Dove si parla di siccità e sete d’amore, di Omero, Platone e la paura della morte, di musica che nasce libera nella prigione della quarantena, di campionesse del nuoto e dive del cinema, di ascolto profondo dell’altro, che siamo noi
Manuel Agnelli Penélope Cruz Ana de Armas Elodie Matteo Nucci Margherita Panziera Grazia Roncaglia Paolo Virzì
N 2 | OTTOBRE 2022
REDness
è passione, arte, impresa, comunicazione.
È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.
Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare.
La redness è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina. È l'entusiasmo, la motivazione, il senso, il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.
REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità...
Va bene tutto, purché sia fatto con redness.
In copertina: Manuel Agnelli fotografato da Hugo Weber (servizio a pag. 6)
Direttore: Fabrizio Tassi
Progetto grafico: Marta Carraro
Redazione: MondoRed Redness è un mensile edito da MondoRed, via Cattaneo 16, Gallarate (VA) Contatti: info@redness.it, direttore@redness.it Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore
EDITORIALE
4 Il prossimo tuo
INCONTRI
6 Manuel Agnelli: 35 anni di musica e l’energia di un esordiente
16 Matteo Nucci: uno scrittore antimoderno, tra Platone e Omero
22 Margherita Panziera: nella storia del nuoto col sorriso sulle labbra
28 Paolo Virzì: cinema che osa, tra metafora e “preghiera laica”
52
EVENTI
52 Mostra del cinema di Venezia: tutti pazzi per il tappeto rosso
55 Il meglio e il peggio: persa l’innocenza, cosa rimane?
60 Elodie: la bellezza sfrontata di chi si sente libera
64 Ana de Armas: una performance “medianica” nel nome di Marilyn
68 Penélope Cruz: radiosa, empatica, ancora una volta madre
72
STORIE DI VITA
E D’IMPRESA
72 Ivan Trimarchi: un medico rinascimentale, tra arte e scienza
IDEE
36 Grazia Roncaglia: il segreto di una vera comunità? Una mente felice!
78 TM, da corrieri a imprenditori: mestiere, merito e semplicità
LUOGHI
44 Biennale Arte: ritorno alla terra, nel labirinto dei sogni
COMMIATO
82 Lo zen e l’arte di salvare il Pianeta
3OTTOBRE 2022 4
6
36
44
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S OMMARIO
Il prossimo tuo
mata comunità”. Martin Luther King la chiamava così. La comunità che include anche i nostri “nemici”, quelli che hanno aspirazioni diverse dalle nostre, che vivono e pensano in tutt’altro modo, che forse ci odiano, perfino. Un luogo ideale in cui c’è posto per tutti, nessuno escluso, e proprio per que sto tutti sanno di dover dare il proprio contributo. C’è qualcosa di più lontano dall’idea, vecchia quanto l’uomo (fallimentare, così dice la storia), e così ampiamente diffusa in questi tempi molto social e poco sociali, che la mia felicità di penda dalla sua fine, la mia vittoria dalla sua sconfitta, il mio successo dal suo fallimento? Nel “suo” metteteci chi volete, il vicino, il politico, l’ex-marito, lo straniero che non si integra, il padrone sfruttatore, il popolo da annientare... Ci sono i “buoni” e ci sono i “cattivi”, senza ombra di dubbio, ci sono delle rego
“A
le di convivenza che dovrebbero assicurare giustizia ed equità, ma è difficile fare dei passi avanti se non si esce dalla dinamica vittima-carnefice, dalla logica dell’odio e della vendetta, da un pessimismo antropologico che spesso è una comoda scusa, più che una realtà fatale.
Christiana Figueres, diplomatica costaricana, che tanto si è spesa per il raggiungimento di un accordo mondiale sul clima (Parigi 2015 porta la sua firma), ricorda che la parte più difficile del suo lavoro era esercitare un ascolto profondo e sincero di tutte le opi nioni, anche le più lontane dalla sua (nel nome del suo maestro Thich Nhat Hanh). Le opinioni sono destinate a cambiare, non abbiamo alternative alla ricerca di un vero dialogo, in cui entrambe le parti sono disposte a riconsiderare ciò in cui credono, per prova re a vivere in un mondo in cui “vincono tutti”.
4OTTOBRE 2022
E DITORIALE
Christiana Figueres ricorda conversazioni interessanti anche con i fratelli Koch - magnati dei combustibili fossili, strenui oppositori di una legislazione contro il cambiamento climatico - senza mai di menticare che «anche loro sono su questo pianeta e ne fanno parte», nonostante le loro azioni la facessero arrabbiare. Il reverendo King suggeriva di «amare l’individuo che compie l’azione malvagia e in sieme odiare l’azione che quella persona compie». «Il punto non è il potere che si ha “su” qualcosa, ma il potere che occorre “per” fare qualcosa», dice Christiana Figueres: «È un’opportunità sacra quella che tutti noi stiamo avendo in que sto momento: essere vivi e adulti nel momento in cui la storia e l’umanità stanno attraversando una fase di cambiamento tanto straordinaria».
Queste cose le trovate scritte in un libro che si intitola Lo zen e l’ar te di salvare il Pianeta (pubblicato da Garzanti, ne parliamo nelle ultime pagine della rivista), in cui Thich Nhat Hanh ci ricorda, tra le altre cose, che ogni pensiero generato, ogni parola pronunciata, ogni nostra azione «determina un cambiamento nel nostro corpo, nella nostra mente e nell’ambiente». Crea letteralmente il mondo dentro e intorno a noi. «L’ambiente in cui ci troviamo siamo noi, è il risultato della nostra azione». Il Pianeta, così com’è oggi, è la nostra “ricompensa”. E lo sono anche le nostre relazioni. La siccità di cui parla il film corale di Paolo Virzì è qualcosa che
va al di là dell’emergenza ambientale o sanitaria, riguarda il nostro modo di rapportarci agli altri. Quei rapporti che sono al centro dell’educazione “risvegliata” - non per niente fondata sull’ascolto e la consapevolezza - che Grazia Roncaglia offre ai suoi ragazzi e propone a insegnanti, educatori, genitori.
Se la Biennale Arte evoca un “re-incantesimo del mondo”, un nuo vo rapporto con la terra e il non-umano, la Mostra del cinema di Venezia racconta la perdita dell’innocenza e il bisogno di cercare una nuova narrazione del mondo. Magari andando oltre il presun to progresso di cui ci vantiamo tanto, questi tempi rabbiosi fonda ti sulla semplificazione, il facilismo, la banalizzazione, di cui parla Matteo Nucci (che ci riporta a Platone, a Omero, al coraggio di pensare la morte, in un’intervista ricca di spunti).
Continuiamo a cercare la redness ovunque, anche nelle parole e nel sorriso di un’atleta come Margherita Panziera, da cui ci facciamo raccontare i dubbi, i sacrifici, l’impegno totale che stanno dietro una medaglia d’oro.
E l’apertura la dedichiamo a Manuel Agnelli, che in pieno lock down si è messo a fare musica in totale libertà, come quando era ragazzo: il risultato è un disco molto bello, che probabilmente ascolteremo per anni. Guarda caso si intitola Ama il prossimo tuo come te stesso. Che, lo ricordiamo, continua ad essere una proposta rivoluzionaria. (f.t.)
5OTTOBRE 2022
di Fabrizio Tassi (Foto di Hugo Weber)
Manuel Agnelli Un disco (bellissimo) nato durante il lockdown, “suonando a caso” 35 anni di musica alle spalle e l’energia di un esordiente
I NCONTRI
«Ama il prossimo tuo come te stesso è un titolo critico nei miei confronti. Lo dico a me. Ma già che ci sono lo dico anche a voi»
Il disco è nato qui, in questa mansarda, dentro una bel la casa antica di provincia. C’è un pianoforte, qualche percussione, tre microfoni per registrare. C’è tanta luce che entra dalle finestre. Da una parte un grande di vano, con dei libri sparsi, dall’altra qualche attrezzo da palestra. Un rifugio. Il luogo in cui, durante il lockdown, Manuel Agnelli si è rimesso a suonare come quando era ragazzo, con quella sfacciata libertà, senza programmi, senza pensieri, solo per amore della musica. «Non è un vero studio, ma è tutto in legno e quindi “suo na bene”», dice lui, mentre ci fa strada, rievocando quei giorni. Ce lo immaginiamo alla tastiera, o con la chitar ra in mano, mentre prova un riff o trova una melodia, tra una passeggiata in campagna e l’altra. «Durante la pandemia io ero chiuso qua, in mansarda. E non potendo incontrare nessuno, mi sono messo a suonare a caso. È la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi anni»
precede. Parla di noi, oggi, ma attinge a qualcosa che sta fuori dal tempo.
Il bello è che Manuel Agnelli suona tutti gli strumen ti. Tanto per dire cosa significa questo album per lui, che rimane legato agli Afterhours, ma allo stesso tem po sembra aver trovato una dimensione nuova, una musica che unisce ciò che già sappiamo e qualcosa che scopriamo solo ora. Il che non era affatto scontato, se si pensa alla sua lunga storia creativa (35 anni, ormai) e a quanto c’è di suo negli ultimi decenni di musica italiana, considerando anche il lavoro di produttore e scopritore (dai tempi di Vox Pop, nel lontano 1989, all’invenzione di Tora! Tora!, dal lancio dei Verdena al battesimo dei Maneskin).
Mi sono messo a suonare senza un progetto, solo per il gusto di fare musica, come quando ero un ragazzo. Dopo quattro-cinque pezzi ho capito che stava nascendo qualcosa. Ho pensato: è ora che faccio un disco da solo, a 56 anni
Ci incontriamo il giorno dopo la presentazione ufficiale del disco. Il primo, da solista. Probabil mente uno degli album più attesi dell’anno. Si intitola Ama il prossimo tuo come te stesso e, lo diciamo subito, è un disco davvero bello, potente, sorprenden te, di quelli destinati a risuonare a lungo. Lo avevamo già intuito ascoltando Proci, Signorina mani avanti, La profondità degli abissi, che sono tre gioielli, uno diverso dall’altro. Ma dentro questo album c’è anche molto di più, lo struggimento oltre alla rabbia, la canzone (qui italiana e là brechtiana) e il rumore creativo, la melo dia romantica senza tempo e le distorsioni inquietanti, il punk e l’opera rock. Il disco suona classico e insieme contemporaneo, ma non ha nulla a che fare con “l’attua lità musicale”, anzi, la sua modernità, per certi versi, la
Siamo ad Abbiategrasso, a venti chilometri da Mi lano. Manuel è un milanese doc ed è un cittadino del mondo, che ha viaggiato ovunque e ha vissuto anche a Londra (in un certo senso, degli Afterhours si sono accorti prima all’estero, da New York a Berlino), ma la sua storia è legata anche a questa città di provincia, in cui ha trascorso una parte della sua infanzia e che è stata così importante per la sua famiglia. È anche un bel posto in cui vivere, perfino nel bel mezzo di una pandemia. «Durante il lockdown abbiamo scelto di stare qua. La casa di Milano è bella ma più piccola. Questa è molto grande, ha una corte interna e quando portavamo in giro il cane potevamo andare verso la cam pagna e il Ticino». C’è appena il tempo per un caffè, che prepara lui. Il gior no prima l’ha passato a rispondere alle domande di deci ne di giornalisti, e la voce un po’ ne risente. La sera sarà a Torino all’Italian Tech Week, promossa da Repubblica. Alle spalle ha anche un mese e mezzo di tour, entusia smante e sfiancante. Poi c’è da preparare il suo nuovo programma radiofonico, che va in onda la domenica sera alle 19, su Radio24: Leoni per Agnelli. E dal 3 dicembre partirà il nuovo tour: Bari Napoli Marghera Firenze Milano Roma Nonantola Senigallia. Ma chi lavora con lui dice che Manuel è letteralmente in stancabile e prende molto sul serio ogni singolo evento e appuntamento, senza mai risparmiarsi. Lo fa anche con noi, dedicandoci tutta la sua attenzione, con la consueta sincerità, anche emozionandosi di fronte a certi ricordi e prendendosi in giro, perché non capita spesso di esordire come solista a 56 anni.
8OTTOBRE 2022
C’è stato un punto di partenza? Un’idea, un sentimento, da cui è nato il disco? Oppu re è nato un pezzo alla volta? È nato pezzo dopo pezzo, quasi per caso. Mi sono messo a suonare, ma senza un progetto. Il contrario di ciò che ho fatto negli ultimi anni, in cui suonavo e scrivevo solo quando mi veniva un’idea precisa. C’era sempre una vi sione, oppure qualcosa che mi era successo. Penso ad esem pio alla morte di mio padre, una cosa talmente grande,
la sua mancanza e tutto ciò che c’era intorno, che quell’album (Folfiri o Folfox, ndr) è uscito velocemente. Qui inve ce non avevo un’idea, non avevo una scaletta, non avevo niente. Mi sono messo a fare musica come quando ero un ragazzo, solo per il gusto di farla
Quando ti sei reso conto che stava venendo fuori un disco? Dopo i primi quattro o cinque pezzi.
Agnelli
9OTTOBRE 2022
Manuel
Io di solito trovo un riff e lo lascio lì, poi lo riprendo dopo un po’ e lo sviluppo. È un artigianato che ho imparato negli anni, serve a non farmi conquistare troppo dalle cose che faccio, che magari non sono un granché ma mi rimangono dentro emotivamente. Questa volta, invece, sono andato avanti, e molti dei pezzi li ho chiusi subito, in pochissimo tempo.
Per me, in quel momento, erano solo delle bozze, non sa
pevo cosa farmene, quindi tanto valeva svilupparle. Suc cede che quando, psicologicamente, ti lasci un po’ andare, all’improvviso si aprono delle porte che erano chiuse. I primi quattro-cinque pezzi già mi piacevano, e sono usciti così, con le strofe, i cambi, gli special... Li ho ripresi in mano dopo un po’ di tempo per scrivere qualche frase di testo, per dare almeno una direzione, ma in realtà ho finito per scrivere tutti i testi.
10OTTOBRE 2022
E a quel punto avevi in mano un nuovo album. All’inizio pensavo che poteva essere un disco degli Afterhours. Ho cominciato a scrivere qualche arran giamento, immaginando che il resto lo avrebbero fatto i ragazzi, gli altri musicisti. Intanto buttavo giù della roba con gli strumenti che avevo in casa, pentole, coper chi, mestoli, cartoni, bidoni della spazzatura... Il bidone della spazzatura ha una gran cassa! Mi sono galvaniz zato e sono andato molto avanti. Tanto che ad un certo punto avevo una quindicina di provini, tutti arrangiati. Quando è finito il lockdown, volevo dare i pezzi ai ragazzi, perché ci lavorassero su. Ma quando li ho riascoltati, mi sono detto: mi piacciono così come sono!
Erano tuoi. Sì, suonavano miei, mi rappresentavano, e rappresenta vano molto bene quel periodo, dal punto di vista emotivo. I suoni mi piacevano. E lì ho preso la decisione: è ora che mi faccio un disco da solo, a 56 anni. Mi prendo final mente tutta la responsabilità di un progetto
La cosa affascinante di questo disco è che è comples so, vario, maturo, però ha anche l’energia e la liber tà di un esordiente. Ha quella freschezza. È bello quello che mi dici, perché la freschezza, alla mia età, è un ossimoro.
Quando ascolti un disco non pensi all’età dell’autore. Giusto. Ma non è una cosa programmata. Quando la pro grammi già la ingabbi. Certo, è tutto più facile se hai una macchina oliata che suona da tanto tempo, con i ruoli già de finiti. In quel caso non fai neanche fatica a lavorare e ti godi la parte ludica del suonare. Nello stesso tempo però hai delle gabbie creative. Un chitarrista che ha un suono personale, un batterista che ha un suo stile, nel lungo periodo ti condiziona no. Qua invece non è successo. Il fatto di fare le cose a caso, e il lockdown, mi hanno permesso di prendermi dei tempi che non mi sarei mai potuto permettere prima, e forse neanche adesso. È una cosa che mi piacerebbe mantenere. Scrivere e suonare senza avere una scadenza. Come da ragazzo. La freschezza è venuta fuori così. Dalla noia, anche.
Noi sottovalutiamo il lusso meraviglioso della noia. La noia da ragazzo mi ha permesso di pensare. Anche troppo. Nel lockdown ho ritrovato quel lusso
Però, anche se è nato “per caso”, ascoltandolo, si no tano discorsi sospesi e poi ripresi, da una canzone e l’altra, ci sono delle rime interne, anche nelle emo zioni oltre che nei suoni. Sembra che ci sia un’archi tettura molto precisa. Credo dipenda dal fatto che ho scritto tutti i pezzi in un periodo di tempo compresso. E dal fatto che negli anni ho sviluppato un carattere musicale abbastanza preciso. I pezzi sono molto vari. Tra mille anni mille anni fa e Proci sono musicalmente in antitesi, ma sono tutti e due miei e credo che si senta quando li ascolti. Poi, quando ho deciso di realizzare l’album, fare la scaletta, mixare i pezzi, ho cercato di dare una fluidità alla successione dei brani, un certo ritmo, e a quel punto non c’era più nulla di casua le. Ho cercato di alimentare le affinità tra i vari pezzi. Anche nel lavoro finale di mastering, quando abbiamo sistemato il suono tirato fuori dai mixaggi, abbiamo fatto in modo di creare una certa atmosfera.
Se suoni da solo ti puoi permettere i pianoforti martellati, le orchestrazioni strane, gli arrangiamenti azzardati... C’è la tua impronta, che conoscia mo, ma il disco va al di là degli Afterhours. Ci sono dei rimandi, per forza, visto che ho scritto l’80% dei pezzi degli Afterhours e ho lavorato tantissimo con tutte le formazioni del gruppo. Quella roba mi riguarda, c’è, ma ci sono anche cose che non ho mai fatto. Anche nei cantati. Quando ero da solo, qui, mi mettevo a fare delle urla belluine o cose rumoriste che non avrei mai il coraggio di fare in studio, davanti agli altri. Se lo facessi, mi direbbero: ma che cazzo stai facendo?
C’è anche un cantato molto classico e melodie che sembrano arrivare da chissà quale epoca. Vero. Tra mille anni mille anni fa è quasi rinascimen tale, con quella linea melodica. Pam Pum Pam è quasi Aznavour.
Manuel Agnelli
11OTTOBRE 2022
Anche queste sono cose che alla band non avrei mai avu to il coraggio di proporre. Avrebbero detto: bello, ma che ce ne facciamo?
Ma tu che lockdown hai vissuto? È stata una qua rantena di sofferenza?
Sì, da tanti punti di vista. Il nostro settore è stato il più martoriato di tutti. Siamo stati completamente di menticati, e anche umiliati, perché noi siamo quelli che “fanno divertire, che tengono su il morale”. Si parla di 1 milione di lavoratori rimasti a casa. Molte imprese del mondo dello spettacolo hanno chiuso, tanti hanno cam biato lavoro. Io sono un privilegiato, perché la televisione mi ha salvato, sono riuscito a tenere in piedi tutto quello che stavo facendo, anche il centro culturale di Milano, il Germi, che ha chiuso, ma siamo riusciti a tenerlo vivo e a riaprirlo.
Ti è capitato di farti domande sul senso del tuo lavoro, in quel periodo?
La cosa che mi tormentava, era scrivere cose legate alla verità. La verità mi viene da una formazione cultura le di un certo tipo: il punk e il post-punk erano la verità.
Se tu eri sincero allora avevi un valore, anche se facevi cagare musicalmente, mentre se eri artefatto non va levi un cazzo. Questo era lo spartiacque: sincero o non sincero. Per anni sono andato avanti a scrivere con que sto tipo di imposizione: deve essere tutto vero. Non solo i miei sentimenti - quindi sul palco non recito, non pro pongo cliché del rock’n’roll che sono solo teatro - ma devo anche scrivere delle storie vere, legate a persone vere.
Qui invece ho cominciato a scrivere cose mischiando i personaggi, magari mescolando il carattere di uno con l’altro e tirando fuori un terzo personaggio. O anche inventandomi delle storie, cosa che non avrei mai fat to prima. Ci ho provato negli ultimi due dischi degli After ma mi sono sentito in colpa. E invece, dopo un po’, ragionando, mi sono detto: ma io perché esisto, qual è il mio scopo? Io lavoro con la fantasia, io esisto per questo, questo è il mio ruolo. Non è importante la storia che ti sto passando, ma la sensazione che ti procura, la tensio ne. Questa roba alla lunga mi è servita molto, mi ha liberato da un sacco di sensi di colpa, dal dover essere “fedele alla realtà”. La base del disco è vera, si basa su storie e personaggi veri, ma che creano cose nuove, diverse.
Nel disco non si parla del rapporto tra due perso ne, come può sembrare al primo ascolto, è qualcosa di più complesso. È il rapporto tra me e un altro immaginario, che però è formato da tante persone diverse. Parla di me in rapporto alla gente e alle cose che mi sono successe.
Quindi il titolo è legato a questo aspetto del disco? Sì, ed è un titolo critico nei miei confronti. Lo dico a me, prima di dirlo a voi. Però un po’ lo dico anche a voi, già che ci sono.
È un titolo impegnativo. Non c’è una massima più conosciuta e forse abusata di questa, ma rimane un’idea rivoluzionaria.
Diciamo che quattro o cinque anni fa sarebbe stata re
12OTTOBRE 2022
torica, ora non lo è più: è tornata potente, è dramma ticamente importante, attuale, centrale. Ci ho pensato un po’ su, prima di usarla, ma di solito vado d’istinto in queste cose. Mi piaceva tantissimo il fatto di poterla usare, quindi dovevo usarla. Quando non ho seguito il mio istinto ho sempre sbagliato. (Ho sbagliato anche se guendolo, ma meno).
Il bello è che, nonostante il titolo impegnativo, nel disco non c’è nessun messaggio esplicito. C’è sem mai la complessità dei sentimenti, non c’è nulla di detto e spiegato.
I sentimenti uno cerca di spiegarseli per tutta la vita, poi arriva il momento in cui li accetti e li puoi solo raccontare. Sentimenti che creano altri sentimenti, che si stratificano e che non puoi certo spiegare.
Poi c’è la guerra, la rabbia. Severodonetsk è potentissi ma, è da ieri sera, quando l’ho ascoltata, che continuo a cantare “nelle mani, le tue mani, le tue mani nelle mie”. Sta piacendo a tutti... È l’ultimo pezzo che ho scritto e mi sono detto: questo è un po’ difficile, però mi piace, lo tengo. È anche una delle poche dichiarazioni esplicite del disco. Arriva tantissimo, anche se è un pezzo stratificato.
Un po’ progressive. Sì, è quasi prog.
Siamo ad Abbiategrasso e mi viene da chiederti quanto questo mondo sia ancora dentro di te. La nebbia, la provincia, il vuoto ma anche la bellezza, la rabbia insieme alla malinconia. È tutto ancora dentro la tua musica.
C’è ancora, sì. Di recente ho scritto anche due pezzi sulla provincia, che però non sono in questo album: parlano di quanto sia potente questa gestione e visione del tempo, ma anche le tenebre che la provincia crea certe volte. Riconosco che per me è stata una fortuna aver passato tanto tempo in provincia. Sono nato a Milano, ho trascorso due terzi della mia vita a Milano, ma qui ho vissuto un periodo formati vo fondamentale: le elementari. Ho conosciuto il territorio, quel tipo di persone... In città erano tutti fighetti, qui invece ci arrampicavamo sugli alberi, ci menavamo, ci fasciava mo le ferite da soli. Anche quando mi sono trasferito in cit tà, mi ha lasciato un lato selvatico preziosissimo per non af fondare nelle sabbie mobile della borghesia. Io sono borghese al cento per cento come formazione, ma le medie le ho fatte con compagni di classi che erano figli di confinati calabresi
E poi c’è anche l’abitudine a non dare niente per scontato, a conquistare le cose. E c’è la noia. Noi sottovalutiamo il lusso meraviglioso della noia. La noia mi ha permesso di pensare. Alle volte anche troppo. Quel meccanismo per cui ti metti ad analizzare il mondo e te stesso, mi ha formato tantissimo. Nel lockdown l’ho ritrovato, dopo tanti anni in cui ero stato in un vortice di “facciamo facciamo facciamo”. L’ho ritrovato forzata mente ed è stata la fortuna del lockdown. Io sono un irri tante ottimista, cerco sempre di trovare i lati positivi delle cose. Nel lockdown ho ricominciato a gestire il tempo in modo più umano, e quindi anche ad annoiarmi, e a pen sare senza uno scopo preciso, non per risolvere un problema, ma per il gusto di pensare. La fantasia nasce da lì.
