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Manuel Agnelli: 35 anni di musica
from RedNess - Ottobre
by MondoRed
Il disco è nato qui, in questa mansarda, dentro una bella casa antica di provincia. C’è un pianoforte, qualche percussione, tre microfoni per registrare. C’è tanta luce che entra dalle finestre. Da una parte un grande divano, con dei libri sparsi, dall’altra qualche attrezzo da palestra. Un rifugio. Il luogo in cui, durante il lockdown,
Manuel Agnelli si è rimesso a suonare come quando era ragazzo, con quella sfacciata libertà, senza programmi, senza pensieri, solo per amore della musica.
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«Non è un vero studio, ma è tutto in legno e quindi “suona bene”», dice lui, mentre ci fa strada, rievocando quei giorni. Ce lo immaginiamo alla tastiera, o con la chitarra in mano, mentre prova un riff o trova una melodia, tra una passeggiata in campagna e l’altra. «Durante la pandemia io ero chiuso qua, in mansarda. E non potendo incontrare nessuno, mi sono messo a suonare a caso. È la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi anni».
Mi sono messo a suonare senza un progetto, solo per il gusto di fare musica, come quando ero un ragazzo. Dopo quattro-cinque pezzi ho capito che stava nascendo qualcosa. Ho pensato: è ora che faccio un disco da solo, a 56 anni
Ci incontriamo il giorno dopo la presentazione ufficiale del disco. Il primo, da solista. Probabilmente uno degli album più attesi dell’anno. Si intitola Ama il prossimo tuo come te stesso e, lo diciamo subito, è un disco davvero bello, potente, sorprendente, di quelli destinati a risuonare a lungo. Lo avevamo già intuito ascoltando Proci, Signorina mani avanti,La profondità degli abissi, che sono tre gioielli, uno diverso dall’altro. Ma dentro questo album c’è anche molto di più, lo struggimento oltre alla rabbia, la canzone (qui italiana e là brechtiana) e il rumore creativo, la melodia romantica senza tempo e le distorsioni inquietanti, il punk e l’opera rock. Il disco suona classico e insieme contemporaneo, ma non ha nulla a che fare con “l’attualità musicale”, anzi, la sua modernità, per certi versi, la precede. Parla di noi, oggi, ma attinge a qualcosa che sta fuori dal tempo. Il bello è che Manuel Agnelli suona tutti gli strumenti. Tanto per dire cosa significa questo album per lui, che rimane legato agli Afterhours, ma allo stesso tempo sembra aver trovato una dimensione nuova, una musica che unisce ciò che già sappiamo e qualcosa che scopriamo solo ora. Il che non era affatto scontato, se si pensa alla sua lunga storia creativa (35 anni, ormai) e a quanto c’è di suo negli ultimi decenni di musica italiana, considerando anche il lavoro di produttore e scopritore (dai tempi di Vox Pop, nel lontano 1989, all’invenzione di Tora! Tora!, dal lancio dei Verdena al battesimo dei Maneskin).
Siamo ad Abbiategrasso, a venti chilometri da Milano. Manuel è un milanese doc ed è un cittadino del mondo, che ha viaggiato ovunque e ha vissuto anche a Londra (in un certo senso, degli Afterhours si sono accorti prima all’estero, da New York a Berlino), ma la sua storia è legata anche a questa città di provincia, in cui ha trascorso una parte della sua infanzia e che è stata così importante per la sua famiglia. È anche un bel posto in cui vivere, perfino nel bel mezzo di una pandemia. «Durante il lockdown abbiamo scelto di stare qua. La casa di Milano è bella ma più piccola. Questa è molto grande, ha una corte interna e quando portavamo in giro il cane potevamo andare verso la campagna e il Ticino». C’è appena il tempo per un caffè, che prepara lui. Il giorno prima l’ha passato a rispondere alle domande di decine di giornalisti, e la voce un po’ ne risente. La sera sarà a Torino all’Italian Tech Week, promossa da Repubblica. Alle spalle ha anche un mese e mezzo di tour, entusiasmante e sfiancante. Poi c’è da preparare il suo nuovo programma radiofonico, che va in onda la domenica sera alle 19, su Radio24: Leoni per Agnelli. E dal 3 dicembre partirà il nuovo tour: Bari Napoli Marghera Firenze Milano Roma Nonantola Senigallia. Ma chi lavora con lui dice che Manuel è letteralmente instancabile e prende molto sul serio ogni singolo evento e appuntamento, senza mai risparmiarsi. Lo fa anche con noi, dedicandoci tutta la sua attenzione, con la consueta sincerità, anche emozionandosi di fronte a certi ricordi e prendendosi in giro, perché non capita spesso di esordire come solista a 56 anni.
