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Mostra del cinema di Venezia

Il festival di Venezia è la gente accampata all’alba, che sta dodici ore sotto il sole, in attesa, pur di vedere Timothée Chalamet da vicino, e magari guadagnarsi un autografo o un selfie. È l’infinita sequela di passerelle, photo call, conferenze stampa, in cui si danno appuntamento i nomi più importanti del cinema mondiale, inseguiti da fotografi e giornalisti. È la vita da cinefilo festivaliero o da critico cinematografico, in piedi alle 7 (il primo film è alle 8.30 del mattino, l’ultimo alle 22) e in sala per otto ore al giorno (tre o quattro film quotidiani, c’è chi arriva anche a cinque), mangiando quello che capita, magari facendo pure le ore piccole imbucandosi a una festa. È il piacere di guardare un film insieme al regista e all’attore, e vivere la tensione della prima proiezione mondiale, l’opera che si rivela al pubblico, dentro sale stracolme. È anche, e forse soprattutto, il gusto di ascoltare tante lingue diverse, viaggiare nel tempo e nello spazio, imbattersi in film strambi, estremi, ambiziosi, autori indipendenti che cercano l’arte più che lo spettacolo, e che spesso non trovano neppure una distribuzione. Raccontare Venezia a chi non c’è stato, è sempre un’impresa. Anche perché in tv si vede solo la punta dell’iceberg, ovvero il tappeto rosso, il luogo della celebrazione del cinema (mainstream) e della vanità. Qui va in scena la festa popolare, il rito del divismo, che è inutile guardare con snobismo (gli addetti ai lavori che sbuffano di fronte all’entusiasmo dei ragazzini pronti a difendere la prima fila con la vita), perché la settima arte è il luogo del sogno, col suo olimpo di esseri trasfigurati dal grande schermo, che diventano improvvisamente reali. Già dire “Venezia” è un’approssimazione, perché il Lido è un mondo a parte. Qui non c’è quasi traccia della città incantata che galleggia sull’acqua, attraversata dai canali, piena d’arte in ogni angolo, percorsa da case antiche, bellissima anche quando è trascurata e decadente. Qui siamo in un’isola, da tutti i punti di vista, che vive la sua vita tranquilla, fatta per lo più di strade percorse in bici, ville (con tanto liberty) e case di due-tre piani al massimo, lunghe spiagge sabbiose,

Venezia: folle e divi son tornati Tutti pazzi per il tappeto rosso

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VI RACCONTIAMO LA PRIMA VOLTA DI REDNESS AL FESTIVAL FILM A RAFFICA, ALZATACCE E INCONTRI CON LE STAR

entrate nell’immaginario popolare (soprattutto quelle dell’Hotel Excelsior e del des Bains). Il festival, in realtà, sta racchiuso in un fazzoletto di terra, circondato da blocchi di poliziotti e militari che controllano gli zaini di chi entra, e si dispiega per cento metri al massimo, tra giardino, palazzo del casinò (la casa dei giornalisti) e palazzo del cinema. Gli appassionati fanno la spola tra i cinema e l’Excelsior, dove vengono ospitate le delegazioni (ma le star americane scelgono gli hotel

FAN IN ATTESA A PARTIRE DALL’ALBA PER VEDERE DA VICINO TIMOTHÉE CHALAMET ED HARRY STYLES

più esclusivi di Venezia). I cinefili incalliti corrono da una sala all’altra, ossessionati dalla possibilità di perdersi qualcosa di importante. Gli addetti ai lavori habitués, invece, sanno godersi anche una pausa al mare, hanno un elenco di osterie di fiducia (qui i prezzi lievitano durante il festival) ma devono trovare il tempo per le interviste, le presentazioni dei film e il famigerato “colore”. Sì, perchéa casa c’è anche chi vuole temi forti, scandali, pettegolezzi, vestiti spettacolari. E i giornali vanno a nozze quando capita un film come Don’t Worry Darling, col suo carico di gossip feroce, le liti sul set e fuori, i protagonisti che sfilano cercando di non incontrarsi. Harry Styles era uno dei personaggi più attesi, soprattutto dalle ragazzine, che si sono assembrate a centinaia la sera della sua passerella.

L’Excelsior visto dal basso. La folla che si accalca intorno al tappeto rosso. La passerella di Timothée Chalamet (credit La Biennale - Foto ASAC - Giorgio Zucchiatti). Nell’altra pagina, la piazza del Casinò

Colin Farrell firma autografi e concede selfie ai fan che lo hanno atteso fin dalla mattina. Ma il più idolatrato dal pubblico (giovane) è stato Harry Styles (in basso). Accanto, la magnifica Tilda Swinton (credit La Biennale - foto ASAC)

Dopo due anni di emergenza sanitaria, la Mostra dell’Arte Cinematografica è tornata ai bagni di folla del passato. E perché ci sia la folla, ci devono essere anche grandi nomi americani: applauditissimo Adam Driver, forse il miglior attore della sua generazione; letteralmente idolatrato l’audace Timothée Chalamet, con la sua mise rossa che lasciava scoperta la schiena e l’aura da predestinato (già arrivato, per la verità, tutti lo cercano, tutti lo vogliono); commovente, in particolare, l’abbraccio di Venezia a Brendan Fraser, che ha vissuto anni difficili, di depressione ed esclusione dal mondo di Hollywood, e con The Whale si propone come attore vero, in uno di quei ruoli-metamorfosi che piacciono tanto agli Oscar. L’elenco dei divi visti a Venezia è lungo, dalla regina Cate Blanchett (miglior attrice, grazie a Tàr) a Colin Farrell (miglior attore, grazie a The Banshees of Inisherin, anche se noi gli abbiamo preferito Brendan Gleeson), da Sigourney Weaver a Monica Bellucci, da Catherine Deneuve a Riccardo Darìn (a proposito di attori straordinari). Per i migliori look chiedere a Vogue, che ha premiato “l’algida e ipnotica” Tilda Swinton. A noi, che scriviamo a riflettori spenti (e a voi, che leggete), interessano soprattutto i film. Non è stata un’annata indimenticabile, e il dominio produttivo di Netflix può suscitare qualche inquietudine agli amanti del grande schermo. Ma il cinema è vivo, lotta insieme a noi (quanti inni libertari, allarmi esistenziali, proclami ecologisti, appelli alla verità e alla giustizia!) e soffia dove vuole, raccontando storie vecchie e nuove, continuando ad alimentare i nostri sogni.

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