Manuel Agnelli
13OTTOBRE 2022
Tu non ti sei mai accontentato di “fare l’artista”, il musicista che si preoccupa semplicemente di lavora re alle sue cose. Fin dall’inizio sei stato produttore e organizzatore di festival, hai aperto il Germi, hai creato un programma tv culturale (Ossigeno), poi c’è l’impegno sociale, ambientale... Sei uno di quelli a cui dà fastidio la parola “intellettuale”? O “attivista”? No. E non mi dispiace neanche la parola artista. Attivista è ancora meglio.
È un’esigenza che hai sempre avuto, quella di fare tutte queste cose insieme.
Non ho mai razionalizzato la cosa. Semplicemente sono così. Non ho mai pensato: “adesso splitto, faccio l’artista o faccio altro”. Sicuramente il palcoscenico mi ha permesso di sublimare molte cose che non posso fare in società: il mio lato violento, aggressivo, il mio lato nichilista. Ma anche un certo tipo di umorismo e allegria che ho imparato a utilizzare grazie alla televisione.
riuscito ad entrare nella gabbia dei leoni, nella vasca degli squali, e rimanere me stesso, senza farmi mangia re. E comunque, grazie a quell’esperienza, oggi per me è più facile confrontarmi con ambiti che non c’entrano col mio. Anzi, il “mio” non esiste più, tutto il mondo dell’alternative ormai è fatto da hobbisti un po’ farisei, pallosissimi.
Parlaci della tua redness. Cos’è che ti fa alzare la mattina? Cosa fai prima di andare a dormire? Io ho due processi diversi. Faccio le parole crociate per addormentarmi, perché è un processo mentale che mi stacca da tutto: non ho un pensiero che mi fa dormire, ma un non-pensiero. La mattina invece faccio yoga. Ma non è nulla di particolarmente “grande”. Devo semplicemente rimettere in moto la macchina, che ora comincia anche a cigolare.
Magari la macchina cigola, ma suona ancora benissimo. Chi la guida è un esordiente con 35 anni di musica alle spalle, che ne ha viste e vissute di tutti i colori e quindi ha il carisma compassato di chi non deve più dimostrare niente a nessuno, ma anche l’entusiasmo di un ragazzino. L’intervista termina con la visita guidata alla mansarda, che sta alla fine di una scala a chiocciola in ferro. Mentre la percorriamo, gli chiediamo cos’è il “pianoforte pazzo”, citato insieme al “pianoforte preparato” tra gli strumen ti di Guerra e pop corn. Ma è più facile ascoltarlo che spiegarlo, visto che si tratta di far impazzire tasti, corde e ritmi dentro una canzone arrabbiata e allucinata che dice «bambina, bambolina, mostro che sei / ti lecco e sai di guerra e coca e pop corn»
Gli anni di X Factor sono serviti. Tantissimo.
In molti ti accusarono di aver ceduto al mainstre am, tu che sei stato così importante per l’indie e la scena alternativa. Poi tanti si sono ricreduti.
Il problema è che c’è gente che non ha neanche mai visto il programma e continua a pensare che io mi sia ven duto alla televisione. Lì, in realtà, mi hanno permesso di essere tagliente come avrei sempre voluto essere e mi hanno addirittura legittimato in questo. Ora quando faccio una battuta cattiva ridono tutti, prima mi dice vano “che stronzo!”... Mi ha liberato tantissimo. Sono
Ripensiamo anche ai versi poetici (il linguaggio è lirico e ruvido insieme, come sempre) della title track: «Che noi cresciamo è una bellissima bugia / ci appoggiamo un po’ alla nebbia intorno a noi».
La pandemia ci ha spaventato, ma ci ha anche insegnato qualcosa. Abbiamo re-imparato a guardare le persone negli occhi, a cercare una qualche verità delle idee e dei sentimenti. Lo dice anche il nuovo singolo di Manuel Agnelli, scritto in pieno lockdown, Milano con la peste, un altro gioiello: «Via da casa, via dalla mia testa / solo ora vedo gli occhi di chi resta / mascherati da bambini come ieri / mascherati sembran finalmente veri / noi al meno non abbiam mai finto / e non vedi il senso perché ci sei dentro».
Il titolo l’ho scelto d’istinto. Quattro o cinque anni fa sarebbe stata retorica.
Ora non lo è più. È una frase tornata potente. È drammaticamente importante, attuale, centrale
14OTTOBRE 2022
Manuel Agnelli
Morte. Basta la parola. Scrivi “morte” ed è probabile che qualcuno smetta immedia tamente di leggere. Allarme, disagio, fastidio. Forse anche scaramanzia. Paura. Già è così difficile vivere, se poi ci metti anche il pensiero della fine. Equivoco frusto e funesto. Perché poi capita di averci a che fare, con la morte. E nessuno che ti dica come fare, cosa pensare, dove prendere la forza per reagire. A parte le frasi di circostanza, o le credenze più o meno solide.
Sono difficili le cose belle (edito da HarperCollins) non è un saggio filosofico, una rifles sione meditabonda, una risposta. È una fiaba. Un racconto tenero e delicato. L’incontro tra una ragazzina e sua nonna, che in teoria se n’è andata per sempre e invece è lì per dirle: «Non me ne andrò mai più». Una storia che nasce da una sensazione universalmente conosciuta, «un vuoto sotto alle costole, dove tutti dicono che c’è lo stomaco. Ma non era lo stomaco. Era qualcos’altro. Assomigliava a quella sensazione che ti prende in aereo quando c’è quello che il pilota chiama “vuoto d’aria” o “turbolenza”, allora l’aereo a volte scende di botto e ci sentiamo una cosa forte proprio qui, come se ci tirasse dentro e volesse farci cadere» Un libro che già dal titolo ci dice qualcosa sulla bellezza della vita, sull’inizio, sulla fine e sulla possibilità che il significato delle cose non si riduca al breve tratto che “c’è in mezzo”, perché molto dipende da come vediamo le cose, dal modo in cui viviamo il tempo, la memoria, l’amore.
A forza di frequentare filosofi e poeti greci, eroi e umanissime divinità, Matteo Nucci ha acquisito una limpidezza di pensiero e una ricchezza di linguaggio che non temono il con fronto con i temi più grandi, quelli che danno un senso al nostro essere umani. Ricordandosi, però, quanto sia importante la semplicità, la freschezza del racconto. Matteo Nucci ha dedicato la vita al mondo antico, a Platone (vedi il suo Simposio per Einaudi), all’epica omerica (Le lacrime degli eroi, Achille e Odisseo, L’abisso di Eros), alla Grecia di ieri e di oggi (a proposito di nuovi mostri: la Troika). E non è certo un caso che attingano a quel mondo anche i titoli dei suoi romanzi, da Sono comuni le cose degli amici a È giusto obbedire alla notte (entrambi finalisti allo Strega). Sono difficili le cose belle è nato ad Atene ed è stato concluso su un’isola greca, è una novella senza tempo per grandi e piccoli, ed è accompagnato da un ricordo struggente della madre, intitolato L’astuccio.
16OTTOBRE 2022
MATTEO NUCCI
di Fabrizio Tassi
Il romanzo nasce da un’esperienza di dolore. Eppure, in queste pagine, c’è anche tanta gioia, tenerezza, voglia di vivere. E quando arriva la tristezza, è come trasfigurata dall’immaginazione e la memoria, dalla consapevolezza che cresce. Ci parli di come è nato il racconto per le tue nipoti? E del processo che ha portato alla trasformazione di qualcosa che probabilmente era intimo, privato, in una fiaba?
Era il primo inverno dopo la morte di mia madre, facevo la mia corsa quotidiana sotto al Licabetto, a Atene, dove passo molto tempo. Faceva freddo e io pensavo che non mi bastava più correre e che dovevo fare altro per alleviare il dolore. Mia nipote Arianna, che fra le cinque nipoti del gineceo familiare è la più ribelle a me, mi aveva sempre chiesto di scrivere una storia per lei. Io non sono un lettore di favole o fantasy o robe di bambini, e le ripetevo sempre che non ne ero capace. Quella sera, mi sono detto: ecco cosa posso fare. Ho immaginato che la macchina rossa su cui mia madre scorrazzava le nipoti tornasse all’improvviso per un viaggio infinito. Era una storia per lei e per le altre nipoti. Dopo tre anni, l’ha letta Carlo Carabba che dirige la narrativa italiana di HarperCollins, mi ha proposto di pubblicarla e io mi sono rimesso al lavoro. Era passato il tempo sufficiente a trasformare un regalo fami liare in un libro per tutti, anche se molto particolare.
Q uesto lavoro di scrittura ha cambiato, in qualche modo, il tuo rapporto con quel dolore enorme (di cui racconti in maniera aperta, commovente, nel breve testo che chiude il libro, L’astuccio)? Si parla tanto di “letteratura terapeutica”, per chi scrive e chi legge. In passato hai accennato più di una volta a quanto il dolore sia fonda mentale agli esseri umani per crescere e conoscere: è una delle cose che ci hanno insegnato gli antichi.
Purtroppo senza dolore non si cresce. È una questione complicata. Diciamo che non sempre il dolore fa crescere. Però senza dolore certamente non si cresce mai. Vorremmo che non fosse così, ma c’è poco da fare: ha ragione Eschilo e hanno ragione tutti gli antichi che questa verità l’avevano nel sangue. Il racconto di cui parli, L’astuccio, colpisce molte persone. Io posso dire con certezza di non aver mai sofferto tanto per scrivere qualcosa. Ero in una piccola isola greca e, mentre immaginavo e scrivevo quella storia, il dolore mi devastava. Andavo giù a nuotare con la faccia gonfia. Però, rispetto alle chiacchiere sulla letteratura terapeutica, io no, non mi ci ritrovo. Piuttosto, c’è letteratura che intrattiene e c’è letteratura che trasforma. Quella che intrattiene non mi interessa per nulla, come non mi interessano le serie televisive e tutta la roba che serve a occupare il tempo. Abbiamo poco tempo. Perché dobbiamo occuparlo anziché viverlo? Io a qualsiasi serie tv preferisco una cena con i miei amici. Ché poi la cena con gli amici è una delle cose più alte e divine che ci siano in assoluto.
Una fiaba che racconta il dolore (e la gioia possibile) Uno scrittore anti-moderno, tra Platone e Omero, logos e vitalismo
17OTTOBRE 2022
I NCONTRI
Di solito si parla della morte come del rimosso per eccellenza. In realtà non c’è nul la di più evocato e spettacolarizzato, ma generalmente in forma astratta: numeri (il conteggio dei morti di Covid che ci ha accompagnato per due anni), notizie, corpi messi in scena o video-giocati. Come si esce da questo paradosso? Sono passa ti decenni da quando Hans Jonas parlava della morte nascosta negli ospedali, non più ritualizzata e condivisa da una comunità.
Decenni e le cose peggiorano. Guarda, io sulla questione ho scritto tantissimo anche per ché sono un appassionato di corrida, la studio da molti anni, curo l’unico sito italiano dedicato alla tauromachia, ho scritto un libro di tori, e mi sento insultare da gente che di corrida non sa nulla, pensa sia uno sport e non un rito, ripete idiozie come quelle sul toro drogato e così via. E tutto questo perché un rito laico che celebra la morte non è am missibile in un mondo decaffeinato. Come dici tu la morte è mostrata continuamente in tv, ma il morto non lo devi più vedere. Negli ospedali i familiari insultano eppoi magari denunciano medici che non sono riusciti a dare l’immortalità a un malato terminale di novant’anni. È un tempo folle. Che né la pandemia, né la guerra così vicina hanno cambiato. Altro che chiacchiere. Ecco per esempio dolori che non hanno fatto crescere nes suno. Ma è chiaro: se rifiuti di soffrire, il dolore rende soltanto più rabbiosi, più selvaggi, più cattivi.
“Le cose belle sono difficili”, dice Socrate alla fine del dialogo con il tronfio Ippia, spiazzato dai suoi ragionamenti sulla definizione di bellezza. Oggi, questa espressione proverbiale suona quasi provocatoria: tutto deve essere facile, immediato, comprensibile a chiunque, consumabile in fretta. In un certo senso siamo come la bambina del romanzo, che non capisce e vorrebbe che tutto fosse più semplice e chiaro, ma che poi intuisce qualcosa di importante.
Dobbiamo prenderci il tempo. Farci le domande che contano. Chiederci se la strada che abbiamo scelto è giusta o sbagliata. Metterci in crisi. E per farlo, serve solitudine. Solo dopo si torna in comunità a fare ciò che la comunità significa, ossia a mettere in comune
Però Arianna vuole chiarezza come ogni ragazzino desideroso di capire, quindi non cerca facilità. La chiarezza del resto non arriva mai con facilità. La facilità e la velo cità sono i mostri dei nostri tempi, veicolati da questi apparecchi che abbiamo tutti e che ci danno l’illusione di poter sapere ogni cosa e in un attimo. Ma non è così. La vita è dif ficile. Se non accetti la difficoltà hai chiuso. Certo, è pieno di gente che la vuole facile, si sottrae a usare la ragione critica, e cerca sempre la scorciatoia. Ognuno fa come crede. Io sono convinto che abbia ragione Platone: la strada più lunga è quella della filosofia. Ma vedi? Anche la filosofia oggi vogliono renderla facile con manualetti da due soldi per curare l’anima. La filosofia è difficile e non può di ventare facile. Si può fare chiarezza appunto se sei un grande esperto della tua materia. Puoi gettare luce sulla difficoltà, ma la semplificazione uccide e basta.
Un altro rimosso, forse, è l’anima. C’è la religione istituzionalizzata, lo spiritua lismo di consumo, oppure la riduzione della vita a corpo e istinti. Forse i greci
18OTTOBRE 2022
ci potrebbero aiutare anche da questo punto di vista. Una spiritualità, se vogliamo, anche laica, fondata sul senso del limite ma aperta all’altrove.
Assolutamente d’accordo. Che vivi a fare se non ti occupi dell’anima? Certo, mi dirai: che cos’è però l’anima? E qui le cose si fanno com plicate. Io torno sempre a quella specie di aforisma di Eraclito. “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie, tanto profondo è il suo logos”. Insomma bisogna viaggiare all’interno dell’anima senza una meta, senza cercare i suoi confi ni che sono introvabili. E affidarsi al logos che è parola e ragione ossia ciò che ci distingue dagli altri animali. Dobbiamo prenderci il tempo. Farci le domande che contano. Chiederci se la strada che abbiamo scelto è giusta o sbagliata. Metterci in crisi. E per farlo, ser ve solitudine. Solo dopo si torna in comunità a fare ciò che la comu nità significa, ossia a mettere in comune. Mi diverte molto sentire i racconti sulle nuove forme di spiritualismo. Non riesco veramente a capirla quella roba. Ma insomma si è capito che non ho alcuna fidu cia in questo presunto progresso. Sono tendenzialmente reazionario.
Cosa ne penserebbe Platone del mondo (e del modo) in cui viviamo? Intendo noi occidentali, che siamo relativisti, secolarizzati, ma anche nostalgici tradizionalisti, che possediamo tecnologie straordinarie ma spesso le usiamo malissimo, che “sappiamo tutto” ma forse abbiamo dimenticato di “non sapere niente”.
Platone era molto impegnato politicamente nonostante il suo disprezzo aristocratico. Credo che farebbe oggi quel che fece duemilacinquecento anni fa. Darebbe tutto se stesso per offrire una risposta ma rifiutando la scalata al potere. Rispetto a tecnologie e presunzione di sapere, poi, le cose non sono molto cambiate. I cambiamenti sono apparenti. Platone si lancia per esempio in un’invettiva contro l’invenzione della scrittura che potrebbe essere adattata alle invettive contro gli smartphone, colpevoli di spegnere l’uso della memoria. In effetti tutto dipende dal come. Il cosa è importante certo, per le questioni fondamentali. Ma il come è de terminante. Come uso il telefono? Come scrivo? Platone poi mica si rifiutò di usarla, la scrit tura. E la usò bene visto che è indubbiamente il più grande scrittore filosofico di tutti i tempi.
Come è nato il tuo amore per la Grecia?
Arrivai in Grecia la prima volta con una gita scolastica. Ero al liceo. Il traghetto attraccò a Patrasso e il bus ci portò a Olimpia. Girare fra le rovine di Olimpia con gli alberi di Giuda in fiore mi uccise. Poi arrivammo a Atene e di notte in quel tempo si entrava tranquil lamente nei siti archeologici e noi c’infilammo nell’Agorà. Un’emozione sconvolgente. Ma l’impressione era che anche nella città moderna si vivesse in un’altra dimensione. Lì ebbe inizio quell’intuizione del continuum che in Grecia lega il tempo antico alla contemporanei tà. Un’intuizione che poi si è consolidata nell’idea che non cambia mai nulla nei secoli: gli esseri umani sono sempre le stesse bestie.
19OTTOBRE 2022
MATTEO NUCCI
Ma restando alla Grecia, la cosa era particolare perché allora di Atene si diceva tutto il male possibile. Si passava in città solo per l’Acropoli eppoi via. Ho passato anni a difendere Atene dove in parte vivo. Ora che è di moda, che aprono Boutique Hotel ovunque, ora che Airbnb sta gentrificando il centro e i tedeschi, dopo averla messa in ginocchio, la popolano perché “è tanto economica, tanto interessante, tanto frizzante” soprattutto per gli artisti berlinesi che aprono gallerie in cui viene esposto il nulla assoluto, io vorrei rimangiarmi tutto. Non cambierebbe niente. Ma non vorrei sentirmi colpevole nemmeno di un turista in più. D’altronde ovunque il turismo post-pandemia è una iattura, uno schifo totale, una distruzione senza senso.
C’è una figura del mondo antico a cui ti senti particolarmente legato? Un filosofo, un autore, un personaggio omerico... Qualcuno che magari ti ha aiutato a capire meglio te stesso.
Ce ne sono parecchi. Ogni età ha il suo. C’è stato il tempo di Sofocle, quello di Tucidide, quello di Aristofane. Platone e Omero però sempre. Negli ultimi anni la figura a cui sono più legato è quella di Achille. Un eroe assolutamente frainteso. Da alcuni barbaramente denigrato. C’è una scrittrice da molti elogiata e che evidentemente avrà letto una volta l’Iliade o comunque non ci ha capito proprio niente, be’ lo ha definito “la bestia”. Definizione di un’ignoranza bestiale. Achille, in Omero, è un eroe incredibilmente complesso. Non vorrebbe la guerra ma obbedisce. Vorrebbe solo tornare a casa dal padre. Ama passare il tempo cantando e bevendo con Patroclo. Poi certo, in guerra è una furia, ma soprattutto quando è sconvolto dal dolore per la perdita di Patroclo, perché in realtà la guerra di Troia non l’ha mai sentita sua. Eppure è lì e va incontro a un destino di tragedia. E nel tempo che ha a disposizione cambia moltissimo. Cambia molto più di quanto cambia Odisseo in venti anni di guerra e viaggi. È anche meno crudele di Odisseo. Ma bisogna leggere Omero per capirle, queste cose. Il sogno di Achille dopo la morte di Patroclo, i giochi in onore dell’amico morto, l’abbraccio a Priamo. Un uomo molto fragile, estremamente sensibile, Achille. Immerso nel presente. Per questo la visione cristiana eppoi illuminista del tempo lo condanna. Bisogna andare verso il progresso, verso la meta finale, che sia il giudizio o il trionfo della ragione. O che sia tutteddue nel suc cesso e nel danaro come da protestantesimo capitalista. Odisseo è il loro eroe.
Il tuo approccio, alla cultura e alla filosofia greca, è quello analitico dello studioso o è più poetico, esistenziale, magari perfino romantico, o addirittura “mistico”?
Io mi sono formato a una scuola di analisi filologica dei testi. Per cui non amo affatto chi chiacchiera, fantastica, e infine appunto fraintende, solo perché l’interpretazione è libera. Certo che è libera, ma i testi li devi conoscere. Se li conosci come si deve, poi i testi danno vita a qualcosa di tuo. Quello è l’obiettivo. Lasciare che le opere entrino dentro di te, ti trasfor mino e tu possa poi elaborare il tuo pensiero, la tua interpretazione. Per me, quel mondo è vita perché vive dentro di me e io vivo e cerco di leggere quel che mi capita con gli occhi che ho, ossia quelli che si sono formati leggendo i classici. Insomma direi che è un approccio filologico nel senso vero della parola, ossia di amore del logos, dunque è esistenziale perché il logos è vita, e magari anche mistico, perché a un certo punto il logos non ce la fa a cogliere ogni cosa e tu devi metterlo da parte. Ma puoi farlo se hai imparato a farne uso, sennò come sempre è fuffa.
20OTTOBRE 2022
Noi siamo dominati dalla visione del tempo come una linea retta verso il progresso. Per i greci non è così. Forse possiamo tornare a una visione ciclica. Soprattutto oggi che l’idea di crescita infinita si è rivelata fallimentare
Tu dici che Omero ci appartiene, è dentro di noi, anche se non l’abbiamo letto o non lo conosciamo. Cosa significa? Per ognuno di noi e per la nostra cultura, la società di cui facciamo parte. Quella mitologia, che ha formato la coscienza occi dentale, ha ancora qualcosa da dire alla (post)modernità?
Funziona per Omero proprio quel che dicevo adesso. Omero lo abbiamo letto un po’ tutti, chi più chi meno. Ma comunque sia quelle storie sono entrate dentro di noi e hanno preso vita. Il logos secondo gli antichi (e anche secondo me) è alato perché vola e entra dentro l’anima e lì germoglia e si trasforma in altri logoi. Insomma c’è una specie di eternità del logos. Quello omerico poi è potentissimo per molte ragioni. È all’origine della nostra storia culturale. È parola creata oral mente visto che la scrittura non esisteva. È parola collettiva che attraversa generazioni. Poi forse c’è un poeta che cuce i canti e dà alle opere un’unità assoluta che già Aristotele da critico lettera rio giudica inarrivabile. Ma è il giudizio di tutti, in fondo. Pensa a Leopardi. Pensa a Kavafis. C’è una cosa in particolare che i greci ci avevano insegnato e che abbiamo dimenticato?
La visione ciclica del tempo. Ho già detto del fatto che siamo dominati dalla visione del tempo come una linea retta verso il progresso. Per i greci non è così. Si nasce, si cresce, si raggiunge un culmine, si invecchia, si muore, e questa morte lascia spazio a nuova vita. Il ciclo domina il pen siero greco. Noi forse possiamo tornare al ciclo. Soprattutto oggi che l’idea di crescita infinita si è rivelata fallimentare. Il nostro pianeta ha risorse limitate e non può reggere la crescita infinita di miliardi di persone – questo ormai è evidente anche a chi si rifiuta di accettare la decadenza del nostro mondo, dico l’occidente, soprattutto certamente l’Europa, il vecchio continente, vecchio perlappunto. Ma non è un dramma se si evita di difendere l’indifendibile, tirando su muri, reticolati che non reggeranno mai alcuna marea. La strada c’è ma se ci si ferma al bivio e si difende il bivio siamo perduti. La visione tragica ci dice che al bivio devi comunque prendere una strada anche se porterà sofferenza. Il vitalista ti dice: bene la strada sarà dura, ma se sarà dura qualunque strada prendi, tanto vale andare e correre. La strada per il nostro occidente dal mio punto di vista è esemplare in quel che faceva il sindaco di Riace. E abbiamo visto come è andata a finire. Una vergogna di cui prima o poi si dovrà dare conto.
