Sébastien Lifshitz (Casa Susanna), il Padre Pio di Abel Ferrara e Bentu di Salvatore Mereu, con una chiusura riservata a Steve Buscemi in versione regista (Mosche da bar è un nostro film del cuore): The Listener racconta l’operatrice di un “telefono amico” che aiuta persone ai margini e in difficoltà.

Tra i film più attesi c’è l’immaginifico Bardo di Iñárritu In alto, Ana de Armas nei panni di Marilyn Monroe Nella pagina a fronte, Penelope Cruz in L’immensità

L’abbondanza non manca mai, a Venezia, per la disperazione (si fa per dire) degli appassionati, costretti a correre da una sala all’altra e a fare scelte drastiche. Di sicuro, qui, come a Cannes, convivono felicemente i cacciatori di autografi, che si appostano intorno al tappeto rosso o all’Hotel Excelsior, per va al Lido per vedere Timothée Chalamet in versione “vagabondo innamorato” (e horror) o Ana De Armas che interpreta Marilyn, in

CI SONO (QUASI) TUTTI I FILM PIÙ ATTESI. CINQUE LE OPERE ITALIANE IN CONCORSO

stavolta si accontenta di 180 minuti). Di errori se ne fanno sempre, ma da anni la Mostra del cinema di Venezia, sotto la guida di Alberto Barbera, ha ritrovato prestigio e autorevolezza, ha riportato al Lido gli americani, ha indovinato una serie di film poi celebrati dagli

vedere le star, e i cinefili sfegatati, quelli che passano le giornate in sala (dalle 8.30 di mattina alle 2 di notte) a caccia dei film più rigorosi, estremi, di genere o autoriali, che magari non usciranno mai nelle sale. Ma arriviamo al dunque, i film selezionati. Perché poi la gente un film destinato a far discutere (se ne discute da mesi). Ma anche per ritrovare Walter Hill (un western!), godersi la prima escursione nella fiction del grande documentarista Frederick Wiseman, o immergersi nel bianco e nero, solitamente strepitoso, di Lav Diaz (celebre per i film fluviali, il regista filippino Oscar, ha segnalato un discreto numero di nuovi autori interessanti, ha aperto la strada allo streaming (sala virtuale), le serie tv, il dialogo con le piattaforme. Senza mai dimenticare che qui, comunque, si parla di “arte cinematografica”. Partiamo dall’industria (di qualità), gli autori che hanno anche un

pubblico, il cinema che dovrebbe segnare la prossima stagione cinematografica. Cominciando dal film d’apertura, White Noise di Noah Baumbach, che porta sullo schermo Don DeLillo (una proposta targata Netflix): conflitti famigliari, ossessioni, amenità e brandelli di felicità. Darren Aronofsky è capace di vette e abissi memorabili, dal brutto The Fountain all’ottimo The Wrestler: c’è tanta curiosità per il suo The Whale, con Brendan Fraser nei panni di un professore obeso e Sadie Sink (la Max di Stranger Things) in quelli della figlia adolescente con cui vuole riallacciare i rapporti. Tra i paladini dello spettatore contemporaneo in cerca di qualità, c’è Martin McDonagh (quello di Tre manifesti ad Ebbing, Missouri): The Banshees of Inischerin, ambientato in Irlanda, è uno strano film che racconta un’amicizia finita destinata a degenerare in faida, con Colin Farrell e Brendan Gleeson. Ma il più atteso in assoluto - e quello per cui spettatori e critici si accapiglieranno di più - è Blonde di Andrew Dominique. Anche perché all’origine del film c’è un libro (peraltro assai bello) di Joyces Carol Oates, che si prende molte libertà riguardo la biografia dell’indimenticabile Marilyn Monroe, soprattutto sulla sua morte. In effetti tutto gira intorno alla contrapposizione tra persona e personaggio, concentrandosi sui pensieri più intimi e le emozioni più oscure di Norma Jeane Mortenson. Tra i più importanti mettiamo anche Bardo di Alejandro González Iñárritu, che a quanto pare si è preso la libertà di realizzare un film personalissimo e fuori da ogni canone (ci lavorava da 5 anni e ne ha parlato a Barbera come di un lavoro che “gli ha cambiato la vita”). E poi Tár di Todd Field sulla prima direttrice d’orchestra donna in Germania (Cate Blanchett!), il thriller psicologico Fuori Concorso di Olivia Wilde, Don’t Worry Darling, The Eternal Daughter di Joanna Hogg (madre e figlia chiuse in un hotel, con Tilda Swinton!) e The Son di Florian Zeller, se non altro perché The Father è piaciuto molto (e ha vinto un Oscar) e i protagonisti sono Hugh Jackman e Laura Dern. Cose che aspettiamo con il cuore in mano? Ad esempio Master Gardener di Paul Schrader, a cui verrà consegnato un meritato Leone d’Oro alla carriera. Ma anche A couple del 92enne Frederick Wiseman, che si è trovato bloccato in Francia per colpa del Covid e ha deciso di girare un film basato sullo scambio epistolario tra Lev Tolstoj e la moglie. Un pensiero speciale va riservato a Jafar Panahi, visto che il regista iraniano è di nuovo alle prese con il regime che governa il suo Paese, e ora si trova in carcere: No Bears è l’ultimo film che è riuscito a girare in clandestinità. Citazione d’obbligo anche per Call of God di Kim Ki-duk, film postumo del grande regista coreano, morto a causa del Covid.