C’è stato un punto di partenza? Un’idea, un sentimento, da cui è nato il disco? Oppure è nato un pezzo alla volta? È nato pezzo dopo pezzo, quasi per caso. Mi sono messo a suonare, ma senza un progetto. Il contrario di ciò che ho fatto negli ultimi anni, in cui suonavo e scrivevo solo quando mi veniva un’idea precisa. C’era sempre una visione, oppure qualcosa che mi era successo. Penso ad esempio alla morte di mio padre, una cosa talmente grande, la sua mancanza e tutto ciò che c’era intorno, che quell’album (Folfiri o Folfox, ndr) è uscito velocemente. Qui invece non avevo un’idea, non avevo una scaletta, non avevo niente. Mi sono messo a fare musica come quando ero un ragazzo, solo per il gusto di farla.
Quando ti sei reso conto che stava venendo fuori un disco?
Dopo i primi quattro o cinque pezzi.

Io di solito trovo un riff e lo lascio lì, poi lo riprendo dopo un po’ e lo sviluppo. È un artigianato che ho imparato negli anni, serve a non farmi conquistare troppo dalle cose che faccio, che magari non sono un granché ma mi rimangono dentro emotivamente. Questa volta, invece, sono andato avanti, e molti dei pezzi li ho chiusi subito, in pochissimo tempo. Per me, in quel momento, erano solo delle bozze, non sapevo cosa farmene, quindi tanto valeva svilupparle. Succede che quando, psicologicamente, ti lasci un po’ andare, all’improvviso si aprono delle porte che erano chiuse. I primi quattro-cinque pezzi già mi piacevano, e sono usciti così, con le strofe, i cambi, gli special... Li ho ripresi in mano dopo un po’ di tempo per scrivere qualche frase di testo, per dare almeno una direzione, ma in realtà ho finito per scrivere tutti i testi.
E a quel punto avevi in mano un nuovo album.
All’inizio pensavo che poteva essere un disco degli Afterhours. Ho cominciato a scrivere qualche arrangiamento, immaginando che il resto lo avrebbero fatto i ragazzi, gli altri musicisti. Intanto buttavo giù della roba con gli strumenti che avevo in casa, pentole, coperchi, mestoli, cartoni, bidoni della spazzatura... Il bidone della spazzatura ha una gran cassa! Mi sono galvanizzato e sono andato molto avanti. Tanto che ad un certo punto avevo una quindicina di provini, tutti arrangiati. Quando è finito il lockdown, volevo dare i pezzi ai ragazzi, perché ci lavorassero su. Ma quando li ho riascoltati, mi sono detto: mi piacciono così come sono!
Erano tuoi.
Sì, suonavano miei, mi rappresentavano, e rappresentavano molto bene quel periodo, dal punto di vista emotivo. I suoni mi piacevano. E lì ho preso la decisione: è ora che mi faccio un disco da solo, a 56 anni. Mi prendo finalmente tutta la responsabilità di un progetto.
La cosa affascinante di questo disco è che è complesso, vario, maturo, però ha anche l’energia e la libertà di un esordiente. Ha quella freschezza.
È bello quello che mi dici, perché la freschezza, alla mia età, è un ossimoro.
Quando ascolti un disco non pensi all’età dell’autore.
Giusto. Ma non è una cosa programmata. Quando la programmi già la ingabbi. Certo, è tutto più facile se hai una macchina oliata che suona da tanto tempo, con i ruoli già definiti. In quel caso non fai neanche fatica a lavorare e ti godi la parte ludica del suonare. Nello stesso tempo però hai delle gabbie creative. Un chitarrista che ha un suono personale, un batterista che ha un suo stile, nel lungo periodo ti condizionano. Qua invece non è successo. Il fatto di fare le cose a caso, e il lockdown, mi hanno permesso di prendermi dei tempi che non mi sarei mai potuto permettere prima, e forse neanche adesso. È una cosa che mi piacerebbe mantenere. Scrivere e suonare senza avere una scadenza. Come da ragazzo. La freschezza è venuta fuori così. Dalla noia, anche.