Passando dall’universale al particolare: cosa ti dà la forza di alzarti la mattina? Hai un sogno che insegui? Un ideale da raggiungere? O magari hai imparato a “stare con ciò che c’è”?
Io sono vitalista come i miei spagnoli e tragi co come i miei greci. Non mi manca mai la forza di alzarmi la mattina. Non sono un depresso. Voglio viaggiare, conoscere, cam biare, mangiare, bere, vedere, fare. Questo mica è accontentarsi di ciò che c’è. Piuttosto è la smania di vivere. Di usare bene l’unica ricchezza vera che abbiamo: il tempo.
MATTEO NUCCI
Da una parte c’è quel sorriso che parla da solo, il suo modo semplice e solare di rac contarsi, senza mai darsi delle arie. Dall’altra la strapotenza fisica, il corpo statua rio, quella bracciata robusta che a pieno regime diventa irresistibile (soprattutto nei 200). Aggiungete l’attitudine al lavoro duro e al sacrificio, la capacità di stringere i denti nei momenti difficili, e avrete la formula, per nulla segreta, del successo di Margherita Panziera, in vasca e fuori.
La nuotatrice italiana, allenata da Luca Piscopo, agli Europei di Roma ha conquistato tutti. Da vari anni, ormai, nuota ad alti livelli – la scelta decisiva è stata quella di trasferirsi a Roma, affidandosi al Gruppo Sportivo Fiamme Oro della Polizia di Stato – ma nel 2022 si è definitivamente consacrata come una delle dorsiste più forti del mondo, centrando con una facilità impressionante il terzo oro europeo consecutivo nei 200 (prima di lei, in passato, c’erano riuscite solo l’ungherese Krisztina Egerszegi e la tedesca Cornelia Sirch) e poi sorprendendo tutti, anche se stessa, con l’oro nei 100. Ed eccola, dopo un anno diffici le, conquistare le prime pagine dei giornali sportivi, mentre i tifosi oltre all’atleta scoprono anche la persona e il personaggio, che trova il tempo di laurearsi in Economia, che sventa una rapina, che si gode la sua storia d’amore con il collega nuotatore Alessandro Baffi... E in molti cominciano a vedere in lei la degna erede di Federica Pellegrini. Quando la incontriamo, a metà settembre, la troviamo rilassata e pronta a ripartire. È ap pena tornata dalle vacanze. Inutile dire che è sorridente, come sempre, un sorriso aperto, allegro, che ci regala dall’inizio alla fine dell’intervista, rispondendo con naturalezza a ogni domanda, senza starci troppo a pensare. Se la ride quando raccontiamo la nostra esperien za da tifosi, in piedi davanti alla tv, con tanto di urlo finale, all’arrivo dei 100.
22OTTOBRE 2022
MARGHERITA PANZIERA
Talento, sacrificio e il sorriso sulle labbra Agli Europei (due ori) è entrata nella storia del nuoto
Ai 50 avevi girato al sesto posto!
Sui 100 ho una tattica diversa rispetto ai 200.
Non te lo aspettavi neanche tu di vincere quella gara. Nei miei Europei c’erano soprattutto i 200, all’inizio della competizione. Poi nei 100 an dava come andava. Invece già in semifinale ho trovato una nuotata che non mi riusciva più da tanto tempo. Ma non ero sicura neanche di arrivare a podio, quindi ho fatto la mia gara tranquilla.
Q uando sei arrivata avevi un’espressione buffa, non hai praticamente esultato. Era come se dicessi: “Ma davvero ho vinto”?
Il tabellone era da tutt’altra parte rispetto alla vasca. Davvero lontano. Quindi dovevo met tere a fuoco... Poi, sai, magari sbagli la riga... Ci ho messo un po’ a capire.
Ma il boato lo hai sentito.
Sì, ma c’era anche un’altra italiana in gara, magari era per lei.
Anche alla fine dei 200 eri tranquilla, come se fosse tutto facile. Dai l’impressione di vivere le gare con serenità.
Il problema non è la gara, ma subito prima, quando bisogna gestire le proprie emozioni. Il fatto di vivere a Roma mi ha aiutato tanto. Ero un po’ tesa, ma di quella tensione che aiuta a dare qualcosa in più.
Cosa si prova a stare lì sotto, in vasca, mentre il pubblico urla? L’unico stile in cui si sente davvero il pubblico è la rana. In quel caso il tifo ti dà il ritmo. A dorso invece no, io non sento proprio niente.
Sei totalmente concentrata nella cosa che fai, bracciata dopo bracciata.
Al Foro Italico la vasca è molto luminosa, all’aperto. Quando entri ti rendi conto di tutte le persone che ci sono, però una volta dentro vedi solo il blocchetto e la tua corsia, e non senti più niente. In altri impianti, con le luci artificiali, il pubblico è al buio, lo senti e basta. Anche lì, però, al momento della gara vedi solo il blocchetto. Ci sono nuotatori che si caricano a sentire il pubblico. Ma è difficile trovare atleti che vanno in ansia per quello.
23OTTOBRE 2022
I NCONTRI
L’acqua per te è l’elemento ideale, il luogo in cui stai meglio, una specie di rifugio?
O è soprattutto il luogo della sfida, con te stessa e gli altri, la fatica, il duro lavoro?
Non è tutto rosa e fiori, ovviamente, come in ogni cosa nella vita. Ci sono periodi dell’anno o della carriera in cui fai fatica, e allora è difficile anche entrare in acqua. Non è come negli altri sport. In acqua devi buttarti anche se è gennaio, e fuori fa freddissimo. A volte l’acqua la odi. Quando arrivo alla fine della stagione agonistica, ne ho fin sopra i capelli di nuotare.
Per una o due settimane non mi faccio neanche il bagno al mare. Il mio ragazzo, invece, si butta senza problemi. E gli dico: “Ma sei pazzo che ti metti a nuotare!”. Io me ne starei immobile sotto il sole. Ma sono momenti che si superano. Quando sei sott’acqua, e non senti più niente, c’è una pace assurda, bellissima. Come fai a non amarla?
In che fase sei ora?
Quella positiva, perché mi sono fatta le mie settimane di vacanza, tranquilla, mi sono ripo sata, dopo una stagione piena zeppa di impegni, molto faticosa.
Te lo ricordi il primo tuffo? A che età hai cominciato a nuotare?
I miei genitori mi hanno portato in piscina quando avevo quattro anni e mezzo. Sono pas sata quasi subito alla pre-agonistica, con i propaganda. Poi ho continuato ad aumentare gli allenamenti, a salire di categoria, e alla fine è diventato un lavoro.
È stato amore a prima vista? Diciamo che ho sempre avuto molta acquaticità, mi è sempre piaciuto stare in acqua.
A volte l’acqua la odi. Quando arrivo alla fine della stagione agonistica, ne ho fin sopra i capelli di nuotare. Ma sono momenti. Quando sei sott’acqua, e non senti più niente, c’è una pace assurda, bellissima
Q uando vivevi a Montebelluna che tipo di bambina eri? Hai capito subito che il nuoto era la tua strada?
Assolutamente no. L’ho capito solo dopo il diploma. Ho sempre nuotato perché ero una bambina molto attiva, mi piaceva gioca re nell’acqua, avere le mie amiche, le mie compagne di nuoto. Come andavo a scuola, andavo anche in piscina. È diventata una routine. Ma l’obiettivo principale era quello di laurearmi. Poi, come tutti i bambini, ho cambiato tante volte il lavoro ideale.
Ad esempio?
Il mio primo lavoro dei sogni, quando avevo sei o sette anni, era quello dell’egittologa. Avevo visto il film “La mummia” ed ero impazzita per la mitologia egizia. Poi sono passata alla mitologia greca e ho deciso di fare l’insegnante. Dopo l’insegnante volevo fare il medico e poi studiare ingegneria, ma anche psicologia. Alla fine ho scelto economia. Mi sono laureata alla triennale in Economia aziendale. A marzo mi laureerò alla magistrale in Gestione aziendale, indirizzo marketing.
Come mai questa scelta?
Per curiosità. Al liceo scientifico riuscivo in tutte le materie, ma non ce n’era una che mi ap passionava in modo particolare o che mi faceva dire “questa sarà la strada della mia vita”.
24OTTOBRE 2022
Non avevo mai studiato economia e volevo provare. Anche perché è una materia che ti dà tante possibilità da un punto di vista lavorativo. Studio marketing perché mi ap passiona molto. Ma ora sono nella Polizia e sono contentissima dell’opportunità che mi è stata data. Grazie a loro posso proseguire con la mia carriera agonistica, che altri menti sarebbe stata impossibile.
Q uindi il nuoto è diventato la prima scelta solo dopo il liceo. Visto che sembravo bravina, ho voluto dar gli una chance. Mi sono trasferita a Roma e il primo anno è andato subito bene, perché ho migliorato il mio tempo. Ho fatto i Mondiali e l’anno dopo le Olimpiadi.
Q ualcuno ti ha spinto? Oppure è stata un’intuizione, un’epifania, hai capito all’improvviso che quella era la tua vita.
No, non ci sono state epifanie. Anzi, ci sono stati vari momenti difficili, soprattutto da ado lescente, quando vedevo le mie compagne di classe che facevano una certa vita, mentre io ne dovevo fare un’altra: lì il nuoto l’ho visto soprattutto come un sacrificio. Adesso invece è la mia vita “normale”. Sono contenta, non è più un peso. Certo, faccio fatica, ma chi fa un’altra vita fatica in un altro modo. A ventisette anni, se non nuotavo dovevo fare un altro lavoro.
Diciamolo, però, ai ragazzi che servono tanta disciplina e sacrificio.
Io per fortuna sono sempre stata molto determinata e propensa al sacrificio. Anche a scuola. C’erano materie e argomenti che non mi andavo giù, ma dedicavo a loro lo stesso tempo dedicato alle materie che mi piacevano. Certe volte, questa determinazione la do anche per scontata. Ad esempio con i compagni di allenamento: io magari sono una svizzera, che pre tende disciplina, concentrazione, massimo impegno, cose che a me vengono naturali, mentre altri hanno bisogno di stimoli diversi. Il fatto di essere propensa al sacrificio mi ha aiutato molto. Con il talento arrivi fino a un certo punto, ma per raggiungere il top devi faticare, con le unghie e con i denti, ci vogliono “lacrime e sangue”. Non voglio fare terrorismo psicologico, ma la vita d’atleta richiede grande impegno. Nel nuoto fatichiamo veramente tanto.
Com’è la tua giornata tipo?
Adesso ho appena iniziato e quindi si lavora con più tranquillità. Ma di solito mi sveglio, faccio colazione e vado in piscina. Poi c’è la merenda, mi riposo un’oretta, pranzo, due ore di pausa, e poi un altro allenamento, fino all’ora di cena. Un po’ di tv e poi si dorme.
Tu forse studi, più che dormire.
In effetti più passano gli anni e più diventa difficile ritagliarsi il pezzettino di tempo per stu diare. Quando ero più giovane facevo anche meno fatica a studiare. Alla triennale andavo forte. Il fatto è che anche studiare ti leva delle energie mentali. Quando nuoti non usi solo i muscoli, devi stare concentrato, sia per raggiungere la prestazione ottimale, si perché se nuoti male ti fai male.
PANZIERA
MARGHERITA
25OTTOBRE 2022
Q uante ore alla settimana in vasca? 23, come minimo.
Q uanto contano le doti naturali e quanto l’allenamento?
Ci sono persone che hanno poco talento, solo acquaticità, ma che si fanno un mazzo enorme e riescono a raggiungere certi livelli. E ce ne sono altre che hanno un enorme talento, che sono nate per nuotare, non potrebbero fare altro, e magari si allenano poco, ma riescono a raggiungere gli stessi risultati. Poi ci sono quelli che vincolo le Olim piadi: nuotatori che hanno un talento smisurato e si fanno un maz zo smisurato. Allora arrivano prestazioni di livello superiore. A cui non puoi arrivare solo con l’allenamento. Il talento è genetico, non possiamo farci niente, ma se ti alleni seriamente e in acqua da+i il cento per cento, il risultato che ottieni è il massimo che puoi fare, sia che si tratti di vincere le Olimpiadi o il Campionato regionale. In quel caso devi essere soddisfatto comunque del risultato.
Il momento più critico della tua carriera?
Ce ne sono stati tanti. Il primo quando avevo 15 anni e volevo fare pallavolo. Non ce la facevo più a nuotare, vedevo le amiche che face vano la loro vita e volevo farla anch’io. Volevo fare il corso di teatro o di bachata, andare al cinema la domenica... Poi ce ne sono stati altri, ad esempio quando ho iniziato ad allenarmi come professionista, soprattutto nel 2016-2017. Ma anche quest’anno è stato molto impegnativo dal punto di vista mentale. Quando capita, devi riuscire a reagire in qualche modo, anche se non vedi la luce. Come è successo quest’anno. Gli anni di esperien za hanno portato i loro frutti. Alla fine sono soddisfatta sia dei Mondiali che degli Europei.
Ci mancherebbe che non lo fossi! Sei entrata nella storia del nuoto.
Però è stato un anno molto tosto, faticoso. Nella carriera di ogni atleta ci sono momenti in cui “stai una bomba” e altri in cui “non ne hai”. Sono contenta di essere riuscita a chiudere la stagione in modo ottimale.
Il momento più esaltante della tua carriera?
Quando ho vinto l’Europeo nel 2018, per la prima volta. Bellissimo. Anche per il percorso fatto tutto l’anno, ho migliorato passo dopo passo, fino all’Europeo.
Prossimo obiettivo?
I Mondiali di Fukuoka, il prossimo anno. Inizierò la stagione tranquilla e andrò in progressione.
Sogni? In vasca e fuori.
Nel nuoto si punta a migliorarsi sempre più, ad alzare l’asticella. Già riuscire a migliorare i tempi sarebbe un bel traguardo. Nella vita, non lo so. Mi sta andando bene: ho un fidanzato che mi ama, abbiamo anche comprato casa.
Bello condividere le stesse emozioni e pressioni con chi ti capisce.
26OTTOBRE 2022
La maggior parte di noi nuotatori si fidan za con altri nuotatori. Non è che li andia mo a cercare, è che ti vedi tutti i giorni, non hai tanto tempo per andare in giro e fre quentare altri ambienti. E comunque una persona fuori dal nuoto non ha i tuoi ritmi, i tuoi orari e non riesce neanche a capire la tua vita. Magari il sabato sera vorrebbe fare le 5 di mattina, ma io non me lo posso permettere.
Cosa ti piace fare fuori dall’acqua?
Amo andare al cinema, sono fissata con la Marvel e i film fantasy. Per fortuna sono riuscita a convertire pure il mio fidanzato, altrimenti mi toccava andare da sola.
I tuoi punti di riferimento?
Una persona che ammiro molto, nel nuoto, è Federica Pellegrini, esempio di talento e disci plina. Si vede che lei è innamorata del nuoto. Se ha raggiunto certi risultati, a parte il talen to smisurato, è perché le piaceva veramente quello che faceva, e si sottoponeva ad allenamenti tostissimi.
Mai visto tanto calore intorno al nuoto come quest’anno. Di solito, in Italia, ci si entusiasma solo per il calcio.
Sì, c’è un po’ troppa ossessione per il calcio. È bello che ci sia questa attenzione intorno al nuo to. Speriamo che ce ne sia sempre di più.
Ci sono nuotatori che hanno un talento smisurato e si fanno un mazzo smisurato. Sono quelli che vincono le Olimpiadi. Il talento è genetico, ma se ti alleni seriamente, il risultato che ottieni è il massimo che puoi fare
27OTTOBRE 2022
MARGHERITA PANZIERA
Paolo Virzì
di Fabrizio Tassi
La risata malinconica. La commedia che flirta con il dramma (e viceversa). L’emergenza sociale trasfi gurata in cinema corale, in un racconto che spesso diventa affresco, ma la cui verità sta nei dettagli e in ciò che conta davvero, l’umanità, le emozioni, le relazioni.
Paolo Virzì non ha mai avuto paura a confrontarsi con la realtà, fin dai tempi de La bella vita (era il 1994), che raccontava la crisi della classe operaia. I suoi film ci fanno ridere, da sempre, ma ci lasciano anche inquieti, allarma ti, per il modo in cui ci sbattono in faccia vizi e debolezze di noi italiani. E poco importa che si parli di una vacanza a Ventotene, ai tempi del primo berlusconismo (Ferie d’agosto), della Brianza “ruggente” (Il capitale umano) o dell’Italia della precarietà endemica (Tutta la vita da vanti).
Siccità, il suo nuovo film, nasce dall’esperienza terribile dell’emergenza sanitaria, intrecciata con quella ambien tale, globale, vista attraverso il filtro della realtà italiana. Potere del cinema: quell’immagine inquietante del Tevere in secca, della città di Roma attraversata da una striscia di sabbia, con la gente in fila per riempire le tani che d’acqua (e poi ammassata negli ospedali), traduce in visione le nostre paure e vale più di tanti editoriali. Ma a Virzì non interessa la fantascienza distopica. Al centro dei suoi interessi ci sono sempre gli esseri umani. Ecco allora un racconto corale (con un super-cast, da Sil
vio Orlando a Valerio Mastandrea, da Claudia Pandolfi a Monica Bellucci, da Max Tortora a Elena Lietti) in cui si intrecciano donne e uomini messi a dura prova dall’iso lamento, dalla crisi economica, dall’angoscia generata dal Covid. Con il gusto e l’urgenza di sempre, quella di met tere in scena la “commedia umana”. Virzì ama racconta re gli strambi e gli stravaganti, ha un debole per le storie di formazione (Ovosodo, My name is Tanino, Caterina va in città) e le piccole “saghe” famigliari (La prima cosa bella) e sa anche confrontarsi con i dolori e le emozioni più intime (La pazza gioia, Ella & John). Ecco quindi che “la grande metafora” - tra riflessione sul passato e tragicomica profezia – si incarna in storie di amori falliti o mai consumati, errori e disillusioni, ricchi furbi e po veri ingenui, di politici (veri o fantasmatici) che parlano a vanvera, ma anche di persone che provano a crederci nonostante tutto, su e giù tra commedia e tragedia, satira sociale e dramma sentimentale.
Ne parliamo con lui, in una chiacchierata a distanza in cui risuonano i nomi di Altman e Amidei, si evocano i primi tempi del Covid e si ragiona sul futuro del cine ma, con un Paolo Virzì per certi versi inedito, un “mi scredente” che ammette (con pudore, sottovoce) di aver fatto qualche pensiero “spirituale”. La ricerca di senso è qualcosa che riguarda tutti. Soprattutto in tempi come questi.
Siccità è cinema che osa, tra “grande metafora” e “preghiera laica”
Ne parliamo con il regista: l’idea e la speranza, Altman e Amidei, l’emergenza ambientale e relazionale, il Covid e il senso della vita
28OTTOBRE 2022
I NCONTRI
(foto Paolo Ciriello)
Il film è nato in pieno lockdown, quando gli altri li incontravamo solo attraverso uno schermo. Fa una certa impressione, quindi, ritrovarsi ancora su Zoom, per questa intervista, ognuno nel suo studio, tra Roma e Milano. Ci scherziamo anche su. «Io però – dice Virzìutilizzavo strumenti più rudimentali, da ragazzetto, tipo Skype. Zoom l’ho conosciuto dopo, quando sono cominciate ad arrivare queste cose che adesso chiamano “call”», pro nunciato “coooolll”, perché è buono e giusto sfottere le manie anglofone diffuse.
Preparavo un film ambientato in Toscana.
Stavo per fare i sopralluoghi, nel marzo del 2020, quando hanno chiuso l’Italia.
Per passare il tempo ci chiedevamo: faremo mai più un film? Come si fa a immaginare di fare ancora cinema?
Torniamo al 2020, quando è nato Siccità. Ci rac conti come è andata?
Preparavo un film ambientato in Toscana, al mare. Sta vo per partire, dovevo fare i sopralluoghi, ma proprio in quel momento Conte ha chiuso l’Italia. Erano i primi di marzo e noi cercavamo di orientarci, di capire cosa stava succedendo: sarebbe stata una cosa lunga? In quel periodo, sul Corriere, uscivano degli articoli molto istruttivi di Pa olo Giordano. Paolo mi piace molto come scrittore, ma mi fido di lui anche come scienziato. Stava per pubblicare un instant book, Nel contagio, e io gli chiedevo lumi.
Erano tempi strani e difficili.
Visto che eravamo chiusi in casa, per passare il tempo ci interrogavamo: faremo mai più un film? Come si fa a im maginare di fare ancora cinema? Dovremo scrivere storie per personaggi con le mascherine, che non si baciano, che si salutano col gomito?
Alcuni dei protagonisti del film “Siccità”: Valerio Mastandrea, un tassista allucinato; la famiglia disfunzionale formata da Emanuele Maria Di Stefano, Elena Lietti e Tommaso Ragno; Silvio Orlando, carcerato in fuga ( foto Greta De Lazzaris)
C’era chi minimizzava e chi presagiva la catastrofe. Tra i miei amici c’erano due scuole di pensiero: quella incarnata da Francesco Piccolo (sceneggiatore del film, insieme a Virzì, Giordano e Francesca Archibugi, ndr), che diceva: durerà poco e ce la vorremo dimenti care in fretta; e quella di Paolo Giordano che, avendo accesso ai database, diceva: attenzione, durerà almeno un paio d’anni.
Previsione molto precisa.
Perché i dati funzionano e vanno consultati. Lui guardava le curve. Insieme al suo team torinese di fisici e mate matici, ha ideato algoritmi proprio per calcolare l’evolu zione delle epidemie.
E lì è scattata l’idea di scrivere Siccità. L’abbiamo scritto tra marzo e maggio. A luglio ho con segnato un trattamento. Cercavamo di immaginare il dopo, con il Covid alle spalle, senza però essere ancora in salvo. Con la prospettiva di quella cosa che gli scienziati chiamano The Big Next One (una futura ipotetica gran de epidemia, peggiore della precedente, ndr).
In quei momenti ci si fanno tante domande: perché lavoriamo, che senso ha ciò che facciamo? Per chi racconta, poi, immagino che i dubbi siano ancora più pressanti.
Sì, è così. Anche perché nel frattempo cominciavano ad arrivare le prime idee, l’instant movie (Lockdown all’i taliana), quello che girava il film a casa sua... E noi ci di cevamo: ecco cosa non vogliamo fare! Però ci interessava ciò che c’era dietro l’emergenza. Come si fa a raccontare questa epoca di pandemia senza nominarla? Parlami del Covid senza parlarmi del Covid... In queste riunioni onli
30OTTOBRE 2022
ne siamo partiti da un’immagine, che doveva avere un forte impatto visivo: abbiamo immaginato Roma che sta collassando, attraversata da una linea di sabbia, con le persone che portano le ferite di ciò che è stato, il distanzia mento, la stagione della pandemia, e hanno paura della “cosa nuova” che sta per arrivare.
Il bello di questo film è che c’è l’instant movie, la storia che parla di ciò che stiamo vivendo in questo momento, ma anche una riflessione a posteriore, un’impresa corale che forse ha anche un valore
simbolico. Sembra la tua risposta alla domanda: perché racconto? Esattamente. Ci siamo detti: ciò di cui abbiamo bisogno è partorire una grande metafora sulla condizione umana in questo momento. Però ci siamo anche detti di non usa re con i giornalisti questa espressione, “grande metafora”, sperando che la usassero loro. E in effetti è successo.
Nel film ci sono l’emergenza sanitaria e quella clima tica, ma anche la pandemia dei social, le differenze sociali acuite, la gente costretta a cambiare lavoro.
Paolo Virzì
31OTTOBRE 2022
C’è il collasso del mondo come l’abbiamo conosciuto. An che della politica, la fiducia nella politica. A questo pro posito, nel film non c’è solo l’ex politico, morto suicida, che continua a tormentare il suo autista, parlando di Pil e alleanze. Quello si riferisce al passato, ma c’è anche altro... Però, se ve lo sto a di’ io, dovevate accorgervene voi...
