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Attestato il riavvicinamento Quella tintura di iodio salvò
from LA TORE 27
by Foxstudio
Primo fra gli Esuli, Amleto Ballarini ha ottenuto la Targa d’oro della Città di Fiume
attestato il riavvicinamento
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Dott. Ballarini, per San Vito, primo fra gli esuli, Le è stata consegnata La Targa d’oro "Stemma della Città di Fiume". Che cosa ha significato per Lei?
Un momento di intensa, indicibile commozione personale e al tempo stesso la consapevolezza di un riconoscimento, da parte croata, di alto valore storico nei confronti di un progetto culturale che possiamo definire dall’esilio al ritorno, cui, insieme a tanti collaboratori, ho dedicato tutta la vita.
Lei è nato a Fiume nel 1933, quali sono le radici della Sua famiglia e quali i ricordi d’allora?
Le radici della mia famiglia sono nell’amore grande per Fiume e per l’Italia. Nel mio studio c’è un diploma conferito al mio bisnonno, il fiumano Ubaldo Ballarini, per la partecipazione alla campagna garibaldina del 1867. Tuttora a Cosala la sua memoria è onorata fra le cinque tombe dei garibaldini fiumani. Suo figlio Vittorio, mio nonno, fu internato nella I g.m. nel campo ungherese di Tapiosuly; insieme a circa ottocento fiumani di sentimenti fortemente italiani che patirono inaudite sofferenze, 149 lasciarono la vita. Fu luogo di tormenti per nonno Vittorio e la famiglia, con mio padre bambino e i fratellini, fra cui il piccolo Vittorio, di tre anni, che in quelle sofferenze morì. Non solo. Nell’elenco dei legionari fiumani al Vittoriale sono citati i nomi di Vittorio Ballarini, di cui si è già detto, e del mio nonno materno Marsiliani Valzania, secondo marito di mia nonna Maria. Dunque lunga tradizione di nobili valori. Per quanto riguarda i miei ricordi, c’è nel mio cuore un mondo di giochi, di sole, azzurro, mare, preghiere e canti con i Salesiani e recite festose al teatro del collegio.
In quali circostanze la famiglia lasciò la città?
L’esodo per me è un ricordo di doloroso terrore. Solo, bambino, nell’angolo più buio di un carro bestiame e i militi con la stella rossa che a tratti aprivano uno squarcio di luce prelevando con violenza qualcuno che non tornava più e io che mi rendevo sempre più piccolo, nell’innocente speranza di diventare quasi invisibile…
Al 3 maggio 1945 mio padre, tecnico del Silurificio Whitehead, era a Fiume Veneto, mia madre occasionalmente con lui per concertare il futuro. Non potevano rientrare. Io ero a Fiume con la nonna materna, alunno del collegio salesiano. In città terrore e morte. Il permesso d’uscita da lei chiesto fu concesso solo a me: la divisione delle famiglie era crudeltà ricorrente. Ma la nonna forte, intrepida, mi affidò coraggiosamente alla buona sorte e a un carro bestiame.
A Trieste, terrorizzato e libero, l’abbraccio protettivo dei genitori. Il futuro, un campo profughi. Tutta la parentela andrà in esilio.
Quando cominciò a interessarsi del mondo degli esuli?
Il mondo degli esuli fu il mio territorio. Completati gli studi liceali, vivendo in condizione miseranda in un vano di quattro metri per quattro, delimitato da coperte appese a un filo, con l’umiliante privazione delle più elementari esigenze di intimità personale e famigliare, sino al primo anno di università, la prima, dignitosa casa fu nel quartiere giuliano-dalmata di Sturla. Scelsi la tesi di laurea in Scienze Politiche nell’ambito del diritto internazionale sul trattato di Osimo, che mi indusse ad approfondire molti aspetti della storia di Fiume. A poesia e narrativa affidai la dolente nostalgia dell’esule.
