Dai ricordi alla realtà: Antonio Mozina • di Sandro Vrancich
A quel tempo il coro aveva dodici tenori
Ci siamo incontrati il primo settembre al caffè bar-pasticceria della Kraš in Corso, proprio il giorno del suo compleanno. "Pensi – mi dice Antonio Mozina – proprio oggi compio 85 anni, tondi, tondi e ho ancora sempre tanta voglia di cantare." Ma io ho sentito dire che lei canta e prova pure a casa, e spesso, con Achille, Oliver e Attila...si tratta forse di un nuovo quartetto? "Ahahah! E come l’ha saputo? Certo, cantiamo assieme, arie di tante opere, anche se devo dire che questo quartetto non è proprio nuovo. Achille, Oliver e Attila sono i miei canarini, la mia grande passione. Ora che ci penso, dovrei procurarmene anche uno rosso, devo chiederlo a un altro fiumano, Piero Načinović, che è uno specialista e un grande allevatore." Dal canto dei canarini passiamo ai suoi primi passi. Come nasce la sua passione per la musica e in primo luogo per il canto? "Mah, io veramente ho amato
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sempre la musica, cantavo dappertutto, anche quando lavoravo al tornio alla Torpedo, e poi alla Voplin, camminando per la strada... Le racconto un aneddoto. Un giorno, ai tempi in cui ero giovane, passando per il Corso, mi fermò Zvonko (il più noto strillone cittadino del dopoguerra, n.d.r.) e mi chiese di cantargli qualcosa. Beh, non lo crederà: l’ho fatto e lui dopo aver ascoltato "O sole mio", "Torna a Surriento", e un altro motivo ancora, si è messo a piangere. Sono rimasto di stucco e gli ho chiesto: ‘... ma Zvonko, perché queste lacrime?’ E lui: ‘Solo Beniamino Gigli è riuscito ad emozionarmi come te ora.’ Più tardi negli anni, Zvonko diventerà mio suocero. Ah, le racconto anche questa: sul campo di calcio a Cantrida venne organizzata una partita tra scapoli e sposati, non mi ricordo com’era andata a finire, ma questo non c’entra. E, come sempre succedeva, finita la partita, si andava tutti in osteria a far la magnada e, ovviamente la cantada. Il "vecchio" Squarcia notò la mia bravura e mi invogliò anche lui a studiare canto. Così, iniziai con la maestra Carmen Vidović e frequentai anche la scuola di musica, senza finirla però. Infatti mi piaceva molto cantare, ma non studiare il solfeggio, quello mai. Studiai canto per otto anni, e in questo fui spronato anche dal maestro Vlassich, che a quei tempi era alla testa di una mandolinistica che era formata da ben 38 elementi." Ma come avvenne che entrò a far parte della Fratellanza?
"Ricordo che era il 1949 e sulla Voce lessi un annuncio...cercavano cantanti per il coro della Fratellanza. Allora convinsi i miei amici Lalli e Luciano a iscriversi assieme a me. Facemmo tutti e tre un provino e….fata la xe. Una delle mie prime esibizioni quale componente del coro maschile avvenne ad un funerale al cimitero di Cosala, e, dopo aver seppellito il povero defunto, andammo tutti alla trattoria Le Rose, dove ci aspettava una tavola imbandita e soprattutto fornita di prosciutto a volontà. Mama mia che magnada de persuto. In quei ani, solo col canocial potevimo vederlo. Mi ricordo anche che quella volta bevvi anche un bicchiere di vino, io che tutta la vita sono andato avanti con caffè e latte. A quei tempi comunque, il coro era davvero imponente. Era composto infatti da una quarantina di elementi, dodici primi tenori, e cantanti grandiosi come Marino Sfiligoj, da sempre mio idolo, e poi Kriso, Squarcia, Bontempo e tanti, tanti altri, tutti bravissimi." Però, poco dopo un decennio dopo, nel 1960 lascia sia la "Fratellanza" che il Teatro "Ivan de Zajc", dove aveva iniziato pure a cantare nel coro... "Sì, era il 18 aprile, faceva un freddo terribile per quel periodo dell’anno e pioveva. A Fiume arrivò il Teatro di Sarajevo guidato dal grande maestro Mladen Pozaijć per presentare al pubblico fiumano l’opera "Il Trovatore". Siccome avevo un’alta opinione del dirigente, lo pregai di ascoltar-