Accorgerci di cosa? L’esperto viene portato al cospetto di una ministra, il po tere politico attuale. E com’è questo potere? Una donna, bassa di statura, molto assertiva, marziale, che ordina di aprire una pagina social e una pagina fan.
Vero! Forse eravamo troppo divertiti dall’esperto che si innamora di se stesso e di Monica Bellucci. Ne ab biamo visti di virologi in tv in questi due anni.
La parola siccità si riferisce anche all’inaridirsi delle relazioni umane, la difficoltà a dirsi delle cose. La salvezza sta nella possibilità di incontrarsi. La speranza è inclusa nel momento stesso in cui scegli di raccontare qualcosa
È sotto gli occhi di tutti la fiera della vanità di questi newcomers dei mass media. Abbiamo visto acconciature diventare sempre più creative, li abbiamo visti perfino sul red carpet.
Davanti a un film corale, di solito, succede che ti dicano: volevi fare Altman. Non lo prendo come un insulto.
A me però il tuo film ha fatto più pensare al Giudi zio universale di De Sica, tanto per dirne uno. Vedi, essendo un altmanofilo ho letto tanto sul suo lavoro, e posso dire che quando Altman parlava dello schema a storie incrociate, lo definiva “all’italiana” (lui ne parlava a proposito di Nashville, anche se immagino che voi nel film ci vediate più Short Cuts). L’origine è quella. Penso ai film scritti da Sergio Amidei, che tra l’altro è lo sce neggiatore di Roma città aperta e Domenica d’agosto Quello schema narrativo era tipico del dopoguerra, del neorealismo, e gli americani hanno continuato ad usarlo, da Paul Thomas Anderson a Guillermo Arriaga, lo sce neggiatore di Iñárritu. Anche il rapporto tra il naturale e il sovrannaturale nasce col neorealismo, con De Sica.
Insomma, è una specie di riappropriazione. Noi, pigramente, cediamo la nostra sovranità agli altri, che se ne appropriano, e allora diciamo “altmaniano”, quando in realtà potremmo dire “amideiano” o “rossel liniano”.
Paolo Virzì
sul tappeto rosso della Mostra di Venezia la sera della proiezione ufficiale di “Siccità”.
Nell’altra pagina, photocall veneziano (Credits: La Biennale di Venezia - Foto ASAC G. Zucchiatti)
A Venezia, alla presentazione del film, Silvio Orlan do ha detto che il titolo poteva essere anche Sete. In effetti tutti i personaggi sono alla ricerca di qualco sa, che sia la sicurezza, l’amore, la dignità. La parola siccità ha un significato più ampio di quello ambientale. Si riferisce anche all’inaridirsi delle relazio ni umane, la difficoltà a interagire, a dirsi delle cose, a vedersi, a incontrarsi. Tipo i due amanti che si messaggiano compulsivamente, ma quando si incontrano non sanno cosa dirsi. O i due ragazzi innamorati uno dell’altro, ma che non se lo dicono e quindi non lo sanno. Tutti hanno un problema di sopravvivenza e uno di relazione. Devono dire qualcosa a qualcuno ma non ci riescono. Quindi c’è anche la siccità umana, relazionale, una specie di emer genza cognitiva nelle persone, che non sanno riconoscersi, non sanno rivolgersi all’altro.
32OTTOBRE 2022
Però in questo film c’è anche speranza. Mentre stavamo allestendo questo filmone catastrofico, ci siamo anche interrogati su ciò che stavamo facendo. Io mi prendevo in giro da solo, ripetendo quella bat tuta che fa dire Fellini a Mastroianni, quando si ri sveglia dal sogno iniziale di 8½: “Dottore cosa ci sta preparando, un altro film senza speranza?”. Ci dice vamo: “Ammazza oh, che film disperato stiamo facen do. Stiamo dicendo che ne usciremo ma che dopo sarà anche peggio”. E invece, nel momento in cui abbiamo cominciato a intrecciare i percorsi di queste solitudini, seguendo semplicemente la nostra passione artigianale per le strategie narrative, più che i partiti presi conso latori, ci siamo resi conto di una cosa: il racconto stes so faceva sì che queste storie parallele si intersecassero sempre di più. Fino a raccontare una cosa, una specie di formula segreta che è dentro queste storie di strazio umano: la salvezza sta nella possibilità di incontrarsi. Tanto che il film finisce con un incontro improbabile, assurdo, paradossale (ma questo non lo sveliamo, an datelo a vedere al cinema, è comico e poetico insie me, ndr). Nel paradosso farsesco della vita c’è questo elemento, anche biologico, vitale, della speranza. La speranza è inclusa nel momento stesso in cui scegli di raccontare qualcosa.
Ecco perché hai parlato del film come di una “preghiera laica”.
Sì, c’è anche un certo spirito... forse, per la prima volta nel mio cinema, una specie di idea... Io sono un laico, anzi, sono proprio un miscredente. Ma in quei giorni sono emersi dei pensieri sul senso della vita, anche spirituali, se si può dire così. In qualche maniera questo è un film che prega: prega no i fedeli davanti alle chiese barocche romane e al cospetto del Papa, pregano i ragazzi del conservatorio che suonano, pregano le persone anche davanti al telefonino, prega il dete nuto la Madonna che ritiene di aver incontrato. Sì, forse c’è dentro un bisogno di spiritualità. Ma te lo racconto a fatica.
Capisco benissimo il tuo pudore, certe parole sono consumate dall’uso e dall’abuso.
Sono cresciuto in una città, Livorno, che ha il più basso nu mero di chiese per densità di popolazione, e abito in una città, Roma, che ha il più alto numero di chiese, in cui è tutto un insopportabile scampanio. Ma qui, davanti al mio ufficio, c’è San Saba, una rara chiesa romanica, che ha l’aspetto di una pieve, con i cipressi, sembra di essere in Toscana: l’altro giorno sono entrato, ed era bellissima, de serta, purtroppo o per fortuna non lo so (ci sono certe chiese dove entrano solo i turisti a fotografare gli affreschi). In effetti qualche pensiero è venuto...
Paolo Virzì
33OTTOBRE 2022
Dopo aver visto il film, il parroco di San Saba ver rà a bussare alla tua porta e ti dirà: “Paolo stai tornando!”
(Seguono risata e silenzio eloquenti)
Il cinema continuerà a vivere. Non è una catastrofe se crescono e progrediscono le modalità di fruizione.
La speranza è che il cinema in sala non scompaia del tutto, come le carrozze a cavallo.
Noi cercheremo di fare cose che abbiano un senso in sala
La vedi, intorno a te, questa capacità di andare al di là del me e del mio, del proprio interesse, per ragionare in termini di “noi”?
La vedo, così come vedo il suo contrario. Siamo in un mo mento particolarmente isterico, di frustrazione, stupidità, anche di mitomania e vanità, però ogni giorno c’è la pos sibilità di imbattersi nell’altro, di trovare uno sguardo amichevole o fiducioso. Tante persone danno una mano agli altri. Ma essendo una società così feroce, c’è anche un’irresponsabile classe dirigente che usa le paure e le ali menta, per aumentare il proprio consenso. E a volte questa sembra prevalere. Pensiamo alla piazza: era un fenome no anche gioioso, ora è diventata una cosa feroce, reaziona ria, l’assalto alla Cgil, i no-mask/no-vax, i forconi, i gilet gialli. Ciò che riempie le piazze, in questo momento, è una gran voglia di fascismo.
Però ci sono anche i giovani del Friday.
Sì e c’erano anche al Lido di Venezia, hanno fatto una marcia per il clima e la polizia li ha dispersi con gli idranti per non farli arrivare davanti al red carpet. Mi hanno mandato una foto incredibile, l’ha scattata Mi chele Lapini (la foto è anche simbolica, la potete vedere qui a fianco, ndr).
Il paradosso è che, invece di pensare alle soluzioni possibili, tutti insieme, c’è chi mette ancora in di scussione il fatto che ci sia davvero un’emergenza climatica.
Porca miseria, davvero! L’altro ieri sono usciti dei paper firmati da quegli scienziati che avevano fatto i calcoli del countdown, cioè quanto tempo manca prima che si rag giunga il punto di non ritorno, il momento in cui non potremo più fermare il processo di crescita delle tempera ture. Ebbene, questa estate l’aumento delle temperature è stato superiore alle previsioni. Quindi hanno dovuto rical colare il tempo della fine. Basterebbe ascoltare la scienza. La siccità non è una profezia, basta leggere cosa scrivono gli scienziati. Il pianeta Terra è avviato a un destino che sembra ineluttabile e che andrebbe fermato. Metà della popolazione mondiale è destinata a morire annegata e l’altra metà a morire di sete. Queste cose, in passato, le abbiamo sempre guardate come fossero l’ossessione fana tica di qualcuno. Forse è il caso di sdoganare il concetto di estinzione umana, che non deve essere più un tabù. La accettiamo? Basta dirlo, per sbrigare certe commissioni prima della fine e accomiatarsi con le persone care.
Ti riporto al cinema. Molti addetti ai lavori sono ormai rassegnati sul fatto che il futuro sia solo streaming e piattaforme, e pensano che quella per il cinema in sala sia una battaglia di retroguardia. Più che altro è una modalità che sarebbe un peccato perde re. Ma allo stesso tempo devo dire, senza che nessuno si scan dalizzi, che non è una catastrofe se crescono e progrediscono le modalità di fruizione. Il cinema continuerà a vivere. Magari verrò redarguito da qualche collega attivista dei diritti d’autore, ma queste piattaforme stanno diventando sempre più proficue per tutti noi. Si moltiplicano le visioni con dei numeri prima impensabili. Allungano la vita ai nostri film. Su Netflix un mio lavoro di un quarto di secolo fa, Ovosodo, è stato messo tra i film del giorno e ha avuto più visioni dell’ultimo film americano. D’altra parte quel
(foto Michele Lapini)
34OTTOBRE 2022
li della mia generazione hanno visto i grandi capolavori del cinema in televisione o in vhs. Poi, certo, vedere 8½ in cucina, sotto la luce al neon, procura un godimento diverso rispetto a vederlo in sala, come mi è capitato da direttore del Torino Film Festival, quando proiettammo la copia re staurata. Speriamo che il cinema in sala non scompaia del tutto, come le carrozze a cavallo. Il governo italiano è stato molto severo con le sale, con la politica del “moriremo tutti”. Il prezzo pagato dagli esercenti è uno dei più alti, in altri paesi la flessione è stata più tenue. Sotto le macerie sono ri masti tanti cinema che non riapriranno mai più.
Bisognerà trovare un nuovo equilibrio. Quello delle sale forse diventerà un circuito per eventi eccezio nali e per appassionati. Noi faremo il nostro dovere come au tori cercando di fare delle cose che abbiano un senso in sala.
Siccità sembra pensato per le sale.
Sì, lo abbiamo girato pensando al grande schermo, in ci nemascope, non certo per vederlo sul telefonino. Ma ribadisco: non casca il mondo se si vedono tanti film su una smart tv. È un cambiamento positivo che si porta dietro anche qualche ferita. Se ci sono film che meritano, e sale che meritano, la gente ci va al cinema.
Dopo quasi 30 anni di cinema, hai ancor un sogno nel cassetto da realizzare?
Certo. Ad esempio nel 2004 ho scritto una sceneggiatu
ra con Scarpelli ispirata a un romanzo Melania Maz zucco, Vita, per raccontare la grande stagione dell’im migrazione italiana in America. Era venuto fuori un copione che adoro, forse una delle cose più belle che mi è capitato di scrivere. Ma si trattava di ricostruire New York a inizio Novecento, costava troppo. Ho messo il progetto da parte, ma è ancora lì, non invecchia. Al momento c’è un’altra produzione che mi ha scippato l’opzione sul libro, ma se non ci riusciranno neanche loro - e non credo che ci riusciranno - magari un giorno lo farò io.
La nostra rivista si chiama Redness... ..Rossità!
...Esatto. Che per noi è la passione, la motivazione, ciò che ci spinge a fare e creare. Cos’è che fa alzare dal letto, la mattina, Paolo Virzì?
La mattina devo correre a portare Jacopo a scuola. Entra alle 8, quindi per arrivare puntuale devo mettere la sveglia alle 6.45: colazione, preparativi, zaino... Il pensiero la mattina è sempre quello: farò in tempo a portarlo a scuola? Andiamo in motorino, perché si fa prima. E co munque è una cosa che mi piace molto. Quando non ci sarà più – tra pochissimo, perché ora fa la terza media – mi mancherà tantissimo. Sento che potrei uscire di casa come un pazzo per cercare altri bambini a cui lavare i denti e portarli a scuola.
Paolo Virzì
Una foto scattata sul set del film. Al centro, l’attore Max Tortora (Foto di Greta De Lazzaris)
35OTTOBRE 2022
Il segreto di una vera comunità? Una mente felice e “connessa”
INSEGNANTE E MEDITANTE, CI SPIEGA COS’È
CONSAPEVOLEZZA E ATTENZIONE AL “NOI”
La scena si svolge in una classe delle elementari. I bambini hanno una gran voglia di parlare delle loro vacanze. Il rischio, però, è quello di perdersi nel chiacchiericcio, in cui i più vivaci parlano a ruota libera, i timidi si nascondono dietro il banco e nessuno ascolta davvero l’altro. Ma la maestra ha un’idea: perché non trasformare questo momento in un’occasione di ascolto profon do? La classe è entusiasta e tutti si trasferiscono nel “laboratorio
del corpo” (ma può essere anche il “laboratorio del cuore”, il nome lo decide la classe). I bambini cominciano a camminare e quando suona il gong di una campana, si fermano vicino al compagno o alla compagna più vicino/a. Uno dei due racconta la sua vacanza, l’altro ascolta, e lo fa con tutta la sua atten zione, ascolta con le orecchie, con gli occhi, con il corpo. Poi le parti si invertono. Alla fine si ricomincia a camminare e l’operazione si ripete per tre o quattro volte. Risultato?
Bambini sorridenti, tranquilli, che dicono: “È stato bellissimo! Mi ascoltava davvero!”. Perché non è una cosa che capita spesso, e quan do accade, ti accorgi subito della differenza: l’ascolto vero ti fa sentire accolto, compreso, amato.
Ecco un esempio tra i tanti di ciò che accade quando l’inse gnante applica gli strumenti dell’educazione risvegliata. Grazia Roncaglia ci ha scritto anche un li bro due anni fa (Verso un’educazio
I DEE
GRAZIA RONCAGLIA,
“L’EDUCAZIONE RISVEGLIATA”:
ne risvegliata, edizioni Lindau), che è utilissimo a chi svolge il delicato ruolo dell’educatore, a scuola o in famiglia. Così come ha scritto, in passato, anche due manuali destina ti ai più piccoli (Felice... mente - Un percorso di meditazione per bambini e ragazzi) e agli adolescenti (Con nesso - A me stesso, agli altri, al Pianeta), che gli adulti dovrebbero utilizzare insieme a loro.
Cosa significa “educazione risve gliata”? Innanzitutto vuol dire ricordarsi che «educhiamo esseri umani in tutti i loro aspetti, non solo cognitivi ma anche corporei, emotivi, relazionali, spirituali. L’educazione “risvegliata” cerca di essere libera dai condizionamenti culturali, si fonda sulla presenza empatica dell’inse gnante, genitore, educatore, che non presume di sapere cosa è bene per il bambino/a, ma rimane in ascolto
dei suoi bisogni, per orientare la sua azione educativa con saggezza mo mento per momento, pur avendo ben chiara la direzione in cui andare».
È un’educazione che si rivolge non solo agli ambiti più personali, indi viduali, ma anche a quelli sociali: «Il bambino per stare bene nel grup po classe e nella società deve sapere e potere stare bene anche con se stesso».
Ma soprattutto è un’educazione che, sia individualmente che sul gruppo, «include il continuo lavoro sulla coltivazione della consapevolez za, della gentilezza o compassione, dell’impegno personale»
Non pensate a chissà quale metodo rigido e rigoroso, o a una qualche formula magica. Si tratta di avere una certa “visione”, una luce che illumina mente e cuore, «una forma di sapere che non si basa sulla conoscenza intellettuale o su una me
todologia particolare, ma scaturisce dall’esperienza diretta del momento educativo, quando, in uno stato di apertura e di presenza mentale, riu sciamo a connetterci direttamente ai bisogni dei ragazzi»
La meditazione è uno degli stru menti utili a sviluppare «l’auto-co noscenza e la consapevolezza di sé, che è alla base della responsabilità e del comportamento etico»
«Educhiamo esseri umani in tutti i loro aspetti, non solo cognitivi ma anche corporei, emotivi, relazionali, spirituali. Rimaniamo in ascolto dei loro bisogni. Lavoriamo sull’attenzione ma anche sulla coltivazione della gentilezza o compassione, dell’impegno personale»
37OTTOBRE 2022
Può essere interessante anche prendere in prestito un concetto di derivazione orientale, quello del Sé, scritto in maiuscolo (per distin guerlo dal sé-io che si percepisce separato, isolato, col suo inevitabile egocentrismo): è fondamentale, infatti, riuscire a capire se «stiamo coltivando in loro un genuino senso del Sé, inclusivo e compassionevole, oppure se stiamo nutrendo l’ego, che è figlio della separazione e padre della sofferenza»
Detto così, magari può suonare astratto o troppo teorico. Ma basterebbe se guire uno degli incontri organizzati da Grazia Roncaglia (vedi www. meditascuola.it) per capire quanto invece sia tutto molto concreto ed efficace. In uno dei video utilizzati in questi “ritiri di formazione” si vede un bambino di 7 anni messo di fronte a una domanda apparen temente complessa (o al contrario banale, se interpretata con le categorie e i condizionamenti di noi adulti): “Dov’è che finisci tu e dove inizia il mondo fuori?”. Lui ci pensa
un po’ su e poi dice: “Il confine non c’è mai, maestra, perché io sono un figlio, un bambino, il tuo alunno, il fratello di mia sorella, non ce l’ho un confine!”. Allora la maestra insiste e chiede: “Ma il respiro, dove inizia e dove finisce?”. E lui: “Il respiro comincia dall’albero e finisce dentro di me”. Difficile immaginare una risposta più poetica e insieme più esatta, veritiera, frutto di una percezione di sé come essere connes so con l’ambiente circostante. Altre cose che si imparano con l’e ducazione risvegliata? Ad esempio il silenzio. Cosa c’è di più lontano dalla normale esperienza dei bam bini di oggi? Nella classe di Grazia Roncaglia si è consolidata questa abitudine: quando c’è troppo bru sio, spesso su richiesta di qualche alunno, lei suona la campana e i bambini sanno che devono fermarsi e andare con l’attenzione nel corpo. «Fanno due o tre respiri – ci rac conta - e poi faccio sempre notare: “Sentite che bello, questo è il nostro silenzio!” Una volta una bambina ha detto: “Ogni silenzio è sempre diverso. Si sentono le voci fuori, ma
non entrano nel nostro silenzio, non lo disturbano”. Questi bambini sono dei saggi! Mi sento così fortunata nel poter condividere con loro mo menti di presenza e di pratica così profondi! In quei momenti li sento come fossero il mio sangha, perché so che cresciamo insieme in consapevo lezza».
Sangha è una parola che appartiene al vocabolario tradizionale india no, ma oggi lo si utilizza anche in Occidente, quando si parla di un gruppo che pratica la meditazione.
Potete usare la parola comunità, e il senso è lo stesso, se il gruppo è formato da persone che praticano la consapevolezza, la compassione, la condivisione. E ci si aiuta a vicenda.
«Una volta avevo perso le staffe, perché sono umana – racconta Grazia Roncaglia. - I bambini erano molto agitati, ho invitato il silenzio più volte e non arrivava. Ho detto: “Adesso mi avete mandato fuori dalla mia zona ok. Come faccio a spiegarvi la lezione di storia?”
Una bambina ha detto: “Maestra, avremmo bisogno di una bella me ditazione”. Io non potevo guidarla
Grazia Roncaglia organizza anche incontri con educatori, qualcosa a metà strada fra il ritiro e il corso di formazione
38OTTOBRE 2022
in quello stato, ma lei si è offerta di farlo al posto mio. È andata alla cattedra e ha guidato quella che chiamiamo la “meditazione dei 4 sassolini”, rivisitata da lei. Ha condotto tutta la classe e anche me a uno stato di calma bellissimo. Ho un meraviglioso gruppo di pratica di bambini che hanno 6, 7, 9 anni!»
Grazia Roncaglia (che vive e lavora a Torino) è un’inse gnante ed è una medi tante. Ha saputo unire le sue due vocazioni. Le chiediamo se non ci sia qualche resistenza, nel mondo della scuola, o tra i genitori, rispetto all’uso di questi concetti e queste tecniche. La stessa parola “risveglio” ha una lunga storia nel pensiero orientale (ma non è sconosciuta a quello occidentale): forse desta ancora qualche sospetto, soprattut to in certi ambienti culturali (che siano tradizionalmente religiosi, cattolici, oppure laici/laicisti). La sua risposta è insieme semplice e convincente: «L’educazione religiosa, di qualunque orienta mento, secondo me dovrebbe essere a cura della famiglia, perché dipende da scelte culturali e di “sentire” personale. I miei libri sono scritti in un’ottica laica: non voglio imporre i miei condizionamenti al posto di altri. Mi interessa che ciascuno trovi se stesso».
Pochi dubbi sull’efficacia della meditazione: «La letteratura oggi è piena di studi sugli effetti benefici della meditazione in generale. Forse meno sui benefici in età evolutiva, perché ancora non sono molte le real tà che introducono sistematicamente percorsi introspettivi nella scuola. Ma io che lo faccio da 20 anni, an
che se non sono uno scienziato, posso condividere cosa ho osservato nelle mie classi»
Con lei si pratica la “meditazione di consapevolezza”, ma in forma ludica, e si conducono “pratiche riflessive” «durante le quali gli studenti imparano a raccogliere l’attenzione dispersa all’esterno per dirigerla all’interno di sé, diventando gli osservatori delle sensazioni corporee, del respiro, dei loro stessi pensieri e delle emozioni. Già dai primi anni della scuola primaria possiamo educare i bambini a vol gere l’attenzione al corpo, a viverlo dall’interno e a cogliere i segnali di benessere e malessere che ci offre.
«L’educazione religiosa deve essere a cura della famiglia.
I miei libri sono scritti in un’ottica laica: non voglio imporre i miei condizionamenti al posto di altri»
Il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh ha contribuito in modo fondamentale alla diffusione in Occidente della “meditazione di consapevolezza”
39OTTOBRE 2022
Imparare consapevolmente a mante nere l’attenzione durante alcune at tività quotidiane come camminare, ascoltare o mangiare si può proporre come un’esperienza giocosa che può facilitare il ritorno alla calma e alla tranquillità, oltreché a sostenere attenzione e presenza mentale in ciò che di solito compiamo distratta mente, senza coscienza».
Sono cose di cui ogni adulto avrebbe bisogno e che, imparate da bambini, sono un seme gettato in un terreno fertile, che può portare i frutti della serenità, dell’auto-cono scenza, della responsabilità.
Sono questi i temi trattati in forma pratica nel suo ultimo libro, che si propone come un manuale per insegnanti e genitori: Aiutami a stare attento! edito da Lindau e appena uscito.
«La competenza dell’ascolto attivo è carente a tutte le età nell’era del multitasking, e i bambini che ne fanno esperienza riconoscono l’im
portanza di questo tipo di presenza. Imparare ad ascoltare con tutto il corpo, e soprattutto con la mente libera dalle risposte che vorremmo dare e dai nostri pensieri, è un pre requisito su cui è necessario lavorare nell’educazione».
