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Matteo Nucci: uno scrittore anti moderno, tra Platone e Omero

Morte. Basta la parola. Scrivi “morte” ed è probabile che qualcuno smetta immediatamente di leggere. Allarme, disagio, fastidio. Forse anche scaramanzia. Paura. Già è così difficile vivere, se poi ci metti anche il pensiero della fine. Equivoco frusto e funesto. Perché poi capita di averci a che fare, con la morte. E nessuno che ti dica come fare, cosa pensare, dove prendere la forza per reagire. A parte le frasi di circostanza, o le credenze più o meno solide. Sono difficili le cose belle (edito da HarperCollins) non è un saggio filosofico, una riflessione meditabonda, una risposta. È una fiaba. Un racconto tenero e delicato. L’incontro tra una ragazzina e sua nonna, che in teoria se n’è andata per sempre e invece è lì per dirle: «Non me ne andrò mai più». Una storia che nasce da una sensazione universalmente conosciuta, «un vuoto sotto alle costole, dove tutti dicono che c’è lo stomaco. Ma non era lo stomaco. Era qualcos’altro. Assomigliava a quella sensazione che ti prende in aereo quando c’è quello che il pilota chiama “vuoto d’aria” o “turbolenza”, allora l’aereo a volte scende di botto e ci sentiamo una cosa forte proprio qui, come se ci tirasse dentro e volesse farci cadere». Un libro che già dal titolo ci dice qualcosa sulla bellezza della vita, sull’inizio, sulla fine e sulla possibilità che il significato delle cose non si riduca al breve tratto che “c’è in mezzo”, perché molto dipende da come vediamo le cose, dal modo in cui viviamo il tempo, la memoria, l’amore.

A forza di frequentare filosofi e poeti greci, eroi e umanissime divinità, Matteo Nucci ha acquisito una limpidezza di pensiero e una ricchezza di linguaggio che non temono il confronto con i temi più grandi, quelli che danno un senso al nostro essere umani. Ricordandosi, però, quanto sia importante la semplicità, la freschezza del racconto. Matteo Nucci ha dedicato la vita al mondo antico, a Platone (vedi il suo Simposio per Einaudi), all’epica omerica (Le lacrime degli eroi, Achille e Odisseo, L’abisso di Eros), alla Grecia di ieri e di oggi (a proposito di nuovi mostri: la Troika). E non è certo un caso che attingano a quel mondo anche i titoli dei suoi romanzi, da Sono comuni le cose degli amici a È giusto obbedire alla notte (entrambi finalisti allo Strega). Sono difficili le cose belle è nato ad Atene ed è stato concluso su un’isola greca, è una novella senza tempo per grandi e piccoli, ed è accompagnato da un ricordo struggente della madre, intitolato L’astuccio.

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MATTEO NUCCI

Una fiaba che racconta il dolore (e la gioia possibile) Uno scrittore anti-moderno, tra Platone e Omero, logos e vitalismo

Il romanzo nasce da un’esperienza di dolore. Eppure, in queste pagine, c’è anche

tanta gioia, tenerezza, voglia di vivere. E quando arriva la tristezza, è come trasfigurata dall’immaginazione e la memoria, dalla consapevolezza che cresce. Ci parli di come è nato il racconto per le tue nipoti? E del processo che ha portato alla trasformazione di qualcosa che probabilmente era intimo, privato, in una fiaba?

Era il primo inverno dopo la morte di mia madre, facevo la mia corsa quotidiana sotto al Licabetto, a Atene, dove passo molto tempo. Faceva freddo e io pensavo che non mi bastava più correre e che dovevo fare altro per alleviare il dolore. Mia nipote Arianna, che fra le cinque nipoti del gineceo familiare è la più ribelle a me, mi aveva sempre chiesto di scrivere una storia per lei. Io non sono un lettore di favole o fantasy o robe di bambini, e le ripetevo sempre che non ne ero capace. Quella sera, mi sono detto: ecco cosa posso fare. Ho immaginato che la macchina rossa su cui mia madre scorrazzava le nipoti tornasse all’improvviso per un viaggio infinito. Era una storia per lei e per le altre nipoti. Dopo tre anni, l’ha letta Carlo Carabba che dirige la narrativa italiana di HarperCollins, mi ha proposto di pubblicarla e io mi sono rimesso al lavoro. Era passato il tempo sufficiente a trasformare un regalo familiare in un libro per tutti, anche se molto particolare.