Se Genova fu il tempo degli studi, del lavoro, di un matrimonio felice allietato da due figli, determinante fu il trasferimento a dirigere un’azienda di Roma. L’incontro con il Museo Fiumano fu incontro per la vita. Conoscere i nobili sacerdoti e custodi della storia di Fiume, Prischich, Gustincich, Petrich, Ricotti, Vosilla lasciò in me un’impronta indelebile. Quell’austero Museo nel Quartiere Giuliano Dalmata che accolse oltre 2.000 esuli, parlava e profumava di Fiume. L’indistruttibile amore per la città natale, doloroso leitmotive della mia esistenza, la mia passione per la storia, la mia competenza in materia trovarono, nel ricchissimo materiale documentale della Società di Studi Fiumani, la linfa cui attingere.
In Italia, allora, l’argomento era tabù, l’Olocausta sconosciuta. Era doveroso portare degnamente avanti quell’operazione culturale straordinaria che i nostri nobili padri, protagonisti della storia di Fiume, i Depoli, Burich, Chiopris, Proda, Radetti, Samani, avevano realizzato, ricreando quella Società di Studi Fiumani, nata a Fiume nel
1923 e affidando alla rinata rivista "Fiume", presente e attiva ancora oggi, il compito di riportare alla luce, nella sua integrità la storia della città, che un mondo ostile, per cinica strumentalizzazione politica, voleva congelare nella foiba più profonda dell’oblio. In quel nobile sodalizio il mio impegno fu attivo e totalizzante, insieme a molto validi collaboratori come Marino Micich, Gianni Stelli, Danilo Massagrande, Emiliano Loria e tanti altri. Venne poi la nomina a presidente della Società di Studi Fiumani, Direttore responsabile della Rivista Fiume.
Come avvennero i primi contatti con i rimasti?
Con la caduta del muro di Berlino, e il crollo della politica dei blocchi, pensammo che si potesse inaugurare un tempo nuovo di rapporti civili in quella Rijeka croata che era stata la nostra Fiume italiana. Primi nel mondo dell’esodo, fummo criticati, ma poi quasi tutti seguirono il nostro esempio. Molte le cose che volevamo dire; innanzi tutto aprire un dialogo di conciliazione con la Comunità degli Italiani di Fiume, nella consapevolezza che esuli e rimasti, anche se attraverso scelte vitali contrapposte, erano ugualmente protagonisti di un’eroica difesa di quella identità italiana che aveva caratterizzato tanti secoli della storia di Fiume.
Ezio Mestrovich, direttore dell’Edit e de "La Voce del Popolo", Corrado Illiasich, già preside della Scuola superiore di Fiume, furono tra i primi cui avanzavo proposte di collaborazione alla rivista Fiume e ad altri progetti culturali. C’era in tutti il bisogno di far rivivere l’interculturalità fiumana, elemento pregnante della storia della città, ferocemente violentata dal regime titino. Mestrovich, uomo di profonda onestà intellettuale, organizzava nel 1996 il convegno internazionale "Fiume, itinerari culturali" con interventi della nostra società di studi, del mondo croato e dei rappresentanti più eminenti della Comunità fiumana della permanenza che ancora oggi collaborano alle nostre iniziative, sostenuti dalla passione e l’entusiasmo dell’odierna presidente Orietta Marot. Ricordo lontano ma indimenticabile, nel ripristinato culto di San Vito, il 15 giugno 1991, dopo molti anni di cupo silenzio nel regime comunista, la messa celebrata in duomo e il commosso discorso in italiano di conciliazione e amicizia di Oscar Fabietti, sindaco del Libero Comune di Fiume in esilio. Non dobbiamo dimenticare che durante le ultime guerre nell’ex Jugoslavia Fabietti inviò a Fiume consistenti aiuti materiali.
Come fu accolto dalle autorità municipali?
Ci presentammo ad esse con dignità e il coraggio della verità. Fummo accolti con grande rispetto. C’era in tutti un forte desiderio di futuro europeo. I sindaci Lužavec, Linić e Obersnel sono stati nostri interlocutori attenti e interessati. Il prof. Dubrović, direttore del museo cittadino, già relatore nel convegno del ’96, continuò ad avere contatti con noi sino ai giorni nostri. Il prof. Grubiša, sino al ruolo di ambasciatore di Croazia in Roma, ci seguì con interesse. Debbo ricordare anche il prof. Darinko Munić per l’attenta collaborazione al Convegno internazionale "Fiume nel secolo dei grandi mutamenti". Fecero seguito altri convegni, il Manifesto Culturale fiumano, la collaborazione con l’Istituto Croato per la Storia di Zagabria, gli incontri annuali con le scuole di Fiume e col Sindaco della città per San Vito. Sono tutti frutti preziosi del nostro ritorno culturale.