Chi non ha mai sentito parlare della meditazione che parte dall’ascolto del respiro? «Il respiro è il ponte che ci conduce alla mente silenziosa, al posto sicuro dentro di noi dove possiamo ritirarci per tornare a casa, in contatto con noi stessi, generando auto-compassione e benessere. Posso assicurare che i bambini che impa rano la strada per tornare a sé la intraprendono anche quando non c’è un adulto a ricordargli di farlo». Altro aspetto fondamentale: “os servare la mente con la mente”. Se vogliamo usare una parola difficile, possiamo chiamarla “meta-con sapevolezza”. Si tratta di «fare amicizia con il funzionamento dei meccanismi cognitivi, imparando
a riconoscerne le tendenze abituali, a gestire l’energia e le informazioni che si manifestano nel corpo e le produzioni mentali che si mani festano nella mente, come pensieri ed emozioni. Queste attività di osservazione allenano i bambini nel diventarne testimoni e osservatori, aiutandoli a creare quello spazio che permette di non restare identificati. Cogliere la transitorietà e l’inconsistenza di pensieri e emozioni ci è d’aiuto nei momenti di difficoltà, in cui ne rimaniamo intrappolati: con l’autoregolazione emotiva imparia mo a sentirci al sicuro, e questo ha un impatto positivo nelle relazioni con gli altri e sulle risposte dei com portamenti alle stimolazioni».
Oggi si parla molto di min dfulness, una forma di meditazione che derivata alla tradizione buddhista, che ha al centro il concetto di consapevolez za. «Nelle mie classi ho cominciato
più di quindici anni fa a proporre, quasi di nascosto e in sordina, esperienze di meditazione e presenza mentale. Allora nessuno parlava di mindfulness e la meditazione corre va il forte rischio di essere scambiata per una pratica religiosa. In realtà il mio obiettivo è sempre stato quello di proporre pratiche corporee, esercizi per imparare la calma e l’autorego lazione che sono utili a potenziare l’attenzione e la concentrazione pri va di sforzo». La tecnica utilizzata non è così importante, così come l’oggetto scelto per ancorare l’atten zione: «Allo scopo possiamo scegliere il respiro, le sensazioni del corpo, un paesaggio, un fiore, una candela o un’immagine, i suoni e i rumori dell’ambiente, e così via. Anche un’azione quotidiana può diventare oggetto della nostra attenzione, ad esempio il camminare o il mangiare, e progressivamente, perché no? Anche leggere, fare un calcolo o studiare. Praticando e allenando l’attenzione focalizzata i bambini fanno espe rienza della presenza mentale (sati), che è l’abilità di prestare attenzione al momento presente senza dare giudizi su quanto accade: imparano a dare attenzione a ciò che stanno facendo mentre lo stanno facendo. Potremmo definire questo tipo di attenzione, poeticamente,“fare pace con il momento presente”. Dico sempre ai bambini che ogni azione la possiamo compiere in due modi: distrattamente o consapevolmente, e loro stessi si accorgono che quando siamo presenti a ciò che stiamo facen do impariamo e gustiamo molto di più ogni esperienza» Le chiediamo della sua storia per sonale, se viene prima il suo essere insegnante o meditante. «Vengono
quasi insieme. A partire dalla quinta superiore, quando ho letto Siddharta, sapevo dentro di me che sarei finita su un cuscino a medita re, ma non avevo la più pallida idea di ciò che questo volesse dire. A 20 anni ho fatto un viaggio in India. A 27 mi sono sposata e sono andata in Tibet, e ancora non sapevo nulla di meditazione, ma dentro di me già sapevo che era la mia strada. Intanto lavoravo a scuola e avevo una particolare empatia coi bambini, cercavo la strada per capirli, volevo arrivare al cuore di tutti, creare una relazione significativa con ognuno di loro».
Poi c’è stato l’avvicinamento al buddhismo tibetano, studiato e praticato per 12 anni, ma anche la grande delusione di un maestro che non si dimostrò tale. «Mi sono sen tita vulnerabile e ho capito quanto avevo affidato a qualcuno all’esterno ciò che invece è da cercare solo dentro di noi. Poi l’incontro con Thich Nhat Hanh ha curato il mio cuore». Il monaco vietnamita, deceduto proprio quest’anno all’età di 94 anni, era ed è considerato uno dei grandi maestri spirituali del nostro tempo, molto al di là dell’ambito solitamente associato a lui, quello del “buddhismo impegnato”. «Ho trovato un maestro che incarna ciò che insegna. Sono stata al Plum Village quando lui c’era ancora, nel 2016. E ho pensato che lui era l’insegnante che io voglio essere in classe: qualcuno che incarna ciò che
dice. Se in classe parli di gentilezza devi viverla, manifestarla, esserne espressione, pur rimanendo ferma sulle regole che sono necessarie».
Ed ecco la decisione di unire i due percorsi. «Noi diciamo continua mente ai bambini “state attenti” e non gli spieghiamo mai “come”. La meditazione insegna proprio questo. Allora ho cominciato a inventarmi delle attività, dei giochi. Il primo libro è nato nel 2014, ina spettatamente, quando mia figlia di 10 anni mi chiese di spiegarle cosa andavo a imparare in un ritiro di meditazione. Mi disse: “Prendi de gli appunti”. Così è venuto al mondo Felice... mente. Quel libro ha avuto una diffusione grandissima e per me inaspettata nel mondo della scuola. Hanno cominciato a chiamarmi per fare dei corsi agli insegnanti».
«Noi diciamo continuamente ai bambini di “stare attenti” ma non spieghiamo mai “come”»
41OTTOBRE 2022
Oggi queste idee e queste tecniche sono ampiamente conosciute e utilizzate. «Ora sono facilitatrice e coordinatrice a livello nazionale di una sperimentazione che è stata voluta dal Dalai Lama, scritta dalla Emory University di Atlanta, da Daniel Goleman e altri studiosi, un programma che si chiama SEE Learning (Social Emotional Ethical Learning), lanciato nel 2019, che si sta diffondendo in tutto il mondo. Un progetto laico che diversi Stati adattano alle proprie scuole. Stiamo formando tanti insegnanti e presto avremo un riconoscimento dal Miur come ente di formazione. Sono proprio le cose che già facevo e che ho ritrovato nel programma del Dalai Lama».
Si tratta però ancora di piccole espe rienze, frutto di iniziative personali.
«La scuola italiana è fondata sul “cervello cognitivo”, che “va riem pito” di conoscenze. Gli insegnanti poi devono occuparsi quasi per forza anche del “cervello limbico”, delle emozioni, perché entrano in modo dirompente a scuola. Ciò che viene dimenticato, invece, è il “cervello ret tile”, il corpo. Ma stiamo parlando di bambini, esseri umani che stanno crescendo e vanno aiutati a svilup pare tutti e tre i cervelli in modo ar monico e integrato. Esperienze come l’educazione nel bosco o l’educazione
attiva sono già tentativi di trovare delle risposte a questa carenza. An che il teatro – quello non strutturato, improvvisato – ha una valenza formativa incredibile. L’insegnante che ha nella sua esperienza qualcosa del genere ne riconosce l’importanza.
L’adulto deve accettare di mettersi in gioco: non basta leggersi un ma nuale. Bisogna mettere le mani in pasta, fare quelle esperienze». Da dove cominciare? Dai libri di Grazia Roncaglia, ad esempio, che propongono strategie, esempi, esercizi concreti. Quanto ai testi fondamentali, Grazia cita soprat tutto «i libri di Thich Nhat Hanh,
perché lui scrive in una maniera laica, poetica, che risuona dentro e nutre il bambino interiore, anche dell’adulto. Ci sono libri che mentre li leggi ti trasmettono amore. Il mio cuore è stato curato leggendo la sua Vita di Siddharta, il Buddha. Un altro libro da cui ho ricevuto tantissimo è Cinque inviti di Frank Ostaseski. Sono testi che ci nutrono, come Il silenzio è cosa viva di Chan dra Livia Candiani».
Arrivando alla conclusione di questo incontro illumi nante, le chiediamo cosa ne pensa del momento che stiamo
42OTTOBRE 2022
vivendo: percepisce un cambiamen to, un risveglio, una consapevolezza diffusa? «Ormai non possiamo che guardare le cose come interconnesse tra loro. La globalizzazione cos’è, se non una visione sistemica delle cose? Non possiamo prescindere da questo. Non possiamo avere una visione meccanicistica, pensando che ci sia un vuoto che ci separa dagli altri, e se l’Italia sta bene, è ricca, non ce ne frega niente del resto del mondo. Il Covid (questione gestita malissimo, che forse ha dato una spinta al ri sveglio delle coscienze, alla necessità di trovare un nuovo paradigma) ci ha mostrato benissimo come sia impossibile isolarsi. Siamo talmente interconnessi e interdipendenti. Per questo voglio educare a una visione sistemica, all’idea di diventare davvero responsabili del tutto, perché impatta anche sulla nostra vita». Ora è fondamentale uscire dall’os sessione del “mio”, dall’idea che ci si salva alle spalle degli altri. «Con i bambini uso un’espressione: dobbiamo guardare le cose con gli occhi del gruppo. Mi ricordo un episodio accaduto di inverno. Di solito porto sempre i bambini a giocare fuori, abbiamo un giardino bellissimo, la natura ha un effetto benefico su di loro. Nei giorni precedenti aveva piovuto e finalmente quel giorno si
poteva uscire. Ma arriva un’opera trice e dice: “Più tardi ci sono le riu nioni con i genitori, vi chiediamo per favore di non andare in giardino, altrimenti non riusciamo a togliere il fango dalla scuola”. Si è alzato un coro di “no” e di proteste. Allora ho detto ai bambini: “Comprendo la vostra delusione, ma proviamo a guardare le cose con gli occhi del gruppo. Siamo una comunità. Perché la bidella ha fatto questa richiesta? Perché ci sono le riunioni, e vuole accogliere i vostri genitori nel miglior modo possibile”. Ho ribalta
to la visione della cosa, e tutti hanno accolto di buon grado. Dobbiamo imparare anche a fare delle rinunce. A un certo punto la decisione di non uscire è diventata una scelta collet tiva, ed è stato come fare un dono ai genitori. Ci siamo inventati un bellissimo intervallo alternativo. E ci siamo presi cura del gruppo, siamo andati oltre l’interesse individuale, con una scelta compassionevole. In un certo senso, siamo andati oltre un piacere a breve termine nel nome di un benessere collettivo più alto». La scuola come potrebbe essere.
Ritorno alla terra, nel labirinto dei sogni
nera, lucida, così come la figura imponente, una divinità materna, che si innalza su un angolo d’Africa, ai Giardini.
Di esseri misteriosi, d’altra parte, è costellato tutto il percorso della Biennale: totem, esseri sopranna turali o vagamente animali, forme mutanti.
Ci sono grandi arazzi che attingono al vudù ed edifici affrescati per rac contare l’epopea rom, entità ance strali e sacre, mitologie recuperate, alla ricerca di un senso, una nuova fondazione, una ricostruzione del mondo finalmente in armonia con gli altri e la natura.
Un elefante su un piedistallo. Grande, fiero, possente come un elefante. Reali stico. Ma anche misterioso e forse inquietante, per il modo in cui assorbe la luce (una vernice speciale ricopre il poliestere), tanto che non sai bene se è una celebrazione della natura o l’evocazione di qualcosa di sovrannaturale, un altrove che non ci appartiene, che possiamo ammirare solo da lontano.
È realistica anche la donna piegata, impegnata a lavare i panni, su uno specchio di marmo, dentro uno spazio geometrico, astratto, che rende la scena surreale. Una statua
Un centauro, un essere fiammeg giante, un leopardo (anzi “una leoparda”) con la pelliccia costellata di occhi e genitali, «gli occhi dell’i stinto, una forma di conoscenza più ricca e più profonda della raziona lità». Non ci crede più nessuno (o quasi) all’uomo misura di tutte le cose, con la sua ingenua fiducia nel la ragione, capace di risolvere ogni mistero e dominare la natura. Serve un nuovo modo di essere, di stare al mondo, di vivere in armonia con la
natura. Lo dicono anche quei pezzi di passato che vengono riprodotti in scala 1:1, realismo surreale, anche qui, schegge di mondo impazzite, che attraverso la memoria e l’imma ginazione si ripresentano in forma d’arte, rappresentazione, per dirci qualcosa di ciò che siamo stati e ciò che siamo diventati.
Anche se il rischio di confondersi, di fraintendere il messaggio, alla Biennale è sempre dietro l’ango lo, vista la sua natura di mostra poliforme, che contiene tutto e il suo contrario. Figuriamoci poi in un’edizione come questa, quella della rinascita post-Covid, intitolata “Il latte dei sogni”.
44OTTOBRE 2022
Biennale Arte: è il momento migliore per (ri)visitare con calma questa mostra-mondo L UOGHI
La Biennale Arte è un luogo va sto, diffuso, quasi labirintico, che un po’ spaventa i pro fani. Come ci si orienta in quegli spazi sterminati, che raccolgono centinaia di opere, quadri, sculture, video, installazioni di ogni tipo? Si contano più di 200 artisti (quest’an no in larga maggioranza donne) provenienti da 58 Paesi diversi del mondo, con padiglioni nazionali che sono “mostre nelle mostre”, se non vere e proprie performance a cui dedicare tempo e attenzione.
Da una parte ci sono i Giardini veneziani, con la loro struttura vagamente circolare, disseminata di edifici-padiglioni, che conver gono verso un edificio centrale, sviluppandosi poi al di là di un canale. Dall’altra l’Arsenale, con la sua struttura lineare, “a L”, suddi visa tra artisti e spazi tematici, per poi approdare a un’ultima serie di padiglioni, ai quali si arriva dopo aver percorso una strada che si misura in chilometri.
Si può anche decidere di “vedere tutto”, correndo di qua e di là, quasi consumando, divorando l’evento, soprattutto i suoi padi glioni più chiacchierati. Oppure ci si può affidare all’intuizione, lasciandosi guidare da ciò che ha una risonanza in noi (perché evi dentemente ci riguarda), ma anche da ciò che ci spiazza o ci inquieta, a ciò che ci supera (perché solo così si esce dalla propria comfort zone e si cresce).
L’elefante imponente di Katharinas Fritsch, un centauro più vero del vero (nel padiglione danese) e uno dei “set” creati da Zineb Sedira. In basso, due opere di Simone Leigh
(foto Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
La leoparda della cilena Cecilia Vicuña ha il corpo costellato di occhi e genitali.
Myrlande Constant attinge alla cultura vudù realizzando coloratissimi drappi ricamati
La Biennale Arte porta all’ennesima potenza la qualità propria di (quasi) ogni mostra e museo, quella di esse re una macchina del tempo e dello spazio, visto che ogni opera è una porta che si apre su altri mondi, veri o immaginari, per rendere visibile l’invisibile.
l’avanguardia storica; dall’altra lo snobismo intellettuale degli addetti ai lavori, la dinamica accademica e mortifera della nicchia culturale che parla solo agli adepti. Andarci ora, quando è in dirit tura d’arrivo – aperta il 23 aprile,
Ma la prima cosa da fare è lasciare a casa i due opposi pregiudizi che rischiano di appesantire la visita: da una parte l’idea fin troppo popolare che l’arte contemporanea sia una specie di circo o di parco giochi, in cui tutto è permesso, con annessa nostalgia per l’arte classica e/o
l’Esposizione Internazionale d’Arte chiuderà i battenti il 27 novembre – significa essere liberi dalle chiacchiere della prima ora, le discussioni, le polemiche, ma anche l’ansia da prestazione: sappiamo cosa c’è, si tratta di scegliere cosa vale la pena vedere.
Ricordandosi comunque qual è lo spirito con cui Cecilia Alemani ha ideato questa biennale, fondata sulla «metamorfosi dei corpi» e la «definizione di umano», la «rela zione tra individui e tecnologie», «i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra» (sono parole sue). Si parla di “postumano”, dei dubbi e le paure suscitate dalla pandemia e il pericolo di disastri ambientali, ma si parla anche di una «nuova comunione con il non-umano» e di «re-incantesimo del mondo» (Silvia Federici).
Anche se poi queste sono solo parole, e l’incantesimo va sperimentato, toccato con mano (occhi, mente, cuore). Ecco a cosa serve l’arte.
I temi? La metamorfosi dei corpi, il rapporto con la natura, la definizione di umano, l’incantesimo del mondo
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
46OTTOBRE 2022
Magari conservando lo spirito di quei bambini che giocano, nel padiglione del Belgio, uno dei primi che si incontrano entrando ai Giar dini: bambini del Congo, di Hong Kong, del Messico, delle montagne svizzere, che si muovono su grandi schermi, saltando tra i visitatori, scendendo lungo pendii nevosi, correndo tra le scorie delle miniere di cobalto, impegnandosi nei giochi più vari, strani e/o universali.
I Giardini sono il luogo per eccel lenza dell’arte come esperienza, che sia il disordine totale rumorista, assordante, di Marco Fusinato per l’Australia o la “cattedrale del corpo” costruita da Adina Pintillie (Romania), facendo dialogare scene intime, musica e identità non-bi narie, passando per l’iperrealismo fantastico-fantascientifico del pa diglione danese, popolato da esseri misteriosi, o le “sculture effimere” di Latifa Echakhch (Svizzera) illu minate dai ritmi delle percussioni di Alexandre Babel.
Se nel padiglione inglese (Sonia Boyce) ascoltiamo le voci meravi gliose di alcune vocalist nere bri tanniche, in quello francese (Zineb Sedira) ci ritroviamo proiettati negli anni Sessanta e Settanta, dentro veri e propri set cinematografici, in un dialogo tra memoria e finzione, Europa e Algeria. Maria Eichorn
spoglia l’imponente padiglione te desco, riprogettato nel ‘38 secondo i canoni estetici fascisti, aprendolo letteralmente, facendo emergere dal sottosuolo e dalle pareti le tracce del padiglione originale.
Bellissimi i misteriosi e dorati Pano ramic Photomontages del padiglio ne israeliano, ma anche i pannelli
giganteschi del padiglione polacco, che celebrano la cultura Rom dentro un impianto scenico rinasci mentale (Malgorzata Mirga-Tas si è ispirata a Palazzo Schifanoia).
Meravigliosa e inquietante la visione dell’haitiano Frantz Zéphirin, che ritrae una nave schiavista.
In alto, il profumato Earthly Paradise di Delcy Morelos, che ci fa camminare attraverso blocchi di terra, e un’opera di Belkis Ayón, un magico-mistico funerale secondo la tradizione afrocubana
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
47OTTOBRE 2022
Mentre i Sami, vittime del potere coloniale in terra scandinava, sono al centro del padiglione dei paesi nordici, qui in versione indigena.
Il cuore dei Giardini batte nel Pa diglione Centrale, che ne “La culla della strega” esalta l’anima surreali sta di questa Biennale, omaggiando
Anche se l’occhio, ai Giardini, è cat turato soprattutto dalle creazioni imponenti di Simone Leigh, dentro e fuori il padiglione americano: l’Africa ancestrale, incarnata in eleganti forme di bronzo, acquista una forza e una realtà nuove, così come la lavandaia giamaicana, un’immagine che ai tempi fu creata ad uso e consumo dell’immaginario colonialista, e che qui acquista una dignità, una bellezza, una “sovra nità” (titolo del padiglione) che la libera, in qualche modo.
artiste che appartengono all’avan guardia storica (il primo Novecen to), a partire da quella Leonora Carrington che ha ispirato il titolo della rassegna, un libro di favole che esalta la possibilità di trasformarsi e diventare altro da sé. Dell’elefante di Katharina Fritsch abbiamo già parlato. Così come delle presen ze magiche, mitiche, misteriose (carnali e spirituali insieme) che attraversano tutta la Biennale, vedi la leoparda della cilena Cecilia Vicuña, che attinge a piene mani
dalle culture indigene, o le morbide sculture, divinità in fibra di canapa – fra tradizione e design moderno –dell’indiana Mrinalini Mukherjee. Se Paula Rego, con la sua arte figurativa, ci espone senza pietà alle dinamiche di relazioni sociali intrise di violenza (in cui la donna, per lo più, è vittima), Christina Quarles esalta i corpi sinuosi, fluidi, intercambiabili, usando colori che colpiscono lo sguardo, sbavature, colature, abrasioni. Poi ci sono le “tecnologie dell’incanto”, opere che dialogano con i computer, e le immancabili provocazioni, come il video dedicato alla manutenzio ne delle sex doll o l’inquietante serie fotografica in cui Aneta Grzeszykowska ritrae la propria figlia alle prese con una bambola di silicone che assomiglia all’artista (simile a un cadavere), sovvertendo il rapporto materno.
L’epopea Rom e la protesta Sami, i riferimenti al vudù e alle culture indigene, le origini africane riscoperte
(foto Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia)
48OTTOBRE 2022
All’Arsenale si riparte da Simone Leigh, la sua celeberrima Brick House, un busto di donna nera con una gonna-capanna, che torreggiava al centro di Manhattan, e si prosegue con l’opera straordinaria di Belkis Ayón, che con i suoi bianchi, neri e grigi crea mondi magici, radicati nella tradizione spirituale afrocuba na. Qui il viaggio diventa più linea re, quasi obbligato, e l’allestimento diventa un percorso fatto di “isole” che portano in mondi lontani, tra movimenti laterali e improvvisi salti in avanti o all’indietro, digressioni e sorprese.
Ci sono i forni di argilla di Gabriel Chaile, che evocano le civiltà preco lombiane, omaggiano, ludicamente, la tradizione argentina, il senso di comunità, e in questa nuova serie ideata per la Biennale ritraggono nonni e genitori.
Le forme sospese, seducenti, di Ruth Asawa, americana di origine giapponese, che intreccia fili metal lici traslucidi, in forme che sembra no quasi organiche. I mascheroni alti tre metri di Tau Lewis, a costru ire un Divine Giants Tribunal che guarda alla cultura Yoruba e alla tradizione artigianale, usando tessu ti cuciti a mano e ritagli di pelliccia. Camminando lungo l’Arsenale, capita anche di ritrovarsi circondati di blocchi di terra che profumano
di fieno, spezie e manioca, l’Earthly Paradise di Delcy Morelos.
Le opere più affascinanti, forse, sono quelle che attingono alla tradizione vudù. L’haitiano Frantz Zéphirin è addirittura un sacerdote di questa religione, che vive tra le montagne di Port-au-Prince, e i suoi affollatissimi quadri dai colori vivaci sono letteralmente ipnotici: vedi la nave schiavista governata da marinai-animali, con gli africani che emergono dal ventre dello scafo, preceduta da una sirena con il corpo da indigeno.
È di Port-au-Prince anche Myrlan de Constant, che realizza enormi drappi ricamati a mano, pieni di cose, personaggi, storie, idoli, esseri ibridi, simboli tradizionali vudù, in una mirabile esplosione di forme e colori.
Le spettacolari statue-forni di Gabriel Chaine. In alto il padiglione israeliano e un dettaglio dell’opera di Myrlande Constant. Nell’altra pagina, l’epopea Rom celebrata nel padiglione polacco
(foto Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
49OTTOBRE 2022
Ed è qui che capiamo meglio cosa si intende per “re-incanto”. La senti, la vedi quella meraviglia, nel fogliame che dà vita a un misterioso essere dipinto dal messicano Felipe Baeza: «Mi apro contro la mia vo lontà sognando altri pianeti. Sogno altri modi di vedere questa vita».
Lo ritrovi anche nelle opere che inscenano il fascino del cyborg o
immaginano una “nuova ecologia” che unisca uomo, natura e tecno logia (i fiori elettrici di Tetsumi Kudo). È organica o meccanica l’opera di Mike Lee, che usa acciaio, motori, olio e silicone per creare oggetti sensoriali? Passiamo da un’opera di video-arte a una mostruosa scultura ancestra
le, dalle forme lucide preistoriche create da Teresa Solar alla giun gla-giardino costellata di presenze misteriose, creata da Precious Okoyomon, usando la pianta di kudzu e la canna di zucchero, invo cando la “rivolta ecologica”.