Ancora una volta, a Venezia, trovano spazio due serie tv (d’autore): Copenaghen Cowboy di Refn eThe Kingdom Exodus di von Trier (nella foto). In basso, The Banshees of Inischerin Nella pagina a fianco, Bones and All

(foto The Walt Disney Studios)

(foto Emanuela Scarpa)

Lav Diaz, che a Venezia ha anche vinto un Leone d’Oro con The Woman Who Left, va messo per principio tra gli imperdibili (sempre che siate dei cinefili di stretta osservanza): When the Waves Are Gone racconta i tormenti di un tenente della polizia filippina, negli anni della guerra alla droga dichiarata dal presidente Rodrigo Duterte, che semina morti e atrocità. Infine, come dimenticare Walter Hill? Stiamo pur sempre parlando del regista de I guerrieri della notte, Strade di fuoco, Wild Bill. Qui di nuovo alle prese con cavalli, speroni, cacciatori di taglie, giocatori d’azzardo, e un cast che unisce Christoph Waltz, Rachel Brosnanhan e Willem Dafoe.

L’apertura del festival è riservata a un film corale di Noel Baumbach: White Noise In alto, un’immagine di Chiara, firmato Susanna Nicchiarelli, che sarà in Concorso Incuriosisce la presenza in Concorso di cinque film italiani, e di altre opere nostrane disseminate qua e là. Il film di cui tutto parlano è Bones and All. Primo perché il talento visivo di Luca Guadagnino è ineguagliabile (lo ha dimostrato anche in Suspiria) e poi perché il protagonista è Timothée Chalamet (rivelato al mondo grazie a Chiamami col tuo nome), uno dei divi più attesi al Lido, qui impegnato in un coming of age orrorifico, insieme a Taylor Russell, Mark Rylance, Chloe Sevigny. Paolo Virzì in Siccità (Fuori Concorso) si immagina una crisi idrica apocalittica, non così lontana dalla realtà, mettendo insieme Claudia Pandolfi, Silvio Orlando, Valerio Mastandrea e Monica Bellucci. Andrea Pallaoro in America ha girato Monica, in cui protagonista è l’attrice trans Trace Lysette, mentre Chiara è la nuova opera cine-biografica di Susanna Nicchiarelli, l’autrice di Nico e Miss Marx, che stavolta ha voluto dedicare un film alla santa che affiancò Francesco nella sua missione (molto meno conosciuta e celebrata di lui). «La vita di Chiara - ha spiegato la Nicchiarelli - ci restituisce l’energia del rinnovamento, l’entusiasmo contagioso della gioventù, ma anche la drammaticità che qualunque rivoluzione degna di questo nome porta con sé». E poi c’è L’immensità di Emanuele Crialese, che finalmente torna al cinema, undici anni dopo Terraferma. Una storia autobiografica, ambientata nella Roma degli anni Settanta, con Penelope Cruz. Amore e vendetta sono invece i temi del “western contemporaneo” di

Pippo Mezzapesa, che racconta una faida criminale nel Gargano, con l’atteso esordio della cantante Elodie. Ti mangio il cuore sarà in Orizzonti, così come Princess di Roberto De Paolis, mentre The Hanging Sun di Francesco Carrozzini chiuderà il festival. Il film italiano che aspettiamo di più? Il signore delle formiche di Gianni Amelio (in Concorso), a cui infatti dedichiamo una lunga intervista su questo numero. Infine, un cenno ai documentari fuori gara. I nomi sono importanti e suggestivi. C’è Sergei Loznitsa con The Kiev Trial e Oliver Stone con Nuclear (conoscendo il regista, il suo pensiero e l’abitudine alla provocazione, si prevedono grandi discussioni). Ma anche il film che Gianfranco Rosi ha girato seguendo il Papa in giro per il mondo (In viaggio), Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, e The Matchmaker in cui Benedetta Argentieri incontra Tooba Gondal, una jihadista britannica. Ma un festival si misura anche sulle sorprese, le scoperte, gli esordienti di talento segnalati al pubblico e al mercato mondiale: ce ne saranno?

PERLE PER CINEFILI? LAV DIAZ, WISEMAN, L’OMAGGIO A SCHRADER, UN KIM KI-DUK POSTUMO E IL RITORNO DI WALTER HILL

Poi c’è il colore, l’entusiasmo dei fan, le feste, l’anima di un festival che rende ancora possibile l’incontro casuale con l’autore o l’attrice. Covid permettendo, visto che rimangono tutte le precauzioni, così come la prenotazione online del posto in sala. Dal 31 agosto al 10 settembre a parlare saranno i film. Barbera, nella presentazione della mostra, ha citato Gian Piero Brunetta, autore del libro “La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932-2022” (Edizioni La Biennale e Marsilio): sembra che «il cinema voglia ancora cercare di confrontarsi col pensiero, con grandi temi e grandi interrogativi, e con le relazioni profonde che legano gli individui tra loro, la forza dei sentimenti e della memoria e la capacità di spingere lo sguardo anche oltre l’orizzonte del presente». D’altra parte a un festival si chiede di scegliere e proporre il meglio (che è sempre soggettivo, ma non deve essere arbitrario) e la selezione di quest’anno promette di non essere «ecumenica e tranquillizzante». Ritorno al cinema? Chiudiamo con la citazione di Wim Wenders, che il direttore ha utilizzato in apertura: «Mi chiedo se il senso del viaggio non sia in fondo più nel tornare, dopo aver preso le distanze per vedere meglio, o semplicemente per poter vedere».

Don’t Worry Darling è il nuovo film di Olivia Wilde con Harry Styles e Florence Pugh: un inquietante thriller psicologico ambientano negli anni ‘50

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