Noi sottovalutiamo il lusso meraviglioso della noia. La noia da ragazzo mi ha permesso di pensare. Anche troppo. Nel lockdown ho ritrovato quel lusso
Però, anche se è nato “per caso”, ascoltandolo, si notano discorsi sospesi e poi ripresi, da una canzone e l’altra, ci sono delle rime interne, anche nelle emozioni oltre che nei suoni. Sembra che ci sia un’architettura molto precisa.
Credo dipenda dal fatto che ho scritto tutti i pezzi in un periodo di tempo compresso. E dal fatto che negli anni ho sviluppato un carattere musicale abbastanza preciso. I pezzi sono molto vari. Tra mille anni mille anni fa e Proci sono musicalmente in antitesi, ma sono tutti e due miei e credo che si senta quando li ascolti. Poi, quando ho deciso di realizzare l’album, fare la scaletta, mixare i pezzi, ho cercato di dare una fluidità alla successione dei brani, un certo ritmo, e a quel punto non c’era più nulla di casuale. Ho cercato di alimentare le affinità tra i vari pezzi. Anche nel lavoro finale di mastering, quando abbiamo sistemato il suono tirato fuori dai mixaggi, abbiamo fatto in modo di creare una certa atmosfera.
Se suoni da solo ti puoi permettere i pianoforti martellati, le orchestrazioni strane, gli arrangiamenti azzardati... C’è la tua impronta, che conosciamo, ma il disco va al di là degli Afterhours.
Ci sono dei rimandi, per forza, visto che ho scritto l’80% dei pezzi degli Afterhours e ho lavorato tantissimo con tutte le formazioni del gruppo. Quella roba mi riguarda, c’è, ma ci sono anche cose che non ho mai fatto. Anche nei cantati. Quando ero da solo, qui, mi mettevo a fare delle urla belluine o cose rumoriste che non avrei mai il coraggio di fare in studio, davanti agli altri. Se lo facessi, mi direbbero: ma che cazzo stai facendo?
C’è anche un cantato molto classico e melodie che sembrano arrivare da chissà quale epoca.
Vero. Tra mille anni mille anni fa è quasi rinascimentale, con quella linea melodica. Pam Pum Pam è quasi Aznavour.
Anche queste sono cose che alla band nonavrei mai avuto il coraggio di proporre. Avrebbero detto: bello, ma che ce ne facciamo?
Ma tu che lockdown hai vissuto? È stata una quarantena di sofferenza?
Sì, da tanti punti di vista. Il nostro settore è stato il più martoriato di tutti. Siamo stati completamente dimenticati, e anche umiliati, perché noi siamo quelli che “fanno divertire, che tengono su il morale”. Si parla di 1 milione di lavoratori rimasti a casa. Molte imprese del mondo dello spettacolo hanno chiuso, tanti hanno cambiato lavoro. Io sono un privilegiato, perché la televisione mi ha salvato, sono riuscito a tenere in piedi tutto quello che stavo facendo, anche il centro culturale di Milano, il Germi, che ha chiuso, ma siamo riusciti a tenerlo vivo e a riaprirlo.
Ti è capitato di farti domande sul senso del tuo lavoro, in quel periodo?
La cosa che mi tormentava, era scrivere cose legate alla verità. La verità mi viene da una formazione culturale di un certo tipo: il punk e il post-punk erano la verità. Se tu eri sincero allora avevi un valore, anche se facevi cagare musicalmente, mentre se eri artefatto non valevi un cazzo. Questo era lo spartiacque: sincero o non sincero. Per anni sono andato avanti a scrivere con questo tipo di imposizione: deve essere tutto vero. Non solo i miei sentimenti - quindi sul palco non recito, non propongo cliché del rock’n’roll che sono solo teatro - ma devo anche scrivere delle storie vere, legate a persone vere. Qui invece ho cominciato a scrivere cose mischiando i personaggi, magari mescolando il carattere di uno con l’altro e tirando fuori un terzo personaggio. O anche inventandomi delle storie, cosa che non avrei mai fatto prima. Ci ho provato negli ultimi due dischi degli After ma mi sono sentito in colpa. E invece, dopo un po’, ragionando, mi sono detto: ma io perché esisto, qual è il mio scopo? Io lavoro con la fantasia, io esisto per questo, questo è il mio ruolo. Non è importante la storia che ti sto passando, ma la sensazione che ti procura, la tensione. Questa roba alla lunga mi è servita molto, mi ha liberato da un sacco di sensi di colpa, dal dover essere “fedele alla realtà”. La base del disco è vera, si basa su storie e personaggi veri, ma che creano cose nuove, diverse.