A questo punto è probabile che siate sfiniti, ma ci sono ancora i
Una delle affascinanti opere dell’artista messicano Felipe Baeza. A fianco, i fiori elettrici del giapponese Tetsumi Kudo. In basso, uno degli enormi spazi (ri)creati da Gian Maria Tosatti nel padiglione italiano
(foto Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia)
50OTTOBRE 2022
padiglioni di Ghana e Islanda, Mes sico, Libano e Lettonia, Kosovo e Ucraina, fino alla mega-installazio ne del padiglione italiano, l’opera di Gian Maria Tosatti che ci racconta la fine del miracolo italiano, tra archeologia industriale e residui di provincia, portandoci letteralmente dentro una scenografia della me moria desolata, che poi si libera in uno spazio misterioso, nel “Destino delle Comete”, il passaggio oscuro e luminoso di un’umanità rimasta senza eternità.
Un luogo fatto di mille luoghi diversi – concreti, diffusi intorno a noi, oppure esotici, immaginifici, extra-terrestri - ecco cos’è la Biennale. Che dopo due anni di Covid celebra «la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la pos sibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incompren sione e quella della comunione» (Cecilia Alemani). Cose irrinuncia
bili, che abbiamo imparato a non dare più per scontate. Siamo noi a decidere in quale realtà vogliamo vivere. E il “latte dei sogni” ci aiuta a capire chi siamo davvero.
Precious Okoyomon, artista, poetessa e chef , newyorchese di origini nigeriane, ci fa entrare letteralmente in una giungla-giardino.
La sua opera si intitola “To See the Earth before the End of the World” . In basso, le forme sospese di Ruth Asawa
(foto Roberto Marossi
Courtesy: La Biennale di Venezia)
(foto Roberto Marossi
51OTTOBRE 2022 Courtesy: La Biennale di Venezia)
Il festival di Venezia è la gente accampata all’alba, che sta dodici ore sotto il sole, in attesa, pur di vedere Timothée Chalamet da vicino, e magari guadagnarsi un autografo o un selfie. È l’infinita sequela di passerelle, photo call, conferenze stampa, in cui si danno appuntamento i nomi più impor tanti del cinema mondiale, inseguiti da fotografi e giornalisti. È la vita da cinefilo festivaliero o da critico cinematografico, in piedi alle 7 (il primo film è alle 8.30 del mattino, l’ultimo alle 22) e in sala per otto ore al giorno (tre o quattro film quotidiani, c’è chi arriva anche a cinque), mangiando quello che capita, magari facendo pure le ore piccole imbucandosi a una festa.
È il piacere di guardare un film in sieme al regista e all’attore, e vivere la tensione della prima proiezione mondiale, l’opera che si rivela al pubblico, dentro sale stracolme. È anche, e forse soprattutto, il gusto di ascoltare tante lingue diverse, viaggiare nel tempo e nello spazio, imbattersi in film strambi, estremi, ambiziosi, autori indipendenti che cercano l’arte più che lo spettacolo, e che spesso non trovano neppure una distribuzione.
Raccontare Venezia a chi non c’è stato, è sempre un’impresa. Anche perché in tv si vede solo la punta dell’iceberg, ovvero il tappeto rosso, il luogo della celebrazione del cine ma (mainstream) e della vanità. Qui va in scena la festa popolare, il rito del divismo, che è inutile guardare con snobismo (gli addetti ai lavori che sbuffano di fronte all’entusia smo dei ragazzini pronti a difendere la prima fila con la vita), perché la settima arte è il luogo del sogno, col suo olimpo di esseri trasfigurati dal grande schermo, che diventano
improvvisamente reali.
Già dire “Venezia” è un’approssima zione, perché il Lido è un mondo a parte. Qui non c’è quasi traccia della città incantata che galleggia sull’acqua, attraversata dai canali, piena d’arte in ogni angolo, percor sa da case antiche, bellissima anche quando è trascurata e decadente.
Qui siamo in un’isola, da tutti i
punti di vista, che vive la sua vita tranquilla, fatta per lo più di strade percorse in bici, ville (con tanto liberty) e case di due-tre piani al massimo, lunghe spiagge sabbiose,
Venezia: folle e divi son tornati Tutti pazzi per il tappeto rosso VI RACCONTIAMO LA PRIMA VOLTA DI REDNESS AL FESTIVAL FILM A RAFFICA, ALZATACCE E INCONTRI CON LE STAR E VENTI
entrate nell’immaginario popola re (soprattutto quelle dell’Hotel Excelsior e del des Bains).
Il festival, in realtà, sta racchiuso in un fazzoletto di terra, circondato da blocchi di poliziotti e militari che controllano gli zaini di chi entra, e si dispiega per cento metri al massi mo, tra giardino, palazzo del casinò (la casa dei giornalisti) e palazzo del cinema.
Gli appassionati fanno la spola tra i cinema e l’Excelsior, dove vengo no ospitate le delegazioni (ma le star americane scelgono gli hotel
più esclusivi di Venezia). I cinefili incalliti corrono da una sala all’altra, ossessionati dalla possibilità di per dersi qualcosa di importante. Gli addetti ai lavori habitués, invece, sanno godersi anche una pausa al mare, hanno un elenco di osterie di fiducia (qui i prezzi lievitano durante il festival) ma devono trovare il tempo per le interviste, le presentazioni dei film e il famigera to “colore”.
Sì, perché a casa c’è anche chi vuole temi forti, scandali, pettegolezzi, vestiti spettacolari. E i giornali van no a nozze quando capita un film come Don’t Worry Darling, col suo carico di gossip feroce, le liti sul set e fuori, i protagonisti che sfilano cercando di non incontrarsi. Harry Styles era uno dei personaggi più attesi, soprattutto dalle ragazzine, che si sono assembrate a centinaia la sera della sua passerella.
FAN IN ATTESA A PARTIRE DALL’ALBA PER VEDERE DA VICINO TIMOTHÉE CHALAMET ED HARRY STYLES
L’Excelsior visto dal basso. La folla che si accalca intorno al tappeto rosso. La passerella di Timothée Chalamet (credit La Biennale - Foto ASAC - Giorgio Zucchiatti). Nell’altra pagina, la piazza del Casinò
Dopo due anni di emergenza sanitaria, la Mostra dell’Arte Cine matografica è tornata ai bagni di folla del passato. E perché ci sia la folla, ci devono essere anche grandi nomi americani: applauditissimo Adam Driver, forse il miglior attore della sua generazione; letteralmen te idolatrato l’audace Timothée Chalamet, con la sua mise rossa che lasciava scoperta la schiena e l’aura da predestinato (già arriva to, per la verità, tutti lo cercano, tutti lo vogliono); commovente, in particolare, l’abbraccio di Venezia a Brendan Fraser, che ha vissuto anni
difficili, di depressione ed esclusio ne dal mondo di Hollywood, e con The Whale si propone come attore vero, in uno di quei ruoli-metamor fosi che piacciono tanto agli Oscar. L’elenco dei divi visti a Venezia è lungo, dalla regina Cate Blanchett (miglior attrice, grazie a Tàr) a Co lin Farrell (miglior attore, grazie a The Banshees of Inisherin, anche se noi gli abbiamo preferito Brendan Gleeson), da Sigourney Weaver a Monica Bellucci, da Catherine Deneuve a Riccardo Darìn (a pro posito di attori straordinari). Per i migliori look chiedere a Vogue, che
ha premiato “l’algida e ipnotica” Tilda Swinton.
A noi, che scriviamo a riflettori spenti (e a voi, che leggete), inte ressano soprattutto i film. Non è stata un’annata indimenticabile, e il dominio produttivo di Netflix può suscitare qualche inquietudine agli amanti del grande schermo.
Ma il cinema è vivo, lotta insieme a noi (quanti inni libertari, allarmi esistenziali, proclami ecologisti, appelli alla verità e alla giustizia!) e soffia dove vuole, raccontando storie vecchie e nuove, continuando ad alimentare i nostri sogni.
Colin Farrell firma autografi e concede selfie ai fan che lo hanno atteso fin dalla mattina. Ma il più idolatrato dal pubblico (giovane) è stato Harry Styles (in basso). Accanto, la magnifica Tilda Swinton (credit La Biennale - foto ASAC)
Persa l’innocenza, cosa rimane? Serve una nuova narrazione
IL MEGLIO E IL PEGGIO VISTO ALLA MOSTRA DEL CINEMA TANTO EGO, UN PO’ D’IMPEGNO E IL FANTASMA DEL COVID CHIACCHIERE CON LE STAR
di Fabrizio Tassi
La perdita dell’innocenza. Anzi, peggio, la sua umiliazione. Il prezzo (umano) altissimo che paghiamo alle ragioni dell’arte e della civiltà, al progresso tecnologico e alla crescita economica, ma anche al bisogno di essere accettati, apprezzati, possibil mente amati.
Forse è questo il “tema” di Venezia 2022, o meglio, lo sfondo esisten ziale e sociale (e politico, e cultura le) dei film migliori visti quest’anno.
La vetrina di un festival ha sempre tante forme, generi, atmosfere di verse, ma viviamo tutti sullo stesso pianeta ed è difficile sfuggire allo spirito del tempo.
Il nostro tempo parla di solitudine e sopravvivenza (dal Covid alla catastrofe ecologica annuncia ta), di identità in discussione e meccanismi di potere logori che perpetuano se stessi stancamente. Lo si può dire romanticamente, con i giovani cannibali di Bones and All, nomadi e innamorati, in fuga dal decrepito sogno america no, in un film tetro e affascinante di Luca Guadagnino (sempre più consapevole dei suoi mezzi). Lo si può ritrovare negli anni Sessanta di Emanuele Crialese, L’immensità,
in quell’idea di famiglia che è una prigione dell’anima, in cui la moglie è un oggetto, un ruolo, un mecca nismo sociale, e una ragazza che sente di essere un ragazzo rischia di impazzire. Lo si può ambientare dentro una casa-bara, quella in cui vive il professore obeso di The Whale (Darren Arofnosky), che vorrebbe meritarsi l’amore della figlia, anche se la vita e la società lo hanno espulso dalla realtà. Qui, ad esempio, c’è un finale luminoso, un’idea di salvezza possibile, di tra sfigurazione (che ha irritato molti e appassionato qualcuno), perché non tutto è perduto quando c’è un essere umano che vive per l’amore e la poesia, un ideale assoluto, per cui vale la pena anche morire.
L’innocenza di Norma Jeane (Blon de), il suo bisogno di essere amata e ammirata, si scontra con gli appetiti suscitati da Marilyn Monroe, con i meccanismi di un’industria che la stritola, una fama che si nutre di morte e alienazione (qui la redenzio ne è postuma, rinviata a una dimen sione esclusivamente cinematografi ca, un cinema quasi medianico).
In The Banshees of Inisherin, l’in nocente Pádraic, “l’amico noioso”,
l’uomo troppo buono e semplice per essere vero, finisce per autodistrug gersi, nell’impossibilità di capire le ragioni di Colm, il suo mutismo assurdo e spietato (verrebbe da dire “ideologico”), la sua improvvisa vocazione all’immortalità musicale (si può anche ridere delle tragedie del mondo e dell’uomo).
55OTTOBRE 2022
Il film Leone d’Oro “All the Beauty and the Bloodshed” e il Premio Speciale della Giuria “No Bears” (“Gli orsi non esistono”, già in sala)
C’era tanta famiglia – ovviamente in crisi – in questo festival, padri e figli che non si capiscono e non si ri conoscono, convivenze (lockdown) forzate, metafore “covidiane”. Si può guardare il mondo, e provare a capirlo o cambiarlo, osservandolo dal basso del quotidiano, che sia il buco della serratura (nei casi peggio ri, quelli del voyeurismo sentimenta le melò alla The Son) o l’intimità più vera e segreta (in quelli migliori, tipo Love Life).
Ma non è un caso che il Leone d’O ro sia finito a All the Beauty and the Bloodshed, che non era certo il film più bello, ma racconta un’artista-at tivista come Nan Goldin, sopravvis suta a disastri famigliari, dipendenze chimiche e battaglie legali, fotografa dell’avanguardia newyorchese e nemica giurata della ricchissima famiglia Sackler, accusata di aver causato scientemente la dipendenza da oppioidi (e la morte) di migliaia di persone. Laura Poitras accumula frammenti, foto, ricordi, immagini,
in un tentativo bulimico di cinema poetico ed esemplare.
Non è un caso neppure che tra i film migliori ci fossero il classicissimo Argentina, 1985 di Santiago Mitre, un legal thriller con suspense che fa i conti con la giunta militare di Videla, e No Bears (Gli orsi non esi stono) di Jafar Panahi, ora in carcere in Iran, che torna a mettere in scena il rapporto tra realtà e rappresenta zione, e lo fa con una sensibilità e una lucidità che non lascia scampo, che ci interroga sul nostro dovere di cittadini ed esseri umani, di creatori consapevoli di immagini (vere/finte) e spettatori critici (che si fanno delle domande su ciò che vedono). Difficile capire cosa ci ha detto Venezia 79 sul presente e il futuro del cinema. Soprattutto sulla for ma-cinema.
Di sicuro c’è sempre più ego, nel bene e nel male (lo stile egotista, il virtuosismo narrativo e stilistico fine a se stesso, è cosa ben diversa dal “cinema personale”, che una
volta si chiamava autorialità). Bardo esonda oltre il talento indiscutibile di Iñárritu. Baumbach (White Noise) non fa un passo oltre Don De Lillo. The Eternal Daughter è un esercizio intellettuale estenuante di Joanna Hogg. E si fatica a capire il perché di film come Chiara (della pur brava Susanna Nicchiarelli) o Dead for a Dollar (ma come si fa a non voler bene a Walter Hill?). Ma Blonde, film esagerato, anche “sbagliato”, è travolgente, il suo falso iper-cinema finisce per somi gliare a una qualche verità. Amelio continua a fare grande cinema. E di fronte al formidabile esordio fiction di Alice Diop, Saint Omer (film per cinefili duri e puri e anime vive), abbiamo la certezza che il cinema sia uno strumento ideale per pro vare a sfondare il muro di parole, pregiudizi, immagini prefabbricate che qualcuno chiama realtà, mentre è solo rappresentazione. Siamo sempre alla ricerca di una nuova narrazione delle cose.
56OTTOBRE 2022
SEI FILM AMATI
THE BANSHEES OF INISHERIN (Gli spiriti dell’isola) di Martin McDonagh
Pádraic e Colm sono grandi amici. O almeno così pensano tutti, e lo pensa soprattutto Pádraic, che rimane prima sorpreso, poi ester refatto e letteralmente sconvolto, quando Colm decide che l’amicizia è finita. Sembrerebbe l’esile trama di una commedia surreale. Ma nella remota isola irlandese di Inisherin, tutto è destinato ad essere amplifi cato. Pádraic (Colin Farrell), uomo buono e semplice, non riesce ad ac cettare la scelta di Colm (Brendan Gleeson), che preferisce dedicarsi alla musica, piuttosto che perdere tempo con l’ex-amico noioso. Pre sto comincia a scorrere il sangue e la farsa diventa tragedia. Un film che è tutto scrittura (eccelsa), messin scena (misurata), grandi interpreta zioni, con un’intelligenza rara e un umorismo che ti lascia interdetto e perfino felice, dentro la sua malin conia disperata. La metafora della guerra civile è fin troppo evidente, ma c’è molto di più.
“Blonde” è un film mutante, a colori e in bianco e nero, che gioca coi formati e gli effetti cinematografici. In basso “Love Life (altro film già in sala). Nella pagina a fronte, “Bones and All”
BLONDE di Andrew Dominik
Una bambina maltrattata, una donna abusata, un’attrice destinata a trasformarsi in icona leggendaria. Questa è la storia di Marilyn Mon roe, o meglio, la versione di Norma Jeane, alle prese col suo doppio ingombrante e luminoso, la stella del cinema, la donna oggetto per eccellenza. Dal romanzo (bello ) di Joyce Carol Oates, Andrew Domi
nik ha ricavato un film ipertrofico, lirico, visionario, esagerato, che sbanda dal sublime al kitsch senza alcuna vergogna. Cinema che esalta il cinema e lo fa a brandelli, che quasi ci fa vergognare della nostra infantile idolatria, che si sporge sull’abisso nascosto dietro il mito di Marilyn, e ne esce con frammenti di orrore puro, di sesso liberatorio (un ménage à trois con Chaplin junior) e/o ferale (un porno-Kennedy da incubo), di melodramma allucina to, tra immagini distorte, esaltanti, e feti parlanti. Pura visione da sentire addosso, in un tentativo improbabile di colmare lo spazio che separa il soggetto e l’oggetto dello sguardo, e provare a capire cosa vuol dire essere “cosa”. Ana de Armas mimetica, quasi in trance.
IL SIGNORE DELLE FORMICHE di Gianni Amelio
Il cinema come si faceva quando credevamo nel cinema.
57OTTOBRE 2022
La vera storia romanzata di Aldo Braibanti, intellettuale libero, sco modo, anche arrogante, e del ragazzo che “plagiò”, secondo la Legge italia na (era il 1968): lui, il poeta, l’autore di teatro d’avanguardia, il mirme cologo (studioso di formiche), venne condannato al carcere; il suo allievo (innamorato) venne invece sottoposto a devastanti elettroshock. Gianni Amelio entra letteralmente in quella storia attraverso la rabbia e le domande di un giornalista (Elio Germano) che prova a scuotere Braibanti (Luigi Lo Cascio) durante il processo. C’è il “cinema di impe gno civile”, che passa attraverso le incredibili parole pronunciate in quell’aula giudiziaria, e c’è la storia d’amore. Con una lucidità del gesto (cinematografico) e una verità che arrivano dritte al punto.
TRENQUE LAUQUEN di Laura Citarella
Tutti a inseguire divi, autori, opere di grido, e poi nella sezione Oriz zonti arriva questo oggetto bizzarro, alieno, che è tra le cose più belle viste in tutto il festival. Un film di quattro ore e mezzo che potrebbe durare anche sei, dieci, trenta ore, e noi staremmo lì a guardarlo, felici e straniati. Una biologa laureanda, in cerca di fiori, scopre una torrida storia d’amore segreta, insieme all’au tista che la scorrazza nel territorio di Trenque Lauquen, mentre emerge l’enigma di un essere trovato vicino a un lago... Storie che si intrecciano ad altre storie, vissute, raccontate, ma gari solo immaginate, costruite in torno a spazi e tempi vuoti, dialoghi surreali e uno stile anti-narrativo che dilata l’azione, nutrendola di ciò che non si può dire o spiegare. Donne
che amano fuori dalle regole, donne in fuga e donne incinta (di qualcosa, forse, più che qualcuno), donne che vagano nella pampa argentina, dentro una trama piena di misteri che evaporano misteriosamente.
LOVE LIFE di Kôji Fukada
Lui e lei, alle prese con un dram ma devastante. Ma anche loro, i genitori di lui, che non accettano il passato della ragazza. E poi l’altro, l’ex marito, che rispunta da un passato difficile e lontano. Minima lista e delicato, ecco un cinema che non si preoccupa di “fare cinema”, come tanti, troppi, ormai, che non si esibisce e non si specchia, e con profonda semplicità racconta
INIMICIZIA “VIRILE” SU UN’ISOLA IRLANDESE E CINEMA FEMMINILE CON RADICI PROFONDE IN AFRICA
58OTTOBRE 2022
l’amore, il dolore e il fatto che non ci capiamo niente, ma non ne pos siamo fare a meno. Il mistero non sta nella trama – in cui comunque non mancano le sorprese, le trage die, le rivelazioni – ma nelle mente e nel cuore dei personaggi, nel mistero irrisolvibile dell’interiorità, della condizione umana, alle prese con gioie e dolori che si riproduco no da sempre in mille sfumature simili e diverse.
SAINT OMER di Alice Diop
Il film rivelazione del festival è l’esordio nella fiction di una regista francese di origine senegalese (in realtà già conosciuta e apprezzata per i suoi documentari). Cinema per cinefili, visto che richiede una grande attenzione e consapevolezza del mezzo, con i suoi lunghissimi piani fissi, i fiumi di parole, la mes sinscena costruita per sottrazione – e improvvise, suggestive, sterzate nel visionario. Va in scena il pro cesso a una donna accusata di aver ucciso la figlia piccola. Perché lo ha
fatto? E perché è così sconvolta la scrittrice che ha deciso di assistere al processo per ricavarne un libro? Si parla dell’incontro/scontro tra cultura africana e occidentale senza bisogno di dirlo, e si esplora il senso più profondo dell’essere figlie e madri, in bilico tra cultura magica e “cartesiana”, evocando Medea, tra piani fissi di parola che ambiscono a spiegare tutto razionalmente e sospensioni misteriose, rivelazioni interiori, istinti primordiali. Cine ma femminile nel senso più esatto e profondo del termine.
In alto, “Il signore delle formiche” (foto sul set di Claudio Iannone). In basso, il sorprendente “Trenque Lauquen” e il bellissimo “Saint Omer”
(credit La Biennale di Venezia foto ASAC - G. Zucchiatti)
Nessuno più di Elodie è consapevo le della propria bellezza e la “usa” con sfrontata naturalezza. Così come usa la sua sensualità, facendone un tema della sua musica e del suo messaggio, un argomento che non ha bisogno di paro le, anche una provocazione (nel segno della libertà di essere ciò che vuoi come vuoi). «Sentirmi bella mi fa sentire più forte» dice in una sua canzone. Anche se poi, ma gari, si prende in giro perché indossa una 40 ma ha il 41 di scarpe, perché si sente “femmina” ma anche una specie di “ani maletto buffo”, un essere ancora in cerca di definizione.
Di fatto i suoi occhi enormi ammutolisco no qualsiasi interlocutore, e lei lo sa molto bene. Forse anche per questo ha scelto di essere sempre sincera, trasparente, anche quando racconta la sua vita, quel passato difficile nella periferia romana, il degrado e la povertà, le fughe pazze, le scelte sempre istintive, in amore come nella musica. Elodie è così come la vedi e la senti. Ed era inevitabile che la cantante ammirata, la donna desiderata, una volta approdata sul grande schermo lo avrebbe occupato per intero, senza fare neanche troppa fatica. Questo è ciò che si percepisce guardando Ti mangio il cuore, che è un western ma fioso in bianco e nero, una tragedia greca ambientata in Puglia, che vorrebbe tradur re la cronaca (la poco conosciuta “quarta mafia”, forse la più spietata in circolazione) in un film di gangster sanguinari e amori impossibili.
Guardi il film di Pippo Mezzapesa e vedi soprattutto lei, perché la macchina da pre sa non può che guardarla in quel modo. E risulta anche difficile parlare della sua interpretazione, perché Elodie è Marilena (la prima pentita della criminalità orga nizzata del Gargano) ma è anche e sempre Elodie, quella bellezza fiera che non teme gli sguardi, quella libertà di essere ciò che sente e che vuole, perché l’amore vale più del sangue, della tradizione, delle regole (soprattutto quelle sbagliate).
Al Lido, a pochi metri dal mare, viene pre sentato il film: regista e cast sono schierati (un cast molto interessante), ma tutti noi giornalisti siamo lì ad aspettare lei, che arri va con quell’attimo di ritardo che amplifica il momento. E dice: «Da tempo pensavo che sarebbe stato molto bello fare un’esperienza come attrice, ma attendevo la magia, qual cosa che veramente mi colpisse e mi desse la possibilità di fare qualcosa che non riesco a fare nel mio lavoro di cantante».
ELODIE
La bellezza fiera, sfrontata, di chi si sente libera Esordio al cinema rosso sangue, ma in bianco e nero
Elodie è perfettamente consapevole di ciò che fa e di cosa vorrebbe fare per non di ventare un cliché: «Io faccio musica di in trattenimento. Avevo bisogno di parlare con un’altra vibrazione, un’altra profondità. Quando ho letto il copione ho pensato che il personaggio di Marilena fosse incredibil mente sfaccettato e bello, una donna vera, con un carattere complesso. Mi sono comple tamente innamorata del personaggio. Ho pensato che fosse un po’ pretenzioso da parte mia, ma anche che fosse una grandissima occasione per confrontarmi con qualcosa di molto distante e più profondo di quello che faccio di solito»
Di solito faccio intrattenimento.
un’attrice con tanta esperienza avesse il desi derio e la generosità di mettere a disposizio ne i suoi strumenti».