Questo lavoro di scrittura ha cambiato, in qualche modo, il tuo rapporto con quel dolore enorme (di cui racconti in maniera aperta, commovente, nel breve testo che chiude il libro, L’astuccio)? Si parla tanto di “letteratura terapeutica”, per chi scrive e chi legge. In passato hai accennato più di una volta a quanto il dolore sia fondamentale agli esseri umani per crescere e conoscere: è una delle cose che ci hanno insegnato gli antichi.

Purtroppo senza dolore non si cresce. È una questione complicata. Diciamo che non sempre il dolore fa crescere. Però senza dolore certamente non si cresce mai. Vorremmo che non fosse così, ma c’è poco da fare: ha ragione Eschilo e hanno ragione tutti gli antichi che questa verità l’avevano nel sangue. Il racconto di cui parli, L’astuccio, colpisce molte persone. Io posso dire con certezza di non aver mai sofferto tanto per scrivere qualcosa. Ero in una piccola isola greca e, mentre immaginavo e scrivevo quella storia, il dolore mi devastava. Andavo giù a nuotare con la faccia gonfia. Però, rispetto alle chiacchiere sulla letteratura terapeutica, io no, non mi ci ritrovo. Piuttosto, c’è letteratura che intrattiene e c’è letteratura che trasforma. Quella che intrattiene non mi interessa per nulla, come non mi interessano le serie televisive e tutta la roba che serve a occupare il tempo. Abbiamo poco tempo. Perché dobbiamo occuparlo anziché viverlo? Io a qualsiasi serie tv preferisco una cena con i miei amici. Ché poi la cena con gli amici è una delle cose più alte e divine che ci siano in assoluto. di Fabrizio Tassi

Di solito si parla della morte come del rimosso per eccellenza. In realtà non c’è nulla di più evocato e spettacolarizzato, ma generalmente in forma astratta: numeri (il conteggio dei morti di Covid che ci ha accompagnato per due anni), notizie, corpi messi in scena o video-giocati. Come si esce da questo paradosso? Sono passati decenni da quando Hans Jonas parlava della morte nascosta negli ospedali, non più ritualizzata e condivisa da una comunità.

Decenni e le cose peggiorano. Guarda, io sulla questione ho scritto tantissimo anche perché sono un appassionato di corrida, la studio da molti anni, curo l’unico sito italiano dedicato alla tauromachia, ho scritto un libro di tori, e mi sento insultare da gente che di corrida non sa nulla, pensa sia uno sport e non un rito, ripete idiozie come quelle sul toro drogato e così via. E tutto questo perché un rito laico che celebra la morte non è ammissibile in un mondo decaffeinato. Come dici tu la morte è mostrata continuamente in tv, ma il morto non lo devi più vedere. Negli ospedali i familiari insultano eppoi magari denunciano medici che non sono riusciti a dare l’immortalità a un malato terminale di novant’anni. È un tempo folle. Che né la pandemia, né la guerra così vicina hanno cambiato. Altro che chiacchiere. Ecco per esempio dolori che non hanno fatto crescere nessuno. Ma è chiaro: se rifiuti di soffrire, il dolore rende soltanto più rabbiosi, più selvaggi, più cattivi.

“Le cose belle sono difficili”, dice Socrate alla fine del dialogo con il tronfio Ippia, spiazzato dai suoi ragionamenti sulla definizione di bellezza. Oggi, questa espressione proverbiale suona quasi provocatoria: tutto deve essere facile, immediato, comprensibile a chiunque, consumabile in fretta. In un certo senso siamo come la bambina del romanzo, che non capisce e vorrebbe che tutto fosse più semplice e chiaro, ma che poi intuisce qualcosa di importante.