Nel disco non si parla del rapporto tra due persone, come può sembrare al primo ascolto, è qualcosa di più complesso.
È il rapporto tra me e un altro immaginario, che però è formato da tante persone diverse. Parla di me in rapporto alla gente e alle cose che mi sono successe.

Quindi il titolo è legato a questo aspetto del disco?
Sì, ed è un titolo critico nei miei confronti. Lo dico a me, prima di dirlo a voi. Però un po’ lo dico anche a voi, già che ci sono.
È un titolo impegnativo. Non c’è una massima più conosciuta e forse abusata di questa, ma rimane un’idea rivoluzionaria.
Diciamo che quattro o cinque anni fa sarebbe stata re-

torica, ora non lo è più: è tornata potente, è drammaticamente importante, attuale, centrale. Ci ho pensato un po’ su, prima di usarla, ma di solito vado d’istinto in queste cose. Mi piaceva tantissimo il fatto di poterla usare, quindi dovevo usarla. Quando non ho seguito il mio istinto ho sempre sbagliato. (Ho sbagliato anche seguendolo, ma meno).
Il bello è che, nonostante il titolo impegnativo, nel disco non c’è nessun messaggio esplicito. C’è semmai la complessità dei sentimenti, non c’è nulla di detto e spiegato.
I sentimenti uno cerca di spiegarseli per tutta la vita, poi arriva il momento in cui li accetti e li puoi solo raccontare. Sentimenti che creano altri sentimenti, che si stratificano e che non puoi certo spiegare.
Poi c’è la guerra, la rabbia. Severodonetsk è potentissima, è da ieri sera, quando l’ho ascoltata, che continuo a cantare “nelle mani, le tue mani, le tue mani nelle mie”.
Sta piacendo a tutti... È l’ultimo pezzo che ho scritto e mi sono detto: questo è un po’ difficile, però mi piace, lo tengo. È anche una delle poche dichiarazioni esplicite del disco. Arriva tantissimo, anche se è un pezzo stratificato.
Un po’ progressive.
Sì, è quasi prog.
Siamo ad Abbiategrasso e mi viene da chiederti quanto questo mondo sia ancora dentro di te. La nebbia, la provincia, il vuoto ma anche la bellezza, la rabbia insieme alla malinconia. È tutto ancora dentro la tua musica.
C’è ancora, sì. Di recente ho scritto anche due pezzi sulla provincia, che però non sono in questo album: parlano di quanto sia potente questa gestione e visione del tempo, ma anche le tenebre che la provincia crea certe volte. Riconosco che per me è stata una fortuna aver passato tanto tempo in provincia. Sono nato a Milano, ho trascorso due terzi della mia vita a Milano, ma qui ho vissuto un periodo formativo fondamentale: le elementari. Ho conosciuto il territorio, quel tipo di persone... In città erano tutti fighetti, qui invece ci arrampicavamo sugli alberi, ci menavamo, ci fasciavamo le ferite da soli. Anche quando mi sono trasferito in città, mi ha lasciato un lato selvatico preziosissimo per non affondare nelle sabbie mobile della borghesia. Io sono borghese al cento per cento come formazione, ma le medie le ho fatte con compagni di classi che erano figli di confinati calabresi.
E poi c’è anche l’abitudine a non dare niente per scontato, a conquistare le cose.
E c’è la noia. Noi sottovalutiamo il lusso meraviglioso della noia. La noia mi ha permesso di pensare. Alle volte anche troppo. Quel meccanismo per cui ti metti ad analizzare il mondo e te stesso, mi ha formato tantissimo. Nel lockdown l’ho ritrovato, dopo tanti anni in cui ero stato in un vortice di “facciamo facciamo facciamo”. L’ho ritrovato forzatamente ed è stata la fortuna del lockdown. Io sono un irritante ottimista, cerco sempre di trovare i lati positivi delle cose. Nel lockdown ho ricominciato a gestire il tempo in modo più umano, e quindi anche ad annoiarmi, e a pensare senza uno scopo preciso, non per risolvere un problema, ma per il gusto di pensare. La fantasia nasce da lì.