Lidia Vitale interpreta l’inquietante ma trona della famiglia mafiosa rivale, la ma dre dell’uomo di cui si innamora Marilena, un amore proibito, che scatena una faida sanguinosa.
Farò altri film? Sicuramente sì.
Potrebbe essere una cura.
Con la scusa di fare cinema, faccio anche terapia.
Elodie in un’immagine del film “Ti mangio il cuore”. Nella pagina a fronte, il photocall di Venezia (credits La Biennale, foto ASAC, G. Zucchiatti)
La premessa era la “follia” di regista e pro duttore, che decidono di affidare un perso naggio del genere a un’esordiente. C’era an che del calcolo, certamente, l’occasione di far parlare del film, magari anche di ripor tare in sala un po’ di gente, ma c’era pure la sensazione istintiva (parole di Mezzapesa) che lei fosse la persona giusta per incarnare un personaggio «così forte, complesso, varie gato, con una grande grinta ma anche una grande sensibilità e fragilità. Abbiamo accerchiato Elodie, le abbiamo fatto leggere la sceneggiatura e lei, che è la più pazza e istin tiva di tutti, oltre che coraggiosa, si è tuffata in questa esperienza».
«Ho accettato la follia di Pippo con molto entusiasmo - dice lei. - E ho avuto la fortuna di lavorare con Lidia Vitale, che si è messa a completa disposizione. Non è scontato che
In effetti, per fare una scelta del genere –approdando al cinema da protagonista, in un film per niente facile, “d’autore”, girato in bianco e nero, che trasfigura una realtà criminale in spettacolo tragico - bisogna anche essere consapevoli dei propri limiti e darsi da fare per superarli. «Ho scoper to delle cose di me facendo questo lavoro, soprattutto grazie agli altri. Lavorare in questo modo dà la possibilità di scoprirti anche nelle tue fragilità. Mi sono trovata più volte in difficoltà e ho avuto la fortuna di confrontarmi con persone che mi hanno sostenuta». Superata la prima prova, c’è da scommettere sul fatto che ne arriveranno altre. Alla domanda ovvia “ti piacerebbe fare altri film?” lei risponde così: «Sicura mente sì. Scegliendo, come in questo caso, con cura. Anche perché, scusate il gioco di paro le, potrebbe essere una cura. Con la scusa di fare cinema, faccio terapia».
Avevo bisogno di parlare con un’altra profondità.
62OTTOBRE 2022
Elodie
(credit La Biennale di Venezia foto ASAC - G. Zucchiatti)
ANA DE ARMAS
Bucare lo schermo. L’espressione, for se un po’ logora, acquista un nuovo senso di fronte alla performance di Ana de Armas nei panni di Norma/Ma rilyn. Non è semplicemente una questione di bellezza o sensualità. È qualcosa di più profondo e immediato allo stesso tempo. Una specie di incantamento. Ana de Ar mas, in Blonde, attraversa letteralmente lo schermo, regalando al film di Andrew Do minik una dimensione in più, che si può quasi toccare.
Che l’attrice cubana fosse destinata a gran di cose, lo si era capito guardandola nei panni di un’olografia in Blade Runner 2049, un’amante ideale digitale di cui ci si innamorava a prima vista. Poi sono arrivati Cena con delitto, Wasp Network e soprat tutto Acque profonde, in versione amma liante e pericolosa.
Qui però si sale a un livello successivo, quello dell’incarnazione di un mito (del suo fascino immortale, ma anche della sua disperata umanità), con un’aura sovranna turale che le fa ascendere, per via direttissi ma, nell’olimpo delle dive.
Vista da vicino, la bellezza di Ana de Armas è di quelle talmente evidenti che mettono quasi in imbarazzo. Ma l’attrice cubana non ha l’arroganza dell’essere semi-divino che scende tra i mortali. Sorride quasi ti midamente e la sua voce è rotta dall’emo zione mentre spiega che questo ruolo, così importante per la sua carriera, «è stato il frutto di un lungo processo immersivo. Non ero molto consapevole di chi fosse Marilyn,
conoscevo i suoi film, ma lei per me è stata un’enorme scoperta, dentro un lungo pro cesso di apprendimento. Ho imparato a conoscerla grazie al libro, la sceneggiatura e poi il lavoro andato avanti per mesi con Andrew (Dominik, ndr). La maggior parte del film affronta momenti della sua vita che non conosciamo, quelli più intimi e per sonali, quando le macchine da presa erano spente. Volevamo essere precisi nei dettagli. Ho avuto la possibilità di creare la donna reale dietro il personaggio. L’importante per me è stato empatizzare con lei, creare un collegamento con il suo dolore, con il suo trauma. Se metti da parte il suo essere una star del cinema, Norma era solo una donna come me, della mia età, un’attrice alle pre se con l’industria cinematografica. Sapevo che questo progetto mi avrebbe richiesto di aprirmi e di arrivare in luoghi di grande vulnerabilità, scomodi, oscuri. Ed è proprio in quei luoghi che ho trovato il collegamento con la persona che era Marilyn. La sua ve rità emotiva».
Nell’olimpo delle dive, per intercessione di Marilyn L’attrice cubana buca lo schermo. Una performance “medianica”
Si sente, dal tono delle sue parole, che non è stato semplicemente “un film”, un lavo ro come un altro. Lo ha confermato anche Dominik, il regista, sottolineando la scelta di girare nei luoghi in cui Marilyn è stata bambina e in cui poi è morta: è stata «qua si una seduta spiritica», ha detto.
Ana de Armas parla di «cose che cadevano dai muri», ridendo per l’imbarazzo men tre lo racconta: «Lo so che può sembrare strano o “mistico”, ma lo abbiamo sentito tutti, sono successe tante cose durante le ripre se». La presenza di Marilyn, a quanto pare, era tangibile. «Credo fermamente che lei fosse molto vicina a noi, che fosse con noi. Ho sentito la responsabilità di renderle giusti zia, l’abbiamo sentita tutti, non solo il cast, ma l’intera troupe. Avevamo la sensazione di fare qualcosa di grande, al suo servizio, qualcosa di specia le, non solo un film su di lei. Lei era in tutti i miei pensieri, era nei miei sogni, parlavo solo di lei. È stato bello, e credo
che lei fosse felice. Eravamo nei luoghi in cui lei è stata, nella sua stessa casa, e questo ci ha dato sensazione forti. C’era qualcosa nell’a ria. Quando tornavo a casa abbandonavo il personaggio, ma in qualche modo sentivo un peso sulle spalle, continuavo a viverlo, perce pivo quella tristezza. L’ho accettata. Non ho voluto proteggermi, era importante che sen tissi, che sperimentassi tutto questo». Ci sono stati momenti duri. Si è avverata la promessa-minaccia di Andrew Dominik: «Devi prepararti ad avere il cuore spezza to». Le violenze fisiche e psicologiche subi te da Norma/Marilyn sarebbero in grado di spezzare chiunque. «Ho imparato a esse re più empatica e ad avere più rispetto verso gli attori che si trovano in certe situazioni, che sentono la pressione dei mass media e i danni che questo può causare. Nessuno è pronto a vivere sotto questa pressione e queste aspettative, le cose che gli altri pensano che tu debba essere, per il ruolo che ricopri, ciò che vogliono da te. Ho imparato a proteg germi di più, a evitare di mettermi in certe situazioni».
In ogni caso, è stata un’esperienza straordi naria. «Ho partecipato a questo film come fosse un dono, non per far cambiare le idee degli altri su di me. Qualunque cosa succe da, l’esperienza di Blonde ha cambiato la mia vita. E poi sarà quel che sarà».
Ana de Armas è Norma ed è Marilyn nel film “Blonde”, prodotto da Netflix, visibile sulla piattaforma a partire dal 28 settembre.
Nella pagina a fronte, la sfilata sul tappeto rosso (credits La Biennale, foto ASAC, G. Zucchiatti)
A volte cadevano cose dai muri... Credo fermamente che Marilyn fosse con noi. C’era qualcosa nell’aria.
Lei era nei miei pensieri, nei miei sogni, parlavo solo di lei. Ho sentito la responsabilità di renderle giustizia.
66OTTOBRE 2022
Ana de Armas
(credit La Biennale di Venezia foto ASAC - G. Zucchiatti)
(credit La Biennale di Venezia foto ASAC - G. Zucchiatti)
PENÉLOPE CRUZ
Penélope Cruz illumina, ma senza abbagliare. La sua è una luce calda, che attrae inesorabilmente, ma non ha la prepotenza di chi vuole soggiogare. La sua bellezza perpetua, che cresce col passare degli anni, è accogliente. Empatica. Così come la sua intelligenza, che non ha bisogno di esibire, perché si impone con semplicità e naturalezza.
Penélope Cruz è una di quelle attrici che ringraziano il giornalista, quando le fa una domanda, e gli sorride pure. Noi ce ne stiamo lì, con la mano alzata, in attesa del nostro turno, anche solo per il piacere di ricevere uno di quei sorrisi, quello sguardo luminoso e sorridente che sorprende per la sua modestia, che quasi sembra ringraziar ci per essere lì, e poter fare quel lavoro che ama così tanto.
Il fatto è che la spagnola Penélope Cruz parla quattro lingue con facilità, rispon dendo senza problemi in inglese, francese e italiano, e a noi poveri mortali tocca indos sare un paio di cuffie per non perdere una parola. Stavolta parla in spagnolo: «Mi hanno sempre interessato i vari idiomi, e anche gli accenti differenti dentro ogni idio ma. È uno studio e una ricerca che mi aiutano anche a entrare meglio nel personaggio, nel suo modo di comunicare e di esprimersi. Sono molto fortunata di poter recitare in quattro lingue diverse». Nel film di Emanuele Crialese, L’immensi tà, presentato in concorso a Venezia, è una donna spagnola che vive in Italia da molto tempo, un personaggio che si presta per
fettamente al suo livello di italiano. Così come si presta al ruolo che più ha rivestito nella sua carriera, quello di madre. «Ho in terpretato così tante madri! Anche quando ero giovane. Con Pedro (Almodóvar, ndr) ho girato sette film, e in cinque sono una ma dre: lui mi ha visto sempre così, e non solo lui. Non credo sia una coincidenza. Ho un istinto materno davvero forte, e sono molto affascinata da ciò che accade dentro ogni famiglia. Ogni singolo film mai realizzato potrebbe essere stato scritto a partire da una storia famigliare». A proposito dell’istin to materno, c’è anche l’aneddoto biogra fico: «Lo porto dentro fin da quando ero una bambina di cinque anni e raccontavo a tutti, nel parco, il mio progetto di diventare madre il prima possibile».
In questo caso si tratta di una madre tor mentata, imprigionata in un matrimonio oppressivo, falso, violento. Ma anche una donna che assurge alla dimensione del mito, dalla bellezza folgorante e la dolcezza infinita, guardata con l’occhio innamora to – e arrabbiato - della figlia (che è poi lo stesso regista Emanuele Crialese, che qui racconta la sua infanzia, trasfigurata).
Radiosa, semplice, empatica, ancora una volta madre Tra le più amate dal pubblico (e dalla stampa)
«Ho interpretato tante madri diverse e per me è sempre un onore. Questa madre, in particolare, rappresenta tante madri: ciò che è, ciò che sente di essere davvero dentro di sé, ciò che vorrebbe essere... È così complessa! Ci sono così tanti strati. Quando ho letto il co pione mi sono innamorata di lei e ho sentito subito il desiderio di girare questo film». Un film che è melodramma e fiaba (con il
madre e figli. Tutto questo con lo stile per sonale di Crialese, le sue immagini liriche, la poetica della migrazione (che sia quella dei corpi o delle anime).
Ma Penélope Cruz si prende la scena, nella parte di «una donna che si sente in trappo la, nel suo corpo, nella sua casa, nella sua famiglia. Non c’è un piano b, non esiste una via di fuga. L’unica via di fuga che ha è la televisione, che la mette in connessione con un altro mondo, fatto di arte, musica, danza, sogno, qualcosa di più vicino ai suoi sentimenti, a ciò che vorrebbe essere, se la so cietà lo permettesse, se lo permettesse la sua famiglia, e se stessa»
Penélope Cruz e Laura Giuliani in uno scatto sul set del film (foto Angelo Turetta). Nella pagina a fronte, la vediamo in passerella al festival di Venezia (credits La Biennale, foto ASAC, G. Zucchiatti)
suo orco e le sue magie), un dramma fami gliare, ambientato negli anni Sessanta, il romanzo di formazione di una ragazza che sente di essere un ragazzo (si chiama Adria na ma si fa chiamare Andrea), dentro una casa-prigione in cui l’unica evasione è la tv, che ispira i momenti più felici vissuti da
La violenza domestica è uno dei temi del film. E lei lo ha affrontato a modo suo, con una sensibilità particolare. Le si velano gli occhi, mentre ne parla: «Interpreto una donna la cui esperienza è fatta di repressio ne e oppressione, costretta a recitare di fronte ai suoi figli. Quando non riesce più a farlo, cade in una profonda depressione. Sono cose che accadono continuamente anche oggi. Ci sono molte donne, in tutto il mondo, che vi vono intrappolate nelle loro case, che fingono davanti ai loro figli, per una questione di sopravvivenza. Ho conosciuto storie orribili.
Interpreto una donna che si sente in trappola, nel suo corpo, nella sua casa, nella sua famiglia. Costretta a recitare davanti ai suoi figli. Ci sono molte donne, in tutto il mondo, che vivono intrappolate nelle loro case. Ho conosciuto storie orribili.
70OTTOBRE 2022
E mi ha fatto male al cuore leggere la sce neggiatura».
A tutelare interpreti e ragazzi, c’era Criale se, che ha un modo tutto suo di dirigere gli attori. «Ci sono molte cose che rimanevano non-dette nelle prove, che non venivano spie gate. Emanuele ci parlava di cose che non erano nello script e neppure nella sua vita, semmai voleva sapere cose della nostra vita, e lo faceva nel momento giusto, prima del ciak, senza che ci rendessimo conto in che modo quella cosa fosse legata alla scena. Lo capivi solo dopo: “Ah, ecco perché mi ha chiesto quella cosa di quando avevo 8 anni!”
Non era mai una manipolazione. Lui ha sempre protetto i bambini, in ogni secondo del processo. Lavorare coi bambini signifi ca creare una vera relazione, un’amicizia, spendendo del tempo insieme, per conoscersi. È bellissimo il modo in cui Emanuele si è preso cura di loro sul set»
La ascolteremmo per ore, Penélope Cruz, mentre parla di cinema e di vita, metten
doci sempre tutta la passione che ha. Ma ascoltiamo volentieri anche la sceneggia trice Francesca Manieri, che spiega il sen so più profondo de L’immensità, la sua universalità, nonostante sia la confessione personalissima di un regista che oggi si rivela transgender: «Questo film ha a che fare con un’affermazione sull’identità: l’i dentità è un fatto di relazioni umane, non è un mercato individuale in cui semplice mente scegliamo chi siamo. È un modo eti co di stare al mondo interrogando se stessi e le persone che amiamo di più, a partire dalla principale di queste relazioni, che è quella col materno. Il privilegio del punto di vista maschile della narrazione è indi scutibile, ma questo film ci dimostra che quando quel punto di vista si sposta, siamo tutti un po’ più liberi, non soltanto i sogget ti in transizione e in migrazione. Il suo è un cinema politico senza esserlo, in manie ra sublime, perché ci interroga sulle frontie re della libertà».
Penélope Cruz
71OTTOBRE 2022
MEDICO
“RINASCIMENTALE” TRA ARTE E SCIENZA
Il dott. Ivan Trimarchi ha prodotto studi importanti e applicazioni tecniche, ma è anche musicista
Èun medico, ma anche un ricercatore, uno scienziato, e perfino un musicista. Con lui potete parlare di acustica e audiologia, degli effetti dell’allergia al nichel, ma anche di Stockhausen e Stravinskij, tra una citazione di Adorno e una considerazione sulla musica colta che si è smarrita. Leg gendo il curriculum del dott. Ivan Trimarchi, si ha l’impressione che abbia vissuto non una, ma almeno due o tre vite. Non si spiegherebbe
altrimenti come ha fatto a concilia re l’attività medica, la creazione di un importante studio a Roma, che porta il suo nome, con le decine di ricerche pubblicate e i convegni da relatore di cui si è perso il conto, l’insegnamento per realtà anche prestigiose, come il Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale dell’U niversità di Napoli (Federico II), le collaborazioni con il C.N.R. di Genova (Istituto di Biofisica) o la Facoltà di Ingegneria di Roma (Tor
Vergata), oltre alla militanza nello storico mensile Suono, di cui dirige va la sezione “psicoacustica”. Già nel 1987, cioè due anni prima di laurearsi, aveva progettato e realizzato un audiometro ad alte frequenze, anticipando ricerche che si sarebbe poi sviluppate negli anni ‘90. Perché non avrebbe senso la teoria senza l’applicazione prati ca, la tecnica, i risultati nati dalla collaborazione con altri specialisti ed enti di ricerca. Nell’elenco c’è di tutto: un orecchio elettronico, varie protesi innovative, algoritmi, un simulatore di orecchio esterno, sistemi multimediali per le farmacie (in campo audiometrico, ma anche dietologico), per non parlare del contributo alla creazione del vacci no al pelo di gatto o di quello per il nichel. Sì, perché oltre a specia lizzarsi in otorinolaringoiatria, il dott. Trimarchi ha pensato bene di prendere un master in Immunote rapia, diventando anche allergologo (il perché ha risvolti anche diverten ti, ci arriviamo fra poco).
Aggiungete il fatto che il medi co-musicista continua a comporre, come dimostra Planets, disco pubblicato due anni fa, musica (colta) per pianoforte che esegue con mano sicura e grande pathos, ed ecco l’immagine di uno studioso e un creativo d’altri tempi, di quelli che aspiravano a una visione globale dell’uomo, tra discipline scientifiche e umanistiche. Per certi versi Ivan Trimarchi è un personaggio rinascimentale, che non condivide la tendenza moderna all’iper-spe cializzazione e ritiene fondamentale che l’arte medica venga esercitata unendo cura e ricerca, per migliora re entrambe.
UN
S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
Lo incontriamo in una delle rare pause che si concede. E partiamo dalle origini, dal pae sino di Santa Teresa di Riva, vicino a Taormina, il suo luogo di nascita. In realtà Ivan Trimarchi è romanis simo, è cresciuto nella Capitale e lì ha costruito la sua carriera. «Ma sono nato in vacanza, mentre ero in Sicilia – ci racconta. - Dovevo nascere ad Asti, però sono arrivato in anticipo di 15 giorni». Il padre, di origini siciliane come la madre, a quel tempo era direttore dell’Uf ficio del Registro di Asti, ma la sua carriera lo porterà al Ministero delle Finanze, fino a diventare Direttore Generale, da qui il trasferimento a Roma.
La vocazione medica? Viene dopo quella musicale. Capita a volte che la fine prematura di una carriera ne generi un’altra ancora più impor tante, facendoci scoprire qual era la nostra vera “missione”. Ivan Trimarchi era concertista e studiava composizione. Ha scelto di studiare Medicina per comprendere come e perché ascoltiamo. «Volevo capire i meccanismi di apprendimento del suono sia dal punto di vista fisico, fisiologico, che psichico. Quindi mi sono iscritto a La Sapienza, con l’in tenzione di fare otorinolaringoia tria». Potere della curiosità e della voglia di conoscere e capire. Ma anche potere del servizio militare. «Ci ha pensato lo Stato italiano a decidere per la mia carriera. Essendo nato in una località ma rittima negli ultimi quattro mesi dell’anno (era questa la regola), ho prestato servizio in Marina. Diciotto mesi. Qualsiasi velleità di ricominciare la carriera concerti stica era impensabile».
Verrebbe quasi da ringraziare lo Stato italiano, visto il bisogno che abbiamo di bravi medici e ricer catori appassionati. Lui, invece di accontentarsi di fare l’otorinolarin goiatra, ha deciso di specializzarsi anche in allergologia.
di sapere”. «Diciamo di sì, rendia molo nobile».
La sua materia preferita, però, rimane l’acustica, come dimo strano le ricerche fatte ai tempi della riviste Suono e Stereoplay.
«Abbiamo anche pubblicato delle
«L’ho fatto per disperazione – ci racconta, sorridendo. - Noi otorini vediamo immediatamente se una persona è allergica o no, dal colorito delle mucose, da come ci appaiono. Io mandavo i pazienti dai colleghi e loro tornavano con risposte di non-allergia che mi lasciavano molto perplesso. Mi sono detto: devo iniziare a capire come mai». Invece di “disperazione” la si potrebbe anche chiamare “sete
ricerche che poi hanno portato al Dts e all’Mp3.
Abbiamo fatto la mappatura di come si sente in funzione della provenienza del suono, scoprendo che ogni persona ha una specie di “impronta digitale sonora”: ognu no sente in maniera leggermente diversa rispetto all’altro». Tanto per dimostrare che è possibile eser citare la professione di medico e contemporaneamente fare ricerca.
Dalla carriera concertistica alla laurea in medicina, prima otorinolaringoiatra e poi allergologia.
Il suo studio si trova a Roma
73OTTOBRE 2022
«È importantissimo. La ricerca è la base della medicina. Devi sempre constatare sul campo se quello che hai pensato è giusto oppure no. Ciò che funziona teoricamente deve poi essere applicato. Tante volte la ricerca diventa autoreferenziale, così come può esserlo l’esercizio della medicina».
Fatto un riassunto delle sue pubbli cazioni e delle applicazioni pratiche dei suoi studi, gli chiediamo dove trova il tempo per fare tutto. «Se uno nasce in un modo, è difficile fare
suono e come lo trasmette al cervello. Per realizzare il modello mate matico ho coinvolto i più grandi matematici e fisici del mondo, dai russi agli americani, dagli indiani agli italiani, e poi ho scoperto che la risposta era di una semplicità unica, l’ho avuta sempre davanti agli occhi ma non la vedevo, una cosa davvero stupida. L’ho capito all’improvviso mentre tenevo un corso alla Facoltà di Ingegneria aerospaziale».
La spiegazione ve la lasciamo solo immaginare, perché sarebbe troppo lungo e difficile raccontare quanto sia “facile” la risposta a questo problema. Vi diciamo solo che ascoltare un medico-ricercatore che parla della sua materia può avere un effetto quasi ipnotico – soprat tutto con l’attenzione al dettaglio e la tranquillità con cui lo fa il dott. Trimarchi.
sta attraversando oggi la medicina. Il fatto di iper-specializzarsi sta togliendo la capacità di compren dere la complessità dei problemi e i suoi meccanismi». La cosa vale anche al contrario. In audiologia, ad esempio, la base dovrebbe essere la fisica, che invece è quasi completamente sconosciuta. «A furia di insegnare ingegneria e fisica mi hanno “bacato”, comincio a ragionare in maniera diversa rispetto ai medici, e in certi congressi mi sembra che parliamo lingue completamente differenti. A volte darei delle capocciate al muro. Non si possono ridurre questi momenti a quattro chiacchiere generiche, oltretutto promuovendo farmaci che costano quello che costano».