Però Arianna vuole chiarezza come ogni Dobbiamo prenderci il tempo. Farci le ragazzino desideroso di capire, quindi non cerca facilità. La chiarezza del resto non domande che contano. Chiederci se la strada arriva mai con facilità. La facilità e la veloche abbiamo scelto è giusta o sbagliata. cità sono i mostri dei nostri tempi, veicolati Metterci in crisi. E per farlo, serve solitudine. da questi apparecchi che abbiamo tutti e che ci danno l’illusione di poter sapere ogni cosa Solo dopo si torna in comunità a fare ciò che e in un attimo. Ma non è così. La vita è difla comunità significa, ossia a mettere in comune ficile. Se non accetti la difficoltà hai chiuso. Certo, è pieno di gente che la vuole facile, si sottrae a usare la ragione critica, e cerca sempre la scorciatoia. Ognuno fa come crede. Io sono convinto che abbia ragione Platone: la strada più lunga è quella della filosofia. Ma vedi? Anche la filosofia oggi vogliono renderla facile con manualetti da due soldi per curare l’anima. La filosofia è difficile e non può diventare facile. Si può fare chiarezza appunto se sei un grande esperto della tua materia. Puoi gettare luce sulla difficoltà, ma la semplificazione uccide e basta.

Un altro rimosso, forse, è l’anima. C’è la religione istituzionalizzata, lo spiritualismo di consumo, oppure la riduzione della vita a corpo e istinti. Forse i greci

ci potrebbero aiutare anche da questo punto di vista. Una spiritualità, se vogliamo, anche laica, fondata sul senso del limite ma aperta all’altrove.

Assolutamente d’accordo. Che vivi a fare se non ti occupi dell’anima? Certo, mi dirai: che cos’è però l’anima? E qui le cose si fanno complicate. Io torno sempre a quella specie di aforisma di Eraclito. “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie, tanto profondo è il suo logos”. Insomma bisogna viaggiare all’interno dell’anima senza una meta, senza cercare i suoi confini che sono introvabili. E affidarsi al logos che è parola e ragione ossia ciò che ci distingue dagli altri animali. Dobbiamo prenderci il tempo. Farci le domande che contano. Chiederci se la strada che abbiamo scelto è giusta o sbagliata. Metterci in crisi. E per farlo, serve solitudine. Solo dopo si torna in comunità a fare ciò che la comunità significa, ossia a mettere in comune. Mi diverte molto sentire i racconti sulle nuove forme di spiritualismo. Non riesco veramente a capirla quella roba. Ma insomma si è capito che non ho alcuna fiducia in questo presunto progresso. Sono tendenzialmente reazionario.

Cosa ne penserebbe Platone del mondo (e del modo) in cui viviamo? Intendo noi occidentali, che siamo relativisti, secolarizzati, ma anche nostalgici tradizionalisti, che possediamo tecnologie straordinarie ma spesso le usiamo malissimo, che “sappiamo tutto” ma forse abbiamo dimenticato di “non sapere niente”.

Platone era molto impegnato politicamente nonostante il suo disprezzo aristocratico. Credo che farebbe oggi quel che fece duemilacinquecento anni fa. Darebbe tutto se stesso per offrire una risposta ma rifiutando la scalata al potere. Rispetto a tecnologie e presunzione di sapere, poi, le cose non sono molto cambiate. I cambiamenti sono apparenti. Platone si lancia per esempio in un’invettiva contro l’invenzione della scrittura che potrebbe essere adattata alle invettive contro gli smartphone, colpevoli di spegnere l’uso della memoria. In effetti tutto dipende dal come. Il cosa è importante certo, per le questioni fondamentali. Ma il come è determinante. Come uso il telefono? Come scrivo? Platone poi mica si rifiutò di usarla, la scrittura. E la usò bene visto che è indubbiamente il più grande scrittore filosofico di tutti i tempi.

Come è nato il tuo amore per la Grecia?

Arrivai in Grecia la prima volta con una gita scolastica. Ero al liceo. Il traghetto attraccò a Patrasso e il bus ci portò a Olimpia. Girare fra le rovine di Olimpia con gli alberi di Giuda in fiore mi uccise. Poi arrivammo a Atene e di notte in quel tempo si entrava tranquillamente nei siti archeologici e noi c’infilammo nell’Agorà. Un’emozione sconvolgente. Ma l’impressione era che anche nella città moderna si vivesse in un’altra dimensione. Lì ebbe inizio quell’intuizione del continuum che in Grecia lega il tempo antico alla contemporaneità. Un’intuizione che poi si è consolidata nell’idea che non cambia mai nulla nei secoli: gli esseri umani sono sempre le stesse bestie.

Ma restando alla Grecia, la cosa era particolare perché allora di Atene si diceva tutto il male possibile. Si passava in città solo per l’Acropoli eppoi via. Ho passato anni a difendere Atene dove in parte vivo. Ora che è di moda, che aprono Boutique Hotel ovunque, ora che Airbnb sta gentrificando il centro e i tedeschi, dopo averla messa in ginocchio, la popolano perché “è tanto economica, tanto interessante, tanto frizzante” soprattutto per gli artisti berlinesi che aprono gallerie in cui viene esposto il nulla assoluto, io vorrei rimangiarmi tutto. Non cambierebbe niente. Ma non vorrei sentirmi colpevole nemmeno di un turista in più. D’altronde ovunque il turismo post-pandemia è una iattura, uno schifo totale, una distruzione senza senso.

C’è una figura del mondo antico a cui ti senti particolarmente legato? Un filosofo, un autore, un personaggio omerico... Qualcuno che magari ti ha aiutato a capire meglio te stesso.

Ce ne sono parecchi. Ogni età ha il suo. C’è stato il tempo di Sofocle, quello di Tucidide, quello di Aristofane. Platone e Omero però sempre. Negli ultimi anni la figura a cui sono più legato è quella di Achille. Un eroe assolutamente frainteso. Da alcuni barbaramente denigrato. C’è una scrittrice da molti elogiata e che evidentemente avrà letto una volta l’Iliade o comunque non ci ha capito proprio niente, be’ lo ha definito “la bestia”. Definizione di un’ignoranza bestiale. Achille, in Omero, è un eroe incredibilmente complesso. Non vorrebbe la guerra ma obbedisce. Vorrebbe solo tornare a casa dal padre. Ama passare il tempo cantando e bevendo con Patroclo. Poi certo, in guerra è una furia, ma soprattutto quando è sconvolto dal dolore per la perdita di Patroclo, perché in realtà la guerra di Troia non l’ha mai sentita sua. Eppure è lì e va incontro a un destino di tragedia. E nel tempo che ha a disposizione cambia moltissimo. Cambia molto più di quanto cambia Odisseo in venti anni di guerra e viaggi. È anche meno crudele di Odisseo. Ma bisogna leggere Omero per capirle, queste cose. Il sogno di Achille dopo la morte di Patroclo, i giochi in onore dell’amico morto, l’abbraccio a Priamo. Un uomo molto fragile, estremamente sensibile, Achille. Immerso nel presente. Per questo la visione cristiana eppoi illuminista del tempo lo condanna. Bisogna andare verso il progresso, verso la meta finale, che sia il giudizio o il trionfo della ragione. O che sia tutteddue nel successo e nel danaro come da protestantesimo capitalista. Odisseo è il loro eroe.

Il tuo approccio, alla cultura e alla filosofia greca, è quello analitico dello studioso o è più poetico, esistenziale, magari perfino romantico, o addirittura “mistico”?

Io mi sono formato a una scuola di analisi filologica dei testi. Per cui non amo affatto chi chiacchiera, fantastica, e infine appunto fraintende, solo perché l’interpretazione è libera. Certo che è libera, ma i testi li devi conoscere. Se li conosci come si deve, poi i testi danno vita a qualcosa di tuo. Quello è l’obiettivo. Lasciare che le opere entrino dentro di te, ti trasformino e tu possa poi elaborare il tuo pensiero, la tua interpretazione. Per me, quel mondo è vita perché vive dentro di me e io vivo e cerco di leggere quel che mi capita con gli occhi che ho, ossia quelli che si sono formati leggendo i classici. Insomma direi che è un approccio filologico nel senso vero della parola, ossia di amore del logos, dunque è esistenziale perché il logos è vita, e magari anche mistico, perché a un certo punto il logos non ce la fa a cogliere ogni cosa e tu devi metterlo da parte. Ma puoi farlo se hai imparato a farne uso, sennò come sempre è fuffa.

Noi siamo dominati dalla visione del tempo come una linea retta verso il progresso. Per i greci non è così. Forse possiamo tornare a una visione ciclica. Soprattutto oggi che l’idea di crescita infinita si è rivelata fallimentare

Tu dici che Omero ci appartiene, è dentro di noi, anche se non l’abbiamo letto o non lo conosciamo. Cosa significa? Per ognuno di noi e per la nostra cultura, la società di cui facciamo parte. Quella mitologia, che ha formato la coscienza occidentale, ha ancora qualcosa da dire alla (post)modernità?

Funziona per Omero proprio quel che dicevo adesso. Omero lo abbiamo letto un po’ tutti, chi più chi meno. Ma comunque sia quelle storie sono entrate dentro di noi e hanno preso vita. Il logos secondo gli antichi (e anche secondo me) è alato perché vola e entra dentro l’anima e lì germoglia e si trasforma in altri logoi. Insomma c’è una specie di eternità del logos. Quello omerico poi è potentissimo per molte ragioni. È all’origine della nostra storia culturale. È parola creata oralmente visto che la scrittura non esisteva. È parola collettiva che attraversa generazioni. Poi forse c’è un poeta che cuce i canti e dà alle opere un’unità assoluta che già Aristotele da critico letterario giudica inarrivabile. Ma è il giudizio di tutti, in fondo. Pensa a Leopardi. Pensa a Kavafis.

C’è una cosa in particolare che i greci ci avevano insegnato e che abbiamo dimenticato?

La visione ciclica del tempo. Ho già detto del fatto che siamo dominati dalla visione del tempo come una linea retta verso il progresso. Per i greci non è così. Si nasce, si cresce, si raggiunge un culmine, si invecchia, si muore, e questa morte lascia spazio a nuova vita. Il ciclo domina il pensiero greco. Noi forse possiamo tornare al ciclo. Soprattutto oggi che l’idea di crescita infinita si è rivelata fallimentare. Il nostro pianeta ha risorse limitate e non può reggere la crescita infinita di miliardi di persone – questo ormai è evidente anche a chi si rifiuta di accettare la decadenza del nostro mondo, dico l’occidente, soprattutto certamente l’Europa, il vecchio continente, vecchio perlappunto. Ma non è un dramma se si evita di difendere l’indifendibile, tirando su muri, reticolati che non reggeranno mai alcuna marea. La strada c’è ma se ci si ferma al bivio e si difende il bivio siamo perduti. La visione tragica ci dice che al bivio devi comunque prendere una strada anche se porterà sofferenza. Il vitalista ti dice: bene la strada sarà dura, ma se sarà dura qualunque strada prendi, tanto vale andare e correre. La strada per il nostro occidente dal mio punto di vista è esemplare in quel che faceva il sindaco di Riace. E abbiamo visto come è andata a finire. Una vergogna di cui prima o poi si dovrà dare conto.

Passando dall’universale al particolare: cosa ti dà la forza di alzarti la mattina? Hai un sogno che insegui? Un ideale da raggiungere? O magari hai imparato a “stare con ciò che c’è”?

Io sono vitalista come i miei spagnoli e tragico come i miei greci. Non mi manca mai la forza di alzarmi la mattina. Non sono un depresso. Voglio viaggiare, conoscere, cambiare, mangiare, bere, vedere, fare. Questo mica è accontentarsi di ciò che c’è. Piuttosto è la smania di vivere. Di usare bene l’unica ricchezza vera che abbiamo: il tempo.

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