Tu non ti sei mai accontentato di “fare l’artista”, il musicista che si preoccupa semplicemente di lavorare alle sue cose. Fin dall’inizio sei stato produttore e organizzatore di festival, hai aperto il Germi, hai creato un programma tv culturale (Ossigeno), poi c’è l’impegno sociale, ambientale... Sei uno di quelli a cui dà fastidio la parola “intellettuale”? O “attivista”?
No. E non mi dispiace neanche la parola artista. Attivista è ancora meglio.
È un’esigenza che hai sempre avuto, quella di fare tutte queste cose insieme.
Non ho mai razionalizzato la cosa. Semplicemente sono così. Non ho mai pensato: “adesso splitto, faccio l’artista o faccio altro”. Sicuramente il palcoscenico mi ha permesso di sublimare molte cose che non posso fare in società: il mio lato violento, aggressivo, il mio lato nichilista. Ma anche un certo tipo di umorismo e allegria che ho imparato a utilizzare grazie alla televisione.
Il titolo l’ho scelto d’istinto. Quattro o cinque anni fa sarebbe stata retorica. Ora non lo è più. È una frase tornata potente. È drammaticamente importante, attuale, centrale
Gli anni di X Factor sono serviti.
Tantissimo.
In molti ti accusarono di aver ceduto al mainstream, tu che sei stato così importante per l’indie e la scena alternativa. Poi tanti si sono ricreduti.
Il problema è che c’è gente che non ha neanche mai visto il programma e continua a pensare che io mi sia venduto alla televisione. Lì, in realtà, mi hanno permesso di essere tagliente come avrei sempre voluto essere e mi hanno addirittura legittimato in questo. Ora quando faccio una battuta cattiva ridono tutti, prima mi dicevano “che stronzo!”... Mi ha liberato tantissimo. Sono riuscito ad entrare nella gabbia dei leoni, nella vasca degli squali, e rimanere me stesso, senza farmi mangiare. E comunque, grazie a quell’esperienza, oggi per me è più facile confrontarmi con ambiti che non c’entrano col mio. Anzi, il “mio” non esiste più, tutto il mondo dell’alternative ormai è fatto da hobbisti un po’ farisei, pallosissimi.
Parlaci della tua redness. Cos’è che ti fa alzare la mattina? Cosa fai prima di andare a dormire?
Io ho due processi diversi. Faccio le parole crociate per addormentarmi, perché è un processo mentale che mi stacca da tutto: non ho un pensiero che mi fa dormire, ma un non-pensiero. La mattina invece faccio yoga. Ma non è nulla di particolarmente “grande”. Devo semplicemente rimettere in moto la macchina, che ora comincia anche a cigolare.
Magari la macchina cigola, ma suona ancora benissimo. Chi la guida è un esordiente con 35 anni di musica alle spalle, che ne ha viste e vissute di tutti i colori e quindi ha il carisma compassato di chi non deve più dimostrare niente a nessuno, ma anche l’entusiasmo di un ragazzino. L’intervista termina con la visita guidata alla mansarda, che sta alla fine di una scala a chiocciola in ferro. Mentre la percorriamo, gli chiediamo cos’è il “pianoforte pazzo”, citato insieme al “pianoforte preparato” tra gli strumenti di Guerra e pop corn. Ma è più facile ascoltarlo che spiegarlo, visto che si tratta di far impazzire tasti, corde e ritmi dentro una canzone arrabbiata e allucinata che dice «bambina, bambolina, mostro che sei / ti lecco e sai di guerra e coca e pop corn». Ripensiamo anche ai versi poetici (il linguaggio è lirico e ruvido insieme, come sempre) della title track: «Che noi cresciamo è una bellissima bugia / ci appoggiamo un po’ alla nebbia intorno a noi». La pandemia ci ha spaventato, ma ci ha anche insegnato qualcosa. Abbiamo re-imparato a guardare le persone negli occhi, a cercare una qualche verità delle idee e dei sentimenti. Lo dice anche il nuovo singolo di Manuel Agnelli, scritto in pieno lockdown, Milano con la peste, un altro gioiello: «Via da casa, via dalla mia testa / solo ora vedo gli occhi di chi resta / mascherati da bambini come ieri / mascherati sembran finalmente veri / noi almeno non abbiam mai finto / e non vedi il senso perché ci sei dentro».