L’opera Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-47) con l’Istituto per la Storia di Zagabria ha segnato un progresso nell’approccio al delicato tema?
Al Sindaco Linić cui, dopo alcune vive polemiche, improntate però a grande correttezza, mi legò una sincera amicizia, dissi: "È il ritorno della nostra storia taciuta che noi vogliamo nelle sedi e nei luoghi opportuni. La memoria della nostra Fiume italiana abbia sul piano storico, diritto di cittadinanza nella Rijeka del presente". Questo, del resto, è il tema dominante del Manifesto Culturale Fiumano del 1998 di cui sono stato ideatore e promotore. Sottoscritto dal Sindaco Slavko Linić e personalità come Leo Valiani, Claudio Magris, Luciano Violante, Miklos Vasarhely, Riccardo Zanella junior, Ervin Dubrović, Elvio Baccarini, Ezio e Irene Mestrovich, Elvia Fabijanić, Melita Sciucca e tanti altri in Italia e in Croazia. Il manifesto indica con estrema chiarezza la nostra progettualità. Le parole al sindaco Linić non sono cadute nel vuoto. Successivamente collaborando strettamente con l’Istituto Croato per la Storia di Zagabria diretto dal dottor Mirko Valentić, è uscita dalle stampe nel 2002 l’opera l’opera bilingue, unica nel suo genere, per questa iniziativa di grande onestà intellettuale, "Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni 1939 -1947") Curata dal sottoscritto e dal prof. Mihael Sobolevski, edita dal Ministero Italiano per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per gli Archivi, è presente nelle università italiane e in alcune europee. Ebbe il patrocinio dei Presidenti Oscar Luigi Scalfaro e Franjo Tudjman. Un’opera colossale, supportata da gruppi di ricercatori, istituzioni storiche militari e archivistiche, consolati, ambasciate e ministeri italiani. Nell’introduzione ci sono tre pagine fitte di nomi che elencano tutte le collaborazioni. È stato un impegno lungo e penoso, potei consultare tra gli altri l’Archivio Storico dell’Armata Jugoslava di Belgrado, l’Archivio della Corte Suprema di Belgrado, l’Archivio Centrale dello Stato di Belgrado, in ogni pagina la morte aveva lasciato la sua firma.
La Società di studi fiumani è
impegnata da anni per la riesumazione del gruppo di italiani, in testa il senatore Riccardo Gigante, uccisi nel centro di Castua e quindi sepolti nel discosto bosco della Loza. Seppur iniziata, l’opera si è poi fermata. Per quali motivi? Che cosa si farà in futuro?
Nella parte conclusiva del profilo storico da me steso nell’opera di cui abbiamo parlato, affermavo di aver individuato una fossa comune nei pressi di Castua, nel bosco della Loza, che ci risultava contenere i miseri resti delle vittime di un eccidio perpetrato da partigiani jugoslavi titini a guerra finita, il 4 maggio 1945. Tra le vittime accertate il senatore Riccardo Gigante, il giornalista Nicola Marzucco, il maresciallo della Guardia di Finanza Vito Butti e, con molta probabilità, anche il vice brigadiere dei carabinieri Alberto Diana. L’unico riesumato e sepolto altrove Vito Butti, per l’intercessione della cognata, partigiana in attività.
Una fittissima corrispondenza agli atti, mia personale con le autorità competenti, corroborata da solide prove documentali, raccolte sia in Croazia che in Italia, corrispondenza regolare, incessante e quasi pressante, in attesa che si desse attuazione all’accordo italo-croato sulla necessità di far luce su tutte le fosse comuni, per riesumare i resti e dar loro cristiana sepoltura, purtroppo non ha prodotto risultati concreti. Non sono mancate verifiche dirette e sopralluoghi da parte di Onorcaduti e delle autorità croate, ma tutto è stato inutile. Le mie personali ricerche in loco, insieme all’amico Mario Stalzer, ormai molto lontane negli anni, quando erano possibili condizioni di pericolo personali, mi condussero ad incontrare un sacerdote croato, don Franjo Jurcević, dotato di vero spirito cristiano che, nel fallimento delle iniziative ufficiali, dal 4 maggio 1999, ogni anno, in quella triste ricorrenza, celebra una messa in suffragio delle povere vittime, come atto di fede e di civile protesta, alla presenza nostra, dei dirigenti della Comunità italiana e delle nostre autorità consolari.
Quest’anno poi, una comunicazione del Ministro della Difesa Pinotti ad una nostra rinnovata richiesta di aggiornamento è stata più deludente del solito; di contro, l’interessamento del sen. Aldo Di Biagio, sempre vicino alle nostre tematiche e la sua forte sollecitazione verso il Ministro Pinotti, ha rinnovato le nostre indebolite speranze. Recentemente don Jurčević in un coraggioso articolo su "La Tore" dell’anno scorso ha denunciato il suo profondo sdegno per tanta intollerabile indifferenza.
I premi alle scuole italiane di Fiume arricchiscono da anni il contatto con la tradizione fiumana. Quale è il bilancio che si può fare?
Una delle prime iniziative del dialogo fu la licenza accordataci dal Provveditorato agli studi della Contea e dall’Assessorato alla Cultura di Rijeka, per l’istituzione di concorsi a premi per gli studenti delle scuole italiane della città. Questi rapporti hanno prodotto risultati ampiamente positivi. Era inevitabile: la scuola italiana di Fiume è come uno scrigno prezioso che ha difeso tenacemente, pur nel pieno rispetto della nuova realtà statale, i secolari, preziosi elementi della lingua e della cultura italiana. Per questo il nostro grazie più sentito va a presidi, docenti, famiglie e alunni. Alunni che, crescendo negli anni, in alcuni casi, hanno collaborato con la nostra Società, come il giovane William Klinger, divenuto ricercatore storico di fama internazionale, purtroppo vittima di un tragico destino. Ricca e costruttiva è la partecipazione ai nostri progetti della prof. Ingrid Sever, rinnovata con lo stesso spirito di amicizia, nell’avvicendarsi della presidenza, dal prof. Michele Scalembra. Con la recente Facoltà di italianistica a Fiume si sono aperti ampi spazi di collaborazione.
Fiume-Rijeka capitale della cultura europea nel 2020 potrà essere un’opportunità anche per la
cultura italiana della città?
Certamente. La cultura italiana, ammirata in tutto il mondo, è stata per secoli elemento pregnante della città. La vocazione europea della nuova Croazia democratica, che ben si concilia con i temi del nostro manifesto, indica un cammino che solo uomini di nobili valori possono percorrere. Proprio in questi giorni il prof. Ervin Dubrović, sostenuto dall’Ambasciata croata di Roma, nella persona di Damir Grubiša ha portato in un aula del Senato della Repubblica Italiana la mostra di Francesco Drenig a cui la Società di Studi Fiumani ha collaborato con invio di importanti documenti. Figlio di padre sloveno e madre croata, nato a Fiume, maturando una fortissima identità italiana, fu nella Giovine Fiume irredentista di ispirazione mazziniana e per questo internato nel campo ungherese di Kiskunhalas. Membro del Consiglio Nazionale Italiano del 30 ottobre 1918, promotore dell’azione dannunziana, respingendo il regime totalitario titino, dopo il 1945, fu esule in Italia. Anima d’artista, amò e tradusse la lirica croata, fu critico d’arte, traduttore, fondatore di riviste fiumane aperte alla Mitteleuropa e ai Balcani, eccellente fotografo d’arte, ponte, anche sotto il regime fascista a Fiume, fra le culture slave e l’Italia. Basterebbe l’incredibile intreccio di questi elementi per attribuire meritatamente a Fiume il nobile titolo di capitale della cultura europea.
D’altronde non fu proprio Giuseppe Mazzini, creatore della "Giovine Italia", ispiratore della Giovine Fiume, ad auspicare, come futuro obiettivo di civiltà la "Giovine Europa"?