La ricerca recente del dott.
altro. Come si dice: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Se nasci con il bisogno di sapere e di capire non puoi porti dei limiti. Tante volte si prendono pure delle strade sbagliate. Io ho impiegato quasi 25 anni per capire come l’orecchio trasduce il
Mai pensato di dedicarsi solo alla ricerca? «Devo anche mettere in pratica ciò che penso e scopro. La scienza medica non può prescinde re dalla pratica, perché si corre il rischio di non avere più il quadro generale. È un po’ il problema che
Trimarchi, in questi anni, si è allargata in varie direzioni. Una delle sue “fissazioni” (lui le chiama così) è quella degli acufeni. «C’è chi pensa che su questo tema possa esistere una sorta di panacea universale. In realtà finora abbiamo trovato venti cause differenti del pro blema. E se non andiamo a incidere sulla causa, che possibilità abbiamo di curarli? L’unica cosa che funzio na davvero, quando non si riesce a risalire alle origini del problema, è quella del condizionamento skinne riano, cioè l’accettazione dell’acufe ne. Si lavora su quello». Per molti è una questione davvero seria, che diventa anche e soprattutto psico logica, abbassando la qualità della vita. «Tante persone tendono a porre il problema dell’acufene al centro del loro universo. Più lo percepiscono come un problema, più lo sentono; più lo sentono e più diventa un
74OTTOBRE 2022
L’importanza di unire pratica e teoria: nel suo curriculum ci sono anche un orecchio elettronico, protesi innovative e il vaccino per l’allergia al nichel
problema. È un gatto che si morde la coda. Ecco perché funziona il “con dizionamento”, che insegna a “non farci caso”. La cosa interessante è che quando l’acufene diventa cronico, si ha un’alterazione dell’encefalogram ma, nella corteccia prefrontale. Il ritmo da alpha inizia a diventare beta o addirittura theta. Tanto che abbiamo avuto risultato incredibili (in termini di accettazione) con il neurofeedback, all’inizio degli anni Duemila, aiutando il paziente a riconoscere il “ritmo” e a riportarlo a valori normali»
Altra questione a cui si è dedicato è l’allergia al nichel. «Abbiamo anche realizzato diversi tipi di vaccino, modificandoli nel tempo». Pochi sanno che questa è l’allergia più diffusa al mondo. «Il 42% di tutte le allergie. Ed è facilmente intuibile perché, pensando ad esempio alle intossicazioni da particolato e alle polveri sottili, che contengono questo elemento. Noi in teoria dovremmo avere un apporto di nichel di 45 mcg al giorno, ma se uno sta nel centro di Roma ne respira 150 mcg al giorno. Il nostro corpo non può farne a meno del nichel, è importantissimo per gli scambi elettrolitici. L’allergia si ma nifesta quando abbiamo un introito molto maggiore rispetto a quanto ne consumiamo. Si manifesta soprat tutto d’estate: da una parte perché espelliamo il nichel con il sudore, e quindi abbiamo una maggiore propensione a eritemi e dermatiti; dall’altra perché sono soprattutto gli ortaggi a contenerlo, provocando problematiche gastrointestinali». A proposito di pratica medica e ricerca: «Del tutto casualmente ho scoperto che l’allergia al nichel porta dei dolori di tipo reumatico.
Un paziente, sette-otto anni fa, che aveva problemi dermatologici, è ve nuto a fare le prove per l’allergia al nichel, ma contemporaneamente, da almeno vent’anni, soffriva di forti dolenzie migranti alle articolazioni. Aveva consultato molti ortopedici, senza trovare la soluzione. Curando il problema del nichel con una dieta, i dolori sono scomparsi. Da allora ho cominciato a interrogare i pazienti e ho visto che il 7-8% di allergici hanno anche queste artralgie reuma toidi»
evolutivo. Gli chiediamo il perché di questa attenzione particolare per le terapie riabilitative. «Credo sia importante che in uno studio medico si possa trovare tutto ciò che serve per poter instaurare una terapia. La mia idea è quella di realizzare un centro con diversi colleghi, ognuno con la sua specializzazione in un campo dell’otorinolaringoiatria, in cui si fa un esame collegiale, nel senso che il paziente viene visitato in tutte le sfaccettature. Così si può avere il quadro completo e interveni re nel modo migliore».
In chiusura di intervista, gli fac ciamo anche una domanda sullo stato delle cose in Italia. Una volta si diceva che il nostro fosse uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, anche per la sua universalità, oggi invece ci si lamenta per la mancan za di medici, per i tempi biblici di
e viene assicurato un livello medio accettabile, qui da noi purtroppo pas siamo dalle stelle alle stalle. In Italia comunque la preparazione assicurata è davvero notevole. Noi e la Francia rappresentiamo ancora il miglior approccio possibile alla medicina.
Non dimentichiamo però i tagli su tagli che sono stati fatti nel nostro
Paese: siamo passati da un posto letto ogni 1400 persone a uno ogni 70 mila persone. Come si dice: meglio un giorno da leoni che cento da pecora, ma cinquanta da orsetto?».
Alla fine si torna alla musica, anche perché ci sono cambiamenti e tendenze che si ripercuoto da un campo all’altro del sapere. Ivan
Trimarchi fa dell’autoironia, quan do riconosce che la musica da lui amata, la “classica contemporanea”, «non piace a nessuno». Ciò non gli impedisce di suonare e comporre «per mio diletto». Vedi il disco
Planets, «un balletto ispirato ai pianeti del nostro Sistema e al Sole. Ho utilizzato tanti tipi di musica, dal gregoriano al misolidio fino alla contemporanea. Vuole essere una descrizione degli stati d’animo vissuti dall’uomo nel suo percorso, dalla nascita alla morte».
Anche qui c’è l’occasione di riflettere sul rischio dell’autoreferenzialità, «che mi dà fastidio anche quando si parla della cosiddetta musica colta.
Nello Studio Medico Trimarchi (www.studiomedicotrimarchi. it), oltre all’otorinolaringoiatria e l’allergologia, l’audiologia e la fonia tria – con vari tipi di trattamenti ed esami specifici - si praticano anche la logopedia, l’osteopatia, la fisio terapia e la psicoterapia a indirizzo
visite ed esami, per i posti letto che mancano... E il dott. Trimarchi non si fa certo pregare: «Noi abbiamo una classe medica a macchia di leo pardo. Abbiamo delle eccellenze che sono di livello mondiale, ma anche delle capre mondiali. Mentre ci sono Stati in cui c’è una certa uniformità,
A volte la sperimentazione in sé non porta da nessuna parte. La musica è una lingua. Se proponi l’abbandono della lingua, la sua destrutturazio ne, devi anche capire in funzione di cosa lo stai facendo. Quello che viene proposto sembra spesso un espediente, piuttosto che un discorso musicale.
Adorno diceva che la musica del futuro sarebbe stata dodecafonica e
76OTTOBRE 2022
Ma non ha rinunciato a suonare: nel suo studio c’è un pianoforte pronto all’uso e due anni fa ha realizzato un disco, che riecheggia la musica (colta) del Novecento
dava un giudizio estremamente duro e limitato su Stravinskij. Ma oggi cosa ascoltiamo? Stravinskij! Il gram melot, nel suo essere un linguaggio inventato, non-senso, si proponeva in tal modo da farsi capire in quanto linguaggio. Con la musica contem poranea questo si è perso. Si è seguita più la tecnica, l’espediente, rispetto all’espressione. Che senso ha comporre per gli addetti ai lavori? Platone parlava solamente ai suoi discepoli o cercava di parlare all’umanità in generale? Lo stesso vale per la ricerca medica e scientifica: la fai perché deve servire a tutti, non a te stesso o ai colleghi».
Sia detto per inciso che il disco lo abbiamo ascoltato ed è un notevole tuffo nel Novecento, le avanguardie che riscrivevano la grande musica del passato. A parte il sorprendente virtuosismo del medico pianista, si sentono echi di Satie e Debussy, di Stravinskij e Ravel, ma anche Hinde mith o il nostro Respighi, con accen ni quasi mistici e liturgici. Si sentono anche le varie culture musicali che venivano riscoperte in quell’epoca fervida (il canto monodico, la musi ca rinascimentale e quella greca...), l’ultima forse che ha prodotto opere capaci di portare il discorso musicale più in là, ma riuscendo ad arrivare anche al pubblico, a farsi compren dere e apprezzare.
Insomma, quando l’otorinolarin goiatra e l’allergologo andranno in pensione, avremo un piani sta-compositore in più. Sempre seguendo l’idea di unire teoria e pratica, conoscenza ed espressione. Tornando al famoso motto: che si tratti di medicina, scienza o musica, meglio cento giorni da leone, senza rimpianti.
77OTTOBRE 2022
Dicono che la meritocrazia in Italia non esista. Dipende.
Ci sono tante storie che dimostrano il contrario. Magari non le trovate sui giornali o nei tg, perché “non fanno notizia”, ma le potete incontrare tutti i giorni, nel mondo del lavoro. Se, ad esempio, avete un trasporto speciale da fare, un oggetto prezioso da consegnare, o vi serve un magazzino in cui stoccare merce da spedire in giro per l’Italia, può darsi che vi rivolgiate alla TM srl (Tra sporti e Magazzini), forte dei suoi 150 mezzi e di una fama conquistata velocemente sul campo.
Ma chi sono i soci titolari dell’a zienda? Due ex-corrieri, che hanno cominciato trasportando merce dall’alba al tramonto, hanno impa rato a gestire gruppi di autisti che fanno 80 stop al giorno (tra ritiri e consegne) e oggi gestiscono un’azien da che l’anno scorso ha fatturato 7 milioni e 800 mila euro. Mica male come carriera.
Perché a volte le cose accadono così, ti telefona una nota multinazionale americana che si occupa di trasporti e corrieri, con cui hai collaborato
lavorando in un consorzio, che evidentemente ha apprezzato il tuo lavoro, e ti chiede: te la senti di gesti re le consegne nella zona di Como? È successo a Pietro Cugnonatto, 52 anni, torinese, che aveva anche un passato in banca e da promotore finanziario, prima di approdare nei trasporti, come magazziniere e poi autista. Chi lavora sodo si fa notare, se poi ha anche il “bernoccolo” dell’imprenditoria, può tentare il grande salto.
La telefonata è arrivata alle 10 di sera di un giorno di giugno nel 2019. A settembre Cugnonatto aveva già co stituito la srl, diventandone ammini stratore unico. A novembre è partita l’avventura, con 65 dipendenti (e 1 milione 800 mila euro di fatturato il primo anno!). Poi è arrivato il socio, Giorgio Salvati, 48 anni, umbro, che invece aveva lavorato nella ristorazio ne (un albergo ristorante a Norcia e poi a Rieti, un bar a Como) e come lui aveva fatto tutto l’iter: facchino, autista, responsabile mezzi, preposto (colui che si occupa di organizzare e seguire tutte le spedizioni di gior nata). Anche lui un “natalino”, cioè uno di quei lavoratori che vengono messi sotto contratto quando si av vicinano le feste. Dopo di che, come dicono loro, scherzando, «siamo stati condannati a crescere».
Li incontriamo un lunedì mat tina, non senza fatica, perché hanno un’agenda da mettersi le mani nei capelli: parliamo di due imprenditori alla vecchia maniera, di quelli cioè che i clienti li vogliono
78OTTOBRE 2022 S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
IL TRASPORTO DOC? MESTIERE, MERITO E SEMPLICITÀ Da corrieri a imprenditori: il (buon) lavoro paga tra consegne speciali e logistica a 360°
incontrare, per farci due chiacchiere e prendere un caffè insieme, che han no un rapporto costante con i loro dipendenti e che non si fanno pre gare se ci sono dei mezzi da spostare da una sede all’altra. «Siamo persone semplici – dice Pietro Cugnonatto.Oggi sono venuto in ufficio portando un furgone che era in una carrozzeria a Torino. Domani torno indietro con un altro furgone». La sede operativa è a Lurago Marinone, nel Comasco, quella legale a Torino, ma c’è n’è una anche a Milano. Cugnonatto è appena tornato dagli unici quattro giorni di vacanza dell’anno. Proviamo a chiedere quante ore la vorano al giorno: «Ci alziamo alle 5 e mezzo di mattino e andiamo avan ti fino alle 9 di sera». Che detto così, suona quasi come una tortura. «Ma a noi piace. È un lavoro che dà tante soddisfazioni. Non ci pesa», dice Salvati.
L’80% del giro d’affari è legato ai corrieri espresso per la multinaziona le. «Gestiamo una grossa fetta della Lombardia (province di Como, Lecco, Sondrio). Ultimamente si è aggiunto un pezzo di Milano, la parte alta di Monza-Brianza. Siamo una società molto easy e molto fast, come piace dire agli americani. Semplici e veloci. Si decide in fretta. Ci hanno chia mato il 27 settembre e ci hanno detto: dal 1° di ottobre dovreste assumere 45 persone e iniziare a operare nella zona di Monza-Brianza. Sì o no? Il tempo di prendere il caffè e abbiamo deciso. La segretaria ha fatto le 3 di notte per riuscire ad assumere le persone e noi per trovare i furgoni». Poi c’è quel 20% che è la parte più bella e divertente del lavoro. Quella che, ad esempio, ti richiede di trasportare dei tartufi di notte, che
devono stare al fresco ma non in una cella frigo, e arrivare fino a Parigi, dove ci sono tre chef stellati che li devono trovare in cucina alle 9 del mattino. Oppure le tre bottiglie di Barolo, preziosissime, da consegnare in centro a Varese, sulla scrivania di un noto personaggio buongustaio.
O a i gatti che da un allevamento di Torino devono approdare a Milano, Firenze e Venezia, in piena pandemia, viaggiando in gabbiette apposite, su mezzi adeguati.
TM offre servizi personalizzati, trasporti speciali, «viaggi dedicati, garantiti, con autisti qualificati» Qui si tratta di capire l’esigenza del cliente e trovare la soluzione più efficace, per portare dei mobili antichi a Ginevra, degli stand per una gara motociclistica o trasportare pneumatici in giro per la Lombardia e il Piemonte.
Da una parte c’è il lavoro quo tidiano, la routine, garantendo
le consegne espresso («noi non buttiamo i pacchi nel giardino, non li infiliamo nelle cassette delle lettere, acquisiamo la firma o la certezza di aver consegnato alla persona giusta»), dall’altra le richieste più strane e complesse, i “vip”, i trasporti creativi: «Ogni volta c’è l’imprevisto, la necessità specifica» In casi come questi, il servizio si paga, visto che è di qualità. A loro piace sentirsi dire: «Siete cari, ma siete i migliori.
Dalle bottiglie di Barolo, preziosissime, ai tartufi destinati a Parigi nella cucina di tre chef stellati, viaggiando di notte
79OTTOBRE 2022
C’è anche chi cerca il modo di risparmiare qualcosa, ma poi cambia idea quando perde clienti e finisce per perderci anche dei soldi». Hanno furgoni, motrici e cassonati. Ma anche bilici, se serve, appoggian dosi a ditte amiche. «Siamo persone semplici anche in questo. Non abbia mo concorrenti, ma colleghi. Se il lavo ro non lo prendo io, lo prendi tu, non siamo invidiosi». Il nemico comune sta in quelle aziende («squali») che nascono e muoiono in fretta, conti nuamente, lavorando male.
Non è facile trovare persone disposte a fare il corriere.
«È un lavoro molto faticoso e stressante. Devi essere portato per fare il corriere. Sei su strada tutto il
giorno, che ci siano quaranta gradi, la neve o la pioggia, tu le consegne le devi fare. C’è il traffico, quelli col monopattino, il tizio che ti suona, la signora che non trovi, il magazzi niere che ti manda a quel paese...». E però si guadagnano 2 mila euro al mese. «Il lavoro non manca, bisogna aver voglia. Nel Comasco il 90% sono italiani. Su Milano, invece, quasi tutti i dipendenti sono di origine sudamericana. Molti non ce la fanno. C’è chi viene per quattro giorni e al quinto dice che non ce la fa più perché “c’è troppo da guidare”. Chi preferisce stare a casa con il sus sidio a giocare alla PlayStation. Chi ci chiede di lavorare in nero, come se potessimo mettere una persona su un furgone senza regolarizzarla».
vengono fatte crescere. Anche da noi funziona così».
Cugnonatto ripete spesso l’aggetti vo “semplice”. E si capisce il perché.
È semplice e spartano l’ufficio in cui siamo, è semplice l’approccio al la voro e il modo in cui lo affrontano, è semplice anche il rapporto con i lavoratori, visto che lo sono anche loro. «Abbiamo un buon rapporto con i dipendenti. Per noi è motivo di orgoglio il fatto che la multinaziona le con cui lavoriamo lo abbia notato.
È un rapporto molto fisico, schietto, diretto, preferiamo urlare e litigare, piuttosto che mandare la lettera di contestazione. Ci si parla vis-à-vis»
Anche perché qui la puntualità e l’efficacia del servizio sono fon damentali. «Abbiamo acquisito i clienti per la serietà e dobbiamo con tinuare così. Se dobbiamo custodire un centinaio di bancali di vestiti firmati, sanno che il capannone è allarmato, che c’è l’assicurazione, che gli estintori sono collaudati, ecc.».
Il lavoro della TM è esploso nei due anni del Covid. Il commercio si svolgeva quasi esclusivamente online e ci voleva qualcuno che trasportasse la merce. «In quel periodo abbiamo anche fatto un accordo sindacale per poter assumere 14 persone. L’Inps non ce lo lasciava fare, erano i tempi della cassa integrazione (che noi non abbiamo mai chiesto)». Ora stanno cercando altre trenta persone. «Per il picco natalizio, da ottobre a dicembre. Tutti quelli che sono qua, ora, hanno cominciato proprio in quel periodo. Anche noi due, vent’anni fa. Se il lavoratore è valido, l’imprenditore lo tiene. Le aziende vere si basano sulla meritocrazia, le persone meritevoli
Perché poi c’è anche tutto il lavoro legato alla logistica. Che non è un banale servizio di stoccaggio della merce. «Noi offriamo tutta la filie ra. Una ditta di Cuneo, famosa per la produzione di panettoni, per il pe riodo di Natale ci manderà tre bilici di materiale e gli ordini: noi confe zioniamo l’ordine, lo impacchettia mo, lo etichettiamo e lo spediamo. Molte aziende oggi decentrano la lo gistica, così risparmiano, non devono mantenere capannoni e materiale ingombranti, non devono assumere persone per tre mesi. E poi lavorano anche meglio. Ognuno deve fare ciò che sa fare. Se sono un ingegnere e mi si rompe il lavandino, non lo riparo io, chiamo l’idraulico. Alcuni si im provvisano, prendono dei mezzi, due
In epoca Covid, mentre il Paese si fermava, la TM assumeva 15 lavoratori per far fronte alle richieste in aumento. Ora ne cercano altri 30 per il periodo natalizio
o tre autisti, e poi si rendono conto di quanto sia complicato gestirli». Si fa magazzino per chi non ce l’ha. E si rende la logistica più efficiente. Funziona anche per i privati. «Pen so al negozio di abbigliamento che vende online e deve far arrivare un pacco a Courmayeur: in questo caso, la merce non passa per nessun ma gazzino, la andiamo a ritirare, la etichettiamo e la consegniamo. Oppu re c’è il ferramenta che ha bisogno di materiale per il giorno dopo, magari il fornitore fa solo una spedizione alla settimana e allora contatta noi per trasportare il pezzo».
Parliamo di tante cose, anche divertenti, tipo le passeggiate nei boschi la sera, col cane, per fare la telefonata di lavoro di nascosto dalla famiglia. O il rapporto di collaborazione col socio che è praticamente un matrimonio, in cui ognuno sa già cosa pensa l’altro, ci si telefona anche la domenica, magari ci si manda a quel paese («meglio arrossire subito che impal lidire più avanti»), ma ci si capisce al volo e ci si aiuta.
Il motto? «Ogni problema genera delle opportunità». La parola magi ca è “contingency”, il succo di que sto lavoro, il problema quotidiano che in realtà non è un problema, perché genera occasioni.
Preoccupazioni per il futuro? Per niente. L’idea è che nei periodi critici non bisogna sopravvivere o tenere duro, ma investire: «Cer chiamo di risolvere i problemi prima che arrivino. La bravura di un imprenditore oggi è anticipare le difficoltà. Abbiamo anche comprato una pompa di benzina...»
Come la mettiamo con la difesa dell’ambiente? «A Milano abbiamo venti mezzi ibridi. I furgoni li cam biamo ogni tre-quattro anni e sono tutti Euro 6D. I mezzi elettrici non fanno il caso nostro perché hanno pochi chilometri di autonomia. Però abbiamo anche questa attenzione. Cerchiamo di essere rispettosi verso l’ambiente».
E poi c’è il sociale, di cui parlano malvolentieri (la “semplicità” suggerisce che non bisogna parlare del bene fatto), anche se alla fine scopriamo l’aiuto dato a una
squadra di pallavolo (minore), un incontro con Simona Atzori nel Comasco (di lei abbiamo parlato su Redness di settembre), i contri buti a canili e gattili, i soci e gli autisti che danno una mano a una cooperativa di lavoratori disabili... Si viaggia ovunque, ma si rimane radicati nel territorio. Quando si comincia dal basso, si rimane con i piedi per terra. Che è poi il segreto per andare lontano.
81OTTOBRE 2022
Senza un’ecologia della mente, non c’è futuro per l’ecologia dell’ambiente.
Se non riusciremo a liberarci da certi condizionamenti, pregiudizi, abitudini d’a zione e di pensiero, sarà difficile produrre un’azione efficace per salvare il Pianeta.
La tesi è questa, anche se nel libro c’è molto di più. In un certo senso, c’è tutto l’essenziale, a partire dal segreto di una vita felice, che è alla base della rivoluzione possibile (interiore e individuale, prima di diventare esteriore e collettiva).
Parliamo di Thich Nhat Hanh, uno dei maestri spirituali del nostro tempo (scom parso a gennaio), monaco zen ma anche uomo d’azione, di pace, che ha collaborato tra gli altri con Martin Luther King e ha organizzato conferenze sull’ambiente già negli anni Settanta. Chi conosce i suoi libri, o pratica le tecniche di meditazione da lui insegnate (semplici e profondamente effi caci), sa quanta verità contengono, perché insegnano a «entrate in contatto profondo con il momento presente», e quindi, in qualche modo, a «toccare l’eternità». Lo zen e l’arte di salvare il Pianeta (edi to da Garzanti) raccoglie vari scritti del mo naco vietnamita, partendo dall’idea che «c’è una cosa che abbiamo il potere di cambiare e farà tutta la differenza, la nostra mente» Dobbiamo renderci conto che viviamo come sonnambuli, per risvegliarci «alla bellezza della Terra» e «alla sofferenza del mondo», cambiando «il nostro modo di pensare e di vedere le cose». Si parla di zen ed ecologia profonda, di nutrimento, guari gione, ascolto, di “un nuovo modo di stare insieme”, si spiega come esercitarsi e come agire (nonviolenza!). “Tornare a sé stessi” e al “bisogno più profondo” (l’amore) per salvare il mondo.
La bellezza della Terra è come il suono di una campana che risveglia la nostra consapevolezza. Se non riesci a vederla, devi chiederti il perché. Forse c’è qualcosa che ti impedisce di farlo. O forse sei talmente impegnato nella ricerca di qualcos’altro da non riuscire a sentire il richiamo della Terra. La Terra sta dicendo: «Figlio mio, sono qui per te, tutto quello che vedi te lo sto offrendo». Ed è vero.
I raggi del sole, il canto degli uccelli, i ruscelli limpidi, i fiori di ciliegio che sbocciano in primavera: è tutto per te. Se non riesci a capirlo o a sentirlo, è perché la tua mente è troppo piena (...) Una condizione essenziale per ascoltare il richiamo della Terra, e rispondervi, è il silenzio. Se dentro di te non hai il silenzio, non puoi sentire il richiamo della vita. Il tuo cuore ti sta chiamando, ma tu non lo senti. Non hai tempo per ascoltare il tuo cuore (...) Smettiamo di pensare al passato, smettiamo di preoccuparci per il futuro, concentriamo tutta la nostra attenzione sul fatto che stiamo respirando. Grazie al nostro respiro consapevole, ci liberiamo. Ci rendiamo conto di essere parte di questa grande meraviglia. E riusciamo a dire: «Sono libero. Puoi contare su di me» (...) Dobbiamo aprire gli occhi tutti assieme. E se il risveglio arriverà per tutti allora avremo una possibilità.
(Thich Nhat Hanh)
82MESE 2022
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