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Penélope Cruz: radiosa, empatica ancora una volta madre
from RedNess - Ottobre
by MondoRed
PENÉLOPE CRUZ
Radiosa, semplice, empatica, ancora una volta madre Tra le più amate dal pubblico (e dalla stampa)
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Penélope Cruz illumina, ma senza abbagliare. La sua è una luce calda, che attrae inesorabilmente, ma non ha la prepotenza di chi vuole soggiogare.
La sua bellezza perpetua, che cresce col passare degli anni, è accogliente. Empatica.
Così come la sua intelligenza, che non ha bisogno di esibire, perché si impone con semplicità e naturalezza.
Penélope Cruz è una di quelle attrici che ringraziano il giornalista, quando le fa una domanda, e gli sorride pure. Noi ce ne stiamo lì, con la mano alzata, in attesa del nostro turno, anche solo per il piacere di ricevere uno di quei sorrisi, quello sguardo luminoso e sorridente che sorprende per la sua modestia, che quasi sembra ringraziarci per essere lì, e poter fare quel lavoro che ama così tanto.
Il fatto è che la spagnola Penélope Cruz parla quattro lingue con facilità, rispondendo senza problemi in inglese, francese e italiano, e a noi poveri mortali tocca indossare un paio di cuffie per non perdere una parola. Stavolta parla in spagnolo: «Mi hanno sempre interessato i vari idiomi, e anche gli accenti differenti dentro ogni idioma. È uno studio e una ricerca che mi aiutano anche a entrare meglio nel personaggio, nel suo modo di comunicare e di esprimersi.
Sono molto fortunata di poter recitare in quattro lingue diverse».
Nel film di Emanuele Crialese, L’immensità, presentato in concorso a Venezia, è una donna spagnola che vive in Italia da molto tempo, un personaggio che si presta perfettamente al suo livello di italiano. Così come si presta al ruolo che più ha rivestito nella sua carriera, quello di madre. «Ho interpretato così tante madri! Anche quando ero giovane. Con Pedro (Almodóvar, ndr) ho girato sette film, e in cinque sono una madre: lui mi ha visto sempre così, e non solo lui. Non credo sia una coincidenza. Ho un istinto materno davvero forte, e sono molto affascinata da ciò che accade dentro ogni famiglia. Ogni singolo film mai realizzato potrebbe essere stato scritto a partire da una storia famigliare». A proposito dell’istinto materno, c’è anche l’aneddoto biografico: «Lo porto dentro fin da quando ero una bambina di cinque anni e raccontavo a tutti, nel parco, il mio progetto di diventare madre il prima possibile». In questo caso si tratta di una madre tormentata, imprigionata in un matrimonio oppressivo, falso, violento. Ma anche una donna che assurge alla dimensione del mito, dalla bellezza folgorante e la dolcezza infinita, guardata con l’occhio innamorato – e arrabbiato - della figlia (che è poi lo stesso regista Emanuele Crialese, che qui racconta la sua infanzia, trasfigurata).

«Ho interpretato tante madri diverse e per me è sempre un onore. Questa madre, in particolare, rappresenta tante madri: ciò che è, ciò che sente di essere davvero dentro di sé, ciò che vorrebbe essere... È così complessa! Ci sono così tanti strati. Quando ho letto il copione mi sono innamorata di lei e ho sentito subito il desiderio di girare questo film». Un film che è melodramma e fiaba (con il
Interpreto una donna che si sente in trappola, nel suo corpo, nella sua casa, nella sua famiglia. Costretta a recitare davanti ai suoi figli. Ci sono molte donne, in tutto il mondo, che vivono intrappolate nelle loro case. Ho conosciuto storie orribili.
suo orco e le sue magie), un dramma famigliare, ambientato negli anni Sessanta, il romanzo di formazione di una ragazza che sente di essere un ragazzo (si chiama Adriana ma si fa chiamare Andrea), dentro una casa-prigione in cui l’unica evasione è la tv, che ispira i momenti più felici vissuti da madre e figli. Tutto questo con lo stile personale di Crialese, le sue immagini liriche, la poetica della migrazione (che sia quella dei corpi o delle anime). Ma Penélope Cruz si prende la scena, nella parte di «una donna che si sente in trappola, nel suo corpo, nella sua casa, nella sua famiglia. Non c’è un piano b, non esiste una via di fuga. L’unica via di fuga che ha è la televisione, che la mette in connessione con un altro mondo, fatto di arte, musica, danza, sogno, qualcosa di più vicino ai suoi sentimenti, a ciò che vorrebbe essere, se la società lo permettesse, se lo permettesse la sua famiglia, e se stessa». La violenza domestica è uno dei temi del film. E lei lo ha affrontato a modo suo, con una sensibilità particolare. Le si velano gli occhi, mentre ne parla: «Interpreto una donna la cui esperienza è fatta di repressione e oppressione, costretta a recitare di fronte ai suoi figli. Quando non riesce più a farlo, cade in una profonda depressione. Sono cose che accadono continuamente anche oggi. Ci sono molte donne, in tutto il mondo, che vivono intrappolate nelle loro case, che fingono davanti ai loro figli, per una questione di sopravvivenza. Ho conosciuto storie orribili.
Penélope Cruz e Laura Giuliani in uno scatto sul set del film (foto Angelo Turetta). Nella pagina a fronte, la vediamo in passerella al festival di Venezia (credits La Biennale, foto ASAC, G. Zucchiatti)

E mi ha fatto male al cuore leggere la sceneggiatura». A tutelare interpreti e ragazzi, c’era Crialese, che ha un modo tutto suo di dirigere gli attori. «Ci sono molte cose che rimanevano non-dette nelle prove, che non venivano spiegate. Emanuele ci parlava di cose che non erano nello script e neppure nella sua vita, semmai voleva sapere cose della nostra vita, e lo faceva nel momento giusto, prima del ciak, senza che ci rendessimo conto in che modo quella cosa fosse legata alla scena. Lo capivi solo dopo: “Ah, ecco perché mi ha chiesto quella cosa di quando avevo 8 anni!” Non era mai una manipolazione. Lui ha sempre protetto i bambini, in ogni secondo del processo. Lavorare coi bambini significa creare una vera relazione, un’amicizia, spendendo del tempo insieme, per conoscersi. È bellissimo il modo in cui Emanuele si è preso cura di loro sul set». La ascolteremmo per ore, Penélope Cruz, mentre parla di cinema e di vita, mettendoci sempre tutta la passione che ha. Ma ascoltiamo volentieri anche la sceneggiatrice Francesca Manieri, che spiega il senso più profondo de L’immensità, la sua universalità, nonostante sia la confessione personalissima di un regista che oggi si rivela transgender: «Questo film ha a che fare con un’affermazione sull’identità: l’identità è un fatto di relazioni umane, non è un mercato individuale in cui semplicemente scegliamo chi siamo. È un modo etico di stare al mondo interrogando se stessi e le persone che amiamo di più, a partire dalla principale di queste relazioni, che è quella col materno. Il privilegio del punto di vista maschile della narrazione è indiscutibile, ma questo film ci dimostra che quando quel punto di vista si sposta, siamo tutti un po’ più liberi, non soltanto i soggetti in transizione e in migrazione. Il suo è un cinema politico senza esserlo, in maniera sublime, perché ci interroga sulle frontiere della